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L’Italia a Draghi, il “Monti 2.0” pronto per dopo l’estate

di Mauro Bottarelli

Non conviene che il Governo italiano cada sul Def. La vera emergenza per richiamare Mario Draghi deve scattare dopo l’estate

Temo che ormai stiano scorrendo i titoli di coda. Lenti, accompagnati da una bella canzone che ti fa indulgere seduto sulla poltrona del cinema invece di uscire subito, ma, pur sempre, meri titoli di coda. Les jeux sont faits, direbbero al casinò. E, come volevasi dimostrare, con timing ampiamente anticipabile: arriva il Def, arrivano le elezioni europee e tutto comincia a sfarinarsi alla luce del sole, come neve a primavera appunto. E non servono tante prove per capire che, ormai, è solo questione di tempi e modi, basta l’ultima, scoordinata mossa del ministro Di Maio a confermarlo. Il quale, volendo utilizzare una metafora mutuata dai fumetti, ha fatto squillare il telefono rosso di Batman, quello delle emergenze sul tavolo della bat-caverna. Perché ci vuole davvero molta buona volontà per credere che il leader 5 Stelle abbia preso coscienza soltanto ora del fatto che all’interno di Alternative fur Deutschland esista un’esigua minoranza di esponenti con simpatie naziste. In Germania lo sanno tutti, da tempo. E oltre il 10% degli elettori pare non dar troppo credito o peso alla cosa, stante i risultati e i sondaggi. Ci sono stati scandali finiti sui giornali, allontanamenti, addirittura fronde interne e un cambio della leadership, con Frauke Petri che ha detto addio proprio perché contraria alla deriva estremista presente in alcune aree del movimento. Lo sanno anche i sassi. Ragione di più, dovrebbe ben saperlo chi fa politica di lavoro e con ruolo apicale.

E invece, il vice-premier salta fuori solo ora – senza vergogna, né rispetto -, alla vigilia della kermesse sovranista della Lega e delle europee e scomoda la parola da lettera scarlatta: olocausto. Capite da soli che quando si arriva a tanto, significa che è terminata non tanto la pazienza politica, quanto la volontà di far proseguire la pantomima. E soltanto un disattento o un interessato nel giudizio potrebbe fingere di non accorgersi di come quella tardiva presa d’atto rispetto alle frequentazioni europee dell’alleato sia, casualmente, saltata fuori al ritorno di Luigi Di Maio dagli Usa. Nella fattispecie, dopo l’incontro con il potentissimo consigliere per la Sicurezza nazionale, John Bolton. L’uomo della guerra, il regista dell’operazione Guaidó in Venezuela, per capirci. E dopo le intemperanza filo-Maduro del novello falegname Di Battista, il buon ministro del Lavoro avrà dovuto cospargersi per bene il capo di cenere per ottenere udienza e attenzione.

Anche perché, stranamente, da qualche giorno circola un’inchiesta giornalistica riguardo la penetrazione russa nella politica italiana: ovviamente, i due bersagli del Cremlino al fine di operare come cavalli di Troia in Italia sarebbero proprio Lega e M5S. Per ora nulla di eclatante, poca eco mediatica. Ma l’importante era far arrivare il messaggio prima delle europee: qualcosa, se vogliamo, può saltare fuori. Magari senza particolare costrutto, poca “ciccia”. Ma non importa, ciò che conta è gettare guano nel ventilatore nel pieno della campagna elettorale: il Russiagate, alla fine, non è finito in gloria, ovvero con Donald Trump scagionato da ogni accusa? Eppure, ha garantito alla politica americana un bel giocattolino di distrazione di massa per due anni. Figuriamoci cosa accadrebbe in Italia, dove si costituiscono Commissioni d’inchiesta anche per le file ai caselli autostradali a Ferragosto.

È tutta una colossale pantomima che sta per giungere alla fine. Peccato che ci sia un effetto collaterale non secondario, né ignorabile: sia la Lega che M5s, operando al Governo, hanno toccato materiali infiammabili ed esplosivi. E lo hanno fatto con l’imperizia di chi crede che sia tutto facile, tutto bello, tutto conquistabile e gestibile a colpi di selfie e voti online. Temo che John Bolton abbia pesantemente riportato alla realtà il vice-premier grillino. Il quale, non a caso, per polemizzare a freddo con l’alleato, ha sentito la necessità di sganciare l’arma atomica del negazionismo degli alleati europei. Roba che non si usa tutti i giorni. Poi, l’escalation di accuse incrociate di queste ore, prodromica a non perdere a faccia di fronte alla Re nudo del Def, alla fine delle promesse economiche da televendita di pentole antiaderenti.

E non pensiate che sia solo una questione italiana, siamo davvero al primo round del redde rationem. Se infatti nelle prossime 48 ore qualcuno non tirerà fuori dal cilindro il proverbiale coniglio, la Gran Bretagna scoprirà di essersi suicidata in maniera plateale: sarà infatti il Vertice europeo straordinario di domani e dopo a decidere le sorti del Brexit, poiché a fronte della richiesta di secondo rinvio inviata da Londra, occorrerà l’unanimità dei 27 Paesi membri per garantirla fino al 30 giugno prossimo. Se soltanto una nazione dirà di “no”, formalmente il giorno dopo – 12 aprile – il Regno Unito dovrà uscire senza accordo, come millantato non più tardi di due settimane fa. Lo credete possibile?

Difficile, sarebbe uno shock poco gestibile. A meno che chi sta davvero al timone delle cose che contano non abbia bisogno di una Lehman europea, allora il discorso cambierà. In caso contrario, Londra con ogni probabilità dovrà accettare il rinvio lungo proposto da Donald Tusk e non quello fino al 30 giugno proposto dalla May: quasi sicuramente, il 23 maggio i britannici dovranno allora votare per le europee. E se poi escono davvero, quei 73 seggi che fine faranno? Il trappolone pare pronto a scattare.

E la Grecia, tanto amata dai sovranisti di vario genere e grado, una sorta di 50 sfumature di pietismo e odio verso la Germania? Nel weekend, mentre qui la sinistra non aveva nulla di meglio da fare che affidarsi al 15enne di Torre Maura per evitare di ammettere la propria inutilità ormai ontologica (da Greta a Rami a Simone, tutti parvenu adolescenziali da disperazione, tutti meteoritici nell’ascesa come nella sparizione), in Grecia ci sono stati violentissimi scontri fra migranti e polizia, scatenati da una falsa notizia riguardo la riapertura della rotta balcanica. Ovviamente, migliaia di persone bloccate in Grecia hanno cominciato ad agitarsi e premere per poter aggiungere i confini e cominciare il loro viaggio della speranza verso l’Europa centrale. Gas lacrimogeni, botte, lanci di pietre. Tutto falso, una palese fake news. Messa in giro da chi? Con ogni probabilità, dallo stesso governo Tsipras. Per il quale è alle porte il baratro della crisi, legata guarda caso al settore bancario.

E stavolta sarà un po’ difficile dare la colpa all’Ue assassina e affamatrice di popolo: sono gli istituti di credito ellenici a essere disfunzionali, incapaci di tornare profittevoli nemmeno dopo la riammissione del Paese al mercato dei capitali, ai salvataggi e agli haircuts. Quindi, di colpo, anche i compagni greci utilizzano l’immigrazione come un Salvini qualsiasi per sviare l’opinione pubblica dai problemi strutturali del Paese, visto che per quanto il copione sia consolidato, l’accusare perennemente la Germania per ogni problema interno non attacca più. La gente è stanca. Di Tsipras e delle sue promesse da marinaio, però. E a fine maggio, nelle urne europee, potrebbe recapitargli un messaggio molto chiaro.

In tal senso, poi, come leggere se non traducendolo con un chiaro mea culpa per il pasticciaccio della Nuova Via della Seta – gestito in toto da un sottosegretario leghista – e un tentativo di riappacificazione con Washington, la sparata anti-turca di Matteo Salvini nel manifesto sovranista per le europee, nel quale si avanza l’ipotesi di blocco totale dei fondi Ue verso Ankara e lo stralcio definitivo della sua pratica di ingresso in Europa? Proprio ora che Erdogan è finito nel mirino Usa per l’acquisto di batterie anti-missile russe, pur essendo membro Nato: prima la speculazione pre-elettorale contro la lira turca, poi la minaccia di non consegna degli F-35. E ora, la minaccia salviniana, nonostante la palesi simpatie filo-Putin del vice-premier. Una mossa che appare decisamente strana e potenzialmente controproducente per un uomo politico che ha basato il 90% della sua azione e del suo consenso sulla lotta all’immigrazione, visto che proprio i soldi Ue alla Turchia garantiscono il “tappo” al flusso dei migranti verso la rotta balcanica. La stessa che è tornata ad agitare anche la Grecia, appunto. In base a una falsa notizia, di fatto l’ennesimo segnale in codice.

Certo, dalla sua il ministro dell’Interno può rivendicare un’innegabile coerenza sulla questione turca, alla luce della quale però occorrerebbe allora spiegare le barricate poste in essere per garantire all’ex ministro Savona proprio il ministero dei Rapporti con l’Ue – dopo il no del Quirinale al Mef -, visto che l’attuale numero uno della Consob nel suo fondamentale testo sulla politeia di riforma dell’Europa, quello che Mario Draghi usa per non far traballare la gamba del comodino, era apertamente favorevole all’ingresso di Ankara. Tout se tient. E vogliamo parlare dello strettamente connesso caos libico, casualmente scoppiato proprio ora, dopo il rinsaldarsi dell’alleanza fra il generale Haftar e l’Arabia Saudita, atto a sua volta seguito alla minaccia di Ryad verso gli Usa di uccidere del tutto il concetto di petrodollaro nel commercio di greggio?

Eh già, i conti di Aramco, il gigante petrolifero statale saudita, sono stati stellari (e un po’ di caos in Libia fa lievitare le quotazioni del barile, dettaglio tutt’altro che trascurabile e secondario), altro che Fang, e ora il Regno presenta il conto a Washington, dopo aver presentato un bell’assegno di risarcimento alla famiglia del giornalista smembrato nel suo consolato di Istanbul. Assegno che la famiglia ha incassato volentieri e senza fare un plissé, alla faccia della voglia di giustizia e della ricerca di verità (oltre che delle polemiche da barzelletta sul cda della Scala). Insomma, dopo che quello in Yemen ha perso di intensità, l’Arabia necessità di un altro conflitto proxy per riaffermare il suo potere di influenza sull’area, oscurato sia in Siria che in sede Opec da troppi mesi di scandali e protagonismo iraniano. E, forse, negli Usa qualcuno potrebbe aver dato luce verde alla scelta saudita, leggendo nella mossa la possibilità di inviare un ulteriore messaggio in codice all’Italia, dopo lo sgarbo del memorandum con la Cina.

Detto fatto, gli Usa invece che comportarsi da gendarme del mondo, hanno subito ritirato i militari dalla Libia. Come dire, fatti vostri. Peccato che lo stesso lo abbia fatto, con il personale civile, anche l’Eni. Quando vi dicevo che non bastava gestire la Libia ingraziandosi quattro capibastone e la Guardia costiera per bloccare gli sbarchi a fine propagandistico, mi sbagliavo forse? E attenzione, perché oggi in Israele si vota e, come ci avevo detto, con buone probabilità l’azzardo politico di un Bibi Netanyahu in modalità “fuga dalla magistratura” potrebbe pagare. Garantisce anche in questo caso Washington, visto che alla vigilia del voto il numero uno uscente ha addirittura promesso, in caso di rielezione, l’annessione della Cisgiordania. Con il placet del Dipartimento di Stato.

Siamo nel pieno di un rimescolamento geopolitico e di equilibri epocale, roba da 1989. O forse peggio, vista la caratura spesso imbarazzante dei protagonisti, rispetto ai giganti politici dell’epoca. E, temo, l’Italia abbia detto troppi “sì” elettoralistici negli ultimi mesi, sovrapponendo interlocutori agli antipodi fra loro: ora, tocca scontentare qualcuno. E il conto potrebbe essere molto salato, per chi arriverà dopo il Governo giallo-verde. Quest’ultimo cadrà sul Def? Forse no, teoricamente infatti converrebbe a tutti far arrivare gli attori in scena fin dopo l’estate, salvo escalation da gestire in maniera emergenziale. D’altronde, nessuno ha grosse aspettative da chi è chiamato a ricostruire sulle macerie: basta che mi dia qualcosa da mangiare, da bere e un po’ di speranza per ripartire.

E l’Italia quell’uomo dal profilo evoliano ce l’ha, pronto a entrare in azione con l’arrivo dell’inverno. Deve passare l’estate, ce lo dice anche questo grafico finale. Il quale ci conferma plasticamente come la comunicazione conti più dei fatti, nell’epoca dei social. Pone infatti in comparazione l’andamento del Vix, l’indice di volatilità dei mercati azionari con il numero (crescente o in diminuzione) di notizie incentrate sul famoso accordo commerciale fra Cina e Usa, ovvero il suo approssimarsi positivo o il peggioramento del dialogo al riguardo fra le parti.

Come vedete, basta sparare qualsiasi idiozia votata al pessimismo o all’ottimismo per pilotare il Vix a proprio piacimento: serve il crollo? Inondazione di news negative. Serve l’entusiasmo a Wall Street? Millantiamo l’intesa a portata di mano. E quale è stata l’ultima versione della storiella venduta da Trump? Ottimismo, addirittura il Financial Times parla di un accordo scritto e concordato al 90%. Manca però il 10% per cantare vittoria e indirizzare le sorti del mondo verso la ripresa. Manca, però, anche un intervento ancora più netto delle Banche centrali, casualmente richiesto da Trump proprio venerdì scorso, in contemporanea con l’annuncio dei progressi sul nodo commerciale. “Se la Fed tagliasse i tassi, l’economia Usa decollerebbe come una navicella spaziale. Occorre smetterla con la politica di contrazione, serve una politica monetaria espansiva”, ha dichiarato il Presidente alla stampa, confermando che incontrerà Xi Jinping, ma “più avanti”, giocando la carta strategica dell’indeterminazione, del sine die. Pare proprio che occorra ancora un po’ di caos e l’estate, con i suoi bassi volumi sui mercati e la politica in infradito e con la guardia abbassata, è l’ideale. Magari, per arrivare al meeting di Jackson Hole di fine agosto con un annuncio clamoroso da parte di Jerome Powell che sancisca il trionfale avvio ufficiale della campagna elettorale per le presidenziali Usa del 2020. E che srotoli il tappeto rosso per l’arrivo di Mario Draghi in versione salvatore della patria, modalità Monti 2.0. Altro che House of cards.

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