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“Qui non cede nessuno”. Un ricordo di Domenico Losurdo

di Salvatore Prinzi

Avevo 16 anni, non avevo avuto bisogno di leggere Marx per occupare la scuola, ma sentivo il bisogno di capirci di più. Troppe letture e ascolti disordinati, mi dissi: partiamo dalle basi. Andai in libreria e comprai il “Manifesto del Partito Comunista”. C’erano tante edizioni, alla fine scelsi quella della Laterza, perché aprendo le prime pagine la mia attenzione era stata catturata da una bellissima introduzione. Era scritta dal signore qui sopra, Domenico Losurdo.

Da quel momento e fino a ieri che Losurdo ci ha lasciati, non ho mai smesso di seguire quello che scriveva. Anche perché era già diventato raro, nei miei anni universitari, trovare un filosofo marxista. Ricordo un pomeriggio all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, avevo vent’anni e lui aveva appena finito una bellissima lezione, avrei voluto dirglielo, ma mi vergognavo già di mio, poi c’era altra gente davanti e non volevo passare per leccaculo, quindi galleggiai lì intorno cinque minuti e poi andai via. Che cosa stupida e inutile, la timidezza.

Ma cinque anni dopo ero a Parigi e per caso venni a sapere che interveniva alla Fête de l’Huma: sarà stata l’ebbrezza dell’estero, sarà stato che non ero più studente, lo fermai e gli feci i complimenti. Il suo libro su Gramsci era stato utilissimo per un saggio che stavo scrivendo, e l’avevo perdonato anche se in un altro libro mi aveva distrutto Nietzsche. Poi c’era la sua “Controstoria del liberalismo” che anche oggi andrebbe fatta leggere in tutte le scuole di ogni ordine e grado…

Di quel fugace incontro ricordo una persona cortese, non priva però di una sua severità, che ora apprezzo. In tempi così frivoli, non è poco dire di qualcuno: è serio.

E poi ci vuole sempre coraggio a dire delle cose scomode. Uno con il suo talento e la sua applicazione avrebbe potuto fare ben altra carriera. Invece parlava dell’URSS e cercava di capire, di difendere, di spiegare documenti alla mano. Non posso dire di essere d’accordo con tutto quello che ha scritto negli anni, ma come non vedere la nobiltà del tentativo, come non apprezzare la capacità di sottrarsi all’ideologia dominante e alle mode intellettuali?

L’ultima cosa che me lo ha reso caro è accaduta qualche mese fa. Quando abbiamo lanciato “Potere al Popolo!”, Losurdo fece una battaglia dentro al suo partito, il PCI, per far sì che aderisse. Molti erano scettici – si capisce: questioni di età, di provenienze -, e non volevano venire dietro a ‘sti matti di un centro sociale. Losurdo invece, pur essendo un compagno “vecchio stile”, aveva capito il senso del nostro tentativo. E scrisse anche un appello per sostenerlo, in cui individuò perfettamente i punti essenziali della nostra azione:

Unire ciò che è stato diviso, ricucendo il tessuto lacerato della società. Ridare organizzazione e rappresentanza alle classi subalterne. Riequilibrare i rapporti di forza nel conflitto politico e sociale. Ridistribuire ricchezza e uguaglianza nel paese…

Ecco, mi resta questa amarezza. Di non averlo incontrato dopo il suo appello, di non avergli detto grazie, di non avergli detto: vedi? sono quel dottorando del 2007, quello studente del 2002, quel liceale del ’98 – alla fine, in qualche modo assurdo, ci siamo ritrovati, vecchi e giovani comunisti. Potete stare sereni, il testimone è passato: qui non cede nessuno.

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