Sudan. L’altro genocidio
di Francesco Cappello
Il Sudan si trova al centro di dinamiche che rischiano di comprometterne ulteriormente l’integrità. Sono attivi fenomeni che provocano instabilità, ottimali per la continuazione dell’accaparramento delle risorse del paese africano da parte di agenti esterni
Non si tratta di una guerra civile tribale, ma di un genocidio pianificato alimentato da potenze straniere interessate alle ricchezze naturali, in particolare l’oro, complici la mancanza di attenzione internazionale e la complicità di paesi occidentali che sostengono l’RSF (forze di intervento rapido paramilitari) come fa la Francia, Israele, EAU e altri [*].
Il conflitto attuale è l’esplosione di una tensione irrisolta risalente, come vedremo, ai crimini del Darfur e al fallimento della transizione post-El Bashir, dove i generali in competizione, finanziati e armati da potenze esterne, si contendono il controllo strategico ed economico di un paese estremamente ricco di oro. Le vaste riserve d’oro del Sudan agiscono da calamita geopolitica, attirando l’interesse di potenze esterne che, attraverso il finanziamento di gruppi armati (le FSR, eredi delle milizie genocidarie), trasformano la ricchezza potenziale in un ciclo di violenza e guerra per procura.
L’entità dei massacri a danno della popolazione
A partire dall’inizio del secolo a oggi, l’analisi della letteratura consente di ricostruire alcune stime di massima sull’entità dei massacri a danno della popolazione civile. Un rapporto del Council on Foreign Relations (via il database CRED) stima che, nel periodo da settembre 2003 a gennaio 2005, ci siano state circa 121.582 morti nella regione del Darfur, con un “eccesso di mortalità” stimato di circa 118.142 morti. Université catholique de Louvain. Altre fonti (tra cui studi epidemiologici e analisi dell’ONU) riportano che fino al 2008 il totale delle morti (violenza + malattia/fame) potrebbe essersi avvicinato a circa 300.000 persone nella regione del Darfur. Guardian
Fonti più recenti relative al conflitto scoppiato nel 2023 indicano che solo nei primi mesi della guerra ci sono stati decine di migliaia di morti civili — ad esempio, un articolo riporta che il conflitto dal 2023 avrebbe causato “almeno 40.000 morti” in Sudan. AP News
Sulla base di queste evidenze, la cifra complessiva dal 2003 ad oggi per la regione del Darfur (senza considerare tutto il Sudan) si può stimare nell’ordine di alcune centinaia di migliaia di vittime. Qualora si includa l’intero Sudan, e tutti i tipi di cause collegate (violenza, malnutrizione, malattie secondarie), il numero potrebbe essere assai superiore anche se non esiste attualmente una cifra condivisa.
Il 22 di luglio 2004, il parlamento degli Stati Uniti è stato il primo a dichiarare che in Darfur sta avvenendo un genocidio, con le risoluzioni 467 della Casa dei Rappresentanti e 133 del Senato, basandosi chiaramente sui 5 criteri della Convenzione [**].
Le Nazioni Unite hanno più volte avvertito che nel Sudan sono presenti indicatori molto gravi compatibili con il rischio di genocidio e hanno chiesto indagini e misure preventive; tuttavia non c’è una dichiarazione giuridica collettiva dell’ONU che qualifichi formalmente gli eventi come genocidio. Per una qualifica legale definitiva occorrerebbero decisioni giudiziarie (ICC/ICJ o tribunali internazionali) o altri atti formali di responsabilità penale internazionale. Nazioni Unite. È ovvio che se c’è solo un “rischio di genocidio”, le Nazioni Unite possono avvertire, inviare osservatori o raccomandare misure, ma nessuno è obbligato a intervenire subito: i civili restano esposti e i responsabili rischiano poca o nessuna punizione immediata. Se invece il genocidio fosse stato formalmente dichiarato, sarebbero scattati obblighi giuridici internazionali: interventi di protezione, sanzioni, peacekeeping e indagini giudiziarie sarebbero diventate vincolanti, aumentando significativamente la sicurezza della popolazione e la possibilità di punire chi commette atrocità.
Le radici storiche del conflitto attuale affondano nel passato coloniale e nei precedenti decenni di instabilità e guerra.
Il Sudan è un vasto paese dell’Africa nord-orientale, un’ex colonia inglese ed egiziana. Ha conosciuto numerosi colpi di stato e diverse guerre.
Il conflitto odierno affonda le sue radici nella guerra del Darfur. In questa regione, milizie come i Janjaweed [1] hanno commesso un terribile genocidio negli anni 2000.
Un momento cruciale è stata la sollevazione popolare del 2018, quando il popolo sudanese si mobilitò per rovesciare il regime dittatoriale di Omar El Bashir e stabilire un potere civile, invocando come rivendicazioni principali libertà, giustizia ed eguaglianza.
Sebbene la rivoluzione abbia provocato la caduta di El Bashir, non è riuscita a liberarsi completamente dei militari che hanno ripreso il potere in modo definitivo nell’ottobre 2021.
Il conflitto attuale è, infatti, il risultato diretto di una lotta di potere tra fazioni militari, acuita dal fallimento della transizione democratica e dall’ingerenza internazionale.
Dopo la ripresa del potere, le due figure chiave che si sono conteso il controllo militare sono quelle di Abdel Fata Al-Burhan capo dell’esercito governativo – Forze Armate Sudanesi (SAF) e Mohamed Hamdan Dagalo (Hemedti), capo delle Forze di Supporto Rapido (FSR). Le cose si sono complicate a partire dal 2023, quando le FSR hanno attaccato l’esercito regolare. Da allora si assiste a una guerra tra due eserciti a scapito della popolazione civile. Le Nazioni Unite erano state allertate già da tempo sul rischio di genocidio nelle regioni del Darfur e, in particolare, nella città di El Fasher. Nonostante gli appelli a mobilitarsi per impedire il genocidio, la situazione è stata ignorata.
Gli abitanti di El Fasher, che avevano resistito per un anno e mezzo sotto l’assedio delle FSR, sono stati completamente abbandonati dalla comunità internazionale. Non è stato fatto pervenire alcun aiuto, né umanitario né militare. Questo abbandono ha portato a un massacro, con oltre 3.000 civili sommariamente giustiziati in soli tre giorni dopo l’invasione di El Fasher da parte delle FSR. L’invisibilizzazione della crisi sudanese è l’esito di una convergenza tossica tra la convenienza geopolitica (evitare di esporre la propria complicità nel finanziamento delle milizie genocidarie (*)) e la disumanizzazione implicita dei corpi neri africani (la “negrophobia integrata” che banalizza il massacro in quanto “normale” per quella regione), permettendo così all’abbandono totale di prevalere.
Contrariamente a quanto suggerito da alcuni media occidentali non si tratta di una “guerra civile tra tribù”, ma di un genocidio pianificato ed eseguito dalle Forze di Supporto Rapido, un gruppo paramilitare direttamente derivato dalle milizie Janjaweed, responsabili del precedente genocidio.
Vediamo con qualche dettaglio in più l’evoluzione di questo scontro bellico, culminata nella drammatica recente crisi di El Fasher. Come accennato il conflitto si è sviluppato a partire dal contesto successivo alla destituzione del dittatore Omar Al-Bashir nel 2019, innescata da una massiccia rivoluzione popolare. Inizialmente, Al-Burhan ed Hemedti si unirono per arrestare Al-Bashir, dando il via ad una transizione politica che prevedeva un governo civile-militare con l’obiettivo di traghettare il Sudan verso le elezioni. Tuttavia, questo percorso fu estremamente faticoso e segnato da divisioni e tensioni, che portarono, nel 2021, a un colpo di stato con cui le due figure militari presero il controllo totale della transizione, formando un consiglio dove Al-Burhan era presidente e Hemedti suo vice. Questo tandem di potere si rivelò però ben presto insostenibile a causa dell’esplosione della rivalità tra loro, incentrata in particolare sulla questione chiave dell’assorbimento previsto delle RSF nelle forze armate regolari, un accordo che non fu mai trovato. Tale incapacità di risoluzione portò il conflitto a degenerare in una guerra aperta nell’aprile del 2023.

Le fasi iniziali del conflitto armato videro il suo innesco a Khartoum e nelle sue città gemelle (Omdurman e Khartoum Nord), per poi espandersi rapidamente in altre aree del paese. Nella fase iniziale, le RSF si dimostrarono superiori nella capitale, costringendo le autorità delle SAF a spostare la sede del loro governo a Port Sudan. Si generò rapidamente un equilibrio della guerra: le RSF arrivarono a controllare gran parte della regione del Darfur, composta da cinque stati regionali, oltre ad ampie zone verso il sud del paese, mentre le SAF mantenevano il controllo sulla parte orientale e settentrionale del Sudan.
Una significativa evoluzione si registrò tra la fine del 2024 e la primavera del 2025, quando le SAF, essendosi ricostituite e riarmate, riuscirono a lanciare una spinta che le portò a riprendere Khartoum. Nonostante questo ribaltone, i combattimenti non cessarono, ma crearono una situazione di zone divise sotto il controllo delle RSF, zone sotto il controllo delle SAF e aree pesantemente contese.
In questo scenario, El Fasher, il capoluogo dello stato del Darfur Settentrionale, assunse un’importanza cruciale, divenendo l’ultimo bastione delle SAF all’interno della regione del Darfur. Per ben diciotto mesi, la città fu al centro di durissimi combattimenti e, di fatto, cinta d’assedio. Questa situazione portò a una crisi umanitaria estremamente grave; sebbene fosse una città di circa 1,5 milioni di abitanti, più di un milione di residenti erano già fuggiti nei mesi precedenti, rifugiandosi nei campi vicini.
La crisi è culminata con la presa di El Fasher da parte delle Forze di Supporto Rapido, un evento strategico e simbolico di grande rilevanza. Le SAF avevano già avviato una ritirata, riconoscendo che la città non era più difendibile. La conquista di El Fasher ha consolidato il controllo delle RSF su quasi tutta la parte occidentale del paese e sul Darfur. L’occupazione ha scatenato episodi di estrema violenza, un massacro con notizie di esecuzioni sommarie, violenze sessuali e fosse comuni. Molte persone hanno intrapreso la fuga verso città vicine come Tawila.
Fragile offerta di cessato il fuoco e crisi umanitaria
Solo il giorno prima dei recenti attacchi con droni, l’RSF aveva sorprendentemente annunciato il proprio consenso a un cessate il fuoco umanitario. Una tregua sarebbe disperatamente necessaria, specialmente nella parte occidentale del Sudan e nella città di , El Fasher teatro di alcune delle violenze più atroci. L’RSF ha preso il controllo di El Fasher a fine ottobre, dopo averla circondata per più di un anno e aver sistematicamente interrotto le forniture essenziali come cibo e acqua. I combattenti dell’RSF sono stati accusati di aver commesso atti di genocidio.
Orrore ad El Fasher e prospettive oscure
Le testimonianze raccolte parlano di migliaia di vittime, tra cui donne, bambini e uomini, a cui è stato ordinato di correre prima di essere fucilati, con i combattenti divertiti dei loro atti. Hanno pubblicato video degli omicidi online. Alcuni reporter affermano che l’entità delle uccisioni è stata tale che macchie di sangue sarebbero state visibili persino dallo spazio. Una giornalista che ha visitato un campo per sfollati fuggiti da El Fasher ha descritto la situazione come un susseguirsi di “storie dell’orrore”.
Negoziati in stallo
Nonostante la dichiarazione dell’RSF, la prospettiva che il cessate il fuoco umanitario si concreti appare estremamente precaria. Le SAF non hanno ancora aderito, sostenendo che accetteranno la tregua solo se l’RSF si ritirerà dalle principali città che controlla. Attualmente le possibilità di porre fine al conflitto sono estremamente esigue.
Radici Economiche del conflitto
Esiste una volontà politica di rendere invisibile ciò che accade in Sudan. La Francia, l’Europa, Israele, gli EAU appaiono complici degli eventi in corso avendo partecipato al finanziamento delle Forze di Supporto Rapido [2].
La maledizione delle risorse: l’oro del Sudan
Le regioni del Darfur sono tra le più ricche di risorse naturali e sono al contempo le regioni più emarginate in termini di sviluppo e costruzione. Il Sudan detiene il 40% della terra arabile dell’Africa, vaste risorse idriche che superano i 440 miliardi di metri cubi e oltre un milione di capi di bestiame che sarebbero sufficienti per nutrire l’intera regione.
Il Sudan è un paese ricco di risorse naturali, e la risorsa più importante è l’oro. Esso è tra i cinque maggiori produttori di oro al mondo. Le zone ricche d’oro sono state storicamente controllate da milizie, e dietro ogni milizia c’è un paese straniero che fornisce supporto. L’alto valore di mercato di questo metallo prezioso è una componente fondamentale dietro le lotte. Nel 2024 sono state estratte oltre 80 tonnellate per un valore di 6 miliardi di dollari, ma più della metà è stata contrabbandata attraverso reti militari e di milizie. Le RSF, al pari dei gruppi M23 in Congo, utilizzano il conflitto per il traffico illecito di risorse. I minerali tecnologici vengono trafugati verso l’Europa e gli Stati Uniti, mentre l’oro viene contrabbandato verso gli Emirati Arabi Uniti e Israele. Dubai e Abu Dhabi sono grandi mercati internazionali per la vendita di preziosi, e l’oro proveniente da Sudan e Congo è particolarmente conveniente in quanto acquisito a basso costo ma ad alta resa. Questo giro economico permette ai gruppi armati di finanziare l’acquisto di armi, pagare le reclute e aumentare la propria potenza. Si tratta di un investimento geopolitico basato su un modello neocoloniale di rapina. “Producendo l’80% della gomma arabica del mondo e detenendo immense riserve di uranio, argento, ferro e rame, il Sudan avrebbe potuto essere una potenza africana, se solo le sue ricchezze non fossero state sacchegate. Non solo la metà della produzione di oro del Sudan viene contrabbandata attraverso reti legate a leader militari e milizie. Anche la gomma arabica – una delle esportazioni più vitali del paese – viene trafficata per finanziare la guerra, guidata dalle Forze di supporto rapido.“ “Gli investitori stranieri hanno sequestrato terreni agricoli per un valore di 50 miliardi di dollari, guidati dagli stati del Golfo.”Invece di diventare ricchezza per la popolazione, queste risorse naturali si sono trasformate in una maledizione.
Le potenze straniere sostengono milizie paramilitari per assicurarsi il controllo delle risorse. Dalla sua indipendenza nel 1956, il Sudan ha affrontato 35 colpi di stato – sei sono riusciti. Il caos è diventato un sistema, impedendo l’ascesa di uno stato libero e sovrano. Utilizzano strumentalmente le fazioni interne per il proprio tornaconto economico. Questo sostegno include forniture logistiche e finanziarie da paesi come gli Emirati Arabi Uniti, la Francia, Israele ecc.. Sono presenti anche mercenari provenienti da Ucraina e Ciad.
Come abbiamo visto, il conflitto attuale è l’esplosione di una tensione irrisolta risalente ai crimini del Darfur e al fallimento della transizione post-El Bashir, dove i generali in competizione, finanziati e armati da potenze esterne, si contendono il controllo strategico ed economico di un paese estremamente ricco di oro. Le vaste riserve d’oro del Sudan agiscono da calamita geopolitica, attirando l’interesse di potenze esterne che, attraverso il finanziamento di gruppi armati (le FSR, eredi delle milizie genocidarie), trasformano la ricchezza potenziale in un ciclo di violenza e guerra per procura.
“Con il 40% della popolazione sotto i 15 anni e più della metà dell’età lavorativa, l’energia umana del Sudan avrebbe potuto guidare una rinascita – se solo la pace avesse dato loro la possibilità.
Circa il 75% nel nord e il 90% nel sud vive al di sotto della soglia di povertà. La loro ricchezza alimenta accordi esteri e signori della guerra – mentre la nazione stessa è affamata di giustizia, stabilità e speranza.”
Il conflitto sudanese e le sue radici
La guerra che affligge il Sudan riflette una situazione di instabilità analoga a quella che affligge il Sud Sudan, separatosi nel 2010. In entrambi i paesi, i conflitti sono emersi dal venir meno di coalizioni di governo divenute instabili. Nel Sudan attuale, lo scontro che vede contrapposte le forze armate che guidano il Consiglio Sovrano di Transizione e le Forze di Supporto Rapido erano originariamente parte della stessa giunta subentrata alla caduta di Al-Bashir nel 2019, un governo mai risultato stabile a causa di infinite intromissioni esterne e rimpasti interni. Il contesto è caratterizzato da una forte pluralità etnica. Sebbene l’elemento religioso (storicamente arabo-musulmano contro la forte componente africana e, in parte, cristiana) sia spesso richiamato quale causa primaria dei conflitti in atto, molti analisti avvertono che focalizzarsi esclusivamente su conflitti etnici, religiosi o tribali è un errore che non coglie la complessità delle dinamiche reali. La divisione del 2010 è stata alimentata dalla politica sbagliata dei governi precedenti, in particolare da Al-Bashir che, dopo il 1985, abbandonò la politica laica in favore di un’agenda islamista di arabizzazione e islamizzazione forzata, catalizzando la guerra civile.
La geopolitica della frammentazione
La frammentazione del Sudan è uno strumento utile alla creazione di una vasta area di instabilità, funzionale a rallentare il processo di integrazione regionale e continentale, un obiettivo storicamente sgradito a certi ambienti, in particolare in Occidente. Il conflitto attuale è l’esplosione di una tensione irrisolta risalente ai crimini del Darfur e al fallimento della transizione post-El Bashir, dove i generali in competizione, finanziati e armati da potenze esterne, si contendono il controllo strategico ed economico di un paese estremamente ricco di oro. Le vaste riserve d’oro del Sudan agiscono da calamita geopolitica, attirando l’interesse di potenze esterne che, attraverso il finanziamento di gruppi armati (le FSR, eredi delle milizie genocidarie), trasformano la ricchezza potenziale in un ciclo di violenza e guerra per procura. Il conflitto in corso ha portato all’ipotesi concreta di un’ulteriore divisione del paese, con la possibilità che le RSF riescano a stabilire un proprio cripto-stato, uno stato de facto, ossia entità politiche che esistono e agiscono in modo occulto, similmente a quanto accaduto con il Somaliland. Tali progetti di frammentazione sono fortemente graditi da attori come Israele e gli Emirati Arabi Uniti (EAU), oltre che da alcuni settori della destra repubblicana negli Stati Uniti.

Il Sudan occupa una posizione geostrategica di fondamentale importanza nelle regioni che vanno dalla Valle del Nilo al Corno d’Africa. Le sue crisi interne sono strettamente collegate ai conflitti del Medio Oriente.
La rilevanza del Sudan risiede innanzitutto nella sua apertura sul Mar Rosso, dove è situato Port Sudan. Tale accesso marittimo è cruciale nel contesto della competizione geopolitica, dove Tel Aviv e i suoi alleati cercano di prevenire presenze ostili (come basi russe o iraniane a Port Sudan, sul Mar Rosso) e di isolare paesi non completamente allineati, come l’Egitto e l’Eritrea, posizionando siti militari ad esempio nella fascia somala (Somaliland). L’eventuale presenza di tali forze non allineate è visto come un rischio da attori regionali come Israele e i suoi alleati.
Le RSF, che erano originariamente i famigerati janjāwīd [1] del conflitto in Darfur, sono responsabili di pulizia etnica contro le popolazioni non arabe, come il massacro dei Masalit nel novembre 2023 e le azioni attorno ad El Fasher (capoluogo del Nord Darfur – capitale del Sultanato del Darfur fino alla conquista britannico-egiziana del 1916). Le RSF affondano le loro origini nelle confederazioni clanico-tribali Baggara, un insieme di gruppi etnici e tribali di origine arabo-sudanese, tradizionalmente nomadi o seminomadi e dediti soprattutto alla pastorizia bovina, presenti soprattutto in Ciad, ma anche nel sud della Libia.
Alleanze e interventi esterni
Il conflitto sudanese, pur rimanendo in ombra a causa degli eventi in Medio Oriente e Gaza a partire dal 2023, è strettamente interconnesso con la geopolitica regionale. Sul fronte degli alleati del governo di Khartoum si annoverano Russia, Cina, Turchia, Iran ed Egitto. In modo singolare, paesi tradizionalmente rivali come l’Arabia Saudita e l’Iran hanno dimostrato un allineamento nel sostenere questa parte, in contrasto con le politiche concorrenti degli EAU. L’Eritrea, alleata del Cairo, fornisce un sostegno discreto al governo, anche perché l’Etiopia appoggia invece le RSF. Le RSF sono patrocinate dagli Emirati Arabi Uniti (che riforniscono armi e materiali attraverso la Cirenaica libica e il Puntland/Somaliland in Somalia), da Israele e dall’Etiopia [2]. Il sostegno degli EAU è parte di una politica estera parallela e concorrente a quella dell’Arabia Saudita e dell’Egitto. Nel contesto della guerra per procura, si registrano anche interventi di entità non statali: si presume l’intervento aeronautico egiziano a sostegno del governo; la presenza di mercenari, inclusi colombiani e compagnie finanziate dagli Emirati, che sono stati intercettati dalle forze armate sudanesi; e una noncuranza generale dell’embargo internazionale sulle armi.
In passato, le RSF sono state sfruttate per il contrabbando d’oro da una parte delle forze Wagner di Prigozhin, una politica estera parallela e disallineata rispetto a quella del Cremlino, che ha poi contribuito alla caduta di Prigozhin. Si registra anche una presenza ucraina in Africa, attratta dalla possibilità di acquisire risorse a costo quasi zero e condurre operazioni contro gli interessi russi, facilitando al contempo il piazzamento di armamenti.
In sintesi, la crisi in Sudan così come in altri paesi africani, pur essendo caratterizzate da violenza interna e conflitti etnici e religiosi superficiali, sono principalmente alimentate da dinamiche di rapina di risorse e da una competizione geopolitica globale che utilizza la destabilizzazione e la frammentazione come leva per affermare il proprio dominio economico, in pratica un sistema di investimento neocoloniale. La politica estera più che un tavolo diplomatico tra stati, è ridotta ad una compravendita forzata dove chi detiene il capitale e la forza militare impone i termini dell’affare, trasformando la minaccia in moneta di scambio.
[*] L’ingerenza israeliana nel contesto sudanese si manifesta attraverso canali diplomatici segreti, contatti con leader e attori militari locali, e operazioni di intelligence volte a influenzare le dinamiche interne. Israele ha combinato strumenti di mediazione, incentivi economici e presenza strategica lungo il Mar Rosso per rafforzare la propria influenza nella regione. Alcune fonti documentano supporti a gruppi armati, mentre altre evidenziano la diplomazia ufficiale e le visite successive alla normalizzazione dei rapporti. Questa azione multilivello ha effetti indiretti sulle rivalità interne, sui conflitti e sulle migrazioni forzate, mostrando come l’ingerenza operi soprattutto in modo discreto e strategico. Complessivamente, Israele appare come un attore capace di influenzare decisioni politiche e conflitti senza esporsi pubblicamente, dove la linea tra mediazione e ingerenza rimane sottile.
Vediamo di seguito reportage e ricostruzioni (scoop, articoli d’indagine, reportage internazionali) che documentano — o discutono criticamente — l’azione e i contatti di Israele nel contesto sudanese:
- Barak Ravid, “Scoop: Secret Israel-Sudan contacts enabled deal sealed by Trump”, Axios, 28 ottobre 2020.
Questo scoop ricostruisce il retroscena della normalizzazione tra Israele e Sudan nel 2020, sostenendo che contatti segreti israeliani abbiano facilitato il dialogo che poi è stato siglato anche con l’intermediazione statunitense. L’articolo si basa su interviste con funzionari e fonti diplomatiche, mostrando come la diplomazia nascosta abbia agito parallelamente alle trattative pubbliche; è utile per capire la componente clandestina e politica dell’ingerenza israeliana. Axios
- “Israel, Sudan agree to normalize ties with U.S. help”, Reuters, 23 ottobre 2020.
Reportage di agenzia che documenta la firma (o l’avvio) del processo di normalizzazione supportato dagli Stati Uniti; fornisce cronologia degli eventi e citazioni ufficiali, utili come base fattuale per collocare la presenza israeliana in termini diplomatici ufficiali. Indispensabile per la timeline degli avvenimenti e per distinguere fra canali ufficiali e contatti segreti. Reuters
- “Israel delegation to Sudan talks agriculture, health care …”, Reuters, 23 novembre 2020.
Articolo che documenta la prima missione delegata israeliana in Sudan dopo l’annuncio di normalizzazione, con focus sulle aree civili (agricoltura, sanità). Il pezzo è importante perché mostra come la presenza israeliana non sia stata solo militare o di intelligence, ma anche economico-umanitaria, elemento che aiuta a comprendere le leve d’influenza soft usate da Tel Aviv. Reuters
- “Israel delegation visits Sudan in push to normalise ties”, Al Jazeera, 22 ottobre 2020.
Report critico che ripercorre la visita e il tentativo di normalizzazione, mettendo in rilievo reazioni interne sudanesi e contrasti regionali. L’articolo aiuta a comprendere il contesto politico domestico sudanese e le resistenze alla normalizzazione, utili per bilanciare le versioni ufficiali. Al Jazeera
- “Mossad took part in civil war in southern Sudan”, Middle East Monitor, 9 novembre 2015.
Ricostruzione basata su dichiarazioni di ex-operatori e libri che attribuisce al Mossad un ruolo operativo nel conflitto del Sud Sudan, incluse attività di addestramento e supporto ai separatisti. Middle East Monitor
- “Sudan accuses Israel of aiding southern rebels”, The Times of Israel, 30 aprile 2013.
Articolo che riporta accuse ufficiali sudanesi su un aiuto israeliano a formazioni di ribelli; Times of Israel
- “Scoop: Israel offers to host warring Sudanese generals for talks”, Axios (ricostruzioni successive, 2023).
Diversi pezzi d’inchiesta hanno documentato offerte o piani di Israele per fungere da mediatore ospitando i leader militari sudanesi; le ricostruzioni si basano su fonti diplomatiche e documenti riservati. Questo materiale è importante per analizzare il doppio ruolo di Tel Aviv come possibile facilitatore e come attore con interessi strategici. Axios
- “What Role Is Israel Playing in Sudan’s Equation?”, Noon Post / aggregazioni, analisi 2025–2025 (sintesi di scoop e fonti aperte).
Articoli di sintesi e approfondimento che aggregano scoop (Axios, Reuters, Times) e fonti open-source, segnalando episodi di contatti fra Mossad e figure militari sudanesi. english.noonpost.com
- “Sudan ‘astonished’ at spokesman’s remarks about ‘contacts with Israel’”, Reuters, agosto 2020. Cronaca di una disputa pubblica che dimostra la sensibilità politica del tema e la tendenza di alcuni attori sudanesi a negare o contestare contatti con Israele; Reuters
- “Israel reportedly seeking billions in aid in exchange for ties with Israel”, The Times of Israel, 27 settembre 2020. Articolo che riporta negoziazioni economiche dietro la normalizzazione (richieste sudanesi di aiuti), mostrando come il processo sia spesso accompagnato da pacchetti economici e pressioni geopolitiche. Times of Israel
- “The Abraham Accords and the Israeli/UAE normalization” (report, Chatham House), 2023 — capitoli sulle dinamiche regionali e sul ruolo della diplomazia segreta.
Rapporto analitico che ricompone la trama più ampia degli Accordi di Abramo: pur non essendo un’inchiesta giornalistica pura, il documento aggrega molte fonti giornalistiche e diplomatiche che spiegano il contesto in cui si inseriscono i contatti Israele-Sudan. Chatham House
[**] La Francia ha storicamente mantenuto un’interazione significativa con il Sudan, manifestando il proprio coinvolgimento sia attraverso canali diplomatici e di cooperazione tecnica, sia — come emerge da indagini più critiche — tramite forme più opache di supporto militare e di intelligence. Per esempio, un rapporto della Human Rights Watch riferisce che, in cambio dell’estradizione nel 1994 di “Carlos il Cacciatore”, la Francia avrebbe messo a disposizione del governo sudanese dati satellitari per operazioni contro il Sudan People’s Liberation Army (SPLA) nel Sud Sudan. (Human Rights Watch)
In tempi più recenti, la cooperazione francese con Khartoum prende la forma di assistenza allo sviluppo, formazione, cooperazione culturale e tecnica: il sito del Ministero degli Esteri francese descrive che la Francia ha accolto la rivoluzione del 2019 in Sudan come occasione per “rivitalizzare” le relazioni bilaterali, impegnandosi per stabilità interna e governance democratica. (Diplomazia Francese). Tuttavia, emergono aspetti che sollevano dubbi circa la coerenza della Francia rispetto all’osservanza delle norme internazionali sul controllo degli armamenti. Una indagine della Amnesty International ha infatti identificato sistemi di difesa prodotti in Francia (il sistema “Galix”, realizzato da Lacroix Defence e KNDS France) montati su veicoli corazzati fabbricati negli Emirati Arabi Uniti e utilizzati dalla paramilitare Rapid Support Forces (RSF) sul campo in Sudan, secondo Amnesty in probabile violazione dell’embargo delle Nazioni Unite sulla fornitura di armamenti a Darfur. (euronews) Questo caso suggerisce che, sebbene la Francia possa non essere direttamente responsabile dell’esportazione finale agli attori sudanesi, i sistemi prodotti in Francia hanno transitato o sono stati integrati in mezzi impiegati in un conflitto dove si registrano gravi violazioni dei diritti umani.
Dunque, l’ingerenza della Francia in Sudan si configura su almeno tre assi: diplomazia e cooperazione tecnica‑economica, intelligence e rapporti di sicurezza e — indirettamente — attraverso la catena dell’industria degli armamenti che può collegarsi al conflitto sudanese. Tale presenza non è solo di tipo umanitario o di stabilizzazione, ma riflette anche interessi strategici nella regione del Mar Rosso e nel Sahel, dove la Francia mantiene basi e relazioni militari che la collegano alle dinamiche sudanesi per via geografica e logistica. La Francia si presenta come un attore «interessato» e «attivo» nel Sudan, con dichiarati obiettivi di sostegno alla governance democratica e alla stabilità ma con un ritratto che include anche zone grigie: materiali di difesa francese usati in contesti contestati, cooperazione antica nel Sud Sudan in cambio di concessioni, e un posizionamento strategico che va oltre il mero aiuto allo sviluppo.
[***] Nell’articolo 2 della Convenzione per la Prevenzione e la Repressione degli Atti di Genocidio, esso viene definito come: “Nella presente Convenzione, per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale:
(a) uccisione di membri del gruppo;
(b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale dei membri del gruppo;
(c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale;
(d) misure miranti a impedire le nascite all’interno del gruppo;
(e) trasferimento forzato di bambini da un gruppo ad un altro”.







































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