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fattoquotidiano

Decreto dignità, Confindustria stia serena

La dignità è ancora tutta da riscattare

di Marta Fana

“In un’azienda informatica, dove le commesse sono da anni in crescita, siamo tutti precari part time con contratti a termine. Sicuro che tutto questo derivi dalla domanda sul mercato e non dalla ricattabilità che ne deriva?”

È la voce di un lavoratore qualunque che ogni mattina si sveglia e, non avendo rendite da capitale (di qualsiasi forma), è costretto a lavorare, a vendere cioè la propria forza-lavoro a chi invece ha un capitale da far accumulare. Un lavoratore che ogni giorno crea la ricchezza dell’impresa per cui lavora ma deve ancora una volta sentirsi dire che è l’azienda a creare il suo lavoro, a dargli un’opportunità.

Se ne fosse mai dimenticato, Confindustria ha pensato bene di ripeterlo nella sua aspra nota al decreto dignità, sentenziando che “sono infatti le imprese che creano il lavoro”, agitando niente più che un ricatto “il risultato sarà di avere meno lavoro, non meno precarietà”. Precarietà o muerte, insomma.

Dove a far da cassa di risonanza la dirigenza del Pd schierata: da Carlo Calenda, l’ex-ministro dello sviluppo economico secondo cui l’Italia è un paese competitivo perché ha laureati che costano meno dei colleghi francesi o tedeschi, fino a Paolo Gentiloni, preoccupato da un possibile calo degli investimenti.

Com’è noto, gli investimenti in Italia vivono una dinamica strutturalmente in declino proprio perché governi ideologicamente simili al suo hanno preferito far risparmiare le imprese sul costo del lavoro, rendendo inutile sostenere il costo degli investimenti per competere.

E allo stesso tempo hanno da sempre ridotto il peso fiscale sulle imprese – per i più ostinati si consiglia di leggere questo rapporto Istat – permettendo loro di reinvestire non in economia reale bensì lì dove la rendita era assicurata (finanza, immobiliare, e perché no, evasione fiscale).

Un atto intimidatorio e gratuito quello di Confindustria dal momento che il citato decreto non scalfisce lo strapotere delle imprese nella gestione delle relazioni industriali. Non lo fa quando reintroduce la causale ai contratti a termine e anche a quelli in somministrazione solo dopo i primi dodici mesi di durata; infatti solo il 22% e l’1% rispettivamente di tali contratti hanno durata superiore ai 365 giorni. I datori di lavoro possono tranquillamente continuare a far rotare i lavoratori, uno dietro l’altro, con la promessa che un giorno arriverà la stabilizzazione, saranno precariamente stabili.

Avranno guadagnato niente poco di meno che un contratto a tutele crescenti, quello introdotto dal Jobs Act che monetizza il diritto al lavoro con qualche mese di indennità pagata. Ma anche in questo caso il decreto dignità non colpisce al cuore del Jobs Act restituendo ai lavoratori la tutela reale, il diritto al lavoro: aumenta eventualmente il costo dell’indennità. Neppure di fronte a tanto moderatismo e considerando quanto le aziende hanno risparmiato in questi anni sul costo del lavoro, grazie agli sgravi fiscali che hanno ormai toccato i 20 miliardi, restituire qualcosa ai lavoratori appare come un affronto per chi è stato abituato a ricevere e non a dare. Non una parola fin qui sulla drammatica situazione dei salari in Italia, ormai legalmente tendenti allo zero. Se non quell’arma a doppio taglio di un salario minimo che individualizza più che allargare le maglie della protezione erga omnes dei contratti collettivi nazionali, indeboliti in quel 1984 e poi definitivamente nel 1993. Noi sappiamo che oggi è addirittura legale per un’impresa assumere attraverso un indegno tirocinio extra curriculare chiunque, giovani e meno giovani, lavoratori con e senza esperienza. Intere generazioni prigioniere di quanti pur di non condividere i propri profitti evocano scenari catastrofici. Si fa presto a trovare una categoria dopo l’altra.

Si pensi a quelle decine di migliaia di insegnanti tenute in ostaggio da un sistema che ha prima chiesto di riaffrontare un anno di esami (i fatidici 24 cfu) e poi di attendere da tirocinanti per tre anni, guadagnando ben al di sotto della soglia di povertà. Sono i tanti che incontriamo a servire nei bar, a far da baby sitter, da insegnanti privati (per chi se li può permettere). E’ questo l’esercito industriale di riserva quello che può essere mantenuto sotto costante ricatto, dentro e fuori il mercato del lavoro. Una voce che ancora stenta a riconoscersi come univoca, a cercare i propri alleati tra simili: gli sfruttati. È da questa alleanza che una forza politica può mettere in discussione l’attuale assetto di potere: la dignità rimane una conquista collettiva non un dono dall’alto, una elemosina.

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