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rifonda

Il nostro Marx dopo duecento anni

di Paolo Favilli

L’8 maggio 1968, in occasione del centocinquantenario della nascita di Marx, Raymonde Aron, sociologo liberale e critico di Marx (soprattutto dei marxismi), nell’ambito della propria relazione al grande convegno parigino organizzato dall’ Unesco, mise in evidenza «il contrasto tra le dure condizioni nelle quali visse l’esule a Londra, e il quadro grandioso e ufficiale in cui professori togati, venuti da tutte le università del mondo, si propo[neva]no di intrattenere un dialogo cortese, dopo aver ricevuto la consegna di attenersi al contributo scientifico di Marx e di dimenticare il rivoluzionario – ma con l’intenzione (…) di non rispettare affatto questa consegna».

In effetti lo scenario delle celebrazioni era davvero imponente: non solo per il numero e la qualità dei professori intervenuti, ma anche di quelle che René Maheu, direttore dell’Unesco, appellava come «Eccellenze», capi politici e di istituzioni statali, tutti uniti per onorare colui che aveva, sempre parole di Maheu, «profondamente modificato il rapporto tra realtà e pensiero».

Le celebrazioni del bicentenario sono ben lungi dall’avere quel carattere di grandiosità e ufficialità. Sono in corso, ovviamente, convegni di studio, seminari, pubblicazioni ecc., ma in un contesto assolutamente diverso rispetto, a quello dell’8 maggio 1968.

Tra l’altro il clima del 1968 non fu per niente determinante su un evento che proprio per il suo gigantismo aveva avuto una lunga e precedente preparazione.

Nel nostro contesto odierno forse Marx è meno «attuale», rispetto a quello degli anni Sessanta del Novecento? Se l’attualità consiste nella capacità di spiegazione dei meccanismi profondi caratterizzanti le fasi di accumulazioni in atto, ebbene le categorie marxiane sono certamente più attuali oggi che nell’ «età dell’oro». Le tendenze generali dell’accumulazione che avvengono in una fase in cui il modo di produzione capitalistico può svilupparsi senza antitesi, come nei nostri tempi, sono in particolare consonanza con la costruzione analitica de Il capitale. Una consonanza senz’altro molto minore le stesse categorie l’avevano rispetto alle possibilità esplicative del capitalismo civilizzato (in Occidente) durante i «trenta gloriosi». Eppure in questo nostro tempo un’iniziativa dell’Unesco come quella di cinquant’anni fa appare del tutto impensabile.

Proviamo a ragionare sull’apparente paradosso di un complesso teorico assai poco operativamente diffuso in un contesto assai favorevole per le sue possibilità euristiche, ed invece particolarmente pervasivo in età in cui pareva esser contraddittorio con le magnifiche sorti e progressive di un neocapitalismo sempre più democratico.

La distinzione tra «marxiano» e «marxista», la continua ripetizione della nota frase di Marx: «Io non sono marxista», hanno una storia molto lunga e sono ormai luoghi comuni, ma dal punto di vista dell’indagine teorica hanno anche ragioni determinanti per essere utilizzate nell’indagine critica interna all’opera del pensatore di Treviri.

L’esame testuale di tale opera dimostra con chiarezza che egli non si sentì mai fondatore e capo di un qualche «marxismo». «Sistemi» e «ismi» erano contraddittori con il carattere critico-demistificante del suo metodo di lavoro. Al professore tedesco di economia Adolph Wagner, che aveva scritto a proposito del «sistema socialista» (sozialistisches System) di Marx, rispose seccamente ch’egli non aveva mai costruito un «sistema socialista» e che quelle di Wagner erano solo «fantasie». Inoltre non è certo un caso che ne Il capitale non compaia mai il termine «capitalismo».

Nello stesso tempo, però, egli ha sempre considerato il suo lavoro «scientifico» come momento imprescindibile di un programma di organizzazione pratico-intellettuale. Nel periodo in cui si trovò di fatto ad essere il punto di riferimento principale dell’Internazionale combatté»tutte le «sette», fossero «socialiste», «marxiste o altro. mai il termine «capitalismo» che aveva scritto del «sistam sociali con decisione tutte le «sette», fossero «socialiste», «marxiste» o altro. Ma contemporaneamente i documenti che definivano i caratteri dell’Internazionale erano tutti orientati dalle sue categorie di pensiero. E tutta la sua opera-capolavoro, rigorosamente scientifica, era concepita, lo disse esplicitamente, anche come «il missile più terribile che sia stato ancora scagliato contro i capi della borghesia (proprietari terrieri inclusi)».

Nella tensione tra questi due poli, quello della scienza e quello del ruolo della scienza per l’emancipazione dei subalterni, si definisce un campo di destini incrociati. Non perché il secondo sia la verifica del primo, ma perché comunque è un indicatore delle forme della sua fortuna. Anche se tali forme non derivano dalla scienza, ne condizionano l’immagine politico-culturale esterna alla ristretta cerchia degli specialisti, e qualche volta anche all’interno di quella che viene chiamata «comunità scientifica».

La locuzione ricorrente nella pubblicistica secondo la quale Il capitale sarebbe stata la «Bibbia» del movimento operaio e socialista, è, insieme, falsa e vera. Falsa nel marxismo secondo testi e filologia testuale. Niente era più estraneo agli intendimenti di Marx, e soprattutto alla sua metodologia scientifica, della logica del libro sacro. Vera, in parte non marginale, nei processi reali di un movimento che aveva bisogno della conferma «scientifica» per la garanzia, «in ultima istanza», del proprio «giusto» operare nella storia. Alla fine dell’Ottocento, al momento cioè, dell’incontro tra categorie marxiane e movimento operaio, poteva succedere che la pubblicistica operaia costruisse teorie «marxiste» del salario del tutto contraddittorie con quelle «marxiane». Eppure si trattava di un momento di crescita e di consapevolezza di sé dell’organizzazione.

Dall’ultimo quarto del XIX secolo a gran parte del XX il «marxismo» assume forme strutturate. Prima in organizzazioni di resistenza e partiti politici, poi addirittura in «Stati marxisti». Vere e proprie potenze insomma, senza le quali non sarebbe spiegabile il gigantismo del convegno Unesco del 1968.

Strutturato o non strutturato il marxismo fuori dai testi di Marx rimane un momento imprescindibile per un pensiero che ha voluto essere rivoluzionario. Il fatto è che al Capitale resta stretta la definizione di «classico». Nel 1981 Italo Calvino si esercitò a definire un classico in 14 proposizioni. Il capitale può rientrare in tutte le definizioni, ma solo parzialmente, perché tutte quante presuppongono un’atmosfera pacificata nello svolgimento della lettura e della riflessione del testo. Quel testo, invece, rimane, e rimarrà per tutta l’età caratterizzata dal modo di produzione capitalistico, il «missile terribile» evocato da Marx.

Il marxismo «potenza» il «marxismo politico» è scomparso alla fine del Novecento, e senza tale dimensione anche la filologia marxiana rischia di diventare solo un affare analitico per professori. I modi in cui alla fine dell’Ottocento avvenne l’incontro del movimento operaio con le varie «forme» marxismo sono oggi irripetibili. Tra le molte e rilevanti differenze di contesto, su una dobbiamo appuntare in particolare la nostra attenzione: allora furono più il movimento, le organizzazioni di resistenza, ad andare verso la teoria che l’inverso. Nel momento attuale è al «marxismo politico» che sembra spettare l’onere di una ricomposizione. Naturalmente in forme diverse, in forme nuove.

La categoria del «nuovo» è cosa seria, ma nel dibattito politico, e non solo, viene utilizzata alla maniera su cui ha ironizzato il grande storico economico Ruggiero Romano: il nuovo non tanto come veramente nuovo, bensì come «novello» al pari del beaujolais (o del chianti). Certamente non ci si avvicina ai corrieri in bici di Foodora tramite citazioni di Marx. Se però si riflette bene sui capitoli relativi alla giornata lavorativa del I libro de Il capitale, si possono cogliere le ragioni di fondo, nella logica dell’accumulazione nel nostro tempo, della necessità di tali rapporti di lavoro. E su tale base, magari, elaborare categorie politiche «nuove» davvero.

In tale prospettiva alla nostra cultura, alla nostra politica, non basta, parafrasando Croce, rifugiarsi nella generica formulazione del «non possiamo non definirci marxisti». Bisogna entrare direttamente nel merito di nuove forme di «marxismo politico». «Forme» aperte, diverse, qualche volta magari conflittuali, ma con le radici salde nelle logiche dell’antitesi e della critica dell’economia politica.

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