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Giovanni Arrighi, Beverly J. Silver, “Caos e governo del mondo”

di Alessandro Visalli

illus2 p30a33 1Il libro (CG) di Giovanni Arrighi ed altri coautori, tra i quali Beverly Silver, autrice per parte sua di un interessante “Le forze del lavoro. Movimenti operai e globalizzazione dal 1870”, è come sempre denso ed interessante. Scritto nel 1999 è il frutto di un lavoro iniziato dieci anni prima, dunque nel cruciale 1989, e fa parte di un progetto di ricerca più ampio sulla traiettoria di sviluppo del sistema mondiale a partire dal 1945, che fu diviso in due gruppi: il primo, condotto sotto il coordinamento di Immanuel Wallerstein, ed il secondo di Arrighi.

Il gruppo di lavoro di quest’ultimo si è appoggiato al Ferdinand Braudel Center, a Birmingham. Conviene dargli un’occhiata: la tradizione di ricerca movimentata da questa scuola è fortemente interdisciplinare, e prevede di gettare uno sguardo storico sensibile ai fattori sociali, economici ed alla dinamica dei poteri nello scontro delle forze. Di ogni situazione quindi si cerca la ‘struttura’, e di questa le sue radici storiche, ma anche la costante evoluzione. Il metodo, ben visibile in ogni libro di questa scuola, è di andare a cercare sempre le reti di strutture fluidamente permanenti (di “lunga durata”) nelle quali gli eventi avvengono, e le svolte talvolta si manifestano, e inquadrarle in un racconto storico sensibile alla meccanica dei fattori interagenti entro una categoria analitica generale che chiamano “sistema mondo”.

Divideremo questo post in due parti: nella Prima l’inquadramento del testo e le importanti questioni di metodo e concetto che ne derivano, nella Seconda la vera e propria lettura.

* * * *

Parte I

Questo libro, dunque, è successivo al libro del solo Arrighi “Il lungo XX secolo” (LS), che abbiamo già letto e che era comparso in prima edizione in inglese nel 1994, ma è ad esso intrecciato e ne ripercorre gli stessi temi. Del resto la seconda edizione del “lungo XX secolo”, curata dall’autore e arricchita di un poscritto, è ancora successiva, essendo del 2009, l’anno stesso della prematura morte.

Oltre a leggere il libro, abbiamo appena provato a dare conto dell’importante “poscritto” che Arrighi decide di aggiungere alla seconda edizione che cura del testo del 1994. Del lungo e interessante testo avevamo soffermato l’attenzione sull’accusa che in “Impero”, Negri e Hardt avanzano ad Arrighi. Partendo dalla costante insistenza per la riproduzione di uno schematismo strutturalmente simile, nelle vicende storiche del mondo che vedono salire in posizione preminente il dominio prima dell’Olanda, poi dell’Inghilterra e quindi degli Stati Uniti (e prima di centri di potere come le città commerciali italiane e la Spagna); i critici sostengono, infatti, che questo in effetti prefiguri il “eterno ritorno del medesimo” (formula resa famosa da Nietzsche, ma ovviamente molto più antica e illustre). A questa accusa si potrebbe replicare di essere, lo stesso Negri, in effetti prigioniero di una semplice inversione dialettica del soggetto della tesi liberale della “fine della storia” (che aspetta, però, dalle moltitudini dei subalterni), ma per farla dovremo aspettare di leggere direttamente il suo libro nel contesto che gli si adatta.

Per Negri sarebbero comunque le richieste dei lavoratori, nel ciclo delle lotte avviato nelle fabbriche e nella società tra il 1960 ed il 1978 (uno sguardo lo avevamo dato qui) a provocare una riduzione del margine di profitto industriale che avrebbe a sua volta innescato la catena di eventi della rottura egemonica, la quale si traduce in finanziarizzazione e globalizzazione. Per esempio, scrivono a pag. 63, con riferimento ai cicli delle lotte, che “come un virus”, si propagano attraverso la pratica dell’internazionalismo proletario, che questi “furono il motore che guidò lo sviluppo delle istituzioni del capitale, dirigendolo verso un processo di riforme e ristrutturazioni”. Si tratta di un’ipotesi che risale in Negri ad un libro del 1972, quando il processo di ristrutturazione era appena in nuce (ma è chiamata “ipotesi” nella nota, mentre è data come fatto nel testo). Anzi, per lui queste lotte “anticiparono e prefigurarono i processi di globalizzazione del capitale e la formazione dell’impero. In tal senso, la formazione dell’Impero costituisce la risposta all’internazionalismo proletario”. Subito dopo Negri respinge l’ovvia accusa di dialettismo e teleologia che salta all’occhio, sostenendo che “le lotte sono una dimostrazione della creatività del desiderio, sono utopie fatte di esperienze vissute, sono il funzionamento della storia come potenzialità. In breve, le lotte costituiscono la nuda realtà delle res gestae”. Queste lotte, che si manifestano e a posteriori mostrano la loro ratio, precedendo e prefigurando la globalizzazione, sono in effetti, per Negri, “le espressioni dell’energia del lavoro vivo che cerca di liberarsi dai rigidi regimi territorializzanti che gli venivano imposti”; dunque dagli ordinamenti nazionali e dalle figure politiche che lo imprigionano. Sono espressione di un autoattribuito “desiderio deteritorrializzante” (evidentemente proiettato dall’autore) che “con la sua rottura spalanca tutte le finestre della storia”. La globalizzazione, dunque, in Negri è, “nel momento stesso in cui realizza una vera deterritorializzazione” delle precedenti strutture dello sfruttamento e del controllo, “una condizione di liberazione della moltitudine”. Ci dovremo tornare.

Come abbiamo visto Arrighi replica in modo piuttosto interessante, nel suo “poscritto”, all’accusa di teleologia, curiosamente avanzata da chi costruisce una vera e propria narrazione morale onnicomprensiva, quasi del tutto sganciata da fatti e circostanze. Risponde, con l’ultimo Marx, che si tratta solo di rilettura di episodi storici avvenuti, non dell’indicazione di leggi necessarie di sviluppo evolutivo. Certo, c’è una differenza essenziale: l’oggetto centrale del racconto è in Arrighi la dinamica del capitale, in cerca di superamento costante dei limiti, mentre in Negri è “il desiderio” dei subalterni.

Entrambi gli autori sono diversamente legati ad una sorta di diaspora intellettuale fortemente orientata in senso cosmopolita (a quel mondo dei “panciuti professori” che passano il loro tempo sugli aerei, in classe economica, e nelle hall degli alberghi per qualche meetings, sul quale ironizzava Richard Rorty in una sua opera “politica” che abbiamo letto “Una sinistra per il prossimo secolo”), ma Arrighi è in qualche modo connesso con la scuola realista, e vede bene gli squilibri di potere indotti dalla mondializzazione, i flussi dissimetrici che la caratterizzano e la strutturale insostenibilità per il sistema di potere nazionale statunitense. In certo senso una parte del sistema di potere che ha costituito la forza degli Stati Uniti d’America nella transizione dall’egemonia inglese, si sta rivoltando contro un’altra parte. La parte dominante del sistema delle multinazionali, in particolare ancorate agli investimenti diretti all’estero e ai flussi finanziari, contribuisce, contro gli interessi generali della base di potenza americana ed in modo decisivo a fare dell’arcipelago orientale, come dice Arrighi, l’officina e il salvadanaio del mondo; due dimensioni che sono componente critica della base del potere. Dimensioni che si divaricano, nel gioco storico degli eventi cruciali del secolo, dalla terza componente della “base”: la forza militare, che resta acquartierata nella rete delle basi militari, nella invincibile flotta, e nella straordinaria capacità di attacco aereo e missilistico (senza dimenticare la componente nucleare) americana.

Ma in Arrighi il concetto chiave è egemonia. Dunque tra “base” (termine che viene usato per “struttura” da Marx, nell’”Ideologia tedesca”, infatti userà struktur e basis) e la “soprastruttura” (uberbau, tutte metafore architettoniche come si vede, si tratta di ciò che è edificato sopra e del fondamento), in una condizione nella quale evidentemente ci vogliono entrambe, c’è una relazione molto più stretta di quella, pur complessa, della vulgata marxista. Il concetto di egemonia è per espressa ammissione, ripreso da Gramsci (che lo rileva da Lenin, ma lo estende molto) che lo impernia in una critica della vulgata marxista del rapporto tra “struttura” e “soprastruttura” nella loro reciproca influenza. I due concetti sono una unità, in senso dialettico. Ma avviene in qualche modo in Gramsci, nell’intreccio di concetti che si rimandano, un passaggio che è colto molto più da Arrighi che da Negri: la struttura, la base, è in un rapporto con la soprastruttura che ad essa si innerva e intreccia, quasi confondendosi, in un modo che ricorda quello tra storia ed evento. Cioè quel rapporto, nella lettura storica che Gramsci compie in tutta la sua opera, tra passato e presente. Affondare le radici nella storia, che è la stessa mossa nell’interpretazione del presente che compie la tradizione delle Annales (forse non a caso avviata nel ’29 e a conoscenza del nostro), significa per Gramsci liberarsi di ogni trascendenza residuale, di ogni teologia. Il concetto compare nei primi mesi del 1930, nei Quaderni del Carcere, e precisamente nell’ambito del discorso sul risorgimento (che abbiamo letto per ora qui) e resta praticato fino alla fine, ogni volta con una qualificazione: politica, culturale, linguistica, intellettuale, morale, ... l’egemonia è in qualche modo, proverei a dire, uno strumento ed un effetto, che opera nel garantire e realizzare la prevalenza di uno verso l’altro. Sia esso una classe, o un blocco storico, una nazione (come del caso). Il concetto, per essere compreso, va connesso con la sua assenza, ovvero con il puro e semplice “dominio”.

Dove il potere è nudo, privo della necessaria componente del consenso, si ha quindi solo l’esercizio brutale del “dominio”. Ma il vero potere non si limita alla costrizione; si estende alle menti ed ai cuori, si fa seguire in qualche modo volontariamente, coinvolgendo insieme: la rappresentazione di sé che si costruisce, l’immagine del mondo, e la meccanica dei valori e obiettivi, con la loro gerarchia. Si radica inoltre nella “base” degli interessi, e dei bisogni, cui in qualche modo (secondo il filtro delle rappresentazioni) l’egemone risponde, facendosene almeno in parte carico. Il vero potere è dunque egemonia. Abbiamo, ad esempio egemonia tedesca in Italia, quando volontariamente si sceglie di seguire la logica della moneta stabile e forte, della deflazione come orizzonte, dell’austerità suo mezzo. L’egemonia ha sempre un suo campo e, per chi vi appartiene, un coerente insieme di desideri, effetti di dominio (verso qualche subalterno) inseparabili da effetti identitari, e sempre risponde almeno a parte ai suoi interessi e bisogni secondo la loro percezione.

Dunque le potenze realmente egemoniche, come sono state quella olandese, inglese e americana al loro meglio, quando si sono fatte carico, anche se diversamente, di produrre e distribuire beni pubblici e senso, o come la Russia sovietica, che esportava una egemonia potente, hanno riorganizzato in parte per effetto della loro base di potere, ma in parte altrettanto importante (e inseparabile) per effetto della loro struttura di valori, rappresentazioni coerenti, tecniche e regole, intorno a sé porzioni decisive del mondo, rendendolo “sistema”. Cioè rendendolo capace di funzionare insieme e creare le premesse per una accumulazione che ha anche disciplinato, in qualche modo, i capitali incorporati entro le loro strutture e quelli mobili (che fin che dura l’egemonia sono limitati). I capitali sono, infatti, una sorta di rapporto sociale.

La storia che racconta Arrighi non va capita come storia del susseguirsi delle dominazioni, o del potere, ma di quel più sottile scontro per la capacità di organizzare le forze, di dargli direzione e senso, che alcune volte è emerso intorno ad un network ed una cultura. Cioè come storia delle egemonie che, quando sono state realizzate, fino a che sono durate, hanno reso parte del mondo un sistema (appunto un “sistema-mondo”).

 

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Parte II

Nella Prima Parte della lettura dell’importante libro di Arrighi e Silver del 1999, abbiamo tentato una lettura della complessa posizione metodologica e teorica che muove la ricostruzione, fortemente politica e insieme completamente storica del susseguirsi di sistemi egemonici capaci di organizzare parte crescente del mondo.

Egemonia” è il concetto chiave, senza apprezzare il quale nulla si potrebbe capire del testo. Non si tratta di descrizioni di ‘dominio’, di potenti e di subalterni e delle loro eventualmente contrapposte volontà (o “desideri”), qui è in gioco una capacità che non può essere progettata e che scaturisce dall’insieme di una situazione e di una storia, quella di unire al dominio il consenso. Di estenderlo alle menti ed ai cuori, coinvolgendo rappresentazione di sé, immagine del mondo, meccanica di valori ed obiettivi, interessi e bisogni. Quando si dà una egemonia si creano soggettività e ci si fa carico, in qualche misura, dei loro interessi (di quelli che sono entro il campo di senso definito dal blocco egemonico) e, grazie ad un coerente insieme di basi di potere e di valori, rappresentazioni, tecniche e regole, si riesce a far diventare “sistema” una porzione del mondo. In effetti, fino a che dura, facendo prevalere il momento cooperativo (ma intimamente gerarchico, anche se inavvertito) su quello competitivo.

La crisi è la disgregazione e in certo misura rovesciamento di questo effetto.

Con questa premessa, il libro di Arrighi e Silver giudica in corso, nel mondo, un cambiamento di “enormi proporzioni” che ha natura sociale. E che vede tramontare quella lunga fase aperta due secoli fa con le rivoluzioni gemelle illuministe, e quindi tramontare anche il predominio occidentale: in qualche modo l’egemonia maggiore. Questo giudizio, non è presentato come certezza alla maniera della scienza, ma come interpretazione della dinamica storica ed estrapolazione di alcune tendenze che, tuttavia possono anche produrre altre biforcazioni oggi non prevedibili, se ne daranno le condizioni. Ovvero se prevarranno, come dicono, “gli specifici blocchi di organizzazioni” che la esprimono. Prevarranno, sia chiaro, nello scontro egemonico, e non solo di mero dominio.

Ciò significa, tra l’altro, che una semplice logica causale lineare è inadeguata a comprendere questa fase di passaggio, che è piuttosto meglio compresa dalla teoria del caos. Ed organizzata quindi dal concetto di egemonia che, come detto nella Prima Parte di questa lettura, è ripreso da Gramsci (p.30) e che si estrinseca, al momento della sua affermazione, in una rinnovata capacità di creare ordine e governance mondiale. Alla superficie di questo movimento si vedono processi di sovra-accumulazione e la creazione di capitali mobili, con i relativi ambienti sociali “densi” dediti alla loro gestione e di cui parla la Sassen, per i quali si attiva una feroce competizione da parte delle forze territoriali e statali. Sono in sostanza le organizzazioni territoriali che competono tra di loro per attrarre e trattenere il capitale mobile, avviando con ciò processi imponenti di redistribuzione verso l’alto.

Chi vince in modo visibile a tutti gli attori questa contesa ha la base per affermare una nuova egemonia. La presenza di questa, che non è un effetto automatico dell’esistenza della base di potere, in qualche modo ricrea l’ordine nell’anarchica dinamica del mobile e riorganizza il mondo. Riesce quindi, intorno alla parte condivisa dei propri obiettivi, valori e funzionamenti, a creare la cooperazione. Una cooperazione sempre ‘dominata’ (che nell’egemonia è implicato anche il ‘dominio’, come la base di potere è implicata nella ‘uberbau’).

Dall’altra parte il crollo di un ordine egemonico esistente è dovuto al fatto che la “densità dinamica del sistema” sta eccedendo le capacità organizzative espresse dal blocco sociale e tecnico centrale, e cresce il caos, per contingenza storica e non per necessità sistemica (p.40).

La vicenda storica raccontata parte dalla crisi di passaggio dall’egemonia olandese a quella britannica. La prima fa da apripista alla creazione del sistema moderno degli Stati Sovrani e quindi al “sistema di Westfalia”, e si fonda su fattori di forza come un commercio molto remunerativo, una potente flotta e tradizione marinara, ed anche la situazione di forza della regione europea, con le guerre con la Spagna in cui si consolida il suo potere economico, commerciale e militare. La fase di erosione muove dal 1740 e prosegue fino al 1780, anni di fioritura finanziaria e al termine di spostamento dei capitali mobili su Londra.

Quel che anche in questo libro Arrighi descrive, con lunghi affreschi storici, è in sostanza una dinamica di successioni di cicli egemonici, in cui quelli che chiama i “blocchi di attori governativi e impreditoriali” dell’egemone risultano alla fine più efficienti nel conseguire accumulazione di capitale, ovvero nel servirne l’espansione che ne è l’unica legge. Più efficienti di altri, ovviamente. Bisogna introdurre una distinzione: nella versione di Wallertesin sono le proprietà strutturali del sistema capitalistico di volta in volta affermato a determinare chi si afferma, è dunque una lettura strutturale; in quella di Arrighi il rapporto va in entrambe le direzioni. Questa è una posizione teorica ma viene anche rivendicata come risultato ottenuto sul piano storico-empirico.

La questione è che l’egemonia mondiale si ottiene quando alla capacità di governance delle forze sistemiche si aggiunge la leadership, che come dicono gli autori: “si fonda sulla capacità del gruppo dominante di presentarsi, ed essere percepito, come portatore di interessi generali” (p.30), questa capacità porta un potere “addizionale”. Gruppo dominante e gruppi subordinati in qualche modo concordano che la direzione nella quale il primo dirige le forze è a vantaggio comune. Il sistema è gestibile, dunque, senza ricorrere alla pura e semplice forza.

Ma spostando la nozione (che Gramsci crea per la dinamica della lotta tra classi e ‘blocchi’, e per rendere l’azione dello Stato Nazionale) a livello internazionale diventa questione di ottenere che le caratteristiche di successo dello Stato egemone siano prese a modello generale da altri Stati di ciò che implica il successo. Ovvero che il suo particolare sentiero di sviluppo sia percepito come quello più adatto a tutti, ne vediamo un caso molto chiaro nell’egemonia tedesca in Europa.

C’è qui un problema, perché l’imitazione dei fattori di successo dello Stato egemone è per lo stesso anche un fattore di rischio perché favorisce la concorrenza e riduce i suoi propri fattori di distinzione. Come dicono gli autori riduce la sua “superiorità” e “specialness”.

Ma cambiando lente, e guardando entro questa dinamica i gruppi dominanti che operano entro lo Stato egemone ed entro gli Stati seguaci si può verificare, se è viva la domanda di governance nei confronti, ad esempio, di una minaccia ‘esterna’ (come la lotta dei ceti subalterni evocata da Negri), una “supplenza” per la quale i gruppi dominanti nell’uno come negli altri gli attribuiscono il ruolo di “promuovere, organizzare, e gestire un’espansione del [loro] potere collettivo” (p.33). E’ la dinamica che guida la globalizzazione come reazione egemonica sia dello Stato centrale (gli USA) sia dei gruppi sociali “densi” connessi alla tecnofinanza ed al sistema delle imprese mondializzate.

Il cambiamento sistemico è dunque endogeno a questo complesso di forze.

Il modello concettuale analitico che Arrighi cerca di mettere a fuoco è piuttosto complesso: agiscono entro la “struttura egemonica” due distinte forme di leadership, quella dello Stato (che opera con “logica territorialista”) e quella dei gruppi dominanti (che operano con “logica capitalistica”). Nelle fasi di espansione del sistema, prevale la cooperazione e si approfondisce la divisione del lavoro e la specializzazione. Ma l’emulazione da parte degli Stati subalterni dotati di risorse utilizzabili del modello “vincente” della potenza egemone, se all’inizio è molla per una maggiore mobilitazione di risorse (ad esempio di maggiori investimenti) poi diventa, con il tempo, causa del prevalere del momento competitivo. A questo punto prevale una logica di corto respiro, quella che chiama “tirannia delle piccole decisioni”, e l’intensificata competizione, che rende impossibile la cooperazione, induce una crisi sistemica. I suoi segnali sono l’aumento della competizione, dei conflitti sociali (che qui sono in posizione invertita rispetto al modello negriano) e l’emergere “interstiziale” di nuove configurazioni di potere, che si candidano a rimontare una nuova egemonia.

È qui che si presenta, come effetto della sovra-accumulazione e della accresciuta competizione, la fase finanziaria. Al termine, fino ad ora, il capitalismo è stato riorganizzato sotto una nuova leadership.

Probabilmente si può vedere dall’altro lato: la finanziarizzazione, ovvero la tendenza del capitale a conservarsi in forma liquida, per essere più flessibile evitando i rischi dell’immobilizzo sotto forma di merci, termina quando un nuovo schema egemonico si afferma e, dominando menti e corpi, induce la necessaria fiducia.

Il racconto parte con le relazioni tra geopolitica ed alta finanza nelle transizioni egemoniche che fin qui si sono date negli ultimi tre secoli: quella tra Olanda e Gran Bretagna, e quella con gli USA. La potenza olandese, fondata su un quasi-stato e su una classe mercantile e finanziaria privata e dinamica, è basata sullo strapotere economico e sulla scarsità degli investimenti per la sicurezza, distrattivi in logica capitalistica. Il dominio olandese è dunque molto più specializzato di quello spagnolo e svolge servizi (finanziari in primis, ma anche commerciali nella prima fase) ben desiderati e richiesti dalle potenze “territoriali” in conflitto per il potere. La Francia, la stessa Spagna, la Gran Bretagna e la Russia sono impegnati in una lotta di potere in tutto il XVI e XVII secolo, sono dunque più potenti secondo la metrica del potere militare e diplomatico, ma l’egemonia nel senso precisato è olandese.

Ma mentre il secolo declina le basi di forza dei veri Stati iniziano a prevalere, il commercio olandese diventa via via meno redditivo e le sue strutture (la Voc) imprenditoriali si mostrano incapaci, e neppure realmente interessate, di trattenere le colonie necessarie per mettere in sicurezza e proteggere i traffici più redditivi dall’accresciuta competizione interstatale. Inizia quindi la “fase finanziaria” ed i capitali si mobilizzano, la flotta perde investimenti (e guerre) ed il dominio dei mari passa alla fine in mano inglese (che vince la competizione con la Francia grazie in particolare alle risorse derivanti dal brutale saccheggio dell’India). Tra il 1740 ed il 1780 la finanza mobile si sposta a Londra, dove i massicci investimenti nella nascente industrializzazione e nella flotta offrono occasioni di valorizzazione. Sono dunque olandesi parte dei capitali che fanno grande la Gran Bretagna.

Nello scontro militare ed egemonico che oppone in quel secolo (fino alle risolutive guerre napoleoniche) gli aspiranti Stati dominanti Francia e Gran Bretagna, l’Olanda alla fine sceglie i secondi, che sono anche i più innovativi sul piano finanziario (viene creata la Banca d’Inghilterra che ha un’importanza decisiva nel rendere possibile i continui e ingenti investimenti necessari per la flotta).

Il processo di sostituzione egemonica è chiaramente assai lungo, e attraversa diverse guerre (combattute ora con l’una, ora con l’altra potenza) che contribuiscono a logorare le non illimitate risorse umane olandesi, del tutto insufficienti per l’espansione coloniale ormai indispensabile. Inoltre durante il secondo e terzo decennio del 1700 la base di forza olandese è logorata anche dalla progressiva industrializzazione, unita al mercantilismo, di sempre più potenze, come Prussia, Russia, Svezia, regno di Norvegia, Danimarca.

Gradualmente l’emulazione si muta in competizione sempre più feroce e si entra nell’ultima fase della transizione: la guerra di successione austriaca (1740-48) crea le condizioni in cui il sistema olandese del commercio improvvisamente collassa. Ma tutto si sposta in finanza e per un poco sembra addirittura ai contemporanei che il potere olandese sia cresciuto.

Nel 1758 gli investitori olandesi erano arrivati a detenere un terzo delle azioni della Banca d’Inghilterra, impegnata nel finanziamento di ingesti spese, ma anche delle compagnie commerciali inglesi (la Compagnia delle Indie Orientali e la Compagnia dei Mari del Sud), ed oltre un quarto del debito pubblico inglese. Ma la cosa valeva anche per tutti gli altri, inclusi i nuovi stati americani. L’entusiasmo portò però le case private di credito olandesi, nella competizione le une contro le altre, a sovraesporsi (fino a quindici volte le loro effettive riserve) nella garanzia di crediti a terzi. Alla fine della Guerra dei Sette Anni (che fu in pratica finanziata dagli olandesi) il livello divenne tale che le case di credito iniziarono a fallire. Il primo caso importante è nel 1763, tutti non riuscirono più a scontare le cambiali ed “il sistema si sbriciolò” (p.61). La crisi di liquidità si allargò in tutta Europa.

La Gran Bretagna venne in soccorso, ma nel 1773, al secondo fallimento lasciò improvvisamente soli gli olandesi. Amsterdam non recuperò più la sua centralità. Al 1788, altri rovesci, anche militari, portarono alla fine.

L’Inghilterra divenne a questo punto il centro del mondo.

In generale quando comincia ad emergere una nuova egemonia si presenta sulla scena anche un nuovo compromesso, con una almeno parziale cooptazione di gruppi emergenti nella fase e maggiore capacità di repressione del dissenso.

Le egemonie coloniali si basavano sullo scambio tra le nuove classi sociali commerciali e la protezione offerta dalla grande potenza marina, prima l’Olanda e poi l’Inghilterra. Ma anche si fondavano sulla solidarietà razziale e sul senso di superiorità verso le razze controllate e subalterne (e schiavizzate). La prima ondata di ribellione segue alla cessazione della minaccia, e dunque alla fine della necessità di “comprare protezione”, ciò avviene quando l’Inghilterra vince lo scontro con la Francia in America. Una vittoria eccessiva, che fa da preludio anche per la corona inglese alla perdita delle colonie (ed alla rivalsa della stessa Francia, che però lo pagherà con la rivoluzione). La catena di eventi che muove a termine l’antico regime e crea la modernità, si sposta in Francia.

L’Inghilterra fu salvata dalla rivoluzione dall’impero e dai suoi ingenti ritorni tributari, ma la situazione fu a volte difficile. Arrighi ripercorre la storia delle leggi sulla povertà, con le Poor Law del 1834, che sono l’effetto di un compromesso tra classi dominanti urbane e agrarie, e del movimento cartista, con il rovesciamento che la borghesia liberale compie dal costituzionalismo come dottrina progressista contro la Corona a dottrina difensiva contro il popolo (p. 202).

Ciò che segue è l’espansione del movimento dei lavoratori, che si cerca di tenere sotto controllo abbassando le tasse in patria ed alzandole nelle colonie. Gli effetti sono che al punto più alto dell’egemonia le classi lavoratrici (come lamenterà Engels) sono state pacificate (o meglio ‘comprate’) ma nelle colonie si susseguono le rivolte. In Cina ed in India in particolare, Marx fa in tempo ad esserne testimone.

Bisogna notare che svolge una importanza cruciale nel processo anche la vittoria di Plassey (1757) in cui gli eserciti coloniali inglesi sconfiggono in India la Francia, estromettendola. La battaglia fu abbastanza fortunosa (a dire poco, con 3.000 uomini contro 60.000), ma gli effetti furono enormi e tempestivi: avviò un saccheggio indiscriminato delle enormi ricchezze indiane che consentì in pochi anni agli inglesi di liberarsi del debito (verso tutti, ed in particolare gli olandesi) e continuare a finanziare sia la flotta sia, pochi anni dopo le guerre napoleoniche. La storia è evento e struttura.

Verso l’India il dominio britannico è parassitario, attua un sistematico drenaggio di risorse, attraverso tributi fiscali di molto superiori a quelli dell’impero Moghul (che, pure, era all’origine di provenienza esterna). La liquidità, che viene estratta, non è se non in piccola misura (e funzionale alle esigenze commerciali) reinvestito in India, ma è utilizzata in Inghilterra (cfr. p.132) e contribuisce in modo decisivo alla sua espansione industriale.

È in questo quadro che cresce la subordinazione del lavoro al capitale, ed al termine delle guerre napoleoniche la completa espansione del paese come fabbrica del mondo.

Tra il 1813, quando vengono aboliti i monopoli, ed il 1861, ad esempio, i telai automatici crescono da 3.000 (a fronte dei quali sono ancora presenti in Inghilterra 250.000 artigiani tessili, e in India una fiorente industria diffusa), a 400.000, passando per i 100.000 del 1833. Gli artigiani tessili scompaiono e l’industria indiana viene del tutto annientata. A questo punto tutti i tessuti sono fatti in Inghilterra, e venduti nel mondo (il 30% in India).

Tocca agli inglesi, ora (dopo aver battuto Napoleone) nei decenni centrali del 1800 quindi di essere il centro di un meccanismo egemonico espansivo. Le sue caratteristiche sono di essere un sistema meccanizzato di produzione e trasporto, che funge da smistamento centrale del mondo. Il “predatore territorialista” inglese, dotato della cassaforte e della immensa riserva demografica indiana (p.73), funge a questo punto da produttore del mondo e da essenziale centro logistico. La conquista della Cina e dell’India, con incorporazione subordinata degli stessi governi asiatici è ben descritta nella quarta parte, nella dichiarazione del primo ministro inglese Palmerston (che ebbe un ruolo decisivo anche nel processo di unificazione italiano), si trattava di “governi semicivilizzati” (tra i quali peraltro includeva anche la Spagna) che ogni tanto andavano colpiti (p.272). L’azione occidentale, che non manca di brutalità e che è altamente umiliante alla fine disgrega completamente il sistema tributario-commerciale sinocentrico che secondo Arrighi, nel suo ultimo libro “Adam Smith a Pechino”, ora sta riemergendo.

Questa egemonia fu comunque più larga, in pratica estesa a tutto il mondo, ma alla fine fu più breve.

La transizione con quella americana si avvia con la Grande Depressione del 1873-96, causata dalla saturazione delle linee di forza egemonica di successo e dalla crescente competizione (cfr. p.140). Emergono in questo periodo potenti complessi militari-industriali che imitano con successo l’esempio inglese, e si manifesta una enorme espansione finanziaria, nel contesto di una accresciuta rivalità tra le potenze. L’equilibrio di potere uscito dalle guerre napoleoniche inizia a decomporsi. In particolare la causa più ravvicinata della deflazione del 1873-96 è l’apertura dei commerci di cibo, causata anche da alcune cruciali innovazioni tecnologiche (qui si intreccia lo schema Kondrat’ev riletto da Mason, che focalizza invece cicli economici fondati su cicli di innovazioni tecnologiche). Il meccanismo, come spiegato da Arrighi è semplice: “il collasso dei prezzi delle merci fece diminuire il rendimento del capitale. I profitti si contrassero” fino a far pensare che il capitale era diventato di fatto gratuito, per effetto del calo dei saggi di interesse.

Dopo il 1870, come visto, cresce la competizione intercapitalista, e arriva la Grande Depressione entro la quale il movimento dei lavoratori cresce enormemente, arrivando in Germania ad essere alla fine il primo partito. Nasce la II Internazionale che rappresenta una sfida profonda, alla quale le grandi potenze rispondono in una varietà di modi. Si promuovono le prime forme di welfare, ma anche l’escalation degli armamenti e dei relativi sistemi industriali e la competizione per i capitali mobili. Esplode la prima globalizzazione. E quindi, a seguito della guerra la rivoluzione russa (p.222).

Alla fine del secolo la situazione si riprese e per un breve, entusiasmante periodo, sembrò che tutto fosse di nuovo possibile, è la “belle epoque”. Nel frattempo eravamo anche entrati nell’età dei grandi complessi monopolistici integrati orizzontalmente (l’epoca che viene descritta da Hilferding).

A questo punto la Gran Bretagna non era più l’officina del mondo ed i suoi costi di protezione dell’immenso impero coloniale, si erano fatti insostenibili. Ma la finanza inglese dominava.

Dunque tra il 1870 ed il 1913 si assiste alla fase conclusiva dell’egemonia britannica, quella che era stata la fabbrica del mondo e lo snodo logistico, oltre che il fornitore di protezione, diventava il contenitore del surplus di capitale. Ma l’esplosione finanziaria, che per i contemporanei è segno della forza e che porta ingenti rendite, in realtà, per Arrighi, “annuncia la maturità dei processi di accumulazione del capitale così come erano stati strutturati da una particolare egemonia” (p.78). Cioè “era il segnale dell’autunno”.

Dopo il 1890 le compagnie statunitensi, ormai le più efficienti del mondo, si integrano anche verticalmente e si trasformano in attori multinazionali, ampliando l’investimento diretto all’estero che nel 1914 è ormai arrivato al 7% del PIL Usa (nel 1966 lo raggiungerà di nuovo).

Le sfide di potenza si susseguono, indebolendo progressivamente la capacità di controllo inglese, tra queste le nuove navi corazzate a vapore francesi, che sfidano il predominio tecnico e militare sui mari, e la profonda ristrutturazione dell’industria degli armamenti che segue la Guerra di Crimea (1854-56), cui partecipa anche il Regno di Sardegna. Altri fattori sono la più ampia introduzione del “sistema di produzione americano” e quindi l’importazione crescente di macchine utensili dagli stessi USA, e l’avvio della produzione in serie che impatta sulle armi leggere in modo ‘catastrofico’ (rendendo possibili gli eserciti di massa). Ma anche innovazioni tecnologiche come il “processo Bessemer” per la produzione dell’acciaio e lo sviluppo senza precedenti delle ferrovie.

Tutti questi fattori vedono la ripresa della parte continentale dell’Europa e in particolare l’enorme crescita industriale della Germania (che è, però, orientata ad una “logica tecnica”, tipicamente prussiana e non “capitalistica”, dunque ha bassi margini, cfr. p.152) dopo l’unità nel 1870. In Europa si affaccia una “questione tedesca”. L’equilibrio di potenza che aveva consentito una pace senza precedenti per quasi un secolo arriva verso la fine, si formano progressivamente due blocchi di alleanze stabili (in vece delle geometrie variabili della fase precedente), le due “triplici”, che avviano il mondo verso la tragedia.

Nel frattempo gli USA superano la Gran Bretagna sia in termini di produzione sia di PIL pro capite, ricevono forti investimenti dal capitale inglese, in cerca di occasioni di investimento e rendimenti, progressivamente il 50% del capitale inglese si sposta all’estero e il 10% del reddito nazionale deriva da roialty su questi.

In questo contesto si affermano politiche di maggiore protagonismo della funzione pubblica, praticamente ovunque, in USA è il “New Deal” (p.236).

Questa volta la guerra mondiale distrugge le fondamenta finanziarie britanniche e consente in un sol colpo al paese che aveva assorbito i capitali britannici più di tutti, gli Stati Uniti, di ripagare il proprio debito e invertire la polarità finanziaria. Il sistema monetario mondiale, imperniato su Londra, si sposta a New York.

A questo punto sono ancora in campo solo gli stati con potenti e complessi sistemi militari-industriali su scala continentale. La cosa diventa assolutamente evidente con la seconda guerra mondiale, vinta dal complesso militare-industriale americano (e dal sacrificio dell’Armata Rossa). La nuova egemonia statunitense è basata su alcuni fattori di forza di base: l’enorme estensione del loro mercato interno, un intero continente, e la sua integrazione; un rapporto di maggiore autosufficienza, rafforzata dalla geografia che la separava con due oceani dagli altri centri di potere; la supremazia decisiva nella tecnologia bellica. Uno studio della Fondazione Wodrow Wilson, nel 1955, dichiarava che gli Stati Uniti sono “solo parzialmente integrati nel sistema economico mondiale, con il quale sono in competizione soltanto parzialmente e il cui modo e ritmo di funzionamento abituale tendono a disturbare di tanto in tanto. Non c’è nessuna rete tra le istituzioni finanziarie e commerciali americane che leghi e organizzi le operazioni quotidiane del sistema commerciale mondiale” (p.95).

Ma bisogna considerare anche il ruolo della soprastruttura costituita in questo caso dagli Accordi di Bretton Woods, questi determinarono il controllo della finanza, ovvero del grande capitale mobile, da parte della regolazione pubblica, in vece della regolamentazione privata che era uno dei tratti distintivi della egemonia britannica (e condiviso con quella olandese). Henry Morgenthau dichiarò, in tale occasione, che “sicurezza e istituzioni monetarie [pubbliche, come il FMI] erano complementari, come le lame di una forbice” (p.100). La capitale della grande finanza si sposta da Londra e Wall Street a Washington.

Serviva però una reflazione mondiale, ed in particolare europea, dopo le devastazioni indotte dalla guerra, ma il circolo vizioso tra scarsa liquidità, controlli sui cambi, scoraggiamento degli investimenti ostacolava questa necessità (che, non bisogna dimenticare è anche politica, in quanto lo stato di crisi favorisce i partiti filosovietici di sinistra). Il capitale privato americano non mostra intenzione di interrompere il circolo, è un caso di scontro tra una “logica capitalistica” (rivolta solo alla valorizzazione a breve termine del capitale stesso) e una “logica territorialista” (rivolta al controllo politico).

Secondo Arrighi questa impasse viene risolta dalla “invenzione della guerra fredda”. Truman vince la resistenza del Congresso e dei suoi lobbisti, enfatizzando la minaccia politica sovietica ed espellendola dal mondo. Nasce la politica del “mondo libero” che, cedendo una parte del mondo alla controegemonia sovietica, ma guadagnavano la motivazione per organizzare, dominare e orientare la “propria” parte del mondo.

È in questo quadro, su cui torneremo talvolta, che l’egemonia americana si afferma. Nella fase espansiva la cooperazione subalterna determina un ordine nel quale crescono i compromessi e le strutture (incluso il progetto europeo nella prima versione) che giustificano il lavoro per il bene comune dell’America. È anche la fase della completa affermazione dell’industria di massa fordista, della crescita dei consumi, della socialdemocrazia.

In particolare fa parte di questa logica anche la promozione da parte americana, condotta con largo impiego di capitali, di agenzie semiprivate e di figure ibride di agenti come il famoso Jean Monnet, della cooperazione europea in chiave di sicurezza. Ai contemporanei, di entrambi i campi, la cosa è abbastanza chiara da essere tutto sommato ovvia, anche se è prudentemente poco sbandierata, abbiamo letto con qualche attenzione il dibattito sul Trattato di Roma che lo mostra bene.

Ma ad un certo punto l’emulazione dei fattori di successo porta ad una crescita della competizione ed a un indebolimento della differenza americana. La crisi si apre con il doppio deficit degli anni sessanta e con la sconfitta del Vietnam.

La crisi egemonica che si apre nel 1970 ha, per Arrighi, molte somiglianze con quelle precedenti:

- l’intensificazione delle rivalità tra grandi potenze,

- l’emergere di un nuovo centro di potere ai margini del raggio di azione dello stato egemonico in declino,

- una espansione del sistema finanziario che è imperniato sulle strutture di questo.

Quando comincia quella che Fred Halliday chiama “la seconda guerra fredda”, il governo americano inizia a competere in modo molto più aggressivo con l’Unione Sovietica, e ad attrarre il capitale mobile per finanziare i deficit commerciali (necessaria al consenso interno nell’intreccio degli scontri di classe degli anni sessanta e settanta, per garantire il “sogno americano” e insieme i margini dell’industria) e quello pubblico (alimentato sia dalla spesa sociale sia, e soprattutto, dalla crescente spesa militare). Crescono enormemente i profitti sui capitali e l’espansione finanziaria esplode, insieme alla percezione del potere americano nel mondo. Dal 1980 al 1990 le multinazionali che seguono alla finanziarizzazione esplodono da 10.000 circa a oltre 30.000 e con esse la crescita della concorrenza (p. 167) e la migrazione dei capitali nei paradisi fiscali. Ma soprattutto si ha un cambiamento essenziale nel rapporto tra governo ed imprese. Su questo tema la letteratura è talmente ampia che non credo di dover insistere.

Ma è in questo periodo che i capitali in giro per il mondo e le aperture commerciali, orientate agli interessi “capitalistici”, ovvero del sistema di potere delle multinazionali (uno dei fattori di forza da sempre degli USA e del loro sistema di potere, ma in precedenza funzionalizzato anche alla logica di lungo periodo del sistema Stato, cfr. p.114), provocano con massivi Investimenti Diretti all’Estero e flussi di capitali mobili, attraverso la “finanza ombra”, la crescita dell’Asia Orientale. Cioè, ai margini del sistema cresce una nuova base di potere, che tende ad essere indipendente, secondo l’autore, dalla dominazione egemonica occidentale. Quindi potenzialmente portatrice di una nuova egemonia.

Mentre questo avviene e diventa visibile, negli anni ottanta, si ha il repentino crollo del sistema sovietico e quindi la fine dell’”invenzione della guerra fredda”.

Al converso, la capacità militare si concentra sempre più e sembra avviare una biforcazione che è l’elemento di maggiore differenza rispetto alle precedenti crisi egemoniche.

Questa strana situazione in una prima fase, a ridosso del 1989 e nel decennio successivo provoca un clima euforico nel quale l’unilateralismo imperiale sembra affermarsi, fino al fallimento dell’Iraq che rappresenta il punto di massimo sviluppo di tale autoinganno.

Ma questa crisi interrompe anche una caratteristica propria di tutte le fasi espansive di un sistema egemonico per Arrighi: il patto sociale tra gruppi dominanti e subordinati. Dalla pace sociale, in cui si ha espansione del commercio, creazione di surplus e sempre maggiore capacità produttiva, si passa ad un “circolo vizioso”, in cui cresce la conflittualità e la competizione indebolisce i patti sociali e la finanziarizzazione va di pari passo con la polarizzazione economica. In conseguenza in tutte queste fasi si ha una relativa distruzione delle classi medie.

La conclusione è, come nella logica di questa ampia ricostruzione storica, aperta. La fase terminale della crisi aperta nel 1970 potrà essere caotica, ovvero non prevedere l’emergere di un nuovo ordine egemonico esteso al mondo intero, e una nuova fase espansiva derivante dalla cooperazione rinnovata, o vedrà l’emergere di un nuovo egemone (che immagina ad oriente) capace di fornire il bene pubblico dell’ordine e di incorporare in modo più efficiente le forze che si muovono nel complesso presente. Se, infatti, il sistema alla fine crollerà sarà perché gli Stati Uniti, che godono ancora di una grande base di potere, anche se più militare che industriale, non vogliono farsi carico di essere ancora egemoni. Sono, cioè, tentati dal mero dominio. Con le sue parole, crollerà per la “refrattarietà all’adattamento ed alla conciliazione”.

Avremo, dunque ordine o violenza.

Rispetto all’epoca in cui Arrighi scrive questo libro, il 1999, è ancora Presidente Clinton, e dunque è in espansione la finanziarizzazione e la mondializzazione, ma in Europa si apre la fase social-liberale, con Blair (1997/2007) e Scroeder (1998/2005), la Cina sta emergendo ma non è stata ancora ammessa al Wto.

Il seguito, la fase neoconservatrice del potere americano e l’enorme perdita di capacità egemonica seguita alla seconda guerra irachena sembrerà dargli ragione, per non parlare della crisi finanziaria del 2008, a seguito della quale scrive il “postscritto”.

Come avevamo scritto nel post programmatico “La grande partita” lo scontro egemonico sembra andare avanti, le basi di potere si spostano (ad esempio lo strapotere militare americano non sembra più così saldo, dopo la ripresa della capacità russa) continuamente. Le proposte egemoniche che sembrano contrapporsi sono quella, ancora dominante, anglosassone e l’emergente posizione della costellazione del nord Europa entro la crisi del continente e dell’area Euro in particolare. Ma uno spazio potenziale va anche ascritto alla potenza vocazionalmente imperiale russa (le cui basi di potere crescono e che potrebbe saldarsi verso occidente e verso sud o, con un salto del cavallo, tornare all’asse con gli USA e ricandidarsi a dominare insieme il mondo) e alla potenza commerciale e industriale cinese.

Seguendo la metafora arrighiana dei ‘sentieri di sviluppo’ potremmo essere cioè vicini ad una biforcazione “catastrofica” (ovvero nella quale il sistema improvvisamente scatta ad un altro piano di stabilità), in buona misura resa possibile dalla immane capacità destabilizzante del capitale mobile, intrinsecamente ostile al principio d’ordine della statualità e della nazionalità (non sempre coincidenti).

L’elezione di Trump, e la Brexit, hanno a che fare con una reazione a tale rischio, e con l’istinto di sopravvivenza di alcune élite militari-industriali e forse di parte del mondo stesso della stessa grande finanza che sa bene essere in una situazione del tutto insostenibile nel medio termine. Come avevamo scritto quel che sembra di vedere è il tentativo di sfidare la proposta egemonica del capitale finanziario mobile, fino ad ora dominante, e quindi anche il network di tecnici (con relativi saperi), agenti, istituzioni, luoghi, che ne determinano il radicamento ed il funzionamento.

Dal punto di vista di Washington, ma forse anche da quello di Pechino e di Mosca (in ciò riposa la speranza di evitare almeno gli esiti più drammatici), occorre riportare in termini controllabili la proiezione di controllo e cercare un nuovo compromesso sostenibile, dal quale deriva la stessa possibilità di accumulazione, uscendo dall’attuale logica estrattiva del capitale privato mobile. Per ottenere tutto questo, e rigarantirsi gli spazi di autonomia strategica, è indispensabile per le diverse aree economiche reindustrializzarsi e quindi ribilanciare il commercio, tornando a pagare le importazioni con le proprie esportazioni e non più, nel caso degli USA, con la vendita di “sicurezza” (cosa che sovraestende eccessivamente le forze, comunque limitate, leggeremo Todd in proposito).

Questo rivolgimento necessariamente presuppone però anche la ri-messa sotto controllo da parte dello Stato delle forze animali del capitale mobile (facendo leva su quelle delle diverse forme di capitale fisso), dunque, non vedo altra alternativa reale, la riaffermazione della “logica territorialista” alla scala opportuna. Vedremo che su questo punto ci sono diverse ipotesi nella letteratura geostrategica, la principale è che nella “grande partita” potrebbero nascere delle scacchiere macroregionali in reciproco equilibrio (qualcosa del genere è scritto anche da Kissinger in “L’ordine mondiale”, del 2014). Una sorta di “ordine nell’ambito delle varie regioni, per mettere in rapporto tra di loro questi ordini regionali” (Kissinger, p.369), dunque una variante del concetto di equilibrio di potere (che non è affatto incompatibile con l’esistenza di un sistema-mondo o un egemone d’ordine, in quanto era la situazione durante la fase Britannica).

Ma “una versione modernizzata del sistema vestfaliano”, entro il quale crebbe prima la mondializzazione commerciale olandese e poi quella industriale-commerciale inglese, richiede che i paesi a vocazione estrattiva (come gli stessi USA, in certe fasi e secondo una parte della loro natura e la Germania) quelli introversi e insondabili, come la Cina, le potenze inaggirabili come la Russia (con le sue enormi risorse territoriali, energetiche e la vocazione militare di terra), e la costellazione orientale oscillante tra i diversi allineamenti, trovino un modo di essere insieme.

Contrariamente alla visione di Parag Khanna, che leggeremo abbondantemente, la partita essenziale è nelle mani degli Stati e non dei mercati, incapaci per parte loro di trovare un equilibrio stabile e sostenibile. Dunque presume di ripristinare, prima che sia troppo tardi, l’autentica fonte di sovranità statuale: il controllo della domanda interna. Ma ciò può avvenire solo se si pongono sotto controllo responsabile, ovvero se si riconducono alla logica della potenza dello Stato e non del singolo agente, i flussi di capitale.

Ora, lo slogan (non particolarmente originale) di Trump, “fare nuovamente grande l’America”, significa in questo contesto riguadagnare la base di forza tale da poter essere in equilibrio, in modo da non dipendere necessariamente dal saccheggio delle altrui risorse.

Certo, significa anche, dal suo punto, risolvere questo puzzle:

- Impedire che si saldi un blocco egemonico esteso all’eurasia, e anche alla sola Asia (comunque luogo di concentrazione della metà della popolazione mondiale), tenendo distinte e separate (come peraltro sono state per millenni) le loro diverse forze e restandone arbitro,

- trovare un accordo di coesistenza e possibilmente cooperazione con la Russia, accuratamente restando in mezzo tra questa e l’Europa,

- conservare la propria presa egemonica sull’Europa (riportando dentro una gabbia il demone tedesco che dall’unificazione sembra voler di nuovo uscirne).

In questo grande gioco, sarebbe il caso di avere una nostra posizione (anche se forse è chiedere troppo).

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