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Ripoliticizzare le scienze

di Mattia Galeotti

vaccini kjacobin italia 990x361Dopo anni di contrapposizione tra scienza e anti-scienza, la questione ambientale ha invertito i ruoli sottoponendo i governi a una questione di verità. Ciò che serve è frammentare il monolite della Scienza nei tanti (e conflittuali) sforzi scientifici

Il tema scientifico è diventato sempre più centrale negli immaginari politici degli ultimi anni. Se per lungo tempo abbiamo visto una contrapposizione che ruotava attorno alla dicotomia tra scienza e anti-scienza, negli ultimi mesi la questione ambientale ha fatto irruzione nel dibattito proponendo una sorta di inversione dei ruoli: sono le popolazioni mobilitate che sottopongono una questione di verità inaggirabile ai governanti. Nel contesto italiano una anomalia si era già prodotta con la firma di Beppe Grillo sul “Patto Trasversale per la Scienza” di Burioni: quelli che sembravano due schieramenti opposti – un leader NoVax e un prof famoso per la frase «la scienza non è democratica» – si sono trovati di fatto alleati senza che questo creasse scompensi politici. Per questo è necessario decostruire l’immaginario del “partito dell’ignoranza” contrapposto alla verità scientifica, e azzardare un’altra lettura.

Una società costruisce innovazione tecnica e analitica in maniera condivisa, ma oggi, quando parliamo di scienza, nominiamo qualcosa di più strutturale: la catena di legittimazione dei saperi attraverso cui uno Stato (o una comunità di Stati) prende le sue decisioni. Si tratta quindi, per lo Stato, di governare ciò che si intende come “progresso”, intercettando i comportamenti individuali e collettivi, i linguaggi e i desideri. Definendo attraverso questa idea di progresso la comunità dei governati: la popolazione. Questa idea governamentale della scienza ha il suo rovescio nella realtà storica delle pratiche scientifiche: linguaggi e gesti che permettono una presa sul mondo senza mai contenerlo, senza cioè che si risolva una volta per tutte la questione, ma lasciando sempre uno spazio alle rotture del punto di vista.

Ogni teoria scientifica è qualificata da un metodo, e va quindi intesa come un processo aperto: nella più classica accezione popperiana, è scienza ciò che è falsificabile, e ogni teoria scientifica non è mai verama al massimo non-falsificata. Questo però non può bastare, perché il nostro rapporto al mondo è costruttivo e cooperante. La messa in comune di attività, progetti, vite, funziona a partire dalla fiducia nel fatto che domani il sole sorgerà, che la gravità continuerà ad attrarre, e che mille altre ipotesi implicite saranno verificate. La scienza diventa perciò il dispositivo per formalizzare, accettare ed organizzare alcuni assunti sul mondo. Si crea una rete di implicazioni e verifiche che permette la produzione di nuova conoscenza, e che si regge su postulati politici, etici, storici.

In un articolo centrale per capire la traiettoria genealogica di vari paradigmi matematici, Giuseppe Longo esprime la questione attraverso l’idea di frizione tra i soggetti di conoscenza e il mondo, la storia delle astrazioni scientifiche come organizzazioni di una intelligibilità del reale.

Come ci si posiziona dentro questa tela di relazioni? Come si agisce sugli assunti, magari rivoluzionandoli?

 

Scienza di lotta e scienza di governo

Per quanto ci sentiamo lontani dalle posizioni antivacciniste e dalle derive dei movimenti “anti-scienza” (ritorneremo su questo termine), vogliamo dare legittimità a uno spettro di sentimenti e posizioni troppo spesso banalizzato sotto la categoria di irrazionalità. Perché quando si presenta una critica ai tecnici e agli obblighi di Stato, anche la più ingenua, si esprime prima di tutto la consapevolezza di un potere: nelle infrastrutture che violentano i territori come nei piani medici calati dall’alto, è palese un’asimmetria, un rapporto di forze culturalmente legittimato. Ovviamente riconoscere questo potere non ha di per sé un significato, chi sta scrivendo non vorrebbe sostituire il (pur problematico) Sistema Sanitario Nazionale con l’individualismo dell’“ognuno per sé” di alcuni No Vax. Allo stesso tempo, è impensabile oggi parlare delle forme di governo per come realmente sono, senza accettare l’incontro-scontro con questa percezione epidermica, spuria, diffusa, del potere. Perché questa percezione è il motore e la sostanza di ogni contro-sapere.

Possiamo dire che uno dei processi più marcanti del Ventesimo secolo, sia stata la diffusione degli strumenti tecnico-matematici in quasi tutti gli aspetti della governamentalità: salute, economia, ambiente, sono solo gli esempi più chiari. Oggi la pervasività di questi linguaggi è tale che necessariamente le resistenze dal basso passano anche per forme di rifiuto della scienza ufficiale.

Consideriamo l’esempio della lotta No Tav. Ad averla innescata è stata un piano di sfruttamento del territorio e delle vite di chi ci abita. Nella genesi di quel movimento, la Tav è stata prima di tutto percepita come qualcosa calato dall’alto e dall’esterno, che arrivava a modificare e oggettivizzare la valle, i valligiani, l’ecosistema e le relazioni che lo abitano. È nata in Val di Susa una consapevolezza condivisa, e grazie a questa una serie di incontri, l’attivazione di saperi tecnici, la creazione di una contro-scienza che è diventata un’arma di difesa. Le nuove parole del movimento, anche quelle tecniche e scientifiche, possono essere capite solo in questo percorso storico, senza separarle dall’intuizione iniziale.

Quando si parla del “rapporto costi-benefici della Tav” avviene uno slittamento, come se i No Tav avessero scoperto gli errori di qualche tecnico distratto o in malafede, ricavando il “vero” costo economico dell’opera. Ma questa chiave di lettura inverte il percorso politico: è l’opposizione alla Tav ad aver permesso un nuovo discorso scientifico in cui quell’opera è inutile e anzi dannosa, proprio perché i valori (gli assiomi!) che d’abitudine regolano economicamente i territori, sono stati prima rifiutati e poi decostruiti. Se la logica sviluppista(A) implica la costruzione della Tav(B), allora non-B implica non-A: il desiderio di proteggere la montagna mette anche in dubbio il paradigma generale di monetizzazione dell’ambiente.

Quando vediamo l’affermarsi di movimenti come Fridays for Future o Extinction Rebellion, immediatamente si solleva il tema posto dalla lotta No Tav: sarà possibile passare da una richiesta fatta ai governi, a una rimessa in discussione dal basso dei linguaggi e dei principi che regolano la vita dei territori e del pianeta?

Una critica che mi si potrebbe fare è quella di astrattezza, mentre si cerca di smuovere il paradigma profondo c’è il rischio che l’egoismo dei singoli e una specie di “stato di natura anti-scientifico” prendano il sopravvento. La possibilità di una chiusura individualista è certo sempre presente, ma non credo debba essere interpretata come istinto latente da controllare attraverso una fede nei saperi tecnici. Al contrario ciò che manca alla critica è spesso il coraggio di attaccare radicalmente i valori impliciti nell’idea di sviluppo: la crescita, l’efficienza, la produttività, ecc.

Il cittadino-impaurito-rancoroso è una figura perfettamente compatibile col sapere ufficiale di Stato, teorizzata nei manuali di marketing più in voga, un soggetto prodotto continuamente dalle condizioni materiali di sfruttamento, dai media, dalla scienza delle popolazioni. La trappola consiste nel rappresentare l’anti-scienza come l’urgenza da combattere, quando in realtà il conservatorismo individuale è già perfettamente gestibile per il potere. Si getta così discredito sui processi aperti, conflittuali, di re-invenzione del discorso scientifico, che sfuggono alla rappresentazione egemone.

Continuando con l’analogia del movimento NoTav, sono i proprietari rancorosi di alcune imprese locali a poter “essere comprati”, implicandoli nel processo di “ammodernamento”. Al contrario i contro-saperi delle assemblee, dei bar, dei paesi, vengono continuamente demonizzati proprio perché rappresentano qualcosa di incompatibile, di assolutamente non normato.

 

Cos’è un complotto

Quello che abbiamo descritto è un meccanismo di complementarietà artificiale, tra scienza e anti-scienza, che viene agitato in maniera da normalizzare le spinte contro-scientifiche, cioè i saperi conflittuali. Qui diventa importante il topos del “complotto”, che ha contemporaneamente il ruolo di collante e spauracchio. Cosa intendiamo esattamente per complotto e complottismo? Sembra che in una situazione di circolazione massiccia e veloce delle informazioni, il complottismo sia ormai un fenomeno inevitabile, una estroflessione di meccanismi più profondi. La conspiracy theorynasce come ipotesi paradossale, ma subito diventa un oggetto di discussione separato. La spettacolarizzazione cristallizza sul nascere le innovazioni discorsive, bloccandole. C’è bisogno di temi facili, spendibili e cliccabili, quindi il movimento di critica diventa sinonimo della teoria del complotto, per quanto assurda possa essere. Ma quella banalizzazione, era davvero una caratteristica fondamentale del discorso? O la sua centralità è dovuta alle pratiche mediatiche? Quanto c’entra la necessità di fare audience con l’affermazione delle teorie complottiste? Non parlo qui solo dei grandi gruppi editoriali, ma anche del linguaggio semplificato dei social, in cui il complotto diventa un’etichetta che può circolare rapidamente, sia tra i critici delle teorie ufficiali, che tra chi li denigra.

Inoltre, in che modo è possibile proteggersi da questa deriva lasciando aperto il dibattito nella sua ricchezza? Nelle discussioni polarizzate tra complottismi e verità scientifiche, ogni dubbio rispetto alle posizioni ufficiali corre il rischio di diventare un’assurdità. In particolare è un insieme di soggetti politici “progressisti”, che finisce per fare dell’adesione ai metodi riconosciuti la condizione necessaria per l’analisi scientifica. Ma è esattamente la messa in dubbio di quei metodi, quella rottura anti-dialettica, il terreno di evoluzione delle scienze. Non meno importante: quella messa in dubbio è anche il terreno basilare della politica.

In un recente articolo il NY Times notava che la paura dell’antivaccinismo sta in alcuni casi giustificando, nell’accademia medica, una chiusura agli studi critici sugli effetti di alcuni vaccini. Senza scomodare un programma di censura diretto dall’alto, questo si può spiegare con l’approccio a tratti fideistico del sistema accademico e di chi lo finanzia verso certe linee di ricerca, come la fiducia nel mezzo vaccinale. Di fronte a un fatto del genere sorge però una questione: i complottisti anti-Big-Pharma, con le loro teorie spesso banali e un po’ barocche, hanno colto un nodo importante sul ruolo dei grandi capitali nella salute, e lo hanno immediatamente restituito come intuizione di massa. Nel naturale sospetto verso le corporation della salute, c’è una enorme consapevolezza delle “abitudini” accademiche e di come indirizzano il sapere. Certo di più che nei tiepidi distinguo di chi chiede solo una comunicazione scientifica più vicina alla gente o più paziente.

Questi meccanismi di polarizzazione del dibattito, ancora una volta non sono limitati agli aspetti più tecnici, ma toccano tutta la sfera pubblica. La retorica scientista e del “complotto” invade qualsiasi campo di discussione: è diventata uno strumento per stigmatizzare tout court i dubbi verso il potere. Credo che questo non vada interpretato come un uso improprio delle scienze, ma come estensione su tutto lo spettro dei discorsi, di una normalizzazione che è fondata nel campo scientifico. È la spoliticizzazione delle scienze il dispositivo che produce i moltissimi «there is no alternative» di cui siamo circondati.

 

Sapere contro

Se esiste una maniera di sciogliere questa contraddizione multi-livello, va cercata in un approccio non prescrittivo, in una tensione ad aprire le pratiche narrative e tecniche, e farne strumenti diretti dell’azione politica. E nella storia non si tratterebbe affatto di una novità. Cerchiamo di tracciare una traiettoria di alcuni tentativi.

Partiamo dalla questione ambientale. Dall’estrazione di risorse naturali alla pianificazione dei processi produttivi, dalle esalazioni tossiche allo smaltimento delle scorie industriali, vari effetti diretti dell’industrializzazione sull’ambiente hanno avuto come risposta dei movimenti di resistenza soprattutto nella seconda metà del Ventesimo secolo. Sono nati dei contro-discorsi, pensiamo a concetti come “nocività” e “inquinamento”, alla lotta diffusa contro l’energia nucleare, alla nascita del movimento Verde sul finire degli anni Settanta, a una vasta gamma di rivendicazioni su salute e beni comuni ambientali, fino alla lotta contro le grandi opere inutili che ha nei già nominati No Tav l’esempio più conosciuto.

Soffermiamoci sui concetti di contro-saperi: mi riferisco a un sistema di discorsi antagonisti alle teorie dominanti, che si è via via strutturato in teorie, costruendo nuovi campi di indagine a partire da altre domande e priorità rispetto alla “scienza ufficiale”. Così facendo le contro-scienze rimettono al centro una questione che la macchina simbolica della Scienza-con-la-S-maiuscola tende a nascondere: il problema del senso, delle pratiche scientifiche come modo di organizzazione (e quindi produzione) del reale. Solo attraverso questo punto di vista antagonista si può spiegare la nascita dei saperi sull’inquinamento, lo studio dell’energia nucleare da un punto di vista medico e critico (e non semplicemente di massimizzazione dell’efficienza), la nozione di cambiamento climatico e di effetto antropico sul pianeta. Soltanto in questi posizionamenti soggettivi si trova la ragione dell’avanzamento scientifico, che non è un “progresso” perché non è lineare, cioè non è una successione di salti necessari, ma al contrario dipende dal divenire situato di saperi e contro-saperi.

Se il tema ambientale è oggi facilmente interpretabile nella sua politicità, altrettanto non si può dire della medicina e della salute, dove la gerarchia della specializzazione tecnica è uno scoglio che rende difficile anche l’analisi storica.

È il 1970, l’autunno caldo italiano è terminato, lasciando dietro di sé lo Statuto dei Diritti delle Lavoratrici e dei Lavoratori, dove si sancisce (tra le altre cose) il «diritto all’integrità psicofisica e morale». Nei consigli di fabbrica sta nascendo un diverso approccio alla questione medica, al proprio corpo fisico di operai e operaie. In quegli anni si coagula un movimento che mette il diritto alla salute prima dell’impresa: si tratta di un passaggio fondamentale, perché quella parola, “salute” appunto, fino ad allora è stata una qualità da ricercare sempre e solo dentro l’organizzazione della fabbrica, senza poter mettere in discussione cosa produrre e come produrlo. Nel 1976 queste spinte danno vita a Medicina Democratica, un gruppo che attraverso i decenni ha fatto della sua composizione un tratto distintivo: medici e tecnici sono assieme a operai e semplici cittadini, soprattutto nella fase di inchiesta sugli effetti del lavoro, sui danni fisici e psicologici.

 

Le pratiche femministe

Ma è un altro movimento a portare ancora più in profondità la critica alla medicina, il movimento femminista. Analizzare la posizione femminile nel meccanismo produttivo e riproduttivo, significa anche individuare il ruolo specifico del medico (quasi sempre un uomo) e del rapporto medico-paziente. «È sull’espropriazione del corpo che si fonda la nostra condizione materiale di sfruttamento e oppressione: per questo è così importante, per le donne più che per ogni altro gruppo di oppressi, lottare per la sua riappropriazione» (Clara Jourdan, Insieme contro, 1974).

Nei collettivi di donne si fa autoformazione sulla fisiologia del corpo femminile, sul piacere, sugli anticoncezionali, sull’alimentazione, fino alle pratiche di autovisita. Queste ultime in particolare, nascono negli Stati Uniti per poi avere una diffusione massiccia: grazie a uno speculum di plastica, una pila e uno specchio, si pratica l’auto-osservazione del pavimento pelvico. L’autocoscienza diventa direttamente rottura della passività del ruolo di paziente.

«Il nostro corpo è costretto a negarsi in quanto corpo, con le sue esigenze di star bene, di essere felice, di imparare a conoscere sé stesso e a ricercare il proprio piacere, di muoversi liberamente e di decidere autonomamente della propria vita […] Eccola la vera origine dei nostri mali di testa, della nostra stanchezza, del nostro nervosismo, della frigidità, dell’aggressività improvvisa, di tutte quelle malattie che la scienza e la medicina ‘ufficiale’ hanno bollato come ‘tipicamente femminili, poco importanti, isterismi, nevrosi’». (da “Ciao come stai? Male…” Mestre 5 Marzo 1975 sempre nel libro della Jourdan).

Nella lotta per il diritto all’aborto, il ruolo dei collettivi femministi e della critica alla medicalizzazione, sarà essenziale non solo per sancire il diritto dal punto di vista legale, ma anche per renderlo tecnicamente praticabile e sicuro su larga scala. Nel contesto francese fu centrale ad esempio l’incontro tra i gruppi di donne che praticavano clandestinamente aborti sicuri, e il Gis: Groupe Information Santé formatosi attorno a Michel Foucault, con l’obiettivo di affrontare il tema della salute e di «demedicalizzare la medicina». Pierre Jouannet, un medico all’epoca membro del Gis, ha raccontato recentemente uno dei momenti più importanti di questo incontro. Nel 1966 Harvey Karman, l’inventore dell’omonimo metodo abortivo (molto più sicuro e meno invadente del raschiamento), fu invitato a Parigi per dare una dimostrazione della procedura: nell’appartamento dell’attrice Delphine Seyrig si ritrovarono diverse militanti femministe, una giovane donna che voleva abortire, e lo stesso Jouannet. Dopo questa esperienza i membri del Gis si impegnarono nella diffusione e riproduzione del metodo Karman, permettendo la sua conoscenza anche all’interno della comunità medica. Furono quindi le donne che intendevano accedere direttamente a un potere sul loro corpo a creare la possibilità di quell’innovazione tecnica, mentre la medicina ufficiale osteggiava all’epoca le pratiche abortive e per farlo si attaccava particolarmente alle operazioni svolte in contesti non-ospedalieri. Insomma la critica alla mancanza di professionalità e formazione, nascondeva proprio la difesa delle gerarchie mediche che tolgono alle donne l’accesso al proprio corpo. L’ordine dei medici francese fu per anni nettamente contrario alla depenalizzazione dell’aborto e al riconoscimento del metodo Karman.

Nel contesto americano, un percorso analogo è descritto nel recente libro Xenofemminismo di Helen Hester, parlando del collettivo Jane che operò a Chicago all’inizio degli anni Settanta apprendendo le tecniche abortive e praticandole in maniera autorganizzata: «una volta smitizzato l’aborto, le donne del centro d’assistenza giunsero alla conclusione che “le barriere che l’ordine medico aveva eretto tra paziente e professionista non rispondevano né ai bisogni delle donne né alle necessità della situazione”. Piuttosto erano una funzione del potere disciplinare e un mezzo di conservazione dell’autorità istituzionale e della conoscenza utile» (Xenofemminismo, Nero edizioni, 2018). Il gruppo individuava insomma «l’aggiramento dei gatekeeper come necessario al fine di appropriarsi delle tecnologie».

Nel momento in cui l’aborto venne legalizzato e i consultori istituzionalizzati, il movimento femminista si interrogò in profondità su cosa significava rimettere nelle mani dello Stato e della gerarchia ufficiale questi saperi. Come sfuggire alla trappola della ri-professionalizzazione e ri-medicalizzazione? Domande ancora oggi aperte se pensiamo alle infiltrazioni “pro-life” dentro i consultori italiani.

 

Costruire un’altra verità

Come possiamo tradurre nel presente questo abbozzato (ho trascurato ad esempio l’esperienza di Basaglia) tentativo di storicizzazione? Se c’è una costante in questi racconti, è che il movimento di riappropriazione degli strumenti scientifici avviene contro le gerarchie fissate da un “metodo”: a ogni conflitto con le tecniche di Stato corrisponde una critica e una resistenza al tipo di soggetti che vengono prodotti da quelle stesse tecniche.

Nel dibattito italiano sui vaccini purtroppo invece la polarizzazione tra scienza e anti-scienza si è concentrata sulla “sicurezza” dei vaccini e ha espulso dalla discussione il tema dell’obbligo come strumento che performa il sistema sanitario: se la gestione della salute si basa su un continuo uso dell’obbligatorietà, allora produce pazienti passivi e mal informati, pazienti-oggetti, perché dirottare risorse sull’informazione e sul rapporto medico-paziente diventa strutturalmente non necessario, anzi un fattore di spreco in un sistema votato all’ottimizzazione. Così facendo si mina anche alla base la possibilità di un dibattito vero sugli effetti ecosistemici e di lungo periodo della medicalizzazione.

Più in generale, è fuorviante concentrarsi sulle pratiche di comunicazione e democratizzazione della scienza senza porsi il problema del senso, cioè della stessa verità scientifica. In un recente e interessante intervento sul tema, si concludeva che la comunità scientifica «non può sottrarsi a questa richiesta di democratizzazione, di confronto con e all’interno della società e al contempo mantenere una funzione sociale rilevante», ma il punto forse è proprio decostruire l’idea di comunità scientifica. Solo frammentando il monolite della Scienza nei tanti (e conflittuali tra loro) sforzi scientifici, è possibile immaginare lo spazio per una diversa idea di salute, di cura e di ambiente.


*Mattia Galeotti è un ricercatore in Matematica. Cresciuto politicamente tra Pisa e Parigi, si interessa in particolare al ruolo politico del discorso scientifico.

Comments

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Mario M
Friday, 24 May 2019 08:49
Prima di "ripoliticizzare le scienze" occorrerebbe democratizzare la politica, altrimenti si corre il rischio che le scienze vengano piegate e distorte per sostenere gruppi di potere, consegnate a farabutti e macchiette. E’ avvenuto con la legge sulle vaccinazioni, dove è stato impedito un dibattito fra medici e ricercatori; non solo: coloro che criticavano e sollevavano obiezioni sono stati prontamente radiati, nonostante avessero prestigiosi curriculum; mentre i media nazionali hanno dato voce a personaggi grotteschi, dal linguaggio sgangherato; le manifestazioni che hanno visto la partecipazioni di parecchie migliaia di persone in varie città sono state ignorate, oppure sono state bollate come manifestazioni oscurantiste.

Anche sulla TAV l’informazione è stata a senso unico. In occasione delle due manifestazioni quasi contemporanee a favore e contro il progetto TAV in val Susa, che si sono tenute a Torino, ho provato a fare una ricerca su google con il nome dei principali quotidiani e del progetto in questione: i primi 3-4 titoli, che saltavano fuori erano chiaramente a favore del progetto. Faccio presente che illustri professori di politecnici si sono espressi contro il progetto.

In questo contesto disquisire di epistemologia, con Popper e Kuhn è come dipinger farfalle sulla Bastiglia.
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