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Italy-Europa e ritorno
di r.s.
Su cosa si è votato domenica scorsa? Non sull’Europa che vogliamo. L’elettore medio europeo non da ora si è dovuto convincere, con buona dose di realismo, che l’obiettivo è più modestamente quello di ridefinire, per quanto ciò è possibile con il voto, i rapporti tra il proprio stato e questa strana entità sovranazionale che non è né una federazione né una confederazione, ma piuttosto un comitato di contrattazione permanente tra componenti statuali e potentati economici. Dagli interessi visibilmente divergenti e però tali da pesare, eccome, sulla vita del cittadino/clienteeuropeo. Piano dunque oramai inaggirabile anche se - secondo una percezione oramai diffusa - a rischio di implosione a misura che il gioco geopolitico e geoeconomico globale va facendosi sempre più duro. Su questo criterio di fondo si è andati a testare l’offerta politica nazionale cogliendo altresì l’occasione, soprattutto in alcuni scenari nazionali, di fare una verifica dei poteri. Il che, al di là del velo mistificante di una comunicazione politica continuamente on, è nei fatti operazione sempre più rara e difficoltosa.
Sotto questo aspetto, in Italia il voto ha sostanzialmente registrato la tenuta del governo nel suo atteggiamento di fronte alla UE. Premiando, ovviamente, chi si è mostrato più battagliero e coerente, quindi indubbiamente Salvini, nel recupero di sovranità senza rimessa in discussione dell’euro, sul doppio terreno dell’allentamento dei vincoli economici posti da Bruxelles e della richiesta di regolamentazione condivisa dell’immigrazione extra-europea. I due temi, attenzione, strettamente intrecciati nella percezione - che per quell’animale simbolico che è l’essere umano è parte essenziale della realtà - dei ceti popolari medio-bassi. Questi vivono sulla propria pelle il quadro di crisi profonda del paese e sanno che la questione immigrazione è già oggi questione di distribuzione del welfare e, domani, anche del (cattivo) lavoro che resterà. Buon senso materialistico, che può non piacere, ma sarebbe disonesto liquidare come razzismo.
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Vincerà la Cina?
di Vincenzo Comito
Quali potrebbero essere le contromisure ai dazi di Trump, dalla cacciata di Apple al renmimbi come valuta alternativa al dollaro fino alla vendita dei titoli pubblici statunitensi detenuti dalla Banca centrale cinese (1.130 miliardi). Tutti incubi per gli Usa
Di cosa siamo abbastanza sicuri
Sulla guerra scatenata su più fronti da Trump nei confronti della Cina alcune cose sembrano già oggi chiare. La prima è che tale guerra, partita apparentemente come un problema commerciale, si è via via mostrata nel suo vero volto, che è quello della lotta per il dominio tecnologico e, più in generale, per l’egemonia globale sul mondo. La potenza sino a ieri dominante cerca di impedire in ogni modo a quella emergente di raggiungerla e, peggio, di effettuare il sorpasso. Non è evidentemente la prima volta che ciò accade nella storia, con esiti nel tempo piuttosto vari.
Un’altra cosa che sembra certa è che tale guerra non si chiuderàcon qualche accordo decisivo. Nel breve termine sembrerebbe in qualche modo possibile che si trovi un punto di incontro, perché i costi della rottura sarebbero troppo alti per entrambi i contendenti, anche se bisogna tener conto dell’irrazionalità frequentemente presentenei comportamenti umani. Tra l’altro, le catene di fornitura a livello mondiale sono strettamente interconnesse e introdurvi dei cambiamenti significativi costa molto e richiede comunque tempi adeguati.
Ma la lotta è destinata a protrarsi a lungo e a non venir meno anche se le prossime elezioni presidenziali venissero vinte dai democratici; infatti, “moderati” o liberal che siano, i membri di quest’ultimo partito appaiono dei sostenitori ancora più accaniti dell’egemonia statunitense. Qualcuno pensa persino che il conflitto tra i due Paesi strutturerà tutto il XXI° secolo (Frachon, 2019).
L’altra cosa che almeno a chi scrive sembra evidente è che, in qualche modo, come anche qualcuno ha detto, il presidente Usa era obbligato a fare qualcosa per contrastare l’avvento di un nuovo potenziale Paese egemone. Alla fine, plausibilmente, la Cina vincerà la nuova guerra fredda o almeno questa prima battaglia, peraltrocon qualche danno temporaneo; maa soffrire, per un po’ almeno, saranno, oltre alla Cina, anche gli Stati Uniti, ma non solo, tutta l’economia mondiale.
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Dobbiamo cominciare a pensare a come sarà la guerra futura
di Noi Restiamo
Pubblichiamo di seguito la traduzione di un articolo comparso su Nature dal titolo Europe’s controversial plans to expand defence research di Elizabeth Gibney, con l’intento di rovesciare il punto di vista della questione che pone Kleyheeg – specialista nel settore difesa del TNO, un ente di ricerca indipendente che si propone di mettere la propria conoscenza e la tecnologia che sviluppa al servizio della difesa e della sicurezza – “Dobbiamo cominciare a pensare a come sarà la guerra futura”.
La tendenza alla costruzione dell’Esercito Europeo e alla conseguente indipendenza militare dell’UE sta nei fatti ed ha percorso strade del tutto originali. Spesso infatti le tecnologie sviluppate in ambito militare trovano applicazione nel civile ma l’Unione Europea – forse perché ancora ancorata alla NATO – con le tecnologie dual use e nell’ambito del programma quadro Horizon 2020 utilizza le ricerche a scopo civile in ambito militare: ed è così che i droni possono essere usati per le previsioni atmosferiche, per le rilevazioni geografiche come pure per il controllo dei territori e la guerra guerreggiata. Alta tecnologia che spesso non ha bisogno di “carne da cannone” ma di militari esperti, si veda in cui avevamo fatto notare la preoccupazione del governo nel creare una élite militare altamente formata. E’ interessante inoltre notare come questo processo si rafforzi in virtù delle contraddizioni che esso stesso genera, la Brexit che sembra indicare la possibilità reale di uscita dall’Unione Europea imprime una spinta notevole sugli investimenti in campo militare che allo stesso tempo rafforza il polo imperialista europeo. Ma se alcune contradizioni si risolvono se ne aprono altre: quali interessi deve proteggere un eventuale Esercito Europeo? La questione è tutta politica e le divergenze tra gli stati membri sono attualmente l’unico limite allo sviluppo coerente di questo processo, insomma è necessario delineare una politica estera comune e il Trattato di Aquisgrana tra Francia e Germania sembra andare proprio in questa direzione.
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Sul Salario minimo
di Carla Filosa*
Di seguito un breve intervento di Carla Filosa sulle ipotesi di Salario minimo. La questione è stata affrontata con Carla nella trasmissione domenicale di Radio onda rossa 87.9 a Roma – http://www.ondarossa.info – proprio al ridosso della sua iniziale pubblicazione su La Città Futura. Qui il podcast
Per leggere anche i disegni di legge sul salario minimo (PD: n. 310 ; 5Stelle: ddl n. 658; LEU: ddl n. 862) non è sufficiente conoscere il significato comune o apparente delle parole ivi contenute: è necessario riconoscerne il significato, sempre sottinteso se non ignorato, per comprenderne il contenuto reale o scientificamente concreto. Per la corretta individuazione di quest’ultimo si accolgono qui le categorie dell’analisi marxiana della critica dell’economia politica, alla luce della quale soltanto è possibile cogliere la forma attuale, ma celata, di questo sistema di uso profittevole del lavoro, inconsapevolmente destinato, lui, all’immiserimento progressivo. Per forma è da intendere la sostanza, l’organizzazione, l’edificio interno ed esterno entro il quale prende vita e si racchiude di necessità ogni relazione sociale, nelle sue modalità altrimenti inconoscibili perché queste non evidenziano la natura, le cause reali del loro apparire, come fossero sufficienti a sé stesse, senza rinvio ad altro che non sia l’essere così come sembrano. Comprendere la concretezza dei rapporti sociali, delle cose e delle parole è possibile allora solo conoscendo in quale forma storica e logica essi si presentano e vengono usati. Ad esempio il lavoro salariato è la forma specifica in cui bisogna comprendere cosa sia il lavoro in questo sistema capitalistico, in cui si presenta libero e separato dai mezzi di produzione. L’accesso al salario è qui finalizzato alla produzione di un valore (tempo di lavoro erogato) eccedente (che non viene pagato) il necessario (pagato) per vivere. Il salario insomma non ripaga tutto il lavoro contrattato ma solo una parte e questa viene continuamente ristretta, compressa. Il lavoratore oggi incarna una forma di proprietà privata nel senso che questa lo esclude, lo priva del prodotto del suo lavoro come della maggior parte della ricchezza sociale appropriata da una minoranza di espropriatori.
All’esame del disegno del PD si evidenzia immediatamente, nelle finalità della proposta, l’ambiguo obiettivo di fornire al lavoratore “una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente….”, richiamando l’art. 36 della Costituzione.
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Contro le ideologie del monopolio e contro il neopositivismo
Problemi e alternative della critica marxista in Italia (1955-1960)
di Eros Barone
Sdegno e tenacia, scienza e ribellione, rapido impulso, meditato consiglio, fredda pazienza, perseveranza infinita, intelligenza del particolare e intelligenza del tutto: solo ammaestrati dalla realtà potremo cambiare la realtà.
Bertolt Brecht, La linea di condotta.
1. Analisi della risoluzione Contro le ideologie del monopolio
Il documento in parola 1 costituisce senza dubbio una tappa essenziale della politica culturale del PCI durante gli anni Cinquanta del secolo scorso. Lo sforzo di aggiornamento e di affinamento degli strumenti di analisi e di elaborazione teorica, mutuati dal ‘laboratorio’ dello storicismo gramsciano, si colloca su un terreno largamente ignoto alla tradizione retorico-umanistica che per diversi anni, durante il periodo post-Liberazione, aveva condizionato gli stessi intellettuali comunisti; sul terreno, cioè, di una serrata critica delle ideologie tecnocratiche, aziendaliste e interclassiste sorte nel quadro della espansione dei monopoli e delle innovazioni organizzative introdotte nei moderni processi produttivi, particolarmente in alcuni grandi complessi industriali del Nord-Italia.
La parola d’ordine che illuminava le finalità politico-culturali della risoluzione riprendeva l’appello alla storica lotta “tra progresso e reazione” nella cultura moderna e riecheggiava gli anni delle battaglie per la laicità dell’istruzione e della cultura contro l’invadenza clericale e l’offensiva oscurantista scatenata dalla DC e dalla Chiesa di Pio XII dopo il 1948, nel periodo della restaurazione capitalistica. La parola d’ordine era infatti: “Per l’ulteriore sviluppo di una cultura libera, moderna e nazionale alla luce dell’umanesimo e dello storicismo marxista”.
Nel primo dei quattro paragrafi in cui si articolava il documento veniva tracciato in termini di severa autocritica un bilancio dell’azione del partito e degli intellettuali comunisti sul classico “terzo fronte”. Questa azione si era venuta svolgendo, nel quadro di una ricerca strategica in quel settore specifico delle alleanze politiche rappresentato dalle alleanze culturali, attraverso lo sforzo di promuovere una “cultura libera, moderna e nazionale”, sforzo parallelo alla lotta per l’affermazione del marxismo.
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Elezioni europee maggio 2019: di caos in caos
di Michele Castaldo
Esattamente un anno fa pubblicavo un articolo dal titolo: Caos Italia, ovvero la rivolta del ceto medio. A distanza di un anno con i risultati delle elezioni europee viene confermata la tesi di fondo. Ovvero il ceto medio, cioè un insieme di categorie sociali cresciute a dismisura durante gli anni di crescita dell’accumulazione capitalistica, con la crisi non trovano più spazio nel modo di produzione e si ribellano.
Quando ho pensato di scrivere queste note mi sono posto una domanda: chi è l’interlocutore al quale mi devo rivolgere? In che modo si può parlare da vecchio militante di estrema sinistra a chi – privo di schema ideologico – come centinaia di migliaia di giovani, proletari e non, occupati, precari o disoccupati che hanno visto nel M5S un faro nella notte e lo hanno supportato fino a farlo diventare il primo partito italiano in soli 10 anni? Non mi nascondo dietro il dito: la risposta è molto complicata.
Intanto ci provo, ma con un’avvertenza: cari giovani, mentre da parte mia c’è da fare lo sforzo di rendere alcune questioni, molto complicate, accessibili a chi vuole sforzarsi di capire, da parte vostra – interessati in prima persona - c’è da fare lo sforzo di non chiedere, in primis “hic et nunc”, qui e ora, «c’amma fa?» per una ragione molto semplice: perché chi dovesse rispondere a questa domanda proporrebbe la propria idea dall’esterno, sul da farsi, a chi vive il sentimento della precarietà e del disagio, applicando così uno schema metafisico, un tempo si sarebbe detto da «coscienza esterna» cioè di sovrapposizione di un’idea esterna all’umore di chi pone quella domanda. Se proprio si vuole una risposta ci si può rivolgere a un Marco Travaglio, Gomez, Padellaro e altri sponsor del M5S.
Detto in modo brutale: chi è esasperato ed intende agire non chiede “che fare?”, ma è spinto a fare e strada facendo aggiusta il tiro.
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Caro Sergio, non perdiamo la bussola
di Leonardo Mazzei
Sono molte le volte che in questi ultimi dieci anni ci siamo trovati a fianco dell'amico e compagno Sergio Cesaratto, e lui a fianco nostro. Sergio non si è mai tirato indietro, partecipando generosamente alle nostre iniziative seminariali e politiche di critica all'Unione europea e al regime ordoliberista della moneta unica — fino al recente Forum Eurexit dell'aprile scorso. Anche per questo siamo sorpresi leggendo una sua recente intervista...
* * * *
Una recente intervista di Sergio Cesaratto ha stupito molti suoi amici. Tra questi, pure chi scrive queste righe. Successivamente, allo scopo di precisare meglio il suo pensiero, Cesaratto ha pubblicato un nuovo intervento. Il quale, se da un lato puntualizza alcune questioni, dall'altro entra in contraddizione con quanto affermato nella conversazione con Marco Biscella.
Entriamo dunque nel merito. «Lettera UE all'Italia - Le mosse da non sbagliare con l'Europa», è questo il titolo dato all'intervista, e ne restituisce perfettamente il senso. Nelle sue risposte Cesaratto dice essenzialmente quattro cose. La prima è che «i parametri di Maastricht hanno perfettamente senso». La seconda è che alla lettera UE bisogna dare «una risposta ragionevole con proposte ragionevoli e non sgangherate, come sbattere i pugni sul tavolo o minacciare di ribaltare i trattati». La terza è l'invito al governo italiano affinché lavori al seguente compromesso: «L’Europa dovrebbe aiutarci ad abbassare drasticamente i tassi d’interesse sui nostri titoli pubblici e l’Italia impegnarsi, firmando un memorandum, a una stabilizzazione, non riduzione, del rapporto debito/Pil». La quarta riguarda lo strumento "per cambiare l'Europa", che per Cesaratto è l'aumento progressivo del "bilancio federale", obiettivo da raggiungere anche alleandosi con Macron.
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Pensiero forte in tempi minacciosi
di Carlo Galli
Per chi appartiene alla mia generazione ha l’effetto di una madeleine reincontrare Marcuse filosofo politico. Questi testi inediti o poco conosciuti risvegliano nella memoria le antiche emozioni intellettuali, le antiche ingenuità e gli antichi ambivalenti ideali. Per parafrasare quanto fu detto di Heidegger da Löwith, nel leggere Marcuse era incerto se ci si dovesse dedicare a tempo pieno allo studio della Fenomenologia dello Spirito o insorgere contro il dominio filisteo e repressivo del ‘sistema’. O forse entrambe le cose, poiché in fondo si trattava, nella testa dei giovani che siamo stati – e dello stesso Marcuse –, della medesima cosa.
La potenza della filosofia classica tedesca, che qui risuona, sta proprio in questa confusione (o fusione) fra vita e sapere, fra politica e gesto conoscitivo, fra analisi e passione intellettuale, fra rigore scientifico ed emozione. È difficile che chi non ne ha fatto esperienza – o chi a ciò sia sordo – possa comprendere e consentire alla potenza del pensiero; come è difficile che ancora oggi parte della gioventù vi si possa sottrarre, anche se oggi il veicolo dell’innamoramento filosofico-politico può non essere Marcuse ma qualche altro pensatore più di moda.
Ma la lettura di Marcuse non attinge l’unico risultato di farci ripensare con rimpianto a un’età di giovanili entusiasmi – che hanno dovuto essere disciplinati per altre vie, e messi alla prova di altre strutture di pensiero –; c’è, in queste pagine, persistente, una sfida, connaturata alla forma della sua espressione filosofica. Una sfida che è ancora e sempre la nostra sfida: decifrare la politica attraverso la filosofia, e così intervenire in quella, per criticare le sue strutture reali e i suoi saperi specialistici – le scienze economiche e sociali in primo luogo – con quello «spirito di contraddizione reso sistema» che è il sapere filosofico. Una contraddizione che non vuol essere ignoranza ma superiore sapienza; e che consiste nello storicizzare i saperi della politica (in entrambi i sensi del genitivo), nell’attraversarli per mobilitarli, nel mostrarne la riconducibilità a un orizzonte epocale determinato e quindi all’esigenza del suo superamento.
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Il consumatore votante
di Salvatore Bravo
Il monstrum del sistema del capitale invita al voto, ma senza contenuto umanistico. Il voto è invece un gesto che umanizza. Occorre un voto che sia non utile, ma etico e partecipato
“Per tutti i gusti”: ecco la definizione che si può attribuire alle elezioni europee. In assenza di cittadini capaci di esprimere un voto consapevole, di cittadini che abbiano maturato una progettualità politica di lungo termine, ci troviamo dinanzi al monstrum del sistema capitale che invita al voto, lo declama, ne fa segno del riconoscimento immediato della democrazia europea in una pluralità di “prospettive politiche”. In realtà il voto è già inficiato in partenza dall’essere in generale espresso non dal cittadino consapevole ma dal suddito consumatore: si vota nella stessa maniera con cui si scelgono le merci. Le merci rispondono ad un bisogno immediato, possono essere scelte e consumate per essere sostituite senza scrupoli morali, senza progettualità, senza consapevolezza. Si vive nell’empirico, si sceglie, si desidera, si oblia per poi ricominciare l’eterno ritorno del medesimo. Si vota in modo simile, si sceglie il candidato su un unico asse: l’asse dei propri particolari interessi personali. Non ci si scandalizza delle contraddizioni, dell’incoerenza: Salvini che osanna i cieli e gli altari; Di Maio che insegue, solo al comando, un’improbabile partecipazione dal basso, falsificata da una piattaforma (povero Rousseau!, casaleggiato) che non ammette dialettica, ma che pure si chiama Rousseau, nome che ammicca palesemente alla democrazia diretta.
Nessuno scandalo, in realtà, perché da decenni ormai si ripete che l’unico fondamento dell’esistenza di ciascun europeo sono i propri interessi privati, per cui le parole non sono ascoltate, valutate, misurate. Ci si sofferma solo sugli interessi economici che rispecchiano i propri gusti-interessi, il resto è una parodia neanche percepita. La sacralità atea ed informe del nichilismo dell’ultimo uomo è tra di noi, ha la forma brutale del capitalismo acquisitivo che martella nella mente, che ordina novello e terribile imperativo categorico a perseguire solo i propri privati interessi economici.
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Debito pubblico, alla ricerca di una via di fuga
di Claudio Conti
La discussione mainstream intorno al debito pubblico, lo spread, le “letterine” che partono da Bruxelles e le “rispostine” – corrette in corsa – del ministero dell’economia italiano, soffre da sempre di una distorsione evidente e sempre più faticosamente nascosta.
Se uno legge infatti Repubblica o il Corriere, o peggio ancora ascolta Cottarelli e Giannini in tv, è obbligato a pensare che il debito aumenta perché aumenta la spesa pubblica, con governi che non applicano le indicazioni “sagge” provenienti dall’Unione Europea (e specificamente dalla Commissione, ossia il “governo” Ue).
Chi guarda invece i numeri scopre che la spesa pubblica, negli ultimi venticinque anni è stata costantemente ridotta, al punto che da diversi anni presenta costantemente – e sotto qualsiasi tipo di maggioranza governativa – un consistente avanzo primario. Che significa: lo Stato spende ogni anno meno di quanto incassa con le tasse.
E del resto molti governi degli ultimi anni – ma anche quelli di Berlusconi – hanno obbedito più o meno ferreamente agli ordini provenienti dall’alto. In particolare quello dei ferocissimi Mario Monti ed Elsa Fornero, che sono stati protagonisti anche del più brusco innalzamento del debito pubblico in tempi recenti. Sono infatti entrati a Palazzo Chigi con un fardello pari al 120,1% del Pil e ne sono usciti lasciandocelo a 129% (oggi siamo al 132).
Ci troviamo insomma di fronte a un piccolo mistero: più ci si piega alle prescrizioni inscritte nei trattati europei, ribadite con frequenti bacchettate sulle dita, più peggiora la situazione. Lo stesso, e anche peggio, è accaduto alla martoriata Grecia governata direttamente dalla Troika – con Tsipras a fare la “copertura a sinistra” di politiche ferocemente antipopolari – quindi non si può neppure parlare di anomalia italiana.
Gli scostamenti dal percorso operati dal governo gialloverde – quasi soltanto, e molto limitatamente (come ricorda Tria nella sua contestata lettera a Bruxelles), per “quota 100” e “reddito di cittadinanza” – aggravano un po’ la tendenza, ma senza modificarne eccessivamente la direzione.
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Le elezioni e gli eletti
di Roberto Buffagni
Che cosa ci insegnano, o almeno suggeriscono, le elezioni europee testé concluse?
Anzitutto, direi che ci confermano un fatto noto ma sempre rilevante: le elezioni europee non cambiano l’Unione Europea, che conforme la sua natura e l’intenzione profonda – anche filosofica e spirituale – che la costituisce è (quasi) impermeabile al voto popolare, diciamo almost ballotsproof, salvo un vero e proprio diluvio o maremoto di voti ad essa contrari o favorevoli che non si verificherà, molto probabilmente, mai. L’Unione Europea sta o cade per l’azione degli Stati-nazione che la compongono, e/o per un evento esogeno o endogeno che ne faccia precipitare le gravi disfunzionalità.
Le elezioni europee e il voto popolare cambiano invece gli equilibri politici nazionali, come d’altronde è naturale, visto che l’unico contesto in cui la democrazia rappresentativa sia possibile e vitale è – oggi come ieri – la nazione. Cambiano gli equilibri politici nazionali, anche se le elezioni europee vanno per così dire “fuori tema”, visto che il voto europeo non muta gli equilibri parlamentari nazionali; ma il sistema elettorale proporzionalistico che adottano, e l’emergere sempre più chiaro del consenso/dissenso rispetto alla UE come clivage politico principale, le trasformano in un fattore politico e simbolico di prima grandezza.
Le elezioni europee testé concluse infatti ci insegnano, o almeno ci suggeriscono, che il consenso/dissenso riguardo la UE e alle sue logiche premesse, implicazioni e conseguenze – il mondialismo, l’individualismo, il progressismo, il costruttivismo sociale, l’universalismo politico – emerge con sempre maggiore chiarezza come il principale clivagepolitico, non solo in Europa ma in tutto l’Occidente.
Chi non si schiera di qua o di là, chi esita, chi tiene il piede in due staffe, chi azzarda dei “sì, ma” o dei “ni” è perduto. Il più antico partito d’Europa, il partito conservatore britannico, ha patito la più cocente disfatta di sempre per le sue esitazioni, compromessi e retropensieri in merito alla Brexit.
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L’economia fondamentale come possibile alternativa al pensiero mainstream
di Sergio Marotta
Cos’è e cosa propone il collettivo per l’economia fondamentale
Che cos’è l’economia fondamentale
Il Collettivo per l’economia fondamentale è costituito da ricercatori di diverse discipline e di varie nazionalità, molti già noti nel mondo degli studi. Davide Arcidiacono, Filippo Barbera, Andrew Bowman, John Buchanan, Sandro Busso, Joselle Dagnes, Joe Earle, Ewald Engelen, Peter Folkman, Julie Froud, Colin Haslam, Sukhdev Johal, Ian Jones, Dario Minervini, Mick Moran, Fabio Mostaccio, Gabriella Pauli, Leonhard Plank, Angelo Salento, Ferdinando Spina, Nick Tsitsianis, Karel Williams hanno individuato un oggetto di studio che hanno definito “economia fondamentale” e hanno dato vita a una notevole e interessante serie di ricerche che stanno riscuotendo in Europa sempre maggiore attenzione. Così il libro che contiene il manifesto del Collettivo intitolato “Economia fondamentale. L’infrastruttura della vita quotidiana”, appena uscito in Italia per i tipi di Einaudi, è stato pubblicato in inglese da Manchester University Press e in tedesco da Suhrkamp.
Secondo gli studiosi del Collettivo, l’economia fondamentale è costituita da un insieme di attività legate «alla produzione dei beni e servizi indispensabili al benessere generale, come l’edilizia residenziale, l’istruzione, l’assistenza all’infanzia e agli anziani, la sanità, la fornitura di beni e servizi essenziali come l’acqua, il gas, l’energia, la fognatura e le reti telefoniche»[1].
I confini dell’economia fondamentale sono individuati attraverso tre parametri di riferimento: «questi beni e servizi sono necessari alla vita quotidiana, ne usufruiscono ogni giorno tutti i cittadini a prescindere dal reddito, e sono erogati, in funzione della distribuzione della popolazione, attraverso reti e filiali»[2]. Altre caratteristiche delle attività ricomprese nell’economia fondamentale sono quelle di svolgersi spesso al di fuori del mercato; di essere attività in qualche modo protette in quanto soggette a regolamentazione; mentre la loro distribuzione e organizzazione è soggetta alla mediazione politica.
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Le Favole di Salvini
di coniarerivolta
Leggenda vuole che molti e molti anni orsono uno sbruffone si vantasse sguaiatamente delle sue gesta. In particolare sosteneva, lo sbruffone, di poter saltare da un piede all’altro del colosso di Rodi. La leggenda racconta anche che non ci volle poi molto a verificare la consistenza delle fanfaronate dello sbruffone. Bastò infatti che uno degli astanti proponesse all’incauto millantatore “Hic Rhodus, hic salta” (fai conto che questa sia Rodi, facci vedere quello che sai fare), per riportarlo a più miti consigli.
Molta acqua è passata sotto i ponti da allora, eppure una vicenda simile si ripete in questi giorni di fronte ai nostri occhi. Secondo un copione già visto, Matteo Salvini ha passato le ultime settimane, non a caso coincidenti con la campagna elettorale, a promettere grandi sconvolgimenti. Basta con l’austerità che ci soffoca! No all’adesione cieca a regole di bilancio che causano disoccupazione e miseria! E se all’Europa non va bene, peggio per lei, ce ne faremo una ragione! Apparentemente il trucco ha funzionato, ancora una volta. Nonostante un anno di governo all’insegna dell’austerità e della continuità totale con i governi che l’hanno preceduto, il leader della Lega è riuscito di nuovo a presentarsi all’elettorato come l’(unica) alternativa ai sacrifici imposti dai Trattati europei e a capitalizzare un impasto esplosivo di rabbia e rancori di una piccola e media borghesia sempre più incattivita. Nelle ore immediatamente successive alle elezioni, Salvini ha rincarato la dose, promettendo una rivoluzione fiscale quantificabile in 30 miliardi di euro di tagli alle tasse, sotto forma di flat tax per i redditi delle imprese e delle famiglie con un reddito fino a 50.000 euro. Il tutto infarcito dal campionario standard con cui Salvini ha mascherato il suo nulla negli ultimi 12 mesi: “non sto a impiccarmi a un parametro, un numero o una regoletta”, “l’era della precarietà e dell’austerità si è conclusa”, non ci importa di “rispettare gli zero virgola”.
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Il Naufragio dei Gilets Jaunes
di Michel Onfray
Il vantaggio con BHL (Bernard Henry-Levy ) [1] è che si sbaglia continuamente e basta pensare il contrario di quello che lui scrive o dice, per essere sicuri e certi di stare nel vero. È una vera performance intellettuale, un destino unico nella stessa storia delle idee, il fatto di essere la bussola che indefettibilmente indica il Sud! Promuovendo se stesso e il suo One Man Show in tutte le capitali d’Europa dove le sale si riempiono di invitati mondani come ce ne sono in ogni grande città, spiega che non si esibirà sulla scena di Parigi con il suo gobbo, senza dire che lì dalle sue parti l’inganno sarebbe più facilmente smascherato perché basterebbe filmare l’uscita dalla sua rappresentazione per vedervi tutta la gente in capannelli e capire che nessuno di quelli aveva pagato l’ingresso…
In una benevola intervista di Le Figaro del 20 maggio 2018, il nostro Sud-magnetico proclama che il movimento dei Gilets-Jaunes si è auto divorato. Ah che bel modo di dire! Dei Gilets-Jaunes cannibali, autofagi, che mangiano se stessi, ed ecco una tesi che è bella e profonda e non ha che un inconveniente: quello di essere falsa…
Si capisce che questa storia di un movimento che sarebbe la causa della sua propria morte possa essere la sua teoria perché da una parte gli permette di affermare fino alla fine che i Gilets-Jaunes sono dei cretini incapaci e che dunque essi sono all’origine della loro sfortuna – e si sa che la sfortuna dei Gilets-Jaunes é la fortuna di BHL.; d’altra parte questa balla da snob di St.Germain des Près gli permette di nascondere sotto il tappeto le vere ragioni non già di un banchetto di cannibali, ma di un’orgia di Stato.
Perché i Gilets-Jaunes non si sono divorati da soli, sono stati smembrati, spellati, sminuzzati, tagliati, rullati, appiattiti, privati degli occhi, battuti, pestati, pugnalati, frantumati e poi mangiati dall’apparato dello Stato, in questo aiutato contro ogni buon senso dai sindacati e dai partiti politici che apparentemente sono all’opposizione, ma che alla fine, come utili idioti, lavorano con e per questo Stato. E a questo bisogna aggiungere i giornalisti.
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Considerazioni sul voto europeo
di Francesco Galofaro*
Il panorama
Il voto italiano alle ultime elezioni va inquadrato nel più ampio contesto europeo. E’ possibile individuare delle dinamiche di fondo, posto che in ciascuno Stato o macroregione esistono peculiarità locali. Nel 2014, le elezioni si risolsero in un derby tra popolari e socialisti: tra una destra e una sinistra entrambe liberali, destinate a governare insieme l’Unione, convinte che il laissez-faire fosse la risposta più adeguata alla crisi e alla recessione economica, prive di un progetto all’altezza dei tempi, destinate al ruolo di amministratori del condominio europeo. Il 2019 consegna una mappa ben diversa:
- Il PPE (cui fa capo Forza Italia) scende da 221 a 179 seggi;
- I Socialisti (cui fa capo il PD) scendono da 191 a 150 seggi;
- Cala anche il gruppo ECR (Conservatori e Riformisti, da 70 a 58 seggi), cui fanno capo forze vincenti come Fratelli d’Italia o il polacco PiS, ma anche i tory inglesi, in fortissima crisi per lo scontro interno connesso alla Brexit;
- Perde consensi la sinistra radicale del GUE (da 52 a 38 seggi);
In crescita troviamo tanto forze europeiste tanto posizioni euroscettiche o ‘sovraniste’:
- EFDD, il gruppo dei 5 Stelle, cresce soprattutto per merito di Farage e del suo partito pro-Brexit (da 48 a 56 seggi);
- I Liberali dell’ALDE passano da 67 a 107 seggi – la crescita si deve in gran parte a Macron, non presente alle scorse elezioni;
- Crescono i Verdi: da 50 a 70 seggi;
- Si afferma l’ENL, non presente alle scorse elezioni (è il gruppo di Salvini, della Le Pen, di Alternative für Deutschland, con 58 seggi);
La formula di governo PPE/Socialisti è ormai logora: la crisi dei socialdemocratici perdura tutt’ora, privi come sono di un progetto che li differenzi dai liberali e dai conservatori.
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Paul Baran, “Il ‘surplus’ economico”
di Alessandro Visalli
Il libro di Paul Alexander Baran è del 1957 ed è un classico del pensiero marxista americano dello sviluppo. Il sottotitolo in italiano dell’opera è “e la teoria marxista dello sviluppo” (in inglese “The political economy of growt”) ed è una delle matrici intellettuali della teoria dello sviluppo, ripresa da autori fondamentali come Andre Gunder Frank[1], Samir Amin[2], ed in parte Giovanni Arrighi[3]. Nel 1966, due anni dopo la morte, viene pubblicata l’opera per la quale è più famoso in Italia, ovvero “Il capitale monopolistico”, con Paul Sweezy”.
Baran è negli anni sessanta l’unico economista di ruolo negli Stati Uniti ad ispirarsi alla teoria marxista, è ordinario a Stanford dal 1951 fino alla morte. Dalla sua biografia si ricava il padre menscevico che lascia la Russia nel 1917, gli studi ed il dottorato a Berlino nel 1933 (quando lui, nato nel 1909 ha 24 anni), quando incontra e discute con Rudolf Hilferding, la fuga a Parigi e poi in Urss. Poco prima dell’invasione tedesca l’arrivo negli Stati Uniti e l’iscrizione ad Harvard, il lavoro con Galbraith e poi al Dipartimento del Commercio ed alla Fed di New York. Dal 1949 è a Stanford e collabora con Monthly Review di Sweezy e Leo Huberman. Nel 1960, dopo questo libro, visita Cuba, poi Mosca, l’Iran e la Jugoslavia. Mentre lavora al “Capitale Monopolistico” muore improvvisamente per un attacco di cuore.
Questo libro, “The political economy of growt” ha esercitato a lungo un’influenza sulle forze anticapitaliste che operavano nei paesi in via di sviluppo, o, come Baran preferisce scrivere “sottosviluppati”, e si inserisce a pieno titolo in una linea genealogica di autori e saggi marxisti sull’imperialismo che vede superare ed inglobare l’analisi marxiana del colonialismo (che pure anticipa molti temi) con le analisi di Lenin, “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo”, del 1916, anticipate da John Hobson, “Imperialism, a study”, del 1902, Rudolf Hilferding, “Il capitale finanziario”, del 1910, e Rosa Luxemburg, “L’accumulazione del capitale”, del 1913.
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Liberare il lavoro, o liberarsi dal lavoro?
Simone Weil lettrice di Marx
di Franck Fischbach
Nel suo libro scritto nel 1934, le "Riflessioni sulle cause della libertà e dell'oppressione sociale", Simone Weil redige un primo capitolo che intitola «Critica del marxismo». Mi propongo qui di esaminare quel capitolo, al fine di determinare la natura e la portata delle critiche che Weil rivolge al «marxismo». Ma indubbiamente bisogna aggiungere immediatamente che la prima questione che qui si pone, alla lettura di questo capitolo e di tutto il libro stesso, è quella di sapere e determinare a chi sia rivolta la critica, o piuttosto le critiche formulate da Weil: se ci si attiene al titolo del capitolo, appare evidente che l'oggetto della critica sia il «marxismo», ma, leggendo il testo, si constata che nessun «marxista», nessuna corrente del «marxismo», né - come direbbe Ètienne Balibar - alcuno "dei" marxismi viene mai citato, e che alla fine le critiche di Weil sono tutte rivolte a Marx in persona. Da parte di Weil, questo può significare una pura e semplice assimilazione di Marx al (ai) marxismo(i): pertanto fa uso dell'espressione «Marx e i suoi seguaci», senza fare alcuna distinzione fra gli stessi «seguaci», e, soprattutto, inscrivendo tali «seguaci» in diretta continuità con Marx, sulla base di una qualche sorta di principio secondo cui essi sono tutti dei fedeli discepoli del maestro, ed hanno proseguito l'opera teorica e pratica sulla base dei principi di Marx stesso. Insomma, in breve, sembrerebbe che, per Weil, Marx ed il marxismo siano una sola ed unica cosa. Non la rimprovereremo qui per questo, considerando che questo gesto di assimilazione del marxismo allo stesso Marx è perfettamente comprensibile, essendo la Weil un'autrice che scrive nel 1934. Ciò detto, è proprio a partire da questi anni che comincia a diventare possibile non assimilare più immediatamente Marx ed il marxismo, e questo soprattutto proprio grazie alla pubblicazione nel 1932 dei "Manoscritti del 1844" e de "L'ideologia tedesca" - due testi che Simone Weil perciò aveva potuto conoscere quando aveva scritto le sue "riflessioni".
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Per una prima analisi del voto, e prospettiva del Partito Comunista
di Ufficio Politico Partito Comunista
L’esito delle elezioni europee in Italia ha segnato un generale avanzamento delle forze di destra (Lega Nord e Fratelli d’Italia). I Cinque Stelle escono fortemente ridimensionati perdendo sia nei confronti del loro alleato di governo, che cannibalizza i consensi della coalizione, sia dal recupero del Partito Democratico, la cui strategia è evidentemente quella di accreditarsi come unica alternativa possibile a Salvini nel quadro di un rinnovato centrosinistra.
I consensi ottenuti da Lega e Fdi ricalcano comunque l’area di voti per anni tenuta dal centrodestra e dal Pdl ai tempi di Berlusconi. La radicalizzazione a destra di quest’area è frutto della strategia del centrosinistra e del Partito Democratico, frutto delle precise responsabilità del gruppo dirigente renziano e della funzione del Movimento Cinque Stelle che ha traghettato una parte dei suoi voti verso la Lega.
La Lega si è accreditata negli strati popolari con una propaganda anti-sistema, pur rappresentando specifici settori capitalistici. Ha utilizzato il tema dell’immigrazione come strumento di costruzione di un legame identitario, alimentando il nazionalismo con una strategia perfettamente riconducibile agli interessi di quei settori delle imprese italiane maggiormente penalizzate dal mercato unico europeo. Ha cavalcato il tema della sicurezza per introdurre una ulteriore stretta repressiva sulle lotte sociali e gli scioperi utile a colpire i lavoratori e le classi popolari.
Il Movimento Cinque Stelle paga il tradimento degli elementi più radicali della sua proposta che sono caduti ad uno ad uno di fronte alla contraddizione del governo nel sistema di compatibilità capitalistiche e con l’alleanza con la Lega.
La riarticolazione del peso delle forze di Governo spinge a ritenere probabile la futura caduta di questo esecutivo, prossimo a dover affrontare la finanziaria con clausole e politiche lacrime e sangue che i vertici europei e i settori del grande capitale italiano non ritengono più rimandabili per soddisfare le promesse elettorali.
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Lettera UE all'Italia
Le mosse da non sbagliare con l’Europa
Marco Biscella intervista Sergio Cesaratto
In arrivo lettera della Commissione sul debito pubblico. L’Italia dovrebbe rispondere con una proposta ragionevole: stabilizzazione del debito/Pil in cambio di tassi bassi
Lo spread sopra area 280 e il commissario europeo agli Affari economici, Pierre Moscovici, che annuncia: “Avrò uno scambio di vedute con il Governo italiano su misure aggiuntive che potrebbero essere richieste per essere in linea con le regole”. Il giorno prima, in conferenza stampa Matteo Salvini, forte del suo 34% di voti, aveva commentato così il risultato di domenica: “È in arrivo una lettera della Commissione europea sull’economia del nostro Paese e penso che gli italiani diano un mandato forte a me e al Governo di ridiscutere in maniera pacata parametri vecchi e superati”. Con un’idea ben precisa in testa: “Proviamo a salvare questa Europa, riportandola alle sue radici e al suo sogno originario. Sono convinto che il nuovo Parlamento europeo e la Commissione europea saranno amici dell’Italia. È cambiata la geografia in Europa”. Sarà davvero così? Come cambieranno i rapporti tra Italia e Unione europea? E soprattutto, su politiche espansive, lotta all’austerity e conti pubblici quali sponde troverà la Lega nel nuovo Parlamento europeo? Lo abbiamo chiesto a Sergio Cesaratto, professore di Economia politica all’Università di Siena, che si aspetta, per l’Italia, “una fase molto dura”.
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Salvini ha stravinto con il 34%. Come verrà preso questo risultato a Bruxelles?
Penso che verrà preso con estrema preoccupazione sull’Italia, visti i programmi, costosi, di sfondamento dei parametri europei propugnati da Salvini. Non sappiamo ancora come sarà la nuova Commissione, su quali equilibri si reggerà, se andiamo – ma non credo – verso un’Europa un po’ più aperta sulla politica economica o un’Europa che in fondo non cambierà. E’ vero, potrebbero entrare i Verdi, ma non sono una forza così progressista e sarebbero comunque in una posizione di debolezza e la loro presenza sarebbe controbilanciata anche dai Liberali. Magari però contano di più in Germania. E con la crisi del modello basato sull’industria automobilistica potrebbero battersi per un modello basato su piani europei di riconversione ecologica e quant’altro. Per ora sono però solo vaghi auspici.
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Risvegli
di Francesco Ciafaloni
Mi è capitato di recente di leggere o rileggere alcuni testi sulla riduzione e la redistribuzione dell’orario di lavoro scritti più o meno un quarto di secolo fa, quando si discuteva di 35 ore, di autori che mi sono familiari, come Giovanni Mazzetti1 o Giorgio Lunghini.2 Mi sono reso conto che alcune delle tesi sostenute dagli autori, che avevo ben presenti venti anni fa, erano come sparite dal mio orizzonte mentale negli ultimi tempi. Avevo smesso di fatto di usarle per cercare di capire quello che succede tutti i giorni. Mi sono accorto di essermi come addormentato, intontito dalla eterna ripetizione delle tesi correnti: l’eccesso di spesa pubblica, la necessità di puntare sull’innovazione tecnica, sull’industria 4.0, la possibilità che si crei, all’interno del sistema produttivo, occupazione sostitutiva di quella distrutta dall’automazione, l’ossessione e la necessità della crescita del Pil. Venti anni fa erano vivi De Cecco, Graziani, Gallino, non c’era la resa culturale che ci sommerge ora. C’erano economisti, sociologi, storici autorevoli, che non si rifugiavano nel silenzio e avevano modo di esprimersi sui giornali maggiori. Oggi prevale l’imbarazzante ripetizione di parole senza senso, come “mercato”, inteso come il dispensatore di giudizi inappellabili di adeguatezza, positività, efficienza di qualsiasi iniziativa; “crescita” intesa come la tendenza naturale di tutti i paesi del mondo, a meno di colpe gravi dei loro cittadini, ad aumentare il Pil più o meno del 3% l’anno; “equilibrio”, inteso come la naturale, automatica, tendenza all’equilibrio tra domanda e offerta (“l’equilibrio è un caso”, avrebbe ribattuto Lunghini citando Marx). Eravamo abituati a distinguere tra economisti ortodossi ed eterodossi. Gli ortodossi avevano un bel sistema ma negavano l’evidenza della disoccupazione involontaria, della concentrazione della ricchezza, dell’uso del denaro per arricchirsi senza produrre. Gli eterodossi prendevano atto dello scandalo della disoccupazione (contro le tesi dell’equilibrio economico generale), delle altre emergenze impreviste che preparano la crisi prossima ventura. Ci si poteva schierare.
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Ancora sulle elezioni europee
(Qui il precedente)
Il mea culpa che dovrebbe fare il M5S
di Nicoletta Forcheri
Dove hanno sbagliato i 5s? E’ anni che sbagliano i 5s, è anni che glielo diciamo ma visto che UNO UGUALE UNO per loro non esistono pensatori, intellettuali, persone di cultura, ricercatori, da ascoltare più di altri. Anzi, chiunque abbia criticato, in questi anni, pubblicamente, era assimilato d’ufficio ai nemici del movimento.
Non si può spacciare per democrazia diretta una piattaforma informatica di proprietà di un imprenditore in odore di conflitto di interessi perché piazza i suoi uomini ed emana direttive all’interno del suo partito. O meglio si può, ma allora non è più democrazia diretta, è esattamente il suo contrario, un partito come altri. Lui non è stato votato, quindi perché dovrebbe valere più di uno?
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Elezioni europee: cambiare tutto per non cambiare niente
di Alessandro Somma
Le elezioni europee non ci consegnano un Parlamento dell’Unione dominato dai cosiddetti sovranisti: questi trionfano in alcuni Paesi, Italia in testa, ma arretrano in altri e complessivamente non sfondano, anche se incrementano la loro rappresentanza a Bruxelles. Non è però da simili dati che possiamo avere riscontro del peso che la destra xenofoba ha acquisito nel Vecchio continente. Il suo principale successo lo ha infatti ottenuto nel momento in cui è riuscita a cavalcare una particolare caricatura dello scontro politico in atto: quella per cui esso oppone Salvini e i suoi sodali a una composita alleanza che parte dal leader greco Tsipras e arriva sino al francese Macron.
Questa caricatura ha schiacciato il confronto elettorale entro uno schema tipicamente populista: da un lato i rappresentanti del popolo, i sovranisti, e dall’altro i rappresentanti delle élite, Socialisti e Popolari europei in testa.
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Euro: tutti si preparano alla rottura per limitare i danni?
di Giuseppe Masala*
Diciamocela tutta. L'Euro come moneta è moribonda dal 2011. Quando saltarono in aria Grecia, Spagna, Portogallo e Irlanda e l'Italia si salvò per il rotto della cuffia.
Da allora, piaccia o non piaccia la politica economica è cambiata: il controllo del saldo della partite correnti è diventato ferreo in tutti i paesi dell'area. Hanno iniziato a rientrare tutti compresa la Spagna che è passata da un 100% di pil di posizione finanziaria netta sull'estero all'85%. La strada è quella, inutile far finta di nulla. Ora, guardiamoci in faccia: non esiste una moneta dove ogni singola area della zona valutaria tenga rigidamente sotto controllo i conti con l'estero (considerando come estero aree che hanno la stessa moneta a corso legale).
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Questioni di fede
di Pino Cabras
Perfino il grande vincitore di queste elezioni europee in Italia, Matteo Salvini, non cede per ora alla tentazione di inquadrarle nel solo contesto italiano, dove sarebbe apparentemente più facile passare all’incasso di questo risultato per andare all’arrembaggio degli equilibri di governo. C’è un progetto più vasto e meno contingente.
Quel rosario sfoggiato nella sua conferenza stampa, pur maldestramente brandito con una curiosa simbologia di croce rovesciata (la impugna sempre a testa in giù), allude a un’operazione ideologica più estesa, di portata continentale, a cui Salvini partecipa con la protezione di Steve Bannon, il patrocinatore ideologico della campagna presidenziale di Trump.
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Elezioni europee: le rovine dopo la battaglia
di Jacques Sapir
Lucido e dettagliato come sempre, Jacques Sapir analizza i risultati delle elezioni europee in Francia.Per molti aspetti una lezione utile anche alle forze politiche italiane: mostra per esempio l’irrilevanza cui si sono condannate le diverse, microscopiche liste sovraniste, divise tra loro e ferme a percentuali insignificanti, utili solo alla dispersione del voto. Il crollo di La France Insoumise al 6,5% rappresenta inoltre il prezzo da pagare per una linea politica confusa, in cui ci si è voluti separare dai sovranisti di sinistra e ora tentata di condannarsi definitivamente all’ininfluenza se, a fronte della buona affermazione del RN, cederà a quell’antifascismo retorico e farlocco che conosciamo bene, in tutta la sua vacuità, anche in Italia. Nel complesso, la vera forza di Emmanuel Macron, punito dagli elettori, sta nella dispersione e frammentazione delle opposizioni
Successo non pienissimo per il Rassemblement National, sconfitta attenuata per En Marche, una mezza sorpresa per gli ambientalisti e opposizione per il resto atomizzata, sia a destra che a sinistra: ecco il panorama politico che sta emergendo dopo le elezioni europee. Se gli avversari di Macron vogliono contare qualcosa, dovranno avviare cambiamenti radicali.
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“Make Critical Theory Great Again”
di Collettivo Jaggernaut
Pubblichiamo qui la presentazione del primo numero della rivista Jaggernaut, uscito da poco in Francia. La rivista orbita nell’area della Wertkritik (Critica del valore), rispetto alla quale vuole rappresentare un punto di riferimento e un momento di approfondimento. Per maggiori info, invitiamo a visitare la loro pagina web a questo indirizzo
“Siamo ancora tenuti a creare il negativo; il positivo ci è già stato dato” (Franz Kafka, Terzo quaderno dei Diari)
“La libertà sarebbe non quella di scegliere tra il bianco e il nero, ma quella di voltare le spalle a questa scelta obbligata” (Adorno, Minima Moralia)
Per decenni, gli algerini soprannominarono il quotidiano governativo del loro paese “Tutto va bene, (madama la marchesa)”. Si assicurava che grazie alla saggezza del governo i cittadini vivevano nel migliore dei mondi possibili, e che presto i problemi residui sarebbero stati risolti. Oggi un simile rapporto con la verità resiste ancora in una parte del mondo. Ma, almeno nel mondo “occidentale e libero”, è considerato arcaico. Non che i governi siano diventati più avveduti e umili. Semplicemente sanno che bugie del genere non reggono più.
In realtà, il cittadino contemporaneo sa di essere circondato da pericoli mortali, ai quali nessuno può promettere di porre rimedio senza scatenare immediatamente le risa. Catastrofi ovunque. Ciascuno può pensare, secondo la sua sensibilità personale, che il peggio sia la disoccupazione di massa o il riscaldamento climatico, il razzismo o l’immigrazione “incontrollata”, la corruzione o la persistenza delle diseguaglianze, l’inquinamento o la perdita del potere d’acquisto. Catastrofi ce ne sono e la prospettiva è negativa, come dicono le agenzie di rating.
Non è necessario essere ferocemente “contro il sistema” per fare ammettere pressoché a chiunque che le cose vanno malissimo. Basta leggere un giornale borghese di media qualità per convincersene ogni giorno che passa di più. Da questo punto di vista, sarebbe fatica inutile fondare una nuova rivista per diffondere la cattiva novella.
Ma se si tratta di accertare le cause dei mali presenti il discorso è ben diverso! Il soggetto contemporaneo si trova di fronte a una miriade di tentativi di spiegazione, il cui fattore comune è quello di non averne nessuno, e di spezzettarsi in un oceano di spiegazioni parziali.
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Pantomima UE: esito, cause ed effetti
di Fulvio Grimaldi
Tutto un paese nel buco nero insieme a 5 stelle?
Il gioco è, per i ragazzini come noi, il classico rimedio alla rabbia, al dolore, alla noia e alla tristezza. Purchè non sia un videogioco e lo si giochi in tanti. A rimediare allo scorno inflitto dai risultati a tutti coloro che non si sono fatti abbindolare dai monopolaristi dell’ordine imperiale esistente, né dai pigolii di una Sinistra che insiste a trasformare il voto in bolle di sapone, propongo il seguente giochino statistico: su cento, quali sono le cause in percentuali che assegniamo allo schianto dei 5 Stelle? Perché del resto non fa conto occuparci. In Europa è la conferma di una struttura che incarcera i popoli e non li fa parlare neanche dietro al vetro divisorio. Da noi è stato l’apice di una catastrofe meticolosamente preparata, da almeno trent’anni a questa parte. Ma anche da molto prima. Trasformeremo in calcolo le nostre valutazioni, a prescindere, ovviamente, dalle balle passate, presenti e future che, sul trapasso dei Cinque Stelle, verranno sparate dai vincitori, tutti delegati e commessi viaggiatori del Capitale Globalizzante, vuoi di marca George Soros (sinistre farlocche, avanzi di Storia e Verdi), vuoi tentacoli dello Stato Profondo militarfinanziario internazionale (tutti i partiti pro UE-Nato).
Ultradestra? Il bue, l’asino e le corna
Sono quelli che, per esorcizzare il loro fare la spesa al servizio dell’élite, danno a tutti gli altri la qualifica di ultradestra, xenofobi, fascisti, pensando di salvare anima e voti mettendosi dal lato buono di una dicotomia che, dai tempi di Gaber, ha poco senso, ma molto nonsense. E’ la teppa benvestita, ben nutrita e mai sazia dei “da Macron a Tsipras”.
Qualcuno, come i Verdi, è stato rimesso in pista dai manovratori della nuova accumulazione capitalista green mimetizzati da bambina svedese.
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Europa, le domande mal poste e le risposte da cercare
di Giuseppe Montalbano
Il ritorno alle monete nazionali come soluzione alla crisi dell'Ue si rivela superficiale tanto quanto l'europeismo ingenuo. Il cambiamento passa dall'analisi del modello produttivo e finanziario europeo
Per dare risposte alla profonda crisi economica, sociale e democratica dell’integrazione europea, bisogna innanzitutto farsi le giuste domande. Al contrario, nel recente dibattito a sinistra sulla crisi europea e sulle possibili vie d’uscita si tende ad azzuffarsi sulle risposte, perdendo di vista proprio le domande. Ci troviamo così con diverse risposte ottime e sbagliate, perché formulate a partire da questioni mal poste.
L’uscita unilaterale dall’euro come soluzione alla crisi europea è, in questo senso, la «risposta alla domanda sbagliata», come scrivono Riccardo Bellofiore, Francesco Garibaldo e Mariana Mortágua in Euro al capolinea? La vera natura della crisi europea (Rosenberg e Sellier, 2019). Un libro che mette in discussione gli stessi interrogativi e spiegazioni sulla crisi offerti dagli approcci eterodossi e postkeynesiani che fanno da sfondo al dibattito sull’euro a sinistra. Problematizzando in particolare le premesse di quelle risposte «troppo semplici» di chi propone l’uscita dalla moneta unica e il ritorno a politiche fiscali espansive. Senza offrire facili ricette alternative, ma al contrario complicando il quadro dell’analisi, il problema della moneta unica e della sua crisi viene ridefinito nei termini di una questione più generale: quella delle trasformazioni e contraddizioni dei capitalismi europei contemporanei entro cui ha fatto la sua comparsa l’euro. Una prospettiva di sistema e di lungo periodo particolarmente utile per provare a tirarci fuori, a sinistra, dalle secche di una discussione polarizzata fra euroscetticismo senza appello ed europeismo ingenuo.
Da dove cominciare per porre le domande “corrette” sull’euro e la sua crisi? Per prima cosa allargando la visuale. Da una parte l’Unione economica e monetaria (Uem) è stata il portato di una ristrutturazione dei capitalismi nazionali nel Continente nel quadro della deregolamentazione dei mercati finanziari a livello internazionale, seguita alla rottura degli accordi di Bretton Woods.
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Chiusura di una fase e apertura di un’altra
di Domenico Moro, Fabio Nobile
Il periodo attuale è uno dei peggiori di sempre, sia per il movimento comunista sia per la classi subalterne, in Europa e soprattutto in Italia. Le trasformazioni dell’economia mondiale hanno indebolito la classe lavoratrice europea occidentale, esponendola all’aggressione del mercato autoregolato, che ha ridotto occupazione e salari reali, nel mentre si annullava, attraverso l’integrazione europea, la sovranità democratica, sancita dalla Costituzione, ossia la capacità delle classi subalterne di incidere sulle decisioni di politica economica e sociale.
Le profonde trasformazioni economiche hanno avuto come necessario corrispettivo modifiche politiche altrettanto profonde. Il crollo dell’Urss e dei Paesi socialisti ha contribuito pesantemente al peggioramento dei rapporti di forza tra capitale e lavoro, e in Italia ha contribuito a trasformare il Pci, separandolo in due tronconi. Uno, il più grande, si è trasformato in partito liberaldemocratico, che da subito si è collocato a destra, facendosi alfiere dell’integrazione economica e valutaria europea e rappresentante del grande capitale internazionalizzato. Soprattutto, questo troncone è stato fautore del maggioritario, che ha spostato al centro, cioè sugli interessi dello strato superiore del capitale, l’asse della politica. Ciò si è tradotto nella trasformazione profonda del nostro Paese, attraverso massicce privatizzazioni e pesanti controriforme del mercato del lavoro, delle pensioni, e del welfare.
Il Partito della rifondazione comunista (Prc) ha raccolto il più piccolo dei due tronconi in cui si era diviso il Pci, aggregando anche una serie di altre organizzazioni e di individualità, che non accettavano di identificare la fine dell’Urss con la fine della prospettiva socialista. Il nome stesso del partito è significativo del senso originario del progetto: non la riproposizione sic e simpliciter del Pci ma, correttamente, la rifondazione di una teoria e di una pratica comuniste e adatte a un’epoca nuova. In realtà, negli ultimi anni la “Rifondazione” è stata intesa in modo diverso da parte della maggioranza del Partito, cioè come presa di distanza da quella parte del movimento comunista legata alla storia dell’Urss e identificata in quanto tale come “stalinista”.
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