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Lo stormo snobbato di cigni neri che popola le catene globali di approvvigionamento 

di Fabrizio Russo

containerIn retrospettiva sembra oggi impossibile che le principali autorità monetarie ed una pletora di osservatori mainstream qualificati non siano riusciti a cogliere, in un tempo peraltro ragionevole e quindi “per tempo”, la progressiva evoluzione delle condizioni di scenario delle principali economie occidentali da sostanzialmente deflattive – caratteristica propagata con forza pervasiva dal lungo processo di globalizzazione – a fortemente inflation-friendly.

Di cosa stiamo parlando? Della serie di eventi che si è stratificata nel giro di una decina di trimestri! Elenchiamoli, in modo sommario, iniziando da uno dei primi seri avvenimenti che hanno intaccato alla base il processo di globalizzazione – che forse sta declinando ma più probabilmente sta solo mutando profondamente – come oggi lo conosciamo: la guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, cominciata dall’Amministrazione Trump nel tentativo di ribilanciare lo squilibrio commerciale USA verso l’ormai affermata potenza economico-produttiva asiatica.

Mi permetto di definire questo evento come “serio” perché, sebbene avessi da tempo – anche per formazione accademica – iniziato a riflettere sul tema dell’inflazione, è da quel momento che ho preso seriamente l’ipotesi di una ripartenza sostenuta, del ciclo dei prezzi al consumo, o perlomeno di una loro forte fiammata.

A partire dal luglio 2018 l’introduzione di dazi su diverse produzioni cinesi (inizialmente il 25% su 34 mld di USD in controvalore) ha infatti comportato un immediato aumento dei prezzi lordi all’importazione. L’economia USA all’epoca marciava a velocità ancora sostenuta ed una parte significativa degli aumenti si è riversata sui consumatori finali, come è possibile verificare dal seguente grafico di Goldman Sachs diffuso da CNBC:

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Il fenomeno però non appare chiaramente visibile se osservato sotto la lente dell’indicatore più utilizzato dalla FED per monitorare l’andamento dei prezzi al consumo: il PCE price index. Come è possibile verificare dal seguente grafico:

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L’aumento dei prezzi all’importazione per i beni soggetti a tariffa è stato infatti in buon parte compensato dalla deflazione prevalente in altri settori, accompagnato in numerosi casi anche da una riduzione dei margini di profitto.

Beh, direte voi, allora per forza che gli osservatori accreditati non se ne sono accorti! L’interpretazione alternativa più corretta è che o sono impreparati, visto che l’effetto inflattivo – anzi meglio tendenzialmente stagflattivo – dei dazi è ampiamente citato in letteratura, o, peggio, sono disattenti oppure ancora, cosa più probabile, se ne sono semplicemente disinteressati: forse l’unica cosa importante è, prendendo a prestito un’espressione dal dialetto napoletano, “fare ammuina”: “spostare le cose inutilmente, facendo finta di lavorare”, corredandole poi da un bel po’ di comunicazione trionfalistica per la popolazione del basso impero.

Proseguendo, dopo poco, sono poi arrivate le strozzature legate all’interruzione della filiera derivante dalla delocalizzazione della produzione dalla Cina ad altri Paesi asiatici, Vietnam in primis. Delocalizzazione che nell’immediato ha esercitato un parziale effetto calmieratore sulle pressioni inflattive, visto che non erano previste analoghe politiche tariffarie per la maggior parte dei paesi beneficiari, ma che oltre il breve periodo, in aggregato, ha accentuato la tendenza inflazionistica di fondo, fornendo momento ad una dinamica dei prezzi spesso sopita in quei paesi. Un caso specifico è quello del Vietnam:

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Note: Annual and monthly variation of consumer prices index in %. Source: General Statistics Office of Vietnam (GSO) and FocusEconomics calculations.

Nel grafico precedente appare evidente l’impulso inflattivo, che ha portato la crescita dei prezzi al consumo da circa il 2% del secondo trimestre ad oltre il 6% a fine 2019 (quasi triplicati).

Andando oltre si è aggiunto (in realtà era da tempo presente, pur in situazione di maggior latenza) il tema della transizione verso la decarbonizzazione, che ha preso il sopravvento nella “stimolazione” dei prezzi al consumo in primis in Eurozona. Con effetti inizialmente – ed immediatamente – stemperati dal contesto ancora discretamente deflattivo in cui si trovava l’area. Il fenomeno ha anche toccato – di riflesso diremmo – gli USA, dove le (giuste, in via di principio) politiche ambientaliste hanno rialzato la testa nonostante Trump.

In particolare, in Eurozona, già nel 2019 abbiamo visto esplodere i prezzi delle quote di emissioni di gas serra (in primis ovviamente CO2), che rappresentano un altro forte stimolo inflazionistico implicito. Questo, attraverso il canale della produzione di energia elettrica, trasmettendosi per mezzo dei vari spread (dark, spark) con le altre fonti di energia fossile (gas, oil e coal) alle loro capacità produttive, ha influenzato oltre il breve periodo il prezzo di tutte le commodities energetiche.

Infine, con l’arrivo del Covid, le catene di approvvigionamento globali hanno ricevuto un altro potente colpo. Questa volta però si sono risvegliate, prepotentemente, anche le materie prime agricole e, più in generale, quelle connesse alle produzioni alimentari (tra cui i cd. “coloniali”: cacao, caffè, zucchero, etc.).

L’epidemia, con un impatto inizialmente fortemente deflattivo, ha dato il colpo di grazia al quadro complessivo, rappresentando un potente booster per l’inflazione attraverso più canali: da un lato il default di numerosi operatori economici, non solo di dimensioni ridotte, ha formato delle profonde smagliature e numerosi buchi nelle maglie delle catene di fornitura e distribuzione a livello globale. Ricordiamo la bancarotta nel 2017 della Hanjin Shipping, settimo più grande operatore dei trasporti con container, specie sulle linee transoceaniche dall’Asia. Per quanto riguarda gli USA, tra i tanti nomi basti ricordare quello della J.C. Penney Co. e quelli di Toys R Us, Bon-Ton o di Payless.

Dall’altra ha avuto luogo un assottigliamento, determinato indirettamente non solo dai default, del capitale umano impiegato nei settori della logistica e della distribuzione, oltre che in altri settori ad essi collegati. Ciò nel momento della ripresa ha rappresentato uno dei forti fattori di freno all’ampliamento – o meglio ridispiegamento – dell’offerta, contribuendo a rendere più anguste e dolorose le già vistose strozzature presenti e più forte l’aumento dei costi che tende, dove possibile, ad essere trasferito sui prezzi finali.

Un fattore più sottile, ma di assoluta rilevanza, riguarda l’organizzazione della produzione su larga scala che nel tempo si è spostata, per gli operatori di maggior successo a livello globale, verso un modello “lean”. Il modello di “lean production” è particolarmente potente e apre la strada a forti riduzioni dell‘indicatore di produttività “hour per unit”. Esso è, però, anche assai fragile e sensibile nel caso di viscosità nelle catene di fornitura: un piccolo ritardo nella fornitura di un componente si riflette in una maggiore complicazione dei processi ed in un forte ritardo nella produzione complessiva. Insomma, un granello di sabbia è in grado di fermare un sistema produttivo complesso e di dimensioni rilevanti.

Un ulteriore elemento, assunto a ruolo di tutto rilievo specie in questi ultimi mesi, è che la pandemia ha spinto a dilazionare sia gli investimenti – in nuove navi – nel settore dello shipping marittimo sia quelli, particolarmente necessari, nelle infrastrutture portuali, infittendo la catena di colli di bottiglia sulle rotte del commercio globale, quelle che trasportano prodotti semilavorati e materie prime sui mercati di trasformazione e consumo.

Last but not least, l’andamento dei prezzi delle materie prime ha manifestato per diversi anni una crescente vitalità. Il punto è che il fenomeno si è palesato partendo da lontano: era quindi macroscopico e chiaramente visibile, come evidenzia il seguente grafico relativo ad un’ampia gamma di commodity.

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Insomma, nel tempo si sono stratificati e combinati diversi e potenti stimoli inflazionistici, anche di natura strutturale. Di fronte a questa serie di driver inflattivi – ed abbiamo citato solo i fattori principali – che sono “emersi” in numerose economie avanzate ed a livello globale, appare surreale che le maggiori autorità monetarie ed i principali osservatori mainstream a livello globale non si siano posti, se non altro, dei seri interrogativi sul tema (fatta salva qualche rara eccezione).

La maggior parte ha invece preferito sminuire, in modo caprino ed utilizzando la forza bruta della propria reputazione (a questo punto danneggiata e parzialmente immeritata), le poche e sparute voci di allarme che comunque si sono sollevate. Si ammetterà infatti che di fronte ad una così nutrita pletora di fattori inflattivi anche il più incallito negazionista di un ciclo – o di una intensa fiammata – dei prezzi al consumo in forte ripresa “deve” essere costretto a calare le braghe.

Il timore ora, però, è che le recenti evoluzioni, combinate con l’esplosione dei prezzi dell’energia – prima già elevati – abbiano un impatto profondo. Non solo sui consumatori finali ma anche sulle imprese i cui margini iniziano a scivolare, visto che le aziende dovranno assorbire almeno transitoriamente alcuni shock per restare sul mercato, piuttosto che scegliere di difendere l’intera profittabilità.

Una simile preoccupazione è supportatata anche da segnali oggettivi di più ampio respiro, come la crescita della massa monetaria. L’ “interruzione” delle serie storiche di M2 comunicate dalla Federal Reserve, che forse (anzi, verosimilmente) temeva di lasciare troppe tracce del suo esperimento monetario ormai iniziato da oltre un decennio e (come io ritengo sia) ora probabilmente fallito, accentua il timore.

In effetti mi pareva quasi impossibile che la più grande e rapida creazione di base monetaria della storia umana, pur riversandosi principalmente in un’asset inflation galoppante per oltre un decennio, non iniziasse a toccare anche l’economia reale. Non coinvolgesse anche le catene produttive globali. Questo è avvenuto con una graduazione differenziata a seconda dell’integrazione dei vari soggetti nella rete produttiva e delle forniture globale, ma pur sempre con una forza di fondo che rappresenta un denominatore comune.

Bene! Assodato che il fenomeno, pur negato con veemenza di “Schopenhaueriana memoria”, esiste, la domanda successiva è: “Cui prodest?”.

La risposta potrebbe non essere particolarmente difficile e lo sguardo va alle autorità monetarie che, ora in buona ora in cattiva fede, probabilmente chiudono ed hanno chiuso un occhio di fronte al rischio inflattivo. Come si dice: “non c’è miglior sordo di chi non vuole sentire”.

In effetti appare difficile negare che un tasso di inflazione elevato risolverebbe gradualmente i problemi di eccessivo indebitamento che affligge la maggior parte delle economie nel mondo. Il rapporto debito/PIL globale complessivo (pubblico + privato) ha raggiunto (Fonte: IIF) il 350% ca. e il 400% ca. nelle economie sviluppate.

Peraltro le principali banche centrali non hanno mai fatto mistero di cercare condizioni moderatamente inflattive. Il punto è che un’inflazione troppo moderata non appare in grado di risolvere i problemi di eccessivo indebitamento globale: la gradualità significherebbe un adattamento troppo veloce dei vari operatori economici ai prezzi più elevati, nella ricerca di evitare di portare il carico economico sulle proprie spalle. Un’inflazione sostenuta e più elevata in un intervallo di tempo relativamente breve impedirebbe invece (o almeno smorzerebbe) un simile adattamento, riducendo di fatto – nella media – l’onere reale a carico del debitore, trasferito almeno parzialmente sul creditore. Come effetto collaterale, però, l’assorbimento del maggiore onere collegato all’aumento dei prezzi al consumo ricadrebbe – in tutto od in parte – sugli operatori economici che non sono in grado di imporre, del tutto o parzialmente, i prezzi dei beni che scambiano: in primis le famiglie. Insomma non una bella conclusione dopo che fiumi di liquidità hanno salvato il portafoglio degli investitori, e non si parla di piccoli risparmiatori visto che la classe media statunitense è andata rapidamente assottigliandosi.

Quindi come diceva un nostro illustre politico: “A pensar male si fa peccato, ma ci si azzecca quasi sempre”, perciò è un peccato veniale pensare che le autorità preposte abbiano deliberatamente liberato il genio della lampada, assecondando, quando non scatenando, pressioni inflattive robuste e per questo pericolose, visto che c’è il rischio tangibile che la situazione gli scappi di mano.

I fatti si dirà, dove sono i fatti? Beh, la revisione verso l’alto delle proiezioni d’inflazione per il 2021 e successivi, comunicata dalla FED dopo l’ultima riunione del FOMC (settembre 2021) arriva dopo diversi trimestri di narrativa tranquillizzante che sosteneva la transitorietà dell’inflazione. Non può, quindi, non colpire la disinvoltura con la quale la FED ha portato il suo benchmark per la rilevazione del tasso di inflazione, dato dalla previsione dell’indice di prezzo relativo alle PCE (indice dei prezzi relativo alle spese in consumi personali), dal +3,4% di giugno al +4,2% di settembre (l’indice core è stato rivisto dal +3,0% al +3,7%). Per il 2022 l’indice è stato rivisto dal +2,1% al +2,2% nello stesso periodo ma c’è da giurare che, visto il recente andamento di diversi fattori – prezzi delle materie prime e dei noli marittimi in primis – le revisioni si succederanno anche per l’anno in parola.

A meno che …… a meno che, innescato eventualmente da una crisi finanziaria tutt’altro che improbabile nel caso le autorità monetarie abbiano fatto male i conti ed i tassi di mercato anticipino quello ufficiali, partendo magari dagli USA non si verifichi un incidente finanziario e, quindi, un episodio recessivo ampio e diffuso, in grado di raffreddare le tensioni sul lato dell’offerta, incapace di fronteggiare il surriscaldamento della rutilante domanda “post-Covid 19”. Insomma, grazie ai nostri ben pagati aspiranti stregoni della FED, esiste il rischio che le cose si mettano male comunque: una bella scommessa “lose, lose”.

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