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Per una sinistra nazional popolare

di Carlo Formenti

Domenica 15 Aprile sarò a Bologna per partecipare all’assemblea autoconvocata “Per una sinistra nazional popolare”. Per capire le ragioni di questa iniziativa rinvio al documento di convocazione firmato dal sottoscritto assieme agli amici Mimmo Porcaro e Ugo Boghetta. Qui mi limito a riassumerne alcuni contenuti di fondo del documento.

1. Siamo convinti che il recente ribaltone elettorale, che ha giustamente punito le forze politiche che negli ultimi decenni hanno attuato politiche ferocemente antipopolari, non sia sufficiente – sia per gli intrinseci limiti di cultura e visione politiche dei vincitori, sia per la loro prevedibile incapacità di far fronte ai diktat che la Ue non tarderà a imporci, qualsiasi sia il governo che emergerà dalle consultazioni in corso – a risolvere i problemi di un Paese sempre più impoverito e attraversato da crescenti contraddizioni fra élite e masse popolari.

2. Riteniamo irreversibile la crisi di una sinistra che, nella sua versione socialdemocratica (posto che possa ancora definirsi tale), ha subito una mutazione in ragione della quale rappresenta ormai esclusivamente gli interessi delle classi medio alte che abitano nei centri storici, mentre ha rinnegato l’antico ruolo di tutela degli strati più deboli della popolazione (nei confronti dei quali non si perita di manifestare il proprio disprezzo).

Ma riteniamo altrettanto irreversibile la crisi di quelle “sinistre radicali” che si rifiutano di prendere atto della necessità di rompere con quella vera e propria macchina antipopolare che è la Ue, una macchina irriformabile nella misura in cui è stata progettata e costruita esclusivamente allo scopo di rendere a priori impossibile qualsiasi ridistribuzione di reddito e di potere nei Paesi membri. Un rifiuto ispirato da una cultura cosmopolita (erroneamente identificata con l’internazionalismo di novecentesca memoria) che impedisce di comprendere come la questione nazionale sia oggi strettamente intrecciata alla questione sociale, nella misura in cui la subordinazione nazionale si converte immediatamente in subordinazione di classe.

3. Pensiamo che la rapida trasformazione dello scenario internazionale (crisi della globalizzazione, ri-nazionalizzazione dei conflitti, acutizzazione dello scontro fra grandi potenze in lotta per l’egemonia politica ed economica, riconfigurazione delle alleanze fra potenze regionali, ecc.) offra anche a una potenza regionale come l’Italia, debole ma strategicamente rilevante per la sua posizione geopolitica,  l’opportunità di lottare per riconquistare la propria autonomia e sovranità nazionale, autonomia che non va intesa in senso nazionalista e autarchico, bensì come mezzo per la ricostruzione di una sovranità democratica e popolare, e inquadrata nella prospettiva della costruzione di relazioni paritarie di cooperazione e solidarietà con le altre nazioni mediterranee.

4. Pensiamo che la lotta per l’autonomia debba fin da subito assumere il carattere di lotta per la trasformazione in senso socialista della nostra società e del nostro sistema produttivo. Un socialismo più vicino al concetto di socialismo del XXI secolo elaborato dalle rivoluzioni bolivariane che a quello della tradizione novecentesca (la cui storia non riteniamo tuttavia debba essere demonizzata). Il che significa, in concreto, non rincorrere una identità di classe esplosa in mille schegge sotto l’impatto della controrivoluzione liberista, della ristrutturazione tecnologica, del decentramento globale e dei conflitti etnici, generazionali e di genere, ma costruire un popolo, un blocco sociale ampio e articolato che raccolga gli interessi, le aspirazioni, le domande di protezione e riconoscimento dei molti contro i pochi.

5. Esiste infine un altro motivo per cui pensiamo che un progetto politico nazional popolare debba necessariamente nascere da un atto di separazione dalle sinistre esistenti: tutto quanto affermato nei punti precedenti è infatti in contraddizione con l’ideologia antistatalista che accomuna l’intero arco dell’attuale sinistra, dai socialdemocratici, perché costoro si sono pienamente convertiti alla visione liberal liberista che domina il mondo da qualche decennio, per cui rifiutano a priori qualsiasi interferenza dello stato nella società e nell’economia, alle sinistre radicali, che coltivano a loro volta una visione libertaria della società e della politica che vede nello stato in quanto tale il nemico da abbattere o ridurre a mera amministrazione delle cose (vedi quella ideologia “benecomunista” che ha preso il posto del comunismo, lanciando la parola d’ordine né pubblico né privato). Noi rivendichiamo al contrario la concezione gramsciana del farsi stato delle classi subordinate, il che vuol dire mettere in atto un doppio processo, di centralizzazione delle decisioni strategiche (niente cambio di matrice produttiva senza nazionalizzazione delle grandi banche, controllo del tesoro sulla banca centrale, nazionalizzazione dei settori produttivi strategici, controllo dei flussi finanziari, ecc.) e di controllo dal basso di tali decisioni attraverso l’istituzione di organi popolari di democrazia diretta e partecipativa che mantengano piena autonomia dalla macchina statale, e soprattutto, che possano esercitare il conflitto nei suoi confronti.

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