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eticaeconomia

Amazon e il capitalismo senza profitti

di Maurizio Franzini

Maurizio Franzini prende spunto dalla recente notizia secondo cui Bezos, CEO di Amazon, ha superato Bill Gates come uomo più ricco del mondo per riflettere sulla causa principale di questo sorpasso: il vertiginoso aumento del valore di Amazon in Borsa. Franzini dopo aver ricordato che esso sii è verificato in corrispondenza di profitti persistentemente molto bassi, si chiede cosa abbia reso possibile questa apparente anomalia e ipotizza che dietro di essa possa celarsi una nuova varietà di capitalismo: il capitalismo senza profitti

Amazon Robots Jobs 8 superJumbo“Il venerdi mattina le azioni di Amazon erano cresciute dell’8% rispetto alla sera precedente facendo aumentare la ricchezza di Bezos di 7 miliardi. Nel frattempo le azioni Microsoft hanno avuto un’impennata del 7% sicché quell’aumento non è stato sufficiente a Bezos per scalzare Gates… ma alle 10 e un quarto Amazon è cresciuta ancora del 2%, così la ricchezza di Bezos è salita a 90,6 miliardi di dollari superando finalmente quella di Gates che ammontava a 90,1 miliardi”.

E’ questo il resoconto, da me liberamente tradotto, che si può leggere sul sito di Forbes della mattina di fine ottobre in cui Bezos, CEO di Amazon, è diventato l’uomo più ricco del mondo. In realtà, non è la prima volta; il sorpasso c’era già stato a fine luglio ma nel volgere di una notte si era verificato il controsorpasso e Gates si era ripreso lo scettro che è stato nelle sue mani per moltissimi anni, con l’eccezione di due brevi intervalli in cui lo ha ceduto a Warren Buffett e Carlos Slim.

Non sappiamo per quanto tempo Bezos (il cui patrimonio – non molto diversamente da quello di Gates – equivale a circa 250.000 appartamenti di buona metratura nel centro di Roma) resterà al comando di questa speciale classifica, e di per sé la questione non è molto interessante.

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vocidallestero

Il difetto fatale del neoliberismo: è un modello economico scadente

di Dani Rodrik

Il difetto fondamentale del neoliberalismo – o neoliberismo, come siamo abituati a chiamarlo in Italia – non è che è cinico, egoista, arido e privo di ideali. È proprio che tradisce l’economia, nella convinzione ideologica di possedere l’unica ricetta buona per lo sviluppo, da applicare uguale dappertutto. Con numerosi esempi il celebre economista Dani Rodrik dimostra sul Guardian che questa è una distorsione delle corrette idee economiche mainstream e che dove è stata applicata ha portato ad autentici disastri. Mentre un ricorso ai princìpi dell’economia di mercato graduale, temperato e adeguato alle esigenze dei singoli paesi è alla base dei grandi sviluppi economici dell’ultimo secolo. Il problema dei neoliberisti non è tanto che sono cattivi, insomma: è più che non capiscono l’economia

Thatcher Reagan Camp David sofa 1984Il neoliberismo e le sue ricette usuali – sempre più mercato, sempre meno Stato – di fatto sono una distorsione della scienza economica tradizionale.

Come anche i suoi critici più severi ammettono, il neoliberismo è difficile da definire. In termini generali, denota una preferenza per i mercati rispetto allo Stato, per gli incentivi economici rispetto alle regole culturali e per l’imprenditoria privata rispetto all’azione collettiva. È stato usato per descrivere una vasta gamma di fenomeni – da Augusto Pinochet a Margaret Thatcher e Ronald Reagan, dai Democratici di Clinton e del New Labour nel Regno Unito all’apertura dell’economia in Cina alla riforma dello stato sociale in Svezia.

Il termine è usato come una sorta di passepartout per indicare tutto ciò che sa di deregolamentazione, liberalizzazione, privatizzazione o austerità di bilancio pubblico. Oggi è regolarmente vituperato come epitome delle idee e pratiche che hanno prodotto insicurezza economica e disuguaglianza crescenti, hanno portato alla perdita dei nostri valori e ideali politici, e addirittura hanno fatto precipitare la reazione populista.

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blackblog

Quattro futuri, la vita dopo il capitalismo

di Peter Frase

Il testo che segue è l'introduzione al libro di Peter Frase, "Four Futures: Life After Capitalism", pubblicato nel 2016. Il testo è un'espansione delle idee contenute nell'articolo originale, del 2011, "Four Futures" [qui tradotto e pubblicato col titolo « E dopo? »]. Le idee sono fondamentalmente le stesse, ma il libro continua ed approfondisce diverse questioni che il testo originale toccava solamente, ed altre che non toccava nemmeno. Vale la pena leggerli entrambi

robot4

« Si è molto parlato degli impatti che avranno congiuntamente sul nostro futuro, la Crisi Climatica e le nuove tecnologie di Automazione dei posti di lavoro. Come si inseriscono in questo quadro le relazioni capitaliste di proprietà e la produzione, e la politica, specificamente per quanto attiene alla Lotta di Classe? Sarà sufficiente la possibilità di un'automazione quasi generalizzata per garantire che avvenga questa automazione? E quale sarà l'impatto che essa avrà sulle condizioni di vita delle persone? A partire dalla fine del capitalismo, sulla base di questi elementi, quale tipo di scenari ci possiamo aspettare? »

(da: Peter Frase, " Four Futures: Life After Capitalism" ["Quattro futuri: la vita dopo il capitalismo"].)

Nel XXI secolo due spettri si aggirano sulla Terra: lo spettro della catastrofe ecologica e quello dell'automazione.

Nel 2013, un osservatorio del governo degli Stati Uniti ha registrato, per la prima volta nel registro storico, che la concentrazione atmosferica globale di anidride carbonica aveva raggiunto le 400 parti per milione (ppm).

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effimera

L’economia politica del comune

di Andrea Fumagalli

Pubblichiamo in anteprima la prefazione del volume Economia politica del comune. Sfruttamento e sussunzione nel capitalismo bio-cognitivo, scritto da Andrea Fumagalli (Derive Approdi, 2017). Si ringrazia l’editore

fumagalli leconomia del comuneAlla fine del 2007 (dieci anni fa) pubblicavo un libro dal titolo “Bioeconomia e capitalismo cognitivo. Verso un nuovo paradigma di accumulazione”[1]. Si trattava del tentativo di sviluppare una critica dell’economia politica delle forme di accumulazione e valorizzazione del capitalismo contemporaneo, sviluppatosi sulle ceneri e sulle trasformazioni del capitalismo fordista-materiale che aveva caratterizzato la seconda metà del secolo scorso.

Venivano discusse le nuove forme dell’accumulazione capitalistica basate, da un lato, sulla finanza come strumento di valorizzazione e, dall’altro, sul ruolo sempre più rilevante della conoscenza e dello spazio come perni della riorganizzazione della produzione e del lavoro. Dopo il periodo del cd. post-fordismo, a partire dalla metà degli anni ’90, un nuovo paradigma si andava affermando in modo sufficientemente egemone e pervasivo in buona parte del globo. Avevamo così cominciato a parlare di capitalismo cognitivo, termine che, come noto, ha suscitato non poche polemiche, soprattutto all’interno di quel pensiero critico, di impostazione marxista, che ritenevano ancora dominanti le modalità di estrazione del plusvalore di derivazione fordista. Secondo questa visione, il processo di sussunzione reale, la netta separazione tra macchina e essere umano, tra lavoro produttivo di matrice salariale e lavoro tendenzialmente improduttivo (o residuale) che incorpora attività cognitive e relazionali (ritenute ancora intellettuali) erano ancora le basi per definire la natura e la forma del rapporto di sfruttamento insito nel rapporto capitale-lavoro.

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cosmopolis

Neoliberismo, biopolitica e schiavitù

Il capitale umano in tempo di crisi

di Silvia Vida

evening on karl johan street munch1. Lo ha affermato di recente Luciano Canfora (2017, 9): «Per ora, chi sfrutta ha vinto la partita su chi è sfruttato». La diagnosi del presente si aggrava se si pensa che «solo ora il capitalismo è davvero un sistema di dominio mondiale», reso più forte dall’avere di fronte a sé esclusivamente miseri spezzoni di organizzazioni di stampo sindacale o settoriale che gli oppongono una resistenza trascurabile; se è vero, com’è vero, che il capitale oggi è davvero “internazionalista”, avendo dalla sua parte la cultura e ogni possibile risorsa. Gli sfruttati, invece, «sono dispersi e divisi» dalle religioni, dal razzismo istintuale, dalle discriminazioni sociali non sanate ma approfondite dall’operato delle istituzioni, e dal fatto che, per funzionare, il capitale ha ripristinato forme di dipendenza di tipo servile creando sacche di lavoro neo-schiavile che non credevamo più possibili, soprattutto nelle aree del mondo più avanzate (ibidem, 11-12).

Di fronte a tutto questo, già nel 2003 Glenn Firebaugh scriveva a proposito di un’inversione di tendenza: il passaggio da una crescente diseguaglianza tra nazioni (accompagnata a livelli di diseguaglianza stabili o in calo all’interno delle nazioni) a una diminuzione della diseguaglianza tra nazioni, con conseguente aumento della diseguaglianza al loro interno.

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coordinamenta

“Ritorno a casa”

di Elisabetta Teghil

artemodernoSe è doveroso studiare il destino degli ebrei europei a livello locale, regionale e nazionale, sotto la pressione e la persecuzione nazista nei diversi campi di concentramento e di sterminio è altrettanto necessario raccontare delle altre vittime, prigionieri di guerra slavi, zingari, malati mentali, omosessuali perché ci si renda conto che la politica antisemita fa parte di una politica di dimensioni ben più ampie e naturalmente raccontare l’atteggiamento delle popolazioni “legittime”, vale a dire la così detta “gente normale”. Questo perché tutto ciò faceva parte del progetto nazista di rimodellamento razziale del continente, inseparabile dalla volontà di trasformazione economica, sociale e demografica.

La popolazione divenne una variabile in cui i dirigenti nazisti intendevano intervenire trapiantando, sterilizzando, sterminando tutto quanto fosse considerato necessario per garantire ad un popolo “superiore” il “suo spazio vitale” ed un livello di vita ottimale.

Il genocidio non è il frutto avvelenato di un gruppo di fanatici, ma è stato concepito ed è stato possibile realizzarlo con il concorso di tante figure, economisti, sociologi, geografi, demografi, urbanisti, biologi, medici…tutta una pletora di segmenti sociali  che popolavano i livelli intermedi dell’apparato compresi i lavoratori e la gente che viveva intorno ai campi e al loro servizio la cui partecipazione al programma nazista mette in evidenza fino a che punto fu il risultato di contributi diversi spesso parcellizzati che non solo si sono sommati fra loro, ma si sono amalgamati e sono stati portati a sintesi.

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micromega

Lo Stato come datore di lavoro

di Guglielmo Forges Davanzati

stato datore di lavoro 510Di fronte al fallimento conclamato delle misure di austerità e precarizzazione del lavoro nel fronteggiare la crisi economica, occorre una decisiva inversione di rotta. A partire da un radicale ripensamento del ruolo che lo Stato può esercitare nella creazione di posti di lavoro.

Il combinato di misure di consolidamento fiscale e precarizzazione del lavoro, secondo la Commissione europea e i Governi italiani che si sono succeduti negli ultimi anni, dovrebbe garantire la ripresa della crescita economica attraverso l’aumento delle esportazioni. Il consolidamento fiscale viene perseguito con l’obiettivo dichiarato di ridurre il rapporto debito pubblico/Pil, mentre la precarizzazione del lavoro viene attuata con l’obiettivo dichiarato di accrescere l’occupazione. Le due misure – ci si aspetta – dovrebbero inoltre migliorare il saldo delle partite correnti, mediante maggiore competitività delle esportazioni italiane.

Si ipotizza, cioè, che la moderazione salariale, derivante da minore spesa pubblica e maggiore precarietà del lavoro, riducendo i costi di produzione, ponga le imprese italiane nella condizione di essere più competitive (ovvero di poter vendere a prezzi più bassi) nei mercati internazionali. Anche le misure di defiscalizzazione rientrano in questa logica, dal momento che ci si attende che minori tasse sui profitti implichino minori costi per le imprese e, dunque, maggiore competitività nei mercati internazionali.

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pensieriprov

Ogni cosa che sai circa il neoliberalismo è sbagliata

di Bill Mitchell e Thomas Fazi

neoliberalismo1 1Diciamolo: la sovranità nazionale è diventata irrilevante nell’economia internazionale sempre più complessa e interdipendente. L’approfondirsi della globalizzazione economica ha reso i singoli Stati sempre più impotenti nei confronti delle forze del mercato. L’internazionalizzazione della finanza e la crescente importanza delle grandi aziende multinazionali hanno eroso la capacità dei singoli Stati di perseguire autonomamente le politiche sociali ed economiche, in particolare quelle progressiste, e di offrire prosperità ai propri popoli. Pertanto, la nostra unica speranza di conseguire qualsiasi cambiamento significativo è che i paesi “riuniscano” la loro sovranità e la trasferiscano in istituzioni sovranazionali (come l’Unione Europea) che siano sufficientemente grandi e potenti da far sentire la loro voce, riguadagnando così a livello sovranazionale quella sovranità che è stata persa a livello nazionale. In altre parole, per preservare la loro “reale” sovranità, gli stati devono limitare la loro sovranità formale.

Se questi argomenti suonano familiari (e persuasivi), è perché li abbiamo ascoltati per decenni. I progressisti spesso sottolineano come il neoliberismo abbia comportato (e comporti) un “ritiro”, un “approfondire” o uno “spogliarsi” da parte dello stato, cosa che a sua volta ha alimentato la nozione che oggi lo stato è “sopraffatto” dal mercato. Questo è comprensibile, considerando che la filosofia politica ed economica di ideologi d’avanguardia come Margaret Thatcher e Ronald Reagan hanno sottolineato il ridotto intervento dello Stato, i mercati liberi e l’imprenditorialismo.

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thomasproject

Meditazioni della istruzione offesa

Il problema politico della condizione scolastica nel neoliberismo

di Andrea Cengia

imm2Di neoliberismo e di controrivoluzione liberale, di Thatcher e di Reagan, si è tornati a parlare recentemente. Due lavori su tutti vanno citati: quelli di Dardot-Laval,[1] e di De Carolis.[2] Questi testi permettono di descrivere, tra l’altro, la forza e l’impatto, governamentale di quel modello risultato vincente in particolare nel post 1989. Supportato dalla rivoluzione informatica e, in generale tecnologica, ci ha consegnato un mondo svuotato, dominato dalle passioni tristi,[3] in cui effettivamente sembra aver trionfato, per il momento, il modello di una società atomica, obbediente, formattata secondo le richieste di un mondo produttivo, che vuole cittadini (ancora?) acritici, perfetti portatori d’acqua al mulino dei meccanismi di produzione di plusvalore, secondo le forme di razionalità strumentale che ben descriveva la prima generazione della Scuola di Francoforte.

L’impatto politico generale di questo processo ha assunto, nell’arco di tempo che ci porta dal 1989 ad oggi, svariate forme: privatizzazioni, trasformazioni e strappi più o meno riusciti ad esempio in Italia, alla Carta costituzionale e al patto sociale che l’avrebbe dovuta sostenere. Le politiche economiche e le politiche hanno assunto prevalentemente una indicazione di ossequio alle richieste pressanti del cosiddetto “mercato”, trasformando alla radice gli stili di vita e di convivenza di larghe porzioni della popolazione occidentale.

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vocidallestero

Neoliberalismo, l’idea che ha inghiottito il mondo

di Stephen Metcalf

Sul The Guardian, un approfondimento che risale alle origini del neoliberalismo per rintracciarne le caratteristiche peculiari e sottolineare l’ambizione di trasformare completamente la visione del mondo contenuta in quella “Grande Idea” di Von Hayek, che alla fine è riuscita a permeare completamente la società di oggi. Il neoliberalismo è divenuto l’idea dominante della nostra era, che venera la logica del mercato, deprivandoci delle capacità e dei valori che ci rendono più propriamente umani

Britain Thatcher and Reagan.jpg La scorsa estate, ricercatori del Fondo Monetario Internazionale hanno messo fine a una lunga e aspra disputa sul “neoliberalismo”: hanno ammesso che esiste. Tre importanti economisti dell’FMI, un’organizzazione non certo nota per la sua imprudenza, hanno pubblicato un documento che si interroga sui benefici del neoliberalismo. Così facendo, hanno contribuito a ribaltare l’idea che la parola non sia altro che un artificio politico, o un termine senza alcun reale potere analitico. Il paper ha chiaramente individuato un’ “agenda neoliberalista” che ha spinto la deregolamentazione delle economie in tutto il mondo, forzato l’apertura dei mercati nazionali al libero commercio e alla libera circolazione dei capitali e richiesto la riduzione del settore pubblico tramite l’austerità o le privatizzazioni. Gli autori hanno dimostrato con dati statistici la diffusione delle politiche neoliberali a partire dal 1980 e la loro correlazione con la crescita anemica, i cicli di espansione e frenata e le disuguaglianze.

Neoliberalismo è un termine vecchio, risalente agli anni Trenta, ma è stato rivitalizzato come un modo per descrivere la nostra politica attuale o, più precisamente, l’ordine delle idee consentite dalla nostra politica. All’indomani della crisi finanziaria del 2008, è stato un modo per attribuire la responsabilità della débacle, non a un partito politico di per sé, ma ad un establishment che aveva ceduto la sua autorità al mercato.

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megachip

L’utopia contro la distopia del tecno-capitalismo

di Lelio Demichelis

Nazionalismi, seccessioni, biopotere. Che fare? - davanti a un potere che de-sovranizza il demos espropriandolo della sua demo-crazia?

index786L’articolo di Pierluigi Fagan, ripreso da Megachip è una sintesi perfetta dei problemi che affliggono questa nuova crisi di quella lunghissima modernità che ci accompagna dalla rivoluzione scientifica e soprattutto dalla prima rivoluzione industriale e dal tradimento ottocentesco della rivoluzione francese - quando nascono l’individuo moderno e il liberalismo ma anche, con Foucault, la società disciplinare/biopolitica e del controllo.

Ma allora, che fare? - davanti a questa crisi che nuovamente produce l’esplosione delle identità collettive, lo svuotamento delle identità individuali, la rinascita di autoritarismi nazionalismi e populismi, mentre illude di nuove soggettività/diritti individuali cancellando allo stesso tempo quei diritti sociali che ne sono la premessa e la sostanza?

Che fare? - davanti a un potere che de-sovranizza il demos espropriandolo della sua demo-crazia?

Servono risposte che siano davvero altre rispetto a quelle inventate fin qui dalla modernità per gestire il suo potere e le sue crisi (lo Stato, la sovranità, l’individuo, i totalitarismi, il fordismo, il consumismo, l’industria culturale, oggi la rete).

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sbilanciamoci

Federico Caffè e la crisi del welfare state

Michele Cangiani

A dieci anni dall’esplosione della Grande Crisi quali sono gli spazi possibili per un intervento pubblico. Un volume collettivo appena uscito per Asterios analizza i vari scenari

body welfareFederico Caffè, trent’anni fa, individuò le tendenze della trasformazione neoliberale, ma non poteva immaginare quanto oltre, nel tempo e in profondità, essa sarebbe andata. Solo in seguito si è dovuto prendere atto che il “pensiero unico” (Ramonet 1995) aveva tolto l’ossigeno all’auspicabile controtendenza basata sulla “public cognizance”.

Le vicende finanziarie – della finanza privata, ma anche di quella pubblica (dalle manovre sui tassi d’interesse ai debiti spesso contratti per favorire affari privati o soccorrere banche in difficoltà) – hanno continuato a provocare cambiamenti reali della struttura economica e sociale fino ai nostri giorni, approfittando anche della crisi, iniziata nel 2007 proprio come crisi finanziaria. Caffè considerava le “sovrastrutture finanziarie”, Borsa compresa, piuttosto come causa di “inquinamento finanziario” e di costi sociali che come metodo efficiente di finanziamento delle imprese (Caffè 1971, p. 671). Questo atteggiamento ha reso, in seguito, più acuta e radicale la sua critica del dominio della grande finanza internazionale nell’epoca neoliberista. Egli sottolinea il problema dell’aumento dell’attività finanziaria, del rischio insito nelle sue distorsioni e anche semplicemente nel gonfiarsi del credito.

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eticaeconomia

Per disegno o per errore? Il neoliberismo e la politica economica

Riflessioni su un recente libro di Alessandro Vercelli

di Massimo Di Matteo

Massimo Di Matteo riflette sulle idee eterodosse di Alessandro Vercelli contenute in un suo recente volume. Dopo aver sottolineato l’importanza della distinzione tra libertà positiva e libertà negativa nella lettura di Vercelli, Di Matteo si sofferma sulla critica che egli muove alle riforme neoliberiste, sul nesso fra di esse e la crisi economica e sui limiti che le regole dell’Unione Europea pongono all’adozione delle misure più adeguate di politica economica per affrontare gli effetti deteriori della globalizzazione e della finanziarizzazione

carracci 314us7“Crisis and Sustainability. The Delusion of Free Markets”, pubblicato da Palgrave, è una summa del lavoro di Alessandro Vercelli, studioso originale ed eterodosso. Il libro – che ripropone,collocate in maniera appropriata, alcune delle sue idee elaborate precedentemente in contesti diversi – è ampio (329 pagine) e complesso ma la sua architettura è lineare e la ricchezza delle argomentazioni non fa perdere di vista il filo conduttore dell’analisi. E’ un libro impegnativo che spazia da argomenti filosofici e metodologici a quelli economici e ambientali e propone una visione sulla cui base è possibile costruire una teoria economica alternativa a quella dominante. Tale visione si incentra sulla piena valorizzazione del concetto di libertà positiva in tutti i suoi aspetti. Quest’ultima si può definire come la libertà di un soggetto di agire per conseguire i propri scopi, mentre la libertà negativa è semplicemente la libertà da specifici vincoli che gravano sulle azioni di un individuo. Vercelli solleva altresì in questo lavoro alcuni cruciali nodi interpretativi che aggiungono ricchezza al volume. Lo scopo principale del lavoro è quello di dar conto del grande cambiamento intervenuto nella politica economica a seguito dell’avvento del neoliberalismo e delle sue conseguenze.

Il volume è articolato in tre parti. Nella prima, composta sua volta da tre capitoli, si esaminano criticamente alcune tesi fondanti del paradigma dominante che Vercelli definisce neoliberalismo. Successivamente viene criticata la fiducia che la maggior parte degli economisti ripone negli effetti benefici del libero commercio.

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malacoda

La ragione neoliberista e i suoi critici

Al tempo della Globalizzazione

di Giorgio Mele

La fine del compromesso socialdemocratico e il mercato globalizzato mettono in discussione uguaglianza e democrazia. La crisi aperta dal 2008 svela i limiti del modello, ma non emerge ancora un'alternativa di sistema. Le diverse analisi critiche e le proposte di intervento elaborate da Picketty, Stiglitz, Rosanvallon, Streeck, Dardot e Laval

MELE1

Quali sono gli elementi che caratterizzano questa epoca detta della globalizzazione neoliberista?[1].

A me sembra che si possano riassumere in questo modo: a) il dominio del mercato; b) l'eclissi della uguaglianza; c) la crisi della democrazia; d) la scomparsa di un disegno alternativo allo stato di cose presente.

Come evidente i quattro elementi non possono essere presi singolarmente, ma sono profondamente intrecciati fra loro e tutti concorrono al dominio del neoliberismo che si presenta non solo come la potenza, dominante, ma come la struttura naturale del mondo, o meglio, la ragione[2] del mondo.

Marx nella Ideologia tedesca nel 1845 scrive con qualche capacità previsionale e come se parlasse a questo secolo: "Nella storia fino ad oggi trascorsa è certo un fatto empirico che i singoli individui, con l'allargarsi dell'attività sul piano storico universale, sono stati asserviti a un potere a loro estraneo (oppressione che essi si sono rappresentati come un dispetto del cosiddetto Spirito del mondo, Weltgeist, etc.) a un potere che è diventato sempre più smisurato e che in ultima istanza si rivela come mercato mondiale".[3]

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cambiailmondo

Il diritto di non-emigrare

di Agostino Spataro

siculiana marina 19 ott 08 0031. Il neo liberismo produce guerre, miserie e migrazioni irregolari

Se il mondo fosse più giusto e solidale dovrebbe riconoscere, e attuare, come primo diritto umano quello di non- emigrare ossia non costringere gli uomini e le donne del Pianeta ad abbandonare la propria casa, la propria terra in cerca di un lavoro, di una vita migliore.

Ovviamente, c’è anche un diritto di emigrare per chi desidera spostarsi liberamente. Ma per scelta non per costrizione. Purtroppo così non è.

La gente continua a emigrare per costrizione, quasi sempre dal Sud verso il Nord.

Così è sempre stato, potrebbe dire qualcuno. Una verità parziale spesso usata come alibi per non affrontare il dramma attuale. Prima di appellarsi ai comportamenti primordiali, questo signor “qualcuno” dovrebbe domandarsi perché, oggi, ci sono tanta miseria, tanti conflitti micidiali che affliggono le medesime regioni del mondo dove si cumulano cause antiche e recenti che non si possono spiegare tutte, e sempre, con il colonialismo finito da 60 anni: il tempo di tre generazioni in cui si potevano cambiare tutti i meccanismi di dipendenza e conquistare la piena sovranità dei popoli soggiogati. Invece, la gran parte delle nuove classi dominanti nazionali su tali dipendenze si sono adagiate.