Le illusioni del postmodernismo
di Alessandra Ciattini
C’è sicuramente un legame tra il postmodernismo e il tardo capitalismo. Vediamo insieme quale
Sicuramente il lavoro che cercherò di esporre è qualcosa più grande di me, nonostante mi sia avvalsa del brillante pamphlet di Eagleton (Le illusioni del postmodernismo, 1998); ma senza sfide non si avanza né si migliora.
Molti hanno sottolineato la complessità del pensiero di Marx, mettendo in evidenza che è nello stesso tempo un economista, un filosofo, uno storico, dotato di grande vigore letterario e in questo senso un artista, oltre a richiamarsi a principi di carattere etico-politico, anche se ovviamente non ha parlato in maniera sistematica di etica. Questo suo ultimo aspetto è stato ferocemente criticato da quelli autori che, sulla scia di Max Weber, hanno identificato la scienza con il pensiero avalutativo e che hanno considerato il marxismo per il suo messaggio emancipatorio e per il costante richiamo all’impegno militante una forma di messianismo o di religione.
Con i miei grandi limiti e forse con una certa dose di ingenuo avventurismo ho cercato di ispirarmi a questa impostazione di Marx, che ne fa un autore straordinario, cercando i vari aspetti della fase storica che stiamo vivendo, in alcuni casi certamente da incompetente, ma tentando di sollecitare il vostro contributo ai temi presentati.
Prima di avanzare nel ragionamento vorrei sottolineare alcuni temi e sono sollecitata a questo dalle questioni poste dal nostro dibattito. Primo: la mia impostazione non è quella di affermare come stanno effettivamente le cose, ma quella di descrivere un problema teorico, indicando le varie posizioni per arrivare attraverso argomentazioni a delle conclusioni valide, che facciano luce sull’esistente. Il presupposto di partenza, che cercherò di dimostrare, sta nel fatto che il postmodernismo, corrente culturale trasversale, e l’attuale fase capitalistica sono tra loro connessi, e che il primo, radicato nella rivisitazione di tematiche antiche, nasce dai caratteri propri di quest’ultima.
Inoltre, non è mio obiettivo parlare di modo di produzione se non di striscio, ma di una fase di una formazione economico-sociale, con particolare riferimento ad una delle correnti ideologiche che ha dominato soprattutto nell’ambito delle scienze sociali e nelle arti. E questo perché il postmodernismo non si propone solo di smantellare il marxismo, ma tutta una concezione della storia quale si è sviluppata nel corso della riflessione che ha avuto il culmine nella modernità; concezione della storia che – come scrive Roberto Fineschi – sottolinea la presenza contemporanea di elementi di continuità e di discontinuità, una storia della lunga durata contrapposta alla breve durata, che dunque si articola in fasi o tappe. Contrapposizione che Braudel esemplifica con la metafora del mare, nel quale si distinguono le onde superficiali (che sarebbero per es. le guerre), dalle correnti profonde. Braudel fa altri esempi per spiegare questa dicotomia tra contingente e duraturo: tutte le società sono gerarchizzate, ma in forme differenti; il confine costituito dal Reno e dal Danubio ha costituito la frontiera dell’impero romano e ha diviso con la Riforma i cattolici dai protestanti.
In secondo luogo, come ho cercato di mostrare negli incontri dell’anno passato, non considero l’ideologia una pura e semplice mistificazione, e ciò sulla base di certi argomenti che non sono certo tutti farina del mio sacco. D’altra parte, se fosse pura mistificazione come potrebbe reggersi in piedi e perdura nel tempo? Inoltre, se si accettasse tale interpretazione semplicistica, si riproporrebbe l’opposizione tra quei pochi che sanno veramente e quei tanti che sono solo dei poveri imbecilli; ma allora, se così stanno le cose, come fare a distinguere i veri sapienti?
Infine, qualcosa sulla emancipazione. Bisogna parlarne in termini generali, perché il postmodernismo non è solo antimarxista, come del resto vedremo meglio più avanti, ma è antimodernista, quindi si contrappone al progetto emancipatorio che pone l’uomo al centro del mondo e che nasce con l’umanesimo in funzione antimedioevale; progetto pienamente ripreso dall’illuminismo con la sua concezione stadiale della storia, secondo cui quest’ultima si articola in diversi momenti (per. Es. caccia / raccolta, allevamento, agricoltura, società mercantile).
Avvertenza: quando citerò una generalizzazione (per es. società postmaterialista) non intendo fare un’affermazione universale; pertanto, intendo sostenere – come del resto gli inventori di questo termine – che non tutte le classi sociali hanno adottato valori postmaterialisti (la qualità al posto della quantità, il cibo biologico al posto di quello venduto al discount), ma indicare solo il comportamento di alcune di esse, in particolare quelle dominanti. Credo che le idee dei nostri avversari debbano essere prese in considerazione, perché hanno molta influenza sulla maggioranza e a loro modo ci aiutano a capire l’esistente.
Società industriale e società postindustriale
Naturalmente, non possiamo parlare di quel fenomeno culturale trasversale, che prende il nome di postmodernismo, se non ci soffermiamo prima sulle caratteristiche della società postindustriale o postmoderna, da cui esso sarebbe scaturito. Tuttavia, nel frattempo definiamolo con Alex Callinicos (1990) come opposizione alle metanarrazioni (grandi schemi) o con Terry Eagleton come rigetto delle “nozioni classiche di verità, ragione, identità e oggettività, dell'idea di progresso di emancipazione universale, delle spiegazioni monocausali, delle grandi narrazioni o dei fondamenti supremi” (1998: 7). Esso è contrario alla rivoluzione, perché non cambierebbe niente, essendo concepita sempre nell’ambito della negativissima razionalità occidentale, ma paradossalmente si considera rivoluzionario e radicale.
Come non è semplice parlare di postmodernismo, per alcuni ormai in declino, per la sua complessità e contraddittorietà, così non è facile parlare della società postindustriale e postmoderna, a partire dal suo stesso nome. Infatti, sembra che chi si è occupato dei cambiamenti che si sono realizzati nella società industriale, a partire probabilmente dal secondo dopoguerra (o forse dal lancio delle bombe atomiche sul Giappone da parte degli Stati Uniti), abbia proposto centinaia di nomi diversi. C’è chi ha parlato di “società narcisistica”, di “società dell’equilibrio”, di “società programmata”, di “postcapitalismo”, di “tardo capitalismo”, espressione utilizzata da Ernest Mandel (1973) e ripresa da Fredric Jameson, che a me sembra la più appropriata. Spiegherò più avanti perché.
Naturalmente, come sempre capita, la discussione sui nomi non è mai una pura disputa terminologica. Il nome prescelto dipende dal fattore cui si vuole attribuire centralità; per esempio, con l’espressione postindustriale si vuole mettere in evidenza, come fece Daniel Bell (1973), che una società così definita sarebbe caratterizzata dal grande sviluppo del settore terziario, dal ridimensionamento della grande fabbrica, dall’attenuarsi delle lotte operaie per l’affievolimento della polarizzazione di classe, dovuto al benessere raggiunto dalle classi popolari. In particolare, Bell colloca il passaggio dalla società industriale a quella postindustriale nel 1956, anno in cui negli Stati Uniti, il numero dei “colletti bianchi” supera quello delle tute blu [1].
Alcuni come Zbigniew Brzezinski e Ronald Inglehart hanno parlato di “società postmaterialista”, per sottolineare che il raggiungimento del benessere materiale in essa non è più centrale, essendo stato sostituito dal desiderio del miglioramento qualitativo (si pensi ai centri benessere, alla forma fisica, alle pratiche orientali etc.). Tuttavia, a mio parere, Inglehart, sociologo statunitense, sottolinea correttamente che non tutti i paesi del mondo hanno raggiunto questa fase, ora dominante in certi settori degli Stati Uniti, dei paesi scandinavi e dell'Olanda. Gli altri paesi, soprattutto quelli nella cosiddetta via di sviluppo, stanno faticando per uscire dalla fase industriale o stanno nel pieno di essa, come per esempio la Russia e l'India. Inoltre, il passaggio da una fase all'altra non implica certamente che la fase precedente venga del tutto cancellata, continuando a sopravvivere intersecandosi con le innovazioni. Questa eterogeneità fa tornare in auge il concetto di sviluppo combinato e diseguale, che coordina le differenze di avanzamento, attribuibile a Leon Trotsky, ma implicita nel pensiero di Marx, estranea ai postmoderni che sono monolitici e binari (occidente / altro).
Altri autori pongono l'accento sulla rapidità dell'informazione, sullo stretto legame tra certa ricerca scientifica e politica (si pensi al neoliberismo, a come in esso la prima diriga la programmazione economica), sull’enorme produttività del lavoro, sul cambiamento della struttura della personalità dell'uomo postmoderno (individuo flessibile di Richard Sennett, soggetto plurale, soggetto narcisista di Christopher Lasch), sulla rapidità con cui una scoperta scientifica dà vita ad un'innovazione tecnologica. Su questi aspetti così si esprime Lasch: “Il clima contemporaneo è terapeutico, non religioso. La gente oggi non aspira alla salvazione individuale… ma alla sensazione, all’illusione momentanea di benessere personale, di salute fisica e di tranquillità psichica”.
A mio parere, per avere un quadro complessivo della società in cui viviamo non dobbiamo tralasciare nessuno di questi fattori, tenendo anche in conto, come si diceva prima, che il livello di sviluppo dei singoli paesi è altamente differente. Quindi, non abbiamo di fronte un omogeneo mondo postindustriale, anche se probabilmente è in questa direzione che ci stiamo muovendo, tranne nel caso di una qualche straordinaria catastrofe naturale o provocata da chi ha in mano le armi di distruzione di massa, come d'altra parte non escludono gli scienziati atomici dell’Università di Chicago.
È curioso sottolineare che il termine postindustriale è molto più antico di quello che si pensi, giacché risale al 1914, quando il socialista britannico A. J. Penty pubblicò un'antologia intitolata Essay in post-industralism.
Il già citato Madel, di affiliazione troskista, critica le precedenti definizioni, perché trascurano del tutto le modalità impiegate dal capitalismo per superare le sue inevitabili crisi e per garantirsi tassi di profitto adeguati. Riprende la nozione di cicli o onde di Kondratiev, curve sinusoidali ascendenti e discendenti che durano circa 50 anni, e prevede la discesa economica a partire dagli anni ‘60. Il tardo capitalismo sarebbe scaturito da queste strategie, le quali sono fondate sulla libera circolazione dei capitali, sulle delocalizzazioni, sulle privatizzazioni, sulla distruzione dello Stato sociale, sul predominio del capitale finanziario su quello produttivo, sulla riduzione del costo del lavoro, sul neocolonialismo, sull'indebitamento degli Stati, la cui politica economica è ormai governata dalle agenzie internazionali e dalle corporazioni, con bilanci superiori quelli statali. Processi che erano stati descritti da Eugenio Cefis in un famoso discorso del 1972, intitolato La multinazionale ecumenica.
Come sottolinea Brzezinski, in tale contesto la distruzione fisica degli Stati (Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia) e il ridimensionamento del loro ruolo porta con sé lo sbriciolamento dei partiti e dei sindacati di massa [2], per la creazione delle filiere industriali insediate in vari paesi, per la frammentazione del mondo del lavoro, per la perdita di una anche rudimentale coscienza di classe. Dagli anni ‘60 questo processo è accompagnato dal crescere e diffondersi dei nuovi movimenti sociali (ecologisti, femministe, omosessuali, animalisti), che per realismo occorre dire non sono in grado di interferire con la grande produzione capitalista, e che spesso promuovono obiettivi parziali e settoriali, non riuscendo così ad indirizzare in un unico progetto sociale le grandi masse, divenute sempre più impotenti.
Il processo che si è cercato di delineare e che segnerebbe il passaggio dalla modernità alla postmodernità è così descritto da uno che a suo tempo fu entusiasta di queste trasformazioni: “Caduta l’idea di una razionalità centrale della storia, il mondo della comunicazione generalizzata esplode come una molteplicità di razionalità ‘locali’ – minoranze etniche, sessuali, religiose, culturali o estetiche – che prendono la parola, finalmente non più tacitate o represse dall’idea che ci sia una sola forma di umanità vera da realizzare, a scapito di tutte le peculiarità, di tutte le individualità limitate, effimere, contingenti” (G. Vattimo, La società trasparente, Milano 1989: 17).
L’idea delle ‘razionalità locali’ e l’accento sulle incommensurabili molteplicità individuali mette inevitabilmente in soffitta la sola nozione che può svolgere oggi nel nostro mondo complesso e contraddittorio una funzione agglutinante. Si tratta – non è certo poco – della nozione di classe, che mette da parte le molteplici differenze individuali per fondarsi esclusivamente sulla collocazione sociale dei singoli, cui corrispondono una o più ideologie. Non è pertanto un caso che proprio questa nozione ha subito attacchi virulenti, perché costituisce il cuore della teoria rivoluzionaria della società capitalista, essendo la forza-lavoro umana lo strumento-chiave dell'accumulazione capitalistica. Da questi attacchi sono venute fuori le varie forme di populismo e di sovranismo, i cui campioni possono essere rappresentati dai postmarxisti E. Laclau e Ch. Mouffe.
A queste considerazioni possiamo aggiungere qualcosa di più profondo, che a mio parere rappresenta il nodo della questione. Per una serie di ragioni, tra le quali il mancato impoverimento nel dopo guerra delle masse popolari occidentali (Stato del benessere), l'instaurarsi della cosiddetta società dell'opulenza, il rafforzarsi dell'aristocrazia operaia [3], lo stabilirsi di un modus vivendi tra le due grandi potenze dopo la crisi dei missili del 1962 (la coesistenza pacifica) [4], l'omogeneizzazione ideologica del mondo dovuta ai mezzi di comunicazione di massa convinsero molti del fatto che le asprezze del capitalismo erano state superate. Ciò comportava la necessità di abbandonare il marxismo divenuto un ferro vecchio non più in grado di spiegare la nuova realtà sociale, a dire dai più ascoltati, radicalmente trasformata. Tra questi dobbiamo annoverare gli esponenti del PCI e molti intellettuali ad esso legati, per parlare solo dell'Italia. Tra questi va salvato Alessandro Natta, che mentre i suoi compagni erano preda dello smarrimento e in subbuglio alle Botteghe oscure assistendo da lontano al crollo del muro di Berlino, affermò lapidario: ”Hitler ha vinto”, mostrando così di comprendere esattamente quello che era accaduto e che si è concretato nella Unione europea dominata dalla Germania.
Inoltre, un altro elemento fece pensare alla fine della polarizzazione di classe: il sorgere dei tecnocrati che, in base alle loro conoscenze scientifiche, essendo ovviamente nel contesto capitalistico la scienza neutrale, avrebbero programmato e diretto la produzione a vantaggio del cosiddetto “bene comune”. Ma fu ben presto evidente che essi erano dei meri esecutori dei capitalisti, fortemente organizzati a livello internazionale, e che in cambio del loro ruolo ricevevano premi e vantaggi. Con l'avvento di questi personaggi (si pensi a governi “tecnici”) la politica come produzione di progetti alternativi di società esce di scena e una certa economia diventa dominante, relegando nel passato le teorie ad essa alternative (Bellofiore e Vertova 2018).
L'accantonamento della politica, anche esso previsto da Cefis (“ci si evolve sempre più verso l’identificazione della politica con la politica economica”) in senso ampio ha anche prodotto la crisi generale della teoria, generata anche da altri elementi che qui anticipo e su cui mi soffermerò più avanti: il rigetto delle generalizzazioni perché sempre riduttive, il relativismo estremo, la frammentarietà e incommensurabilità del reale etc. In breve, secondo i postmodernisti la storia facit saltus e siamo passati da una fase ad un'altra tra loro incommensurabili, interpretabili solo con l’uso di specifici “paradigmi”.
Il trionfo dei tecnocrati è spesso collegato da autori marxisti (T. Eagleton, L. Goldmann) allo strutturalismo, di gran moda negli anni ’70 e ’80, che riduce il soggetto a deposito di un insieme di codici impersonali, che operano in lui a sua insaputa [5]. In questo modo non si fa che descrivere il trattamento che l'individuo riceve nella società capitalistica, in quanto oggetto di una struttura, polemizzando in modo esplicito contro l'umanesimo liberale, che considera – formalmente - il soggetto centro di diritti e non una cosa agita. È in questo contesto che si sviluppa l’antiumanesimo di Louis Althusser, che aveva anche ragione di condannare coloro che vedevano nel marxismo un semplice prolungamento dell’ideologia democratica, e allo stesso tempo lo scetticismo radicale sulla possibilità del passaggio dall’inconscio alla coscienza, e quindi la sfiducia nell’emancipazione.
Nonostante la ricchezza della riflessione marxista che ci ha spinto a parlare di vari marxismi, in quella fase il marxismo fu abbandonato, anche perché il mondo accademico e non, che godeva di prestigio nel nostro mondo, era profondamente ignorante, tranne alcuni specialisti di alto livello, e continuava ad assimilarlo alla tradizione evoluzionistica e positivista ottocentesca, già fortemente criticata da Antonio Labriola in nome del ‘comunismo critico’ oppure allo stalinismo. A ciò si aggiunga che i quadri comunisti, anche per l'oggettiva difficoltà di lettura e di comprensione, conoscevano solo le opere più leggibili di Marx ed Engels e sostanzialmente aderivano ad una visione umanistica centrata sui diritti umani, anche se aperta a quelli sociali (la democrazia progressiva), soprattutto dopo la pubblicazione delle opere giovanili del Moro a partire dagli anni 30. Essi si trovarono, quindi, del tutto impreparati a comprendere e affrontare le radicali trasformazioni che ci hanno colpito a partire dagli ultimi decenni del 900, immaginando che si potesse portare avanti una politica concertata con la borghesia ‘illuminata’ e produttiva, che non avrebbe troppo danneggiato le classi popolari, e non adottando una indispensabile visione veramente internazionalista. Politica che, a loro parere, avrebbe gradualmente portato all'estensione dei diritti, alla fine del conflitto di classe e della guerra fredda (da poco è stato celebrato l’anniversario della caduta del muro di Berlino). Un bel sogno da cui forse non si sono ancora risvegliati, dileggiando quei pochi che avevano compreso cosa avrebbe significato la dissoluzione dell'Unione Sovietica, rifiutata dagli stessi sovietici nel referendum del 1991 (77,85 %), i quali ci hanno insegnato come successivamente i greci che i referendum non contano nulla.
Di fronte a questo quadro del tardo capitalismo del dopoguerra si formò una corrente ideologica e culturale (non l'unica ovviamente), definita postmodernismo, termine apparso nella letteratura spagnola negli anni 30 e nell’architettura statunitense negli anni 60. Vi erano quelli che guardavano ai grandi cambiamenti con fiducia e che erano convinti che la fine delle grandi organizzazioni politiche e burocratiche avrebbe coinciso con l'emancipazione dei singoli, che il grande sviluppo tecnologico avrebbe migliorato le condizioni di vita, che la grande produttività di beni di consumo avrebbe soddisfatto i più diversi piaceri, che l'individuo avrebbe ritrovato la comunità nel piccolo gruppo (piccolo è bello), che l'autentica realizzazione del sé sta nella trasgressione o meglio nella distruzione delle regole (è proibito proibire). Senza comprendere che tale affermazione è logicamente insostenibile, giacché chi proibisce di proibire rispetta paradossalmente una regola, proprio quella del proibire. In questo contesto protagonisti diventano i piccoli gruppi, soprattutto se trasgressori ed emarginati, perché ritenuti meno contaminati dal conformismo omologante della società moderna. È da qui che salta fuori l'apologia dell'altro (esotico, contadino, non eterosessuale, marginale etc.), che dal di fuori può portare la sovversione dell'ordine, perché chi sta dentro al sistema non si trova nelle condizioni ontologiche di poterlo fare. Sono tutte tematiche che caratterizzano il cosiddetto poststrutturalismo, i cui esponenti più celebri sono G. Deleuze, F. Guattari, J. Derrida, M. Foucault, J. Baudrillard, che alimenta il postmodernismo.
Callinicos ritiene che questa ideologia sia propria di quel ceto privilegiato, internazionale, che detiene posti di comando nelle grandi organizzazioni e nelle transnazionali e che controlla il lavoro dequalificato sempre più in espansione; insomma, la classe meticcia di Z. Bauman, che si sente a suo agio ovunque, perché culturalmente sradicata, usa solo le grandi firme internazionali, frequenta i resort, anche se visita i paesi poveri, ignorando così la miseria e la fame. Questi sarebbero identificabili con gli Young Urban Professionals.
Anche la nozione di alterità, ormai abusata, ci fornisce un esempio di contraddizione: utilizzata per mettere in risalto la particolarità e la specificità e per non impiegare definizioni negative ed etno-centriche, quali ‘popoli primitivi’, ‘società semplici’, ‘sesso debole’ si caratterizza per la sua globalizzante destoricizzazione, dal momento che l'altro è tutto ciò che si oppone al noi ugualmente destoricizzato. Per questa via inevitabilmente specificità e particolarità vengono negate, eppure ciò viene fatto in nome della valorizzazione delle differenze e del pluralismo. Paradossalmente tutto viene appiattito nella categoria ‘altro’, pur auspicando in questo modo di rendere la differenza irriducibile, di rendere impossibile un qualche accostamento, perché produrrebbe assimilazione, vuota e astratta uguaglianza. Ma se non abbiamo niente in comune come comunicare, come unirci per portare avanti una battaglia politica?
Ora qui ci troviamo di fronte ad un'ulteriore grave contraddizione, simile a quelle messe in evidenza in precedenza; contraddizione che deriva da condizioni reali e da come esse sono state percepite e spiegate. Le condizioni reali possono essere riassunte con le parole di Eagleton: “il sistema (la società contemporanea) è di per sé inattaccabile”; pertanto, bisogna rivolgersi ai “margini” e alle “crepe”, alle “zone ambigue e indeterminate dove il suo potere sembra meno implacabile”, ai “margini vaghi dove esso sfuma nel silenzio” (1998: 12).
Vediamo di tradurre in termini concreti queste espressioni. La tragica fine del socialismo reale, l'affermarsi del “secolo americano”, la pervasività della cultura di massa, l'ipotesi mai sopita di una guerra totale hanno generato un senso disperante di impotenza; il potere è diventato invincibile e non individuabile; esso si nasconde in tutti i pori della società (Foucault), anche quando compi l'azione più innocente dai un contributo involontario al suo consolidamento. Compri una maglietta a tuo figlio ma sopra c'è sempre qualcosa che inneggia agli Stati Uniti o alle ideologie dominanti. Sei sempre circondato e non hai possibilità di difenderti. Anche ciò che si verifica lontano da te, si può ripercuotere sulla tua vita quotidiana. Il battito dell'ala di una farfalla giapponese può farsi sentire in Italia. La decisione di aumentare il prezzo del petrolio può mettere in crisi il tuo bilancio.
Queste considerazioni sul sistema rendono perplessi coloro che hanno guardato con speranza e fiducia alle grandi trasformazioni, i quali scoprono tuttavia l'altro lato della medaglia della mondializzazione capitalista: omogeneizzazione politica e culturale, accrescersi delle differenze sociali, che non sono solo frutto di mere opzioni culturali, ma di differenze di classe, il ritorno alla guerra guerreggiata anche in Europa, l’acuirsi delle possibilità di una catastrofe globale.
A questo punto le domande sono due: tra la società industriale e quella postindustriale c'è veramente un abisso, o costituiscono solo due momenti di una medesima forma sociale? Gli argomenti del postmodernismo sono davvero in grado di distruggere, come pretendono, le concezioni del mondo sorte nella fase moderna, in primis il marxismo?







































Comments
La domanda è abbastanza retorica.
Italia piu' stalinisti di lega, 5 stelle e PD come si puo' essere ?. Dappertutto le forze politiche sono sfere separate e autonomizzate dalle persone intese come autonome singolarità totali. Esse sono invece considerate e prodotte come derivate di un'assemblaggio di operazioni di marketing comunicativo. Funzionali a renderle merci tra le merci. No. La strada e' lunga, e gia' sopra di noi la notte scende. Cordiali Saluti.
Noto, poi, molta generosità (e disinvoltura) nel concedere che lo stalinismo "sia un concetto a cui si possa attribuire con certezza un senso epistemologico e storiografico", mentre accade il contrario con il postmodernismo. Questa diversità di atteggiamento vorrà dire qualcosa.
riguardo le ultime osservazioni, sono andato a ripescare un brano di "Dialettica senza dogma" di Havemann che all'epoca mi era piaciuto molto.
"Il principio 'la libertà è cognizione della necessità' è pieno di una profonda saggezza. Ma, se consideriamo la storia dell'umanità, dovremmo vederlo sempre connesso a un secondo principio: 'La via dell'umanità è la via che dal regno della necessità porta a quello della libertà'.
La libertà è desiderabile, è morale, soltanto se non è la libertà di singoli ma se è la libertà di tutti, libertà per ogni uomo, che lascia ad ognuno la possibilità di decidere secondo il suo volere e i suoi desideri. Questa è la libertà. La libertà non è cognizione della necessità nel senso che si debba fare sempre una cosa sola necessaria. Abbiamo la vera libertà solo quando per il nostro agire esiste un'ampia scala di possibilità. Quante più sono le cose che non si devono fare, tanto minore è la libertà. Noi vogliamo creare un mondo in cui a tutti gli uomini si aprano sempre più possibilità, così che ciascuno possa agire secondo le sue aspirazioni individuali, non soffocato e ristretto da disposizioni, ordini e 'principi'.
Per creare questo mondo, occorre la cognizione della necessità. Ciò significa semplicemente che dobbiamo scoprire le possibilità fantastiche che questo mondo ci offre. Dobbiamo solo farne uso. Tutte le cose da noi create sono pur sempre oggetti della natura, che operano indipendentemente dalla nostra coscienza. Esse non possono certo nascere da sole - un apparecchio radio non si mette insieme da sé per combinazione di certi minerali: sono fatte da noi, ma solo perché noi sappiamo quali necessità operano nella natura. Così acquistiamo la libertà di realizzare possibilità che senza la nostra cognizione non si attuerebbero mai, benché siano pur sempre cose naturali come tutte le cose di questo mondo".
Passando dalla filosofia all'economia, questo brano mi fa venire in mente l'idea di economia pianificata dell'Autore che sto traducendo, la sua idea di autoregolazione (samonastrojka) utilizzando, da parte di ciascun elemento e, a livello decisionale, di ciascun individuo preposto, la libertà di scelta di cui dispone per armonizzare l'apparato produttivo in base ai bisogni sociali, immediatamente. Inoltre, scendendo più terra terra, mi fa venire in mente un paese dove, per fare una visita ginecologica, una donna non debba aspettare il mese successivo perché non ci sta dentro con lo stipendio e perché, se fa la prenotazione al CUP, invece di aspettare il mese successivo, ne deve passare tre, oppure passare attraverso il pronto soccorso e intasarlo di codici bianchi, così che vada in tilt anche quest'ultimo. E intanto, magari, qualcosa si aggrava senza che nessuno faccia niente.
Ciao
Paolo
Caro Franco, condivido molte cose che sostieni, ma su questo punto credo tu abbia fatto confusione.
L'orizzonte marxiano si caratterizza per la ricerca della realizzazione individuale, al contrario di quanto sostiene un consolidato luogo comune, volto a fornirne un'immagine organicistica. Dai primi scritti marxiani fino ai Grundrisse , la valorizzazione degli individui o, per usare una terminologia contemporanea, delle singolarità, non viene concepita in contraddizione con la presenza di un tessuto sociale, di una rete amplissima di relazioni, sulla base però di coordinate mobili e non definibili una volta per tutte. Tale continuo "scambio" fra "individuale" e "collettivo", che trova la sua piena manifestazione nelle insorgenze conflittuali della classe, è sorretto da un conatus verso un "essere comune" non omologo rispetto a quello, "spettrale", del denaro, e quindi possiede una carica destrutturante nei confronti della serialità propria del sistema capitalistico, con la sua co-implicazione di socialità e isolamento. Chiaramente Marx interpreta l'individuo a partire non da un'astratta natura umana, ma dalle pratiche materializzate in esso ( in perfetta sintonia tra l'altro con il poststrutturalismo francese ): la "posta in gioco" del discorso consiste nel pensare politicamente, in rapporto alla determinazione specifica della congiuntura presente, la valorizzazione delle singolarità in quanto accomunate da un'azione.
Tornando al discorso marxismo/postmodernismo, confermi esattamente quanto dicevo sulla tua visione postmoderna e non marxista. Che però non è una visione nuova e terza rispetto alle classiche visioni alternative marxismo/liberalismo. La concezione postmodernista è interna a quella liberale. Per il marxismo l'uomo/individuo è un complesso di relazioni sociali, tra particolare e universale c'è un rapporto dialettico e la totalità non è una semplice somma di parzialità, ma anch'esso un complesso di relazioni dialetticamente instabili, una realtà unitaria. Il postmodernista "molteplice come somma delle differenze" è un aggregato indistinto, informe e caotico, un contenitore eterogeneo, non una totalità, che si trova in sintonia con la visione liberale della società come sommatoria di individui, essenze preformate, non storico-sociali, che instaurano tra loro rapporti volontari (contrattuali, nello specifico liberal-borghese).
È chiaro che ognuno legittimamente ha la sua impostazione e le sue opinioni. Ciò che invece respingo è la confusione delle posizioni. Per es., quando su una rivista che si chiama Actuel Marx, in un articolo su Marx e la scienza, il preteso marxista che vi scrive sostiene che "è oggi indispensabile abbandonare risolutamente tutti i concetti marxisti del passato", allora dico: o stai imbrogliando anche te stesso definendoti marxista, oppure hai sbagliato rivista, visto che Marx per te non è affatto attuale. Basterebbe non essere disonesti e dichiararlo apertamente. Il dialogo e il confronto ne trarrebbero beneficio.
hanno cercato di rispondere alla seguente domanda: che cosa e chi e' un individuo ?. Prima analisi da fare per poi cercare di metterlo in relazione con gli altri. E hanno cercato di utilizzare i nuovi saperi derivanti dalla nuove scoperte nelle Scienze Fisiche, Naturali e Sociali. Credere che il loro non facile "pensiero" sia funzionale all'attuale assetto sociale, comunque lo si voglia chiamare, mi sembra prima di tutto un atteggiamento autolesionistico. Che poi si possano fare delle critiche mi sembra ovvio. Niente e' perenne ed immutabile. Nemmeno il Marxismo-Leninismo. Non dobbiamo dimenticare le vicende pratiche della "Sinistra" Europea e Mondiale del XX secolo. Ma, ripeto, e' solo un modo di vedere di un signor nessuno. Cordiali Saluti. Franco Trondoli.