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manifesto bologna

Quando David incontra David

Foster Wallace, Harvey e il neoliberismo

di Vincenzo Maccarrone

Cosa c’entra il grande scrittore americano David Foster Wallace (“Infinite Jest”, “Il Re Pallido”) con David Harvey, geografo e sociologo marxista di fama internazionale (“La crisi della modernità”, “L’enigma del capitale”)? A collegarli c’è l’analisi della società americana ai tempi dell’avvento di Reagan, un evento considerato da Harvey l’inizio della controrivoluzione neoliberista.

Nel suo “Breve storia del neoliberismo” (edito in Italia da Il Saggiatore), di cui avevo parlato in un precedente articolo, Harvey cerca di spiegare come sia avvenuto il passaggio dal capitalismo “controllato” – che aveva caratterizzato la maggior parte dei paesi occidentali nel secondo dopoguerra – al neoliberismo.

Se è vero che in alcuni paesi, come il Cile o successivamente l’Iraq, il neoliberismo si è affermato con la violenza, in altri paesi (come UK o USA) politici che sostenevano idee neoliberali hanno vinto regolari elezioni, spesso con maggioranze ragguardevoli. Com’è accaduto che alcune idee inizialmente sostenute da una ristretta élite siano divenute tanto popolari? Harvey lo spiega tramite le due categorie gramsciane di “egemonia” e “senso comune”. Tramite il controllo del senso comune, che Gramsci nei “Quaderni dal carcere” definisce come “una convinzione disgregata, incoerente, inconseguente, conforme alla posizione sociale e culturale delle masse di cui esso è filosofia” , è possibile raggiungere l’egemonia.

 

Tramite l’uso del senso comune, le cui maggiori componenti sono date dalla religione, la cultura e le paure (ad esempio del comunismo), i sostenitori del neoliberismo furono così in grado di raggiungere l’egemonia e legittimare tramite essa il potere economico di un ristretto gruppo di élite.

Secondo Harvey, una delle componenti ad aver avuto un ruolo importante in questo processo è stata l’enfasi sui diritti individuali e le libertà, unita ad una campagna contro la “burocrazia” e lo statalismo. Questo processo coinvolse, seppur in maniera distorta, alcuni degli ideali propagandati dai movimenti del ’68, fortemente influenzati dal desiderio di una maggiore libertà personale.

Come afferma Harvey “per quasi tutti coloro che erano coinvolti nel movimento del ’68, lo stato intrusivo era il nemico e andava riformato. E su questo i teorici neoliberisti potevano facilimente essere d’accordo” [1]. E ancora: “catturando gli ideali di libertà individuale e volgendoli verso l’interventismo e le pratiche regolatorie statali, gli interessi della classe capitalista potevano sperare di proteggere e perfino rafforzare la propria posizione. Il neoliberismo era ben attrezzato per questo compito ideologico. Ma doveva essere sostenuto di una strategia pratica che enfatizzasse la libertà della scelta del consumatore, non solo rispetto a prodotti particolari, ma anche rispetto a stili di vita, modalità di espressione e un ampio ventaglio di pratiche culturali. La neoliberalizzazione richiese politicamente ed economicamente la costruzione di una cultura neoliberista, populista e fondata su logiche di mercato, di consumismo differenziato e libertarianesimo individuale” [2].

E qui entra in gioco l’altro David, David F. Wallace. Nel suo “Il Re Pallido”, pubblicato postumo nel 2011, Wallace si cimenta (e riesce) nell’impresa titanica di rendere interessante la vita e gli accadimenti all’interno dell’agenzia delle entrate USA. In uno dei capitoli del romanzo (ambientato nel 1985), Wallace mette in atto un bizzarro dialogo fra alcuni degli impiegati dell’agenzia, che discettano di politica in ascensore. Il risultato è un’analisi soprendentemente simile a quella fatta da Harvey.

A pagina 187 del romanzo, infatti, sentiamo un personaggio dire: “Ma non stiamo parlando della realtà intrinseca delle corporazioni. Stiamo parlando della faccia e della voce che i pubblicitari delle corporazioni hanno cominciato a usare alla fine degli anni Sessanta per convincere il consumatore a pensare di aver bisogno di tutta quella roba. Comincia dicendo che la psiche del consumatore è incatenata al conformismo e che il modo per liberarsi dal conformismo non è fare certe cose ma comprare certe cose. Così comprare una certa marca di vestiti, di bevanda, di auto o di cravatta diventa un gesto che assume lo stesso significato ideologico di portare la barba o protestare contro la guerra”.
E il capitolo si conclude a pagina 193 nel seguente modo: “(…) in altre parole avremo come presidente un Ribelle simbolico (Reagan, ndr) contrario al suo stesso potere la cui elezione sarà garantita da macchine per il profitto senz’anima e disumane che si impossesseranno della vita civica e spirituale americana convincendo gli americani che la ribellione contro la vita corporativa disumana e senz’anima consisterà nel comprare prodotti da corporazioni che fanno di tutto per rappresentare la vita societaria come vuota e senz’anima”.

Una convergenza di visioni che non sorprende, dato che già Foster Wallace aveva già lasciato trasparire un’analisi critica dell’avvento dell’individualismo basato sul consumismo nel suo capolavoro, “Infinite Jest”. L’ennesima dimostrazione della notevole capacità di lettura della società nordamericana da parte di uno dei maggiori scrittori degli ultimi decenni.

Note
[1] Harvey, D. (2005), “A Brief History of Neoliberalism”, pg. 42, traduzione mia.
[2] Harvey, D. (2005), ibidem, pg. 42, traduzione mia, enfasi mia.

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