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Nancy Fraser, “Contro il neoliberismo progressista, un nuovo populismo progressista”

di Alessandro Visalli

specchi nPrendo dal sito di Rifondazione Comunista la traduzione di due brevi interventi di Nancy Fraser tratti a loro volta dal sito della rivista “Dissent”: “The end of progressive liberalism”, e “Against new progressive neoliberalism, a new progressive populism”.

Nancy Fraser è una importante filosofa politica che insegna a New York, nata nel 1947 ha scritto con Axel Honneth “Redistribuzione o riconoscimento?”.

Nel saggio che indichiamo nel titolo la Fraser sottolinea come le forze che favoriscono la finanziarizzazione e la globalizzazione delle imprese, quindi la deindustrializzazione in occidente e l’industrializzazione con modalità selvagge nei paesi in cui i lavoratori sono meno protetti (e la fiscalità può essere piegata agli interessi delle aziende internazionalizzate) hanno conquistato il Partito Democratico americano attraverso l’affermazione di una ‘egemonia’ in senso gramsciano.

In sostanza questo risultato è stato ottenuto perché “hanno presentato queste politiche, palesemente contrarie ai lavoratori, come progressiste”. E nella tradizione della sinistra questa parola ha una forza irresistibile.

Il progetto neoliberista è stato, cioè, vestito di una “nuova etica cosmopolita, che privilegia la diversità, l’emancipazione delle donne, e i diritti LGBTQ”. E quindi ha guadagnato in questo modo la capacità di “adescare” chi professa questi ideali; in questo modo forgiando “un nuovo blocco egemonico”, che la Fraser chiama “neoliberismo progressista”. È questo movimento che spiega la supremazia politica assoluta del potere del capitale finanziario anche nei partiti appartenenti alla sinistra storica. Questo unisce al potere oggettivo del capitale anche tutte le forme di prestigio che l’idea di lavorare per l’emancipazione dell’umanità e nella direzione della Storia porta con sé.

Questa cattura ideologica, produttrice di egemonia verso la società tutta, ha portato progressivamente i movimenti a slittare dalla ricerca dell’uguaglianza, intervenendo sulle condizioni di riproduzione sociale, all’accettazione acritica della meritocrazia e l’etica individualista; questo movimento ha interessato secondo la Fraser sia “le femministe liberali e i sostenitori della diversità”, ma anche molti altri attivisti nei movimenti. Ciò che si è perso è in sostanza qualsiasi ambizione di produrre degli specifici cambiamenti sociali nelle condizioni economiche, in favore di una retorica della liberazione individuale.

Solo Bernie Sanders ha avuto il coraggio di contestare le linee consolidate di divisione politica, criticando “la classe dei miliardari”, al contempo tendendo la mano agli sconfitti e “derelitti” del neoliberismo progressista e infine rivolgendosi alle comunità che rischiano di perdere il loro status di “classe media”, raccontandogli di essere vittime di una “economia truccata”. In questo modo le ha riconosciute degne di rispetto e contemporaneamente le ha invitate a fare causa comune con altre vittime. Oltre queste operazioni di “costruzione di popolo”, Sanders secondo la Fraser ha anche “strappato via una buona fetta di coloro che gravitavano verso il neoliberismo progressista”, disvelando i meccanismi che rendono l’individualismo funzionale alla riproduzione dell’assoggettamento. Queste sono le linee guida di una possibile controegemonia: “invece dell’alleanza progressista-neoliberista fra finanziarizzazione ed emancipazione, un nuovo blocco ‘progressista-populista’ che unisce emancipazione e protezione sociale”.

Questa per la Fraser è “l’unica strategia onesta e vincente”; non solo “resistenza”, ma esplicita “correzione di rotta”. Non puntare ad una separazione tra “noi” (progressisti) contro “loro” (i “deplorevoli” partigiani di Trump, come disse la Clinton), che è una distinzione connessa con l’egemonia neoliberista, ma fare causa comune con tutti quelli che l’amministrazione Trump si accinge a tradire: “non solo gli immigrati, le femministe, e le persone di colore che gli hanno votato contro, ma anche quegli strati della classe operaia della ‘Rust Belt’ e del Sud che hanno votato per lui”.

La questione non è tornare semplicemente alla “politica di classe”, ma “identificare chiaramente le radici comuni delle ingiustizie di classe e di status nel capitalismo finanziario, e costruire alleanze tra coloro che devono unirsi per combattere entrambe”.

Ma vediamo dall’articolo, “La fine del liberalismo progressivo” qualche elemento più specifico di analisi: ciò a cui gli elettori dicono “No”, è la “letale combinazione di austerità, libero commercio, debito predatorio e lavoro precario mal pagato che caratterizza il capitalismo finanziarizzato oggi”.

Ormai siamo del resto in una crisi le cui onde d’urto si amplificano anche nei luoghi più solidi.

Il ‘neoliberismo progressista’ è un allineamento ed alleanza tra le correnti dominanti dei nuovi movimenti sociali libertari (femminismo, anti-razzismo, multiculturalismo, e diritti LGBTQ è l’elenco) e i “settori di business di fascia alta ‘simbolica’ e basati sui servizi (Wall Street, Silicon Valley, e Hollywood)”. In altre parole, le cosiddette “forze progressiste sono effettivamente unite con le forze del capitalismo cognitivo, in particolare della finanziarizzazione”.

Quel che è successo è che le prime “hanno prestato il loro carisma” alle seconde, trasferendo il valore di ideali come la “diversità” e la “responsabilizzazione” in chiave neoliberale a servizio della flessibilizzazione e della messa in contatto che serve alla finanziarizzazione. Cioè, per come la mette la Fraser, “ora danno lustro a politiche che hanno devastato la produzione e quelle che un tempo erano le vite della classe media”.

Questo processo di ibridazione così potente (che Pasolini aveva intravisto al suo primo formarsi) si è sviluppato negli Stati Uniti per l’autore negli ultimi trenta anni, e cioè dagli anni ottanta-novanta, ed è stato “ratificato” da Bill Clinton nel 1992. I “Nuovi Democratici” non sono stati altro che la “sostituzione della coalizione di lavoratori manifatturieri sindacalizzati, afro-americani e classi medie urbane del New Deal” con una nuova “alleanza di imprenditori, abitanti dei suburbi, nuovi movimenti sociali e giovani che proclamano tutti la loro buona fede moderna, progressista abbracciando la diversità, il multiculturalismo e i diritti delle donne”.

Non è stata quindi affatto una contraddizione, ma semplice coerenza, abbracciare Wall Street, impegnarsi con Goldman Sachs, liberalizzare il sistema bancario e negoziare accordi che accelerano la deindustrializzazione, dato che la Rust Belt era stata abbandonata.

Trump è la vendetta.

Queste politiche sono state continuate da Barack Obama anche dopo che il crollo del 2008 ne aveva certificato il fallimento, ed hanno degradato le condizioni di vita dei lavoratori. “In breve, il clintonismo ha una quota pesante di responsabilità per l’indebolimento dei sindacati, il declino dei salari reali, la crescente precarietà del lavoro e l’ascesa della famiglia a doppio stipendio (two–earner family) al posto del defunto salario familiare”.

Ma questo assalto alla sicurezza sociale, in favore di un modello che rispondeva alla crisi fiscale dello Stato ed alla crescita della massa finanziaria in parte creata dal fenomeno della decolonizzazione e quindi dai pagamenti delle materie prime con un nuovo equilibrio deflazionario (che Streeck chiama “Stato di consolidamento”) che peraltro è stato “lucidato con una patina di carisma emancipatorio, preso in prestito dai nuovi movimenti sociali”.

Quindi mentre la produzione si trasformava il paese “brulicava di discorsi su ‘diversità’, ‘empowerment’, e ‘non-discriminazione’. Identificando il ‘progresso’ con la meritocrazia, invece che con l’uguaglianza, questi termini hanno equiparato l’ ‘emancipazione’ con l’ascesa di una piccola elite di donne, minoranze e omosessuali ‘di talento’ nella gerarchia aziendale dei vincenti che prendono tutto invece che con l’abolizione di quest’ultima”.

Si è trattato complessivamente di una “interpretazione liberal-individualista del ‘progresso’” che ha gradualmente sostituito le interpretazioni dell’emancipazione  più “espansive, anti-gerarchiche, egualitarie, sensibili alla classe, anti-capitaliste che erano fiorite negli anni ’60 e ’70”.

Dunque hanno sbiadito progressivamente anche tutte le critiche strutturali della società capitalistica, mentre la caratteristica mentalità liberal-individualista del paese si riaffermava, “riducendo impercettibilmente le aspirazioni dei ‘progressisti’ e degli autoproclamati esponenti della sinistra”. Piano piano si sono adattati al concetto che “Non Ci Sono Alternative”.

Alla fine per Fraser un partito dedito alla liberalizzazione dell’economia capitalistica trovò il suo compagno perfetto in un femminismo aziendale meritocratico, focalizzato sul “farsi avanti” e “rompere il soffitto di cristallo”.

Questo è stato il “neoliberismo progressista”.

Questo è ciò che è stato respinto completamente dagli elettori di Trump e da quelli che hanno provocato la Brexit. Nel nuovo mondo cosmopolita erano stati abbandonati in troppi.

E per tutti gli abbandonati, “al danno della deindustrializzazione si è aggiunta la beffa del moralismo progressista, che li etichetta regolarmente come culturalmente arretrati”.

Dunque Trump ha compiuto, con il suo linguaggio, volutamente rozzo e provocatorio, l’identificazione del nemico nella globalizzazione ma anche, ed insieme, nel cosmopolitismo liberal identificato con essa. Chi lo ha percepito ha incolpato per il peggioramento delle sue condizioni propri “la correttezza politica, le persone di colore, gli immigrati e i musulmani”. Identificando “ai loro occhi, le femministe e Wall Street” come “due gocce d’acqua, perfettamente unite nella persona di Hillary Clinton”.

Del resto nessuna “vera sinistra” era sulla scena da decenni. Nessuna “narrazione esauriente di sinistra che avrebbe potuto collegare le legittime rivendicazioni dei sostenitori di Trump con una critica smaccata della finanziarizzazione, da un lato, e con una visione anti-razzista, anti-sessista, e anti-gerarchica di emancipazione, dall’altro”.

L’unico tentativo, tardivo, è venuto da Bernie Sanders che, però, è stato fermati da un Partito Democratico molto meno scalabile di quello Repubblicano, come si è visto all’atto pratico.

Per Nancy Fraser ora resta da riprendere questo programma: rifiutarsi di considerare incompatibili emancipazione e protezione sociale, lasciando la prima al solo individuo e la seconda tra i rottami della storia. Ciò che occorre è “lavorare per ridefinirli attingendo al fondo vasto e crescente di repulsione sociale contro l’attuale ordine”.

È invece l’ordine neoliberale progressista che va abbandonato tra i rottami della storia.

Per raggiungere questo obiettivo bisognerà però attraversare un “interregno”; una situazione “aperta e instabile”.

Bisognerà, cioè, raggiungere “la massa degli elettori di Trump che non sono né razzisti, né impegnati esponenti della destra, ma essi stessi vittime di un ‘sistema truccato’, che possono e devono essere reclutati per il progetto anti-neoliberista di una sinistra rinnovata”.

Collegare le offese subite dalle persone deboli e diverse, dalle donne e dalle persone di colore, a quelle subite da chi è oppresso economicamente ed ha votato Trump. “In questo modo, una rivitalizzata sinistra potrebbe gettare le basi per una nuova e potente coalizione impegnata nella lotta per tutti”.

Ma la precondizione è capire che il “progressismo neoliberale” è un vicolo cieco.

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