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Qualche effetto dell’invasione giornalistica della scuola pubblica italiana

di Paolo Di Remigio

Il lamento che in Italia si leggono poco i giornali trascura che i loro articoli sono una merce tra le altre e che la scarsa domanda può essere indice di cattiva qualità dell’offerta. In effetti gli articoli dovrebbero dare notizie, in realtà si sforzano di diffondere ideologia, quella che protegge gli interessi degli editori. Per questa pesante ipoteca da cui essi sono gravati, la diffusione dei giornali a scuola è sempre da respingere. La scuola infatti non insegna notizie, ma teorie o, nel peggiore dei casi, nozioni: le notizie assumono significato solo nei contesti teorici e devono senz’altro essere risparmiate a chi non li ha ancora acquisiti. C’è ancora un motivo di profilassi: mentre le notizie, come strumenti di campagne ideologiche, suscitano passioni e contrasti, le teorie sono conoscenze oggettive e universali, valide dunque per tutti, in grado di interrogare la ragione e di unire.

Nondimeno, nell’attuale esame di Stato il giornale si è insinuato attraverso due brecce: gli alunni possono redigere i loro elaborati anche in forma giornalistica; inoltre i temi proposti dal MIUR sono corredati da brani tratti per lo più da pagine di quotidiani, anziché da testi qualificati sotto il profilo scientifico ed estetico.

Nell’esame di Stato di quest’anno alcuni dei versi più toccanti della letteratura italiana (‘I limoni’ di Montale) sono soffocati da una spiacevole masnada di brani tratti di preferenza dal ‘Sole 24 ore’.

Il primo articolo, del giornale appena menzionato, mette in un riferimento esclusivo disoccupazione e progresso tecnico e dimentica di indicare la soluzione che il contrasto consente. In verità il progresso tecnico è solo una causa di disoccupazione; altra e ben più vigorosa è la libertà di movimento dei capitali e delle persone; entrambe aumentano infatti l’offerta di forza lavoro a parità di domanda. Ma esaltando la libertà di movimento dei capitali e delle persone come pezzo forte dei piaceri della vita, l’ideologia liberale, di cui il decotto ‘Sole 24 ore’ era eroico alfiere, preferisce riservare alla sola tecnologia il ruolo ingrato di calmierare i salari gonfiando l’esercito industriale di riserva. L’escamotaggio ha un primo vantaggio: fa del dramma della disoccupazione il lato negativo della marcia inarrestabile del progresso, ne fa cioè un destino, anziché l’effetto delle umanissime scelte libero-scambiste; e ha un vantaggio ulteriore: imputare la vera colpa degli squilibri economici, più che al cambiamento tecnologico in sé, alla scuola, inerte su Leopardi e Manzoni, in ritardo dunque sul prestissimo del cambiamento tecnologico; a detta dell’articolo, infatti, la disoccupazione tecnica si risolverebbe «ridisegnando i sistemi educativi in modo da creare le competenze manageriali, ecc. ». Visto? Se c’è disoccupazione è per colpa della scuola che non si ridisegna. Come se questo aumento delle competenze manageriali e tecnologiche, dando più energico impulso alla tecnologia, non esasperasse il problema, lungi dal risolverlo. L’ideologia liberale, che l’articolo trasuda da ogni suo grafema, tutta sbilanciata a raccomandare lavoro sodo e austerità a chi non sia banchiere o grande azionista, non riesce a concepire che la progressiva diminuzione della giornata lavorativa a parità di salario è il naturale prodotto della progressiva sostituzione del lavoro umano con le macchine.

Il secondo e al terzo articolo, tratti il primo da Carcom.it, il secondo da Panorama, raccontano entrambi di sondaggi di opinioni. E già si potrebbe obiettare: perché opinioni nella scuola, dove, come già osservato, non si tratta di eccitare la curiosità spicciola o di pianificare campagne pubblicitarie, ma di costruire competenze? Perché? Difficile la risposta. Forse non le è estraneo il fatto che il MIUR, vittima di una pedagogia che confonde opinione e teoria, considera equivalente un sondaggio, con i suoi ‘Io penso che …’, a uno studio, con i suoi dati e la sua bibliografia. Gli ‘Io penso che …’ dei due sondaggi danno poi risultati non solo controintuitivi, ma anche così in contrasto da tradire la loro irrilevanza: che digitalizzazione e automazione abbiano effetti negativi sull’occupazione, lo pensano soltanto il 17% degli opinanti del primo articolo e il 48% degli opinanti del secondo articolo. Forse sarebbe stato meglio che entrambi i gruppi di opinanti, soprattutto il primo, si fossero tenuti per sé le loro liberissime opinioni; di certo sarebbe stato opportuno che il MIUR avesse evitato questi materiali miserrimi.

Viene poi un pezzo da «Repubblica», una comparazione del tutto improbabile tra la distruzione crudele, vandalica e militarmente insensata della gloriosa abbazia di Montecassino e le distruzioni causate dal sisma in centro Italia. Il filo che dovrebbe tenere insieme eventi tanto diversi, la celerità della ricostruzione, è proprio quello che, come constata proprio oggi lo stesso giornale, manca: mentre l’abbazia fu ricostruita in pochi anni (ma che pena visitarla: sembra la sua copia per Gardaland!), la ricostruzione delle zone terremotate si scontra con i vincoli di bilancio della UE ed è impantanata in una scandalosa inerzia.

Il pezzo successivo, in un italiano zoppicante, dal ‘Sole 24 ore’, contiene una frase ad effetto che solo un giornalista potrebbe scrivere: l’alluvione di Firenze insegna «come nulla sia veramente perso se si ha la forza e la fede di non lamentarsi e di rimettersi a lavorare da capo» – un amaro scherno per chi ha avuto la vita schiantata da cataclismi.

Si passa poi a uno smagliante climax informatico: a partire da un brano tratto dal sito web dell’INDIRE, una raccolta di luoghi comuni sulle virtù didattiche della robotica, ignorante il dato che la distruzione della scuola italiana va di pari passo con la sua informatizzazione, – attraverso un brano al limite del feticismo, tratto dal sito web della ‘Sant’Anna’ di Pisa, che parla di robot costruiti con materiali morbidi e deformabili, – si finisce nell’estasi del ‘Sole 24 ore’ davanti alla legge sulla responsabilità civile delle macchine considerate come ‘persone elettroniche’. Sembra di capire che l’acquisita morbidezza e deformabilità possa indurre le macchine a delitti sessuali di cui dovranno rispondere davanti al giudice. Forse un esperto giurista potrebbe ricavare qualcosa di sensato da questo pateracchio – non certo dei poveri candidati di un esame di Stato.

L’ultimo brano è dal ‘Corriere della sera’. Il tono, che in precedenza aveva preso tratti abnormi, qui diventa pretenzioso. Si parla di progresso. Ce ne sono due: uno tecnico-scientifico, che sarebbe esterno, collettivo, culturale e veloce, e uno morale e civile, che sarebbe interno, individuale, biologico e lento o lentissimo. La distinzione è del tutto incomprensibile: il progresso morale e civile – ammesso che si dia qualcosa del genere – è non meno esterno (mos, da cui morale, è costume, civis, da cui civile, è cittadino), collettivo (civis è da civitas) e culturale (a meno che non ci si voglia far portavoce del razzismo) del tecnico-scientifico. Da tanto rovinosa caduta il brano non si risolleva più.

Questo è ciò che accade nella scuola italiana da quando si è distrutto l’argine che tratteneva nel suo letto il fiume torbido dell’opinione: il terreno della scienza è sommerso dalla chiacchiera giornalistica e il lavoro didattico diventa sempre più disperato.

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