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La Russia ed il prossimo “gold standard” euroasiatico

di Federico Dezzani

Tra le misure adottate dalla Russia in risposta alla sanzioni occidentali, spicca sopratutto la decisione di ancorare il rublo ad una quantità fissa d’oro. Il ritorno della Russia al gold standard si propone, nell’immediato, di sostenere la valuta ma, in prospettiva, ha anche obiettivi di medio termine: creare un sistema finanziario alternativo al dollaro ed alle sue cicliche destabilizzazioni.

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L’oro della Moscova

Ogni guerra sistemica o egemonica è anche una guerra tra sistemi finanziari opposti. Pochi ricordano, infatti, che la Seconda Guerra Mondiale sia stata anche uno scontro tra concezioni finanziarie divergenti: da una parte c’erano le nazioni “plutocratiche-democratiche” che, forti della loro ricchezza accumulata e della loro industrializzazione, controllavano quasi il 90% delle riserve auree mondiali (solo gli USA ne detenevano più della metà) ed erano le paladine del gold standard. Dall’altra, erano le nazioni “proletarie-totalitarie” che, detenendo una quantità irrisoria di oro, erano passate ai circuiti monetari ed al sistema del clearing per gli scambi commerciali.

Gli economisti di Germania, Italia e Giappone sognavano così un dopoguerra in cui la “moneta-lavoro”, fondata sulla produttività delle loro industrie, avrebbe scacciato la moneta aurea, rendendo inutile le vaste riserve d’oro detenute dagli Stati Uniti, ed eliminato le cicliche speculazioni ordite dagli anglosassoni grazie al controllo dei metalli preziosi.

La vittoria angloamericana riportata nel 1945, sancì il ritorno ad un nuovo tipo di “gold standard”, il vecchio sistema su cui si era basata la prima globalizzazione. Il dollaro sarebbe stata la valuta di riferimento per gli scambi internazionali e sarebbe stato convertibile in oro: fu il cosiddetto “dollar exchange standard”. Concepito nel quadro degli accordi di Bretton Woods, il “dollar exchange standard” avrebbe avuto vita molto breve: la perdita di competitività dell’industria americana, unita agli oneri militari americani sempre maggiori nel mondo  e alla volontà di liberare il demone della speculazione, avrebbe indotto il presidente Nixon a dichiarare, nel 1971, la sospensione della convertibilità del dollaro in oro. Il demone della finanza angloamericana era finalmente libero di immettere una quantità illimitata di moneta, alimentando il solito ciclo “crescita-bolla dei mercati-stretta monetaria-recessione”, senza più alcun vincolo fisico. O meglio, con un vincolo molto più flessibile e agevole. Per “vendere” il dollaro sui mercati internazionali, fu infatti concepito il sistema del petrodollaro, lanciato con la guerra del Kippur del 1973: il folle rialzo del greggio (che aumentò di cinque volte in pochi mesi) creò un’enorme domanda di dollari, convogliati verso le petro-monarchie arabe e quindi reinvestiti sulle piazze finanziarie di Londra e New York.

Da allora, il disprezzo degli anglosassoni per l’oro, certificato dalla celebre definizione datagli da John Maynard Keynes come “relitto barbarico”, è visibile ad acclarato: riallacciare la moneta ad un bene fisico ne ridurrebbe infatti la capacità d’emissione, rendendo impossibile alimentare le bolle speculative sempre maggiori che hanno spinto, in questi anni, i listi americani verso livelli stratosferici. Attorno al 2000, la Bank of England, che era stata a lungo il forziere dell’oro per eccellenza, si liberò di buona parte delle sue riserve e, ora, ne detiene appena 300 tonnellate. Gli USA, che posseggono ancora sulla carta circa 8.000 tonnellate, figurano formalmente ancora come i primi detentori, ma l’odio verso questa antica forma di ancoraggio della moneta è testimoniato dalla cicliche invettive di un finanziere-simbolo come Warren Buffett. Col dollaro agganciato all’oro, sarebbe infatti stato impossibile alimentare la bolla delle bolle che il governatore della FED, John Powell, si appresta a fare scoppiare col pretesto della lotta all’inflazione. Bolla che servirà ad innescare, dopo la pandemia e la guerra russo-ucraina, l’ennesima ondata destabilizzante in Europa, Africa ed Asia.

L’oro, sinonimo di beni reali e di industria, torna così alla sue terre d’origine, quegli spazi euroasiatici dove era impiegato per fabbricare gli ammirabili gioielli-amuleti degli Sciti e alimentava le leggende di potere e dominio mondiale, tramandate dai popoli germanici che vivevano lungo il Reno. La decisione di Mosca di ancorare il rublo all’oro (5.000 rubli per grammo) va ben oltre, infatti, la semplice necessità di sostenere la valuta in risposta alle sanzioni imposte dall’Occidente a guida angloamericana. Man mano che la guerra egemonica si avvicina, un nuovo scontro tra sistemi finanziari si palesa, uno scontro in cui la potenze continentali si propongono come le paladine di una moneta agganciata all’oro (poco importa se questa moneta sia cartacea o elettronica) contro una moneta riproducibile a volontà, senza alcun ancoraggio alla realtà, fonte soltanto di cicliche speculazioni e crash di borsa. Con 2.300 tonnellate d’oro, la Russia è la quarta detentrice al mondo d’oro; la Cina, con 1.950 tonnellate, viene subito dopo ma, essendo Pechino la prima produttrice mondiale d’oro, è lecito supporre che, nel corso degli anni, abbia accumulato riserve ben maggiori, senza farne troppa pubblicità. La Cina è, infatti, una grande detentrice di debito pubblico americano ed un repentino crollo del dollaro (in tempi di pace) non sarebbe certamente nel suo interesse. Un nuovo sistema finanziario, basato su un paniere di poche valute regionali (il rublo, lo yuan, la lira turca?) ancorate all’oro, è quindi in nuce.

All’orizzonte si profila dunque anche uno scontro tra monete: quella illimitata e speculativa delle potenze marittime anglosassoni e quella finita e produttiva delle potenze continentali euroasiatiche. In Europa occidentali solo due potenze, in virtù delle loro riserve auree e dei loro attivi della bilancia commerciale, sarebbero in grado di unirsi nell’immediato al nuovo “gold standard” concepito da Russia e Cina: questi due Paesi sono Italia e Germania che, non a caso, figurano anche tra i maggiori perdenti della guerra promossa dagli angloamericani e dai francesi in Ucraina.

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