La crepa nel decreto dignità che l’opposizione (sparita) potrebbe aprire
di Alessandro Robecchi
Il “decreto dignità” è un brodino che non curerà la polmonite cronica del mondo del lavoro italiano. Però è un brodino – somministrato tra mille pressioni per diluirlo ancora di più – che segue anni di martellate sugli alluci, quindi un passo avanti, un’inversione di tendenza.
Non manca qualche simbologia: tra i primi provvedimenti del governo Renzi (“il più di sinistra degli ultimi trent’anni”, disse lo sventurato) ci fu il decreto Poletti, che era né più né meno uno schiaffone ai lavoratori precari. Tra i primi provvedimenti del governo SalviMaio – tragicamente a trazione leghista – c’è un attenuamento di quello schiaffone. Non c’è il ripristino dell’articolo 18, non c’è un vero superamento del Jobs act scritto e diretto nelle stanze di Confindustria. Però qualche ricaduta sulla vita reale sì, perché se ti licenziano da un impiego fisso devono almeno darti più soldi, perché chi assume a tempo determinato potrà farlo solo in certi casi, per meno tempo, e spiegando perché, e sono solo piccoli esempi. Non piccolissimi, se pensiamo a una famiglia dove uno perde il lavoro: avere come risarcimento una decina di stipendi invece che quattro e cinque (massino 36 invece di 24) fa una certa differenza, a pranzo e a cena, per qualche mese.
Anche nella comunicazione c’è qualche novità. Abituati da anni al cantar vittoria dei perdenti sui dati Istat dell’occupazione (la mia collezione sui tweet del Pd che inneggiano alla disoccupazione che scende tacendo del precariato che aumenta è ben fornita), sentiamo cantare i numeri che il poro Poletti cercava in tutti i modi di taroccare. Su 100 nuovi occupati, 1 ha un lavoro stabile, 4 si sono messi in proprio e 95 sono a termine. Insomma, non c’è niente da festeggiare o da sbandierare in quanto miracoloso, come facevano i rottamatori di se stessi.
A parte la piccola ma significativa inversione di tendenza (per cartina di tornasole si possono osservare le reazioni di Confindustria: come se gli avessero incendiato il garage), non resta che osservare l’orizzonte dove già si intuisce la presenza di un iceberg.
Il decreto dignità (mi permetto di suggerire nomi più sobri, ma questo è un dettaglio) va infatti decisamente in rotta di collisione con il pensiero salviniano, e questo sarebbe il minimo perché sappiamo quanto Salvini cambi pensiero come la biancheria (e forse più spesso, da “Padania is not Italy” a “Prima gli italiani”). Se si esce dai dettagli e si guarda ai blocchi sociali, invece il problema c’è: il primo provvedimento del governo è in controtendenza rispetto al pensiero dominante della destra che Salvini si è mangiata in un boccone. La manina del mercato, il liberismo che più che n’è e meglio è, la solita menata del “lacci e lacciuoli”, insomma la sempiterna litania padronale del “lasciateci fare il cazzo che vogliamo”. E non a caso le reazioni del mondo leghista sono gelide e anzi ostili, Salvini non è andato a una riunione sul provvedimento preferendo fare il pupazzo al Palio di Siena, la Meloni ha parlato di “ispirazione marxista” (come no, e gli alieni atterreranno giovedì) e gli industriali (e i loro giornali) hanno messo su il solito mugugno.
Se esistesse un’opposizione, cosa di cui c’è bisogno come del pane, tenterebbe di infilarsi in questa intercapedine che c’è tra le varie propagande (alcune schifose, come quella anti-umanitaria di Salvini) e i fatti. Vedere che nelle nuove norme sul lavoro c’è una crepa, infilarsi in quella crepa, allargarla, rendere le contraddizioni evidente e poi magari trasformarle in una vera divisione della maggioranza, una divisione di interessi, di blocchi sociali, di appartenenze: chi sta col lavoro, chi sta con capitale. Tutto questo, appunto, se ci fosse un’opposizione e non mangiatori di pop-corn e twittatrori compulsivi del “quando c’eravamo noi, caro lei”.
Comments
se la legge scritta avesse valenza sui rapporti reali nella vita reale dei lavoratori in Italia - per non parlare dell'Urss staniniano - staremmo nel paese di Bengodi.
La verità è un'altra: quando i rapporti dio forza sono straordinariamente a sfavore dei lavoratori, come negli ultimi trentacinque anni, le modifiche a leggi infami sono solo palliativi mediatici privi di incidenza nei rapporti reali tra gli imprenditori ed i lavoratori.
Quì non c'entra la buona o cattiva fede di Di Maio e del M5S, quello che manca - e che arriverà all'improvviso - è una mobilitazione vera dei lavoratori, dei precari e dei disoccupati e certi palliativi assolvono al ruolo di dilatare ulteriormente le illusioni che dall'alto degli scranni governativi possano migliorare le condizioni dei proletari. Tutto quà.
Michele Castaldo