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Qualche nota sulla rendita urbana ed il consumo di suolo

di Alessandro Visalli

Commentando il libro di Laurie MacFarlaine sulla creazione della ricchezza, in particolare in Inghilterra, a partire dalla semplice rendita immobiliare, radicata nel differenziale di valore fondiario, avevamo caratterizzato le città come macchine produttive di quella particolare merce universale che è il capitale astratto. Di questo le città sono eminentemente fonte di produzione attraverso i meccanismi della rendita.

La rendita non è mai neutrale, come non lo è mai il denaro. Nel profondo enigma del valore, che l’economia marginalista intese dissolvere nella magia della sua riduzione a numeri differenziali apparentemente oggettivi, ma sottilmente ancorati ad una teoria morale, l’incremento della quantità di un astratto indicatore di scambio come il denaro, ottenibile nell’eventuale compravendita da un bene cosiddetto “immobile” (in quanto essenzialmente caratterizzato dalla sua posizione), non corrisponde a vedere bene all’aumento di alcun bene d’uso concreto. Non viene, cioè, prodotto nulla di diverso quando una casa in un dato luogo, conformemente alle altre limitrofe in analoghe condizioni, vede attribuirsi dai “compratori” (reali o potenziali) una maggiore attrattività nella metrica astratta del denaro necessario per averne l’uso esclusivo (ed il diritto di rivendita, soprattutto).

Quel che Jhon Stuart Mill chiamava, conformemente ad una antica tradizione, “diventare ricco nel sonno”, è però sempre effetto di un mutamento della distribuzione della capacità di sostentamento sociale, ovvero, nei suoi termini, “proviene dai frutti delle fatiche altrui, che non ricevono” (M, 1848).

Questo genere di ricchezza è quindi un effetto del sistema generale della distribuzione del valore; lo si comprende se si capisce il denaro come un’astrazione che propriamente rappresenta un “tot” misurabile del potere socialmente disponibile sulle cose (includendo in tale termine anche il “lavoro astratto”, fatto cosa). Ovvero se si legge come rapporto sociale di potere. Allora diventa chiaro che il suo incremento senza modifica delle “cose” stesse (ovvero senza che sia applicato un lavoro, e/o modificato lo stato della città) è esclusivamente un’alterazione distributiva che necessariamente estrae ricchezza dall’insieme della società, senza produrla: una cosiddetta “rendita improduttiva”.

Prospera in tale struttura delle relazioni sociali, incarnata nelle cose, il particolare modo di produzione della finanza che sottomette a sé tutte le macchine produttive contemporanee. E lo riesce a fare nella relazione, sempre più forte, tra il sistema finanziario, che eroga crediti in relazione alle attese di futuro, i valori fondiari ed il ciclo economico (riconoscendo in ciò, considerato il carattere fiduciario del denaro stesso, la sua dimensione “fittizia”). Quella relazione di automoltiplicazione ricorsiva che sembra generare, creandolo dal nulla, valore proprio quando si innesta un feedback tra la disponibilità positiva degli attori economici, l’attesa di valorizzazione futura e l’attivazione di nuovo credito su risorse scarse e posizionali. Un valore che appare come una sorta di “pasto gratis”, e come tale è sempre salutato con entusiasmo ed accuratamente coltivato (nella disciplina urbanistica degli anni novanta da nuovi e pieni di ottimismo orientamenti di “marketing” urbano e territoriale non a caso accompagnato da deregolazione).

Non a caso, man mano che il modo di produzione finanziario si afferma, a partire dai tardi anni settanta, i tradizionali strumenti che erano stati elaborati per lo più nel novecento, come la regolazione degli usi del suolo (ancora cardine della architettura della pianificazione a livello comunale), le procedure autoritative di esproprio per pubblica utilità (a valore agricolo) e la capacità fiscale di avviare opere pubbliche sono sempre più disinnescati. Ne viene naturalmente meno anche la capacità di resistere ai meccanismi di formazione della rendita più deleteri per le formazioni sociali incardinate nelle costituzioni spaziali che chiamiamo città. Costituzioni che sono in effetti il patrimonio comune.

Ne abbiamo parlato intorno al caso concreto della città europea più investita da questi fenomeni, Londra, ma vale in qualche misura per ognuna. Lì in particolare dopo la crisi del 2008 si è registrato un immane afflusso di capitali selvaggi, rapidi ad affluire e ancora più a defluire, in cerca di collocazioni marginalmente più redditive, che hanno portato ad un ulteriore, e massivo, incremento di valore fondiario differenziale (nelle zone centrali) parte di un flusso che si stima essere di 1.000 miliardi di dollari l’anno, per lo più spesi in operazioni di rigenerazione urbana la cui attraente retorica in molti casi nasconde la sua estraneità alla società locale. Quando sono ben riuscite (ovvero quando sono più efficaci, rapide e massive) queste operazioni che intervengono infatti in aree che al capitale appaiono “vuote” e perciò stesso deboli determinano un massivo incremento del valore commerciale, fondiario ed immobiliare, cioè della quantità di denaro che si può estrarre (come fitti o per la vendita e rivendita, non di rado attraverso operazioni di finanza strutturata, o di cartolarizzazione) dal territorio. Uno degli effetti pratici è che le città diventano formazioni sociali nelle quali sono inclusi interessi (resi anonimi dai prodotti finanziari e dalla loro matematica) in effetti diffusi in tutto il mondo. L’effetto più diretto è che sempre più i prezzi delle case non sono in rapporto con i redditi di chi nella città vive. E quindi aumentano le case e le proprietà vuote, di fatto non abitabili ai valori correnti.

Questo meccanismo, la rendita (che Marx chiama “plusprofitto” nel Capitale, III, cap. 46), insomma interferisce profondamente, strutturandolo, con la capacità della città di essere forza produttiva, nel garantire e consentire la riunione dei lavori e delle persone che li svolgono, delle conoscenze-in-uso (mentre le conoscenze astratte sono ormai ubique e despazializzate) e delle tecniche, di molti mezzi di produzione (non più di tutti, nell’epoca dell’economia piattaforma).

Né in sé può essere soluzione l’attuale entusiasmo per le politiche “consumo di suolo zero”, in quanto se non sensibili ai meccanismi di formazione delle rendite, in sé differenziali, queste possono anzi contribuire a concentrarle. Infatti se si riduce l’offerta di suolo “valorizzabile”, in vista della pur giusta considerazione della salvaguardia della naturalità, si incentiva la concentrazione dei valori e con questa si attiva la macchina autovalorizzante della rendita. Ma questa, se lasciata correre con la sua tendenza autoaccrescitiva e l’indifferenza per il valore d’uso locale, può determinare in modo collaterale e non voluto una simmetrica espulsione dei meno forti, dei più giovani, dei meno cittadini, e la loro parallela concentrazione nei luoghi residuali. Può determinare la creazione di ulteriori “periferie”, nelle quali può crescere la rabbia.

La creazione di “luoghi ricchi”, la rigenerazione mossa dalla rendita fondiaria, può allora avere come contraltare automatico la creazione ed il rafforzamento di “luoghi poveri”, dove calano drasticamente con la riduzione della complessità sociale le opportunità di scoperta, di scambio. Quella che gli urbanisti chiamano la mixitè e la serendipity (la capacità di trovare ciò che non si cerca).

Allora si può dire che l’accesso ai diritti sociali (che non è analoga cosa dei diritti civili individuali, ma li comprende, su questo Honneth) passi necessariamente anche per una corretta e ordinata formazione della rendita. In particolare per il contrasto all’impoverimento di capitale spaziale che al tempo accresce e rende manifeste le ineguaglianze.

Ciò che diventa indispensabile ad una corretta “agenda urbana”, non è quindi solo la riduzione del consumo di suolo, ma anche e prioritariamente la regolamentazione dei processi di trasformazione urbana, che sono necessari, e quindi della vita civile che in essa si svolgono, agendo in modo aperto e consapevole (e democraticamente fondato) sulla costituzione materiale e sulla struttura della combinazione fisica e delle relazioni che si istituiscono nella città e nel territorio. E farlo in direzione della riduzione delle differenze non necessarie, ad esempio ad una corretta divisione del lavoro, e della segregazione di individui e gruppi.

Si tratta di dinamiche in sostanza del tutto normali e peraltro sempre attivate in ogni processo di trasformazione, in certo senso fanno parte della vita e della normale evoluzione, ma richiedono una espressa responsabilità e riconoscimento. Individuare la dinamica di formazione della rendita, anche nei processi di densificazione e riuso tipici delle politiche “zero consumo di suolo”, aiuta a combattere le strutture esclusivamente “estrattive”, costringendole almeno in parte a restituire il valore che catturano. Come avevamo già scritto questa attenzione deve passare per la mobilitazione delle forze e delle energie presenti nelle intersezioni, negli “stagni”, anche allo scopo di impedire che siano dis-attivate.

Significa anche proseguire nello sforzo, sempre arduo, di limitare i fenomeni di enclosure, segregazione e di definizione degli spazi per ceti omogenei e livelli di reddito. Di contenere quindi ogni forma di reciproca chiusura che determina la rottura del patto di solidarietà, distruggendo in radice il senso dell’essere una comunità insediata.

Rigettare la riduzione del “valore” a numero astratto, ricomprendendone l’enigma, significa anche comprendere quindi che la “ricchezza” non è nella rendita, ma è intorno a noi e sotto in nostri piedi. La ricchezza siamo noi, quando riusciamo a stare insieme.

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