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Economia delle piattaforme e uberizzazione del lavoro

di Bollettino Culturale

antunes1 1Negli ultimi cinquant'anni abbiamo assistito alla devastazione delle forme tradizionali di lavoro. Non c'è dubbio che la forma del lavoro salariato, sotto il modello taylorista-fordista, caratteristico del XX secolo, contenesse sfruttamento, alienazione e costrizione. Tuttavia, era stato forgiato e regolato da innumerevoli lotte portate avanti da coloro che lavoravano per sopravvivere, fin dalla Rivoluzione Industriale. La crisi dell'accumulazione di capitale, iniziata negli anni '70, è stata momentaneamente superata da una serie di ristrutturazioni produttive che sono state chiamate postfordismo, toyotismo o accumulazione flessibile. Dalla crisi del 2009, il modello che si è diffuso in tutto il mondo è stato l'economia delle piattaforme e il lavoro uberizzato, usate per il superamento della crisi dell'accumulazione. Questi due elementi possono essere studiati molto bene nel settore dei servizi, a causa dell'intensificarsi della flessibilità, della precarietà, dell'informalità e dell'ideologia dell’autoimprenditorialità.

La discussione sulla flessibilità deve considerare il processo di ristrutturazione produttiva, basato sull'incorporazione di nuove tecnologie basate sulla “microelettronica e connettività di rete al sistema produttivo”, nonché nuove modalità di organizzazione, gestione e controllo del lavoro. Ciò implica un intenso aumento dell'uso delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione (ICT) nell'organizzazione del lavoro, con il risultato di lavoratori sempre più sfruttati, isolati e sempre più precari.

La deindustrializzazione, seguita dall'espansione del settore dei servizi, hanno dato origine a occupazioni instabili, insicure, con salari bassi e un costante indebolimento delle organizzazioni sindacali.

In questo senso, c'è un movimento pendolare in cui la forza lavoro oscilla, da una parte verso un mondo con un ruolo minore e decrescente di lavoro stabile, ad un ritmo di lavoro intensificato e privo di diritti, a dall’altra ad una crescente superfluidità, guidata da lavori informali e precari. Analoga diagnosi è stata fatta da David Harvey, indicando la crescita dei lavoratori appartenenti al gruppo periferico del mercato del lavoro, con instabilità lavorativa, lavori più semplici, di routine, facilmente sostituibili dalla tecnologia e con minore sicurezza del lavoro, e il calo dei lavoratori nel gruppo centrale del mercato del lavoro, composto da lavoratori a tempo pieno, con assunzione formale, con flessibilità funzionale e maggiori possibilità di avanzamento professionale.

Le società di trasporto private che utilizzano le applicazioni per lavorare, rispecchiano la realtà di questi due gruppi di lavoratori. Essendo aziende ad alta tecnologia, hanno bisogno di una forza lavoro più qualificata per lo sviluppo di software e ICT, allo stesso tempo hanno bisogno di modalità di lavoro più instabili, informali e precarie per svolgere il lavoro operativo.

In questo scenario, le aziende appartenenti all'economia delle piattaforme gestiscono una forza lavoro ampia e disaggregata attraverso le loro piattaforme e algoritmi, che forniscono esperienze relativamente standardizzate ai passeggeri, attraverso conducenti dilettanti, trattati come "collaboratori e imprenditori di se stessi", responsabili delle risorse utilizzate e i servizi forniti.

Queste società cercano cercano dei “collaboratori” da mettere al volante a causa dell'appello alla flessibilità, all'indipendenza, all'autonomia e al reddito extra che questa attività lavorativa può offrire.

Antunes sottolinea che è quindi fondamentale comprendere i modelli espressivi e i significati delle modalità di organizzazione e controllo del processo lavorativo, "[...] al fine di consentire una migliore comprensione dei meccanismi e degli ingranaggi che guidano il mondo del lavoro verso l'informalità".

Società come Uber emergono come i principali rappresentanti del settore, in grande crescita, denominato economia delle piattaforme.

Esistono altri termini utilizzati per studiare questo fenomeno ma io preferisco questo termine poiché sono interessato alle condizioni ed ai rapporti di lavoro proposti dalle società-piattaforma o dalle società-app. Anche se abbiamo organizzazioni che di fatto utilizzano le piattaforme digitali alla ricerca di alternative non monetarie e di mercato che promuovono la condivisione di beni, o anche cooperative-piattaforma alla ricerca di alternative al modello gestionale tradizionale, è il mercato che si appropria su larga scala della tecnologia della piattaforma e promuove cambiamenti significativi nel mondo del lavoro. Non si stabilisce quindi una nuova economia della condivisione o collaborativa, né una nuova economia delle persone per le persone, ma società-piattaforma che espandono la capacità di organizzare e controllare il lavoro e, quindi, di estrarne plusvalore.

Le piattaforme rappresentano un punto di produzione distinto e digitale in quanto le piattaforme reindirizzano e isolano le relazioni sociali coinvolte nel lavoro e le trasformano in relazioni di produzione. Come in un luogo di lavoro tradizionale, in cui i lavoratori timbrano il proprio cartellino all’inizio e alla fine del turno, i lavoratori dell'economia delle piattaforme si collegano a un'applicazione e, nel farlo, sono soggetti a un'autorità esterna che organizza la domanda dei consumatori, determina quali compiti devono essere eseguiti, dove, quando, il prezzo e ne controlla direttamente o indirettamente l'esecuzione. Quindi, indipendentemente da dove si svolge esattamente il lavoro, sia fisicamente per strada, come nel caso degli autisti Uber, sia digitalmente come il Mechanical Turk di Amazon o il lavoratore Upwork, le piattaforme, grazie ai propri algoritmi, sono responsabili della gestione e dell'organizzazione del lavoro.

Possiamo analizzare il nostro oggetto di studio dividendo l'economia delle piattaforme in quattro grandi gruppi:

1. Piattaforme di lavoro digitali: piattaforme clickwork di microlavoro digitale come Amazon Mechanical Turk, Microworkers, Clickworker, Appen e Lionbridge, in cui chiunque abbia accesso a Internet può registrarsi, far parte di una linea di produzione digitale (locale e globale) ed eseguire microlavori, sottoprodotti dell'informazione, in gran parte incentrati sulla produzione e il miglioramento dell'intelligenza artificiale. Nel caso di piattaforme come Upwork o Freelancer, invece, viene facilitato l'incontro di lavoratori con qualifiche specializzate e differenziate, tradizionalmente noti come freelance, con grafici, consulenti, designer, traduttori, ingegneri, tra gli altri. In altre parole, una sorta di retribuzione di massa e informale per la produzione di lavoro digitale, qualificato e non.

2. Piattaforme di organizzazione del lavoro in loco: società-piattaforma che controllano e organizzano i lavoratori sul posto come autisti, elettricisti, guardie giurate, infermieri, bidelli, tra i tanti, come Uber, Cabify, Glovo, TaskRabbit o Handy. La differenza con il primo gruppo è che, qui, i lavoratori devono essere presenti fisicamente per svolgere i loro compiti. Come per il primo gruppo, possiamo affermare che le società-piattaforma utilizzano le nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione come sotterfugio per eludere le normative sul lavoro salariato.

3. Piattaforme di lavoro digitale non retribuito: consideriamo le attività svolte su piattaforme come Facebook, Tripadvisor, Youtube e Google come lavoro digitale non retribuito, dove non è stabilita una forma di lavoro salariato dipendente mascherata, che produce dei dati raccolti dalle piattaforme e trasformati in input produttivi. Ad esempio, diventano informazioni utili a sostegno di decisioni strategiche, tattiche ed operative delle aziende. L’economista Andrea Fumagalli propone l’idea di valore-rete per analizzare la creazione di valore a partire dai dati raccolti da queste piattaforme.

4. Piattaforme classificate come digitali: infine abbiamo le piattaforme che aiutano nell'intermediazione tra persone, che mirano a noleggiare prodotti personali, come Airbnb, con rapporti commerciali mediati dalle società-piattaforma e inesistenza di produzione di plusvalore. In breve, sono grandi annunci digitali che rendono facile per proprietari e inquilini o acquirenti e venditori trovarsi l'un l'altro.

In sintesi, si comprende che sia il lavoro digitale (primo gruppo) che il lavoro in presenza (secondo gruppo), mediati da piattaforme digitali, si presentano come un nuovo modello di organizzazione e controllo del lavoro salariato. Il lavoro svolto dai lavoratori di entrambi i gruppi produce valore direttamente al capitale, mentre sia il lavoro digitale non retribuito (terzo gruppo) sia i rapporti commerciali promossi dagli annunci digitali (quarto gruppo) producono solo valore indiretto al capitale, fondamentale per la sua riproduzione, senza, tuttavia, estrarre plusvalore. Anche se per il terzo gruppo la questione è oggetto di dibattito da parte dei marxisti di ispirazione operaista.

Questa differenziazione è necessaria, poiché non possiamo trattare il lavoro dei consumatori o l'intermediazione commerciale come lavori direttamente produttivi per il capitale, in cui si stabilisce un rapporto capitale-lavoro. Credo che sia fondamentale identificare i punti critici nei processi produttivi e distributivi, dove le azioni dei lavoratori possono effettivamente generare risultati.

In altre parole, non sono gli host di Airbnb e nemmeno i prosumer di Tripadvisor che spingeranno le società-piattaforma a migliorare le condizioni di lavoro.

L'uberizzazione del lavoro è il termine usato per rappresentare la stragrande maggioranza del lavoro offerto dalle aziende nell'economia delle piattaforme, chiamato anche crowd employment e crowdworking. L'uberizzazione del lavoro sta alle società-piattaforma, come il lavoro in outsourcing sta alle aziende toyotiste o postfordiste, essendo sinonimo di lavoro intermittente, in gran parte informale, in cui i rapporti di forza tra capitale e lavoro, in passato frutto di un conflitto sindacale, diventano imposizioni del capitale sul lavoro. L'uberizzazione è una nuova forma di organizzazione, gestione e controllo del lavoro, adatto per un lavoratore just-in-time, sempre disponibile e scartabile. Con le società-piattaforma si amplia la capacità di organizzazione di questi lavoratori alla spina, che David Harvey aveva già osservato svilupparsi con le aziende toyotiste. Se nel Toyotismo le aziende sottolineano l'importanza dell’outsourcing, grazie alle esternalizzazioni verso piccole e medie imprese collegate alla sede centrale e pronte a soddisfare le sue esigenze, oggi dobbiamo aggiungere anche i cosiddetti "imprenditori di stessi”. In entrambi i casi, l'obiettivo principale del capitale è quello di rompere con la struttura politico-istituzionale della regolamentazione del lavoro attraverso il discorso dell'imprenditorialità, la magia della tecnologia e l'appello a coloro che lottano per la sopravvivenza in una società del lavoro senza lavoro.

Il termine uberizzazione del lavoro si riferisce al successo di Uber nell'utilizzo di piattaforme per controllare e organizzare il lavoro di milioni di lavoratori in tutto il mondo. In ambito accademico, il termine uberizzazione ha fatto la sua prima comparsa negli studi di Hill, quando si discuteva della precarietà del lavoro negli Stati Uniti con lo sviluppo dell'economia delle piattaforme. Antunes considera l'uberizzazione del lavoro, nel contesto del capitalismo finanziario informativo, come una forma tripode di terziarizzazione, informalità e flessibilità, che valorizza l'adozione di processi di subappalto, che incoraggia l'emergere di piccole imprese e la produzione di massa di persone che si pensano come nano-imprenditori.

I fan di Uber e simili attribuiscono il successo di queste aziende alla tecnologia e all'efficienza nel collegare passeggeri e conducenti. Tuttavia, le ricerche già mostrano che la vera differenza di queste compagnie di trasporto rispetto alle compagnie di taxi, che hanno già una tecnologia simile, è il mancato o parziale pagamento di tasse e oneri stabiliti per il settore, la soppressione dei diritti dei lavoratori come le ferie e la tredicesima e l'intensificazione del lavoro.

I ricercatori del Massachusetts Institute of Technology (MIT), nel 2018 hanno svolto un ampio studio sulla remunerazione del lavoro degli autisti Uber e Lyft. Hanno intervistato 1100 conducenti negli Stati Uniti, concentrandosi sui costi e sui guadagni legati allo svolgimento di questa attività lavorativa. I risultati mostrano che il profitto medio del conducente è di 3,37 dollari l'ora al lordo delle tasse e che il 74% dei conducenti guadagna meno del salario minimo nel loro stato. Il sondaggio ha anche rivelato che il 30% dei conducenti sta effettivamente perdendo denaro. Il reddito lordo medio del conducente è di $ 0,59 per miglio percorso (1,6 km), ma quando si aggiungono le spese operative del veicolo, il profitto effettivo del conducente scende a una media di $ 0,29 per miglio.

Stanford, nella sua indagine sui conducenti Uber e tassisti australiani, suggerisce che il reddito orario netto effettivo dei conducenti Uber, dopo aver dedotto i costi totali di funzionamento del veicolo e altre spese, è inferiore alla metà del salario minimo medio specificato per i lavoratori del trasporto passeggeri. Stanford conclude, nella sua ricerca ampia e dettagliata, che se Uber pagasse ai suoi autisti l'equivalente del salario minimo (senza modificare il suo margine) eliminerebbe completamente il suo vantaggio di costo rispetto ai taxi convenzionali. Impiegando lavoratori precari e informali, il capitale può produrre beni con un valore inferiore al loro valore sociale medio perché i loro costi salariali sono inferiori a quelli pagati per lavori formali. Di conseguenza, i beni prodotti contengono meno capitale variabile, ma sono comunque venduti a prezzi regolari in modo da poterne ricavare un extraprofitto.

Le società-piattaforma sono responsabili della produzione e riproduzione dell'uberizzazione del lavoro e contribuiscono al processo di impoverimento dei lavoratori. Simboli dei modelli precari di lavoro post-fordisti del recente passato, aziende come Toyota, WalMart, McDonald's, tra le tante, cedono il passo ai modelli di gestione e controllo del lavoro di società-piattaforma come Uber, Amazon Mechanical Turk, Glovo, TaskRabbit, tra i tanti possibili esempi.

Per lavoro precario, intendo un tipo di lavoro incerto, con un alto livello di imprevedibilità e con un notevole grado di rischio dal punto di vista del lavoratore. Sulla scia del processo di globalizzazione economica e di sviluppo tecnologico, senza trascurare le politiche neoliberiste attuate negli anni '70/'80 in diversi paesi centrali e periferici, si è assistito ad un indebolimento dei sindacati che, fino ad allora, erano stati fonte tradizionale di tutela per i lavoratori. Inoltre, la deregolamentazione del mercato del lavoro ha ulteriormente intensificato la contraddizione del rapporto capitale-lavoro favorendo il primo rispetto al secondo, in termini di riduzione delle forze compensative che consentivano aumenti salariali e tutela dei lavoratori. Ciò significa che il lavoro precario fa correre ai lavoratori il rischio della loro attività lavorativa al posto delle imprese e dello Stato, oltre a perdere i benefici sociali del lavoro regolamentato, nonché le protezioni sociali.

Per la sociologia economica, il lavoro precario può essere compreso dalle seguenti tendenze: 1) desindacalizzazione, che influisce in negativo sulla tutela dei lavoratori; 2) finanziarizzazione dell'economia, che conferisce maggiore potere agli investitori istituzionali nei confronti degli altri stakeholder; 3) la globalizzazione, che aumenta la concorrenza tra i lavoratori e aumenta la velocità della mobilità dei capitali; e 4) la rivoluzione digitale, che oltre a guidare le tre tendenze precedenti, consente alle aziende di utilizzare le piattaforme digitali come struttura organizzativa, rendendo indipendenti i suoi lavoratori e alimentando la crescita dell'economia delle piattaforme. Tali tendenze portano all'immagine della deriva, così ben esplorata da Sennett, in quanto gli individui iniziano ad avere esperienze frammentate, ma che, allo stesso tempo e paradossalmente, si organizzano come un tutt'uno. L'organizzazione del lavoro non è imprevedibile e nemmeno casuale, ma è il risultato della riorganizzazione manageriale del lavoro, che punta sul trasferimento dei costi ai lavoratori attraverso contratti flessibili. Pertanto, i costi associati all'assunzione di forza lavoro stabile sono ridotti, in quanto i lavoratori vanno e vengono.

Sulla stessa linea, Boltanski e Chiapello affermano che le aziende più innovative sembrano lavorare con un gruppo stabile di lavoratori precari che coesistono accanto a persone impiegate con politiche di fidelizzazione. L'attuale prassi delle organizzazioni consiste nell'occupazione di posti di lavoro fissi da parte di un numero ridotto al minimo di persone con l'utilizzo, in parallelo, di lavori detti esterni, sotto forma di lavoro interinale affiancato da outsourcing e part-time. In quanto strumento essenziale di flessibilità, il part-time consente il lavoro on demand, in quanto aumenta la presenza di personale nelle ore di punta, ed è quindi spesso utilizzato in attività del terziario, per definizione, non stoccabili.

Oltre alla precarietà, i lavoratori iniziano a comportarsi come se fossero microimprese concorrenti sul mercato. L'uberizzazione della forza lavoro porta direttamente all'idea che le persone siano in ultima analisi responsabili dei propri destini economici. Pertanto, le aziende nell'economia delle piattaforme trasferiscono gran parte dei rischi e dei costi dell'impresa a lavoratori fintamente autonomi , debitamente registrati nelle loro banche dati e disposti a svolgere le attività con le proprie risorse.

Per giustificare il trasferimento di questi rischi e costi, l'idea di imprenditorialità e/o produzione di massa di persone che si pensano come se fossero nano-imprenditori sembra servire a questo scopo.

Questa logica fa parte del discorso sul capitale umano, in cui la trasformazione dell'uomo in imprenditore diventa un vero e proprio progetto di società. Il manager emerge come un tipo ideale di uomo che fa impresa, con un'elevata capacità di assunzione di rischi, di decisione, di risoluzione di problemi complessi, e deve essere preparato a sopportare lo stress del lavoro quotidiano, con lo sviluppo di diversi tipi di intelligenza (cognitiva ed emotiva), in modo che possa mobilitare tutte le sue qualità al servizio della redditività.

A causa dell'attuale sviluppo tecnologico, è possibile installare uffici nelle case dei lavoratori, ad esempio sotto forma di uffici domestici, implicando una vera e propria colonizzazione dello spazio e del tempo personale, progressivamente dominato da preoccupazioni legate alla redditività delle proprie azioni.

In questo senso, l'auto-imprenditore si affianca a quello che Gaulejac chiama manager di se stesso, in cui la soggettività diventa oggetto di una sollecitazione massiccia, oltre che contraddittoria. La sua autonomia si afferma nello stesso momento in cui deve rispondere in modo equilibrato e, perché no, con maturità alle ingiunzioni sociali. Nell'ideologia dell'autorealizzazione, il potenziale umano viene sviluppato in funzione della sinergia con gli obiettivi di redditività dell'impresa. Tuttavia, poiché ogni ideologia cerca, in linea di principio, di nascondere i veri rapporti sociali, si premia la buona gestione di se, la costruzione di rapporti di lavoro il più armoniosi ed efficaci possibile, dimenticando le contraddizioni sociali e non mettendo mai in discussione il funzionamento dell'impresa e, più in generale, i rapporti di lavoro.

Così, l'uberizzazione, che ha fatto brillare gli occhi di molti che intravedevano la possibilità dell'emergere di una modalità di lavoro collaborativa, segna il ritorno di condizioni di lavoro simili a quelle praticate prima delle conquiste del movimento operaio. L'uberizzazione rafforza il massimo grado di influenza del capitale industriale (detenuto da Uber) sul processo lavorativo sussunto al capitale. Pertanto, l'uberizzazione può essere intesa come una nuova fase di sfruttamento del lavoro, che apporta cambiamenti qualitativi alla condizione del lavoratore e alla configurazione delle imprese, che iniziano a ricevere l'appellativo di società-applicazione e incoraggiano nuove forme di controllo, gestione e espropriazione del lavoro.

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