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Keynes o Hayek?

Recensione al libro di Nicholas Whapshott

di Tommaso Alberini

Keynes o Hayek? Sullo scontro che ha definito l’economia moderna, in realtà, non si trova granchè in giro. Citazioni sparse e allusioni anonime, più che altro. Sul web, però, gira un video di Econstories che ha già raggiunto i 5 milioni di visualizzazioni, e il libro dell’inglese Nicholas Whapshott ha fatto il giro del mondo: in Italia è stato pubblicato da Feltrinelli, l’ultima ristampa risale a marzo 2015. Importante che se ne parli, dunque, vista l’influenza che il dibattito pluridecennale ha avuto (e ha tutt’ora) sulle nostre vite. Importante soprattutto vista la scarsa conoscenza diffusa sul tema. Di Keynes, più o meno, abbiamo tutti sentito parlare, ma Hayek? Chi è questo sconosciuto? E soprattutto: davvero il loro dibattito è stato così importante? Sembrerebbe di sì, anche se una delle poche pubblicazioni non accademica al riguardo è proprio “Keynes o Hayek” di Whapshott, giornalista del The Times e The New York Sun. I protagonisti dell’opera, come è facile intendere, sono il “brillante e carismatico” Keynes, inglese, paladino di Cambridge e fondatore della moderna macroeconomia, e il “pignolo e caparbio” Hayek, austriaco trapiantato alla London School of Economics, eroe della vecchia microeconomia e, pertanto, del liberismo. Il libro di Whapshott è essenzialmente storico, ma non tralascia certo i dettagli specificamente economici, la cui comprensione, forse, richiede una pregressa conoscenza minima dell’ economia politica.

La sua narrazione, piuttosto agevole, comincia in medias res: il giovane Keynes è membro del Partito liberale di Lloyd George che nel 1919, terminata la Grande guerra, lo porta con sé alle trattative di pace di Versailles, vista la fama già solida di economista pragmatico. Le vessazioni vendicative dei vincitori nei confronti della Germania preoccupano Keynes che, inascoltato dal premier, pubblica Le conseguenze economiche della pace”.

Col senno di poi può essere considerata un’inquietante profezia: egli sostenne che un paese da cui si pretende un risarcimento che non può ripagare viene spinto al disastro economico e alla disoccupazione di massa, l’unico esito possibile è il totalitarismo. L’ascesa di Hitler e gli eventi successivi gli diedero ragione. Contemporaneamente, il giovane Hayek torna dal fronte nella sua Vienna che troverà devastata dalla guerra e dall’iperinflazione galoppante: bruciati così tutti i risparmi della sua famiglia, un tempo agiata, Hayek riesce ad emigrare grazie ad una borsa di studio.

Ecco spiegate, in parte, le ragioni che portarono i due celebri economisti a scontrarsi lungo tutto il XX secolo: Keynes era convinto che il male economico più grande fosse la disoccupazione, Hayek riteneva fosse invece l’inflazione. Combattere l’una, o l’altra, nell’ottica di ciascuno doveva essere la priorità di ogni governo. E fecero di tutto affinchè lo fosse. Keynes divenne presto il paladino dell’interventismo statale, Hayek rimarrà tutta la vita uno strenuo difensore del laissez faire. Nel 1936 l’inglese pubblica la sua opera più celebre, la “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta”, destinata a diventare la bibbia dei ‘progressisti’ per i successivi quarant’anni. A partire da un riluttante Roosevelt, col suo New Deal, l’idea keynesiana che la disoccupazione si dovesse curare con la spesa pubblica in deficit, opere pubbliche come se piovesse e tassi d’interesse irrisori divenne il mantra di tutte le successive amministrazioni, democratiche o repubblicane che fossero. Eisenhower fu il primo conservatore keynesiano, l’ultimo fu Nixon, “il più socialista dei presidenti americani”, secondo Milton Friedman che ne fu consigliere (inascoltato). Fu la prova che quando un’idea si diffonde cosi capillarmente, è difficile che un suo controaltare ideologico emerga sul serio dalle nebbie minoritarie.

L’avvento della stagflazione, mostro bicefalo con corpo di stagnazione e testa d’inflazione (fino ad allora ritenuti eventi incompatibili), segnò il declino del keynesismo, e la così detta “rivoluzione neoconservatrice” trovò campo libero sulle due sponde dell’Atlantico.

Ronnie Reagan in USA e Maggie Thatcher nel Regno Unito ribaltarono tutto ciò in cui si era creduto fino ad allora. “E’ questo ciò in cui crediamo!” gridò la lady di ferro sbattendo sul tavolo del consiglio dei ministri una copia de “La società libera”, seconda opera più famosa di Hayek dopo “La via della schiavitù”. Quest’ultimo scritto, datato 1944, era inizialmente passato inosservato, per poi diventare un manifesto del liberismo moderno: la tesi centrale era che l’intervento governativo in economia fosse direttamente proporzionale alla crescita dell’autoritarismo politico, che in ultima istanza avrebbe portato ad un “totalitarismo strisciante”. Niente di così nuovo in realtà: seppure in altri termini, lo aveva già detto Alexis de Tocqueville in “La democrazia in America”, cento anni prima. Fu con “La società libera” che Hayek si spinse all’estremo, auspicando un mondo privo di qualsiasi azione statale che non fosse di difesa militare o, e non sarete biasimati se lo trovate incoerente, di assistenza sanitaria gratuita e universale correlata a sistemi di garanzia economica contro la disoccupazione. Il resto, persino l’erogazione di moneta, secondo l’austriaco doveva essere riposto in mano privata.

Interessante il passaggio d’identità di Hayek da economista (nelle cui vesti non riscosse mai troppo successo, nonostante il Premio Nobel nel 1974) a filosofo politico, viste le giustificazioni quasi prettamente etiche alle proprie posizioni. La sua teoria della conoscenza sta alla base di tutto il suo pensiero: dal momento che nessuno è in grado di conoscere singolarmente tutto lo scibile, data la vastità dei punti di vista che si dovrebbero considerare per poter decidere secondo una verità assoluta, nessuno può pretendere di decidere correttamente al posto di altri, tanto meno lo Stato. L’unico modo per ovviare a questo problema è un sistema in cui ognuno valuta da sé le circostanze che lo riguardano e decide di conseguenza, nel limite della legge. Quel sistema, secondo Friedrich Von Hayek, è il mercato, nella sua ottica il modello di democrazia partecipativa più efficiente finora elaborato dall’uomo.

Nuovo secolo, nuova crisi: dopo vent’anni di oblio lo scoppio della bolla finanziaria in USA e il contagio mondiale che ne deriva riportano in auge l’interventismo keynesiano, che sembra inizialmente riuscire a tamponare qua e là le ferite, ma presto si rivela inefficace nel rimarginarle completamente. Oggi l’establishment occidentale, e non solo, sembra aver scelto un “centrismo” poco efficiente fatto di austerity e allentamento monetario.

Alla fine però non è chiaro chi, tra i due titani, abbia avuto la meglio. Whapshott, la cui posizione personale è di difficile individuazione, non risponde. In fondo, ciò che traspare dall’opera, è che sia Keynes che Hayek lottarono fino alla fine per far sopravvivere il mondo capitalista che entrambi amavano, con le sue imperfezioni e le sue ingiustizie: applicarono metodi differenti per raggiungere fini molto simili. Nemici giurati del socialismo, avanzarono sicuri con tattiche opposte. Keynes voleva avvicinarsi all’avversario per guardarlo negli occhi mentre moriva, Hayek, da austro-ungarico riservato qual era, se ne voleva allontanare il più possibile. Vista come è andata la storia, si può dire che lo sforzo parallelo abbia fatto il suo corso. E tuttavia le sorti dell’economia mondiale rimangono incerte, specie viste le ricette affastellate e spesso contraddittorie che vengono proposte e applicate.

In definitiva,“Keynes o Hayek” è una lettura piacevole e interessante, che tuttavia lascia l’amaro in bocca e porta a riflettere: vogliamo davvero continuare ad applicare i loro paradigmi economici a cicli alterni? Servirebbero nuove idee adatte ai tempi, ma l’orizzonte appare sgombro. Per ora.

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