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Attraversando il PNRR. Parte II (III)
di Emiliano Gentili, Federico Giusti, Stefano Macera
Pubblichiamo la terza puntata della seconda parte dello studio sul PNRR condotto da Emiliano Gentili, Stefano Macera e Federico Giusti. Dopo aver analizzato, nella prima parte, il contesto economico italiano e la strategia perseguita dall’Unione Europea nella programmazione del Piano, nel nuovo articolo, gli autori analizzano l’idea di politica energetica dell’Ue e dell’Italia ed esaminano alcuni investimenti previsti dal PNRR particolarmente significativi per lo sviluppo dell’economia italiana, con particolare riferimento alla filiera dei semiconduttori, dell’idrogeno e della logistica, ai processi di digitalizzazione industriale.
Qui la prima puntata, qui la seconda.
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IV. La digitalizzazione industriale
La Missione 1, Componente 2 del Pnrr italiano vuol dare impulso a processi di digitalizzazione e innovazione industriali, nonché a «un’infrastruttura di reti fisse e mobili ad altissima capacità (Very High Capacity Network)»[1]. Investire per rendere le imprese più tecnologiche sarebbe un inutile sperpero di risorse nel caso in cui il territorio nazionale non offrisse una capacità di connettività sufficiente all’utilizzo ottimale delle nuove tecnologie.
Se da un lato, dunque, questa Componente elargisce soldi pubblici per gli investimenti in tecnologia e in ricerca e sviluppo, supportando poi in maniera più corposa alcuni settori strategici dal punto di vista comunitario[2], dall’altro «include importanti investimenti per garantire la copertura di tutto il territorio con reti a banda ultra-larga (fibra FTTH, FWA e 5G), condizione necessaria per consentire alle imprese di catturare i benefici della digitalizzazione e più in generale per realizzare pienamente l’obiettivo di gigabit society»[3].
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La trappola del debito
di Eugenio Donnici
La questione del debito pubblico e privato, sebbene sia diventata un tabù, pesa come un macigno sulle decisioni di politica economica. Debiti e crediti sono dei pilastri sui quali si regge il modo di produzione capitalistico, ma tali relazioni sociali, anche se in forma rozza, hanno influenzato la vita associata degli individui appartenenti alle città-stato, i regni e gli imperi del mondo antico, quando i loro governanti hanno iniziato a coniare monete o meglio quando gli scambi commerciali, mediati dal denaro, s’imposero, in qualche misura, sul baratto.
Nei rapporti tra debitori e creditori, occorre precisare che affinché un debito possa essere estinto, è necessario, in primo luogo, che esso non sia astronomico, altrimenti si rientra nel circolo vizioso dell’usura, sul quale ritornerei nel procedere del discorso.
Nel mondo antico, stando alle fonti storiche, durante il regno di Hammurabi, re di Babilonia (1792-1750 A.C.) ci furono quattro annullamenti del debito, proprio perché partirono dal presupposto che i sudditi non potevano pagare quelle cifre. Annullamenti del debito avvenivano anche durante il Giubileo per i cristiani e il Torà per gli ebrei. La valenza di una preghiera come il Credo, con la quale i credenti si rivolgono a Dio, racchiude il concetto del “rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Ovviamente, prima che si affermasse il modo di produzione capitalistico, l’annullamento dei debiti era più semplice, in quanto la somma data in prestito non generava l’interesse o quantomeno non si applicava la legge dell’interesse composto. Con lo sviluppo dei rapporti di produzione capitalistici, dapprima in Inghilterra, come ci ricorda Marx, il debito pubblico diventa una delle leve più energiche dell’accumulazione originaria.
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Attraversando il PNRR. Parte II (II)
Politiche energetiche e filiere produttive
di Emiliano Gentili, Federico Giusti, Stefano Macera
Pubblichiamo la seconda parte dello studio sul PNRR condotto da Emiliano Gentili, Stefano Macera e Federico Giusti. Dopo aver analizzato il contesto economico italiano e la strategia perseguita dall’Unione Europea nella programmazione del Piano, nel nuovo articolo, gli autori analizzano l’idea di politica energetica dell’Ue e dell’Italia ed esaminano alcuni investimenti previsti dal PNRR particolarmente significativi per lo sviluppo dell’economia italiana, con particolare riferimento alla filiera dei semiconduttori e dell’idrogeno.
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III. La filiera dell’idrogeno
La Missione 2, Componente 2, Sottocomponente 3 del nostro Pnrr punta a creare e rafforzare un comparto industriale italiano per la produzione, la distribuzione e l’utilizzo dell’idrogeno come risorsa energetica alternativa. Al suo interno, una buona quantità di fondi viene destinata allo sviluppo dell’idrogeno per applicazioni industriali (soprattutto chimica e raffinazione petrolifera). Al di là delle ragioni economiche di un simile orientamento tale scelta riflette il fatto che gli impianti produttivi che già utilizzano idrogeno sono più facilmente integrabili all’interno della filiera dell’idrogeno inteso come vettore energetico: l’utilizzo di questo gas per produrre ammoniaca, ad esempio, consente di trasportarlo all’interno del composto ammoniaco, rendendolo molto più «stabile» e facile da controllare, e abbassando i costi del trasporto logistico.
L’Investimento 5.2, infine, prevede «l'installazione in Italia di circa 5 GW di capacità di elettrolisi [uno dei procedimenti per produrre idrogeno] entro il 2030 (…) [e] lo sviluppo di ulteriori tecnologie necessarie per sostenere l’utilizzo finale dell'idrogeno (es. celle a combustibile per autocarri)»[1].
Cosa sono, però, l’idrogeno e la sua filiera? E che importanza possono avere in relazione allo sviluppo economico e alla riduzione dell’impatto ambientale del capitalismo?
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Salario minimo? Timeo Danaos et dona ferentes
di Carlo Formenti
L’Italia è l’unico Paese europeo che abbia registrato una contrazione dei salari reali nel trentennio 1990-2020; è anche il Paese che vanta il poco invidiabile record di una percentuale a due cifre di working poor (nel 2019 i lavoratori in condizioni di povertà erano l'11,8% del totale); è infine il Paese in cui i lavoratori che percepiscono una retribuzione oraria inferiore agli otto euro e mezzo l'ora sono più di un milione (1,3). Non sono forse tre buone ragioni per fissare un salario minimo legale, provvedimento che ci viene fra l’altro sollecitato dall'Europa? Savino Balzano, sindacalista pugliese (di Cerignola, città natale di Di Vittorio, precisa orgogliosamente) già autore di libri (1) sulle problematiche del lavoro e collaboratore de La Fionda, non è convinto che questa sarebbe la soluzione giusta per migliorare le condizioni di una delle classi lavoratrici più tartassate del mondo occidentale, e spiega le ragioni di tale opinione in un pamphlet dal titolo Il salario minimo non vi salverà, appena uscito da Fazi Editore.
Il salario minimo, sostiene, potrebbe essere l'ultima di una lunga serie di trappole che, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, hanno collaborato a ridurre progressivamente il potere contrattuale dei lavoratori italiani, fino a ridurlo praticamente a zero. Descrivendo le tappe di questa via crucis, l'autore prende le mosse da Luciano Lama, la vestale del moderatismo sindacale che, con parole degne di Menenio Agrippa, spiegò agli operai che l'impasse del lungo ciclo di lotte del decennio 60/70 era l'inevitabile esito di una stagione di rivendicazioni "estremiste", alimentate dall'illusione di fare del salario una variabile indipendente. Purtroppo, ammoniva Lama, appellandosi alle "leggi" dell'economia canonizzate dagli esperti al servizio della Confindustria, il capitalismo conosce una sola variabile indipendente, vale a dire quel profitto che, ove costretto a scendere al di sotto di un "ragionevole" minimo, provoca crisi, disinvestimenti, chiusure di imprese, licenziamenti.
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Attraversando il PNRR. Parte II: politiche energetiche e filiere produttive (I)
di Emiliano Gentili, Federico Giusti e Stefano Macera
Pubblichiamo la seconda parte dello studio sul PNRR condotto da Emiliano Gentili, Stefano Macera e Federico Giusti. Dopo aver analizzato il contesto economico italiano e la strategia perseguita dall’Unione Europea nella programmazione del Piano, nel nuovo articolo, gli autori analizzano l’idea di politica energetica dell’Ue e dell’Italia ed esaminano alcuni investimenti previsti dal PNRR particolarmente significativi per lo sviluppo dell’economia italiana, con particolare riferimento alla filiera dei semiconduttori e dell’idrogeno.
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I. Articolazione del Piano e REPowerEU
Missioni, componenti e investimenti
Il Pnrr si articola attorno ad alcuni percorsi di sviluppo settoriali denominati «Missioni». In un certo senso potremmo farli corrispondere ai Programs europei (v. Parte I, Par. II, La strategia della Commissione Europea), solo che le Missioni sono declinate su scala nazionale. Ogni Missione è a sua volta suddivisa in Componenti, per cui ad esempio la Missione 1, Digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo, è composta da: Digitalizzazione, innovazione e sicurezza nella PA; Digitalizzazione, innovazione e competitività nel sistema produttivo; Turismo e cultura 4.0. A voler essere precisi, poi, le Componenti sono a loro volta ripartite in «sotto-componenti». I fondi vengono assegnati «a pacchetti», denominati «Investimenti»[1], che costituiscono una sorta di suddivisione ulteriore di queste sotto-componenti. Ad esempio, la citata Componente 1 della Missione 1 riporta tre sotto-componenti (Digitalizzazione PA; Innovazione PA; Innovazione organizzativa del sistema giudiziario), all’interno delle quali trovano posto ben sette Investimenti differenti (quali «Digitalizzazione delle grandi amministrazioni centrali» o «Processo di acquisto ICT»).
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Stellantis, l’auto elettrica e i cinesi
di Vincenzo Comito
Il governo vorrebbe che l’Italia tornasse a produrre un milione di veicoli e apre all’ingresso di partner cinesi, che finora ha ostacolato. Un’operazione difficile, considerando gli investimenti già annunciati di Byd in Ungheria, la scarsa appetibilità del mercato elettrico italiano, la nebulosa dei piani di Stellantis
Il settore dell’auto, data la sua persistente importanza per la gran parte delle economie del nostro continente e considerando le grandi trasformazioni in atto, si è negli ultimi tempi conquistato un posto importante nella cronaca economica dell’Unione Europea e anche del nostro paese, in particolare per quanto riguarda i rapporti con la Cina, per la questione dell’auto elettrica e per le difficoltà dell’Italia sul tema; tali questioni sono tra di loro interconnesse.
Alcuni dati di base
Può essere utile ricordare preliminarmente alcuni dati di base relativi al settore.
Quella dell’auto è una delle tante attività economiche nelle quali il primato produttivo, tecnologico e di mercato si è andato spostando sempre più verso l’Asia e verso la Cina in particolare. Così nel 2023, rispetto a una produzione totale di veicoli a livello mondiale pari a circa 82 milioni di unità, in Asia ne sono uscite dalle fabbriche per un volume vicino al 60% del totale e nella sola Cina si è superato un terzo del totale. Anche per quanto riguarda le esportazioni, nel 2023 la Cina si è collocata al primo posto nel mondo, con 5.1 milioni di unità vendute all’estero, seguita peraltro nella classifica da un altro paese asiatico: il Giappone.
Ancora più rilevante il predominio cinese nel comparto delle vetture elettriche. Su una produzione totale di circa 9,5 milioni di unità nel 2023, con un aumento del 33% sull’anno precedente, la quota della Cina si è collocata vicino al 60%.
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La revisione del PNRR: un gioco delle tre carte per regalare soldi ai padroni
di coniarerivolta
Nei giorni scorsi, mentre l’attenzione pubblica era concentrata sulle vistose crepe aperte nella maggioranza dalle elezioni regionali in Sardegna, il Consiglio dei Ministri ha approvato un nuovo decreto-legge in materia di Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), il mirabolante programma messo in piedi dall’Unione Europea per fronteggiare le conseguenze economiche della pandemia. Abbiamo seguito fin dal suo avvio questo programma, non senza una certa curiosità: la classe dirigente europea, di cultura neoliberista e ideologicamente contraria alla spesa pubblica e alla pianificazione dell’economia (quante battute sulla politica economica sovietica e sui piani quinquennali?), varava un piano di investimenti addirittura sessennale (2021-2026) e annunciava una pioggia di centinaia di miliardi di euro di spesa pubblica per riparare i danni causati dalla pandemia.
Come abbiamo avuto modo di spiegare, si trattava di mera propaganda, mentre l’obiettivo politico del PNRR era legare le finanze dei Paesi europei a una serie di condizionalità che li impegnano a varare riforme strutturali orientate alla deregolamentazione e alla liberalizzazione, nonché a vincolare il contenuto dei principali investimenti al negoziato con la Commissione europea, che così non si limita a imporci l’austerità, cioè i tagli alla spesa, ma anche il suo contenuto, ossia l’indicazione dei tagli e delle risorse da salvare. Ecco da cosa deriva il ritrovato favore verso la pianificazione: il PNRR è la pianificazione del neoliberismo e dell’austerità imposta alle economie europee nel momento in cui queste si trovavano nella necessità di spendere oltre i vincoli del Patto di stabilità e crescita per uscire dalla crisi pandemica.
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Mario Draghi, la competitività europea e i nuovi Mezzogiorni
di Guglielmo Forges Davanzati*
1 – L’economia europea perde posizioni nella competizione internazionale e sperimenta, al suo interno, una costante crescita delle divergenze regionali (l’impoverimento relativo del Mezzogiorno rispetto al Nord è parte di questa dinamica).
A Mario Draghi, come è noto, è stato affidato il compito di redigere il rapporto sulla competitività europea, che verrà ultimato verosimilmente a giugno prossimo. Nel discorso dello scorso 15 febbraio all’Economic Policy Conference di Washington (durante il conferimento del premio Paul A. Volcker Lifetime Achievement Award), che va letto insieme a quello a3ll’Ecofin del 24 febbraio, ne ha resi noti i fondamentali ingredienti.
Partiamo dalla diagnosi. L’ex Governatore della BCE formula due critiche. La prima è rivolta al modello della globalizzazione sperimentato negli ultimi decenni, che avrebbe portato squilibri commerciali in un contesto di crescente partecipazione agli scambi commerciali internazionali di Paesi che avevano punti di partenza, in termini di livello di sviluppo, molto diversi.
Draghi riconosce che le delocalizzazioni prodotte dalla globalizzazione hanno considerevolmente ridotto la quota dei salari sul Pil, creando ostilità in coloro che ne sono risultati danneggiati. Così come, contrariamente alle promesse, la globalizzazione non si è associata alla diffusione dei valori orientati al rispetto delle libertà individuali e della democrazia.
La seconda critica attiene alla politica economica e da qui origina la sua proposta.
Draghi osserva correttamente che l’Unione Monetaria Europea (UME) ha puntato, per la sua crescita, su un modello trainato dalle esportazioni, in una condizione di competizione fra i Paesi membri, che risulta perdente nel lungo periodo.
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Attraversando il PNRR (I)
di Emiliano Gentili, Federico Giusti, Stefano Macera
I: Piani Ue e classe dirigente italiana
Le difficoltà economiche del capitalismo italiano sono il frutto di scelte sbagliate dell’attuale ceto imprenditoriale, che si sta dimostrando inadeguato e magari poco dinamico o hanno radici più profonde?
Quale la ratio dietro l'implementazione del PNRR e quali gli obiettivi generali che si pone il piano italiano? In che modo potrà incidere sul tessuto produttivo e sul posizionamente dell'economia italiana nella divisione internazionale del lavoro?
Parte da queste domande il preciso studio, articolato in più parti di cui oggi pubblichiamo la prima, che proponiamo su «transuenze» a cura di Emiliano Gentili, Federico Giusti e Stefano Macera.
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I. La situazione dell’economia produttiva italiana
Non saremo certo i primi a parlare delle difficoltà nelle quali da tempo si dibatte l’economia italiana. Lo hanno fatto governi e centri studi, fondazioni legate a poteri economici e finanziari e analisti di varia provenienza ogni qual volta dovevano proporre, supportare e approvare controriforme in materia di lavoro, previdenza e spesa pubblica. Del resto sono decenni che, a confronto con i Paesi più sviluppati, l’Italia sta accumulando ritardi nello sviluppo dei propri fondamentali (produttività del lavoro, entità e rendimento degli investimenti, implementazione dei processi produttivi e delle infrastrutture territoriali). È possibile che questi ritardi strutturali stiano determinando un rischio sempre più concreto di espulsione dell’Italia da alcuni dei mercati più importanti e remunerativi nei quali le imprese nazionali sono da tempo collocate e, secondo la nostra lettura, ciò finirebbe per comportare un ulteriore progressivo impoverimento delle fasce popolari.
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Fare debito è di sinistra?
di Marco Bertorello e Danilo Corradi
Anche le forme dell'indebitamento hanno un segno di classe, riflettono i rapporti di forza. Quelle di questi anni hanno accresciuto le disuguaglianze
Dipende. Non intendiamo, con il pretesto di una provocazione, ribaltare il senso delle cose come fecero Alberto Alesina e Francesco Giavazzi ascrivendo il liberismo al campo della sinistra in un celebre libro, ma provare a fare qualche riflessione sugli ultimi decenni.
Per ragioni anagrafiche chi scrive è cresciuto in uno schema del dibattito politico abbastanza consolidato. Da una parte le politiche europee vocate al «rigore» di bilancio, cementate dal trattato di Maastricht firmato il 7 febbraio del 1992, dall’altro l’opposizione alle politiche di austerity portata avanti dai movimenti sociali, da alcuni settori sindacali radicali, poi dal movimento antiglobalizzazione e dalla sinistra politica antiliberista che lo appoggiava (e di cui chi scrive faceva parte attivamente). Un’opposizione che via via si è allargata a forze politiche e intellettuali crescenti, seppur contraddistinte da tonalità differenti. Le ragioni dell’opposizione erano semplici: le politiche di austerity bloccavano la spesa sociale e gli investimenti pubblici, comprimevano diritti e riducevano il salario indiretto. Molti riproponevano un tradizionale e generico orientamento keynesiano, una politica in deficit spending che avrebbe permesso maggiore redistribuzione, ma anche maggiore crescita, che avrebbe ripagato (almeno in parte) il deficit iniziale.
La cosa interessante di questo schema politico sta nel risultato a trent’anni di distanza. Un risultato che ha il gusto forte del triplo paradosso.
I paradossi dell’austerity
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La tempesta perfetta della crisi tedesca
di Alessandro Scassellati
Senza l'energia a basso costo e con un forte calo delle esportazioni il modello tedesco si muove rapidamente verso la deindustrializzazione. Mentre i lavoratori del trasporto ferroviario, i camionisti e gli agricoltori stanno scioperando si intravede un disastro politico e socio-economico legato al ritorno dell'austerità
Da sempre motore economico (a cui l’industria italiana è molto legata attraverso le supply chains) e potenza politica dell’Unione Europea, la Germania è alle prese con un potente mix di problemi strutturali profondi e a breve termine che – insieme a un Governo diviso e apparentemente inefficace – hanno spinto gli osservatori e gli economisti a parlare (di nuovo, come alla fine degli anni ’90) di “malato d’Europa”.
I lavoratori ferroviari, i camionisti e gli agricoltori sono tra coloro che sono scesi in strada o in sciopero in tutta la Germania dall’8 gennaio con proteste a livello nazionale, per rivendicazioni che vanno dalle retribuzioni e condizioni di lavoro ai tagli ai sussidi agricoli e all’aumento dei pedaggi autostradali per i veicoli pesanti entrato in vigore all’inizio di dicembre. Con elezioni chiave in programma quest’anno negli Stati della Germania orientale, molti osservatori temono che il nuovo spirito di mobilitazione dei lavoratori possa giocare direttamente nelle mani di una vivace estrema destra.
Le proteste di lavoratori autonomi come gli agricoltori e i trasportatori di merci, così come gli scioperi nel settore ferroviario statale, non sono coordinati, concentrandosi su rivendicazioni diverse e in alcuni casi legati a controversie che precedono l’attuale Governo. Ma il loro consenso ha dato all’estrema destra un’occasione perfetta per alimentare le fantasie populiste di un colpo di Stato. Sui suoi canali di social media, il partito di estrema destra Alternative für Deutschland (AfD) ha dipinto l’immagine di gente comune “portata alla rovina da una leadership politica irresponsabile come nel Medioevo”, e ha esortato i cittadini a unirsi a quello che ha chiamato uno “sciopero generale”. Lo stesso hanno fatto altre organizzazioni di estrema destra come i Liberi Sassoni (un piccolo partito estremista di destra fondato nel 2021) e La Terza Via (Der Dritte Weg, un partito neonazista formato nel 2013 da ex membri del gruppo estremista di destra NPD)1.
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L’Italia nel Triangolo delle Bermuda tra Pnrr, Mes e Patto di Stabilità
di Fulvio Bellini
La politica economica e quella estera dettate dagli Usa, confezionate dall’Unione Europea e applicate dal Partito Unico in salsa urbana (Pd) e da quello in salsa burina (Fratelli d’Italia), ci stanno conducendo fuori dal tunnel, dove ci sta… l’Argentina e il suo default
“L’uomo è immortale; la sua salvezza viene dopo. Lo Stato non è immortale, la sua salvezza si ottiene ora o mai più”.
Cardinale Armand-Jean du Plessis duca di Richelieu
Premessa: alcune questioni sul senso di uno Stato
Henry Kissinger ha spesso dimostrato di essere affascinato dalla figura del Cardinale Richelieu, dal suo pensiero politico e dal suo modo di condurre lo Stato. Anche quando analizza l’operato di Otto von Bismark di un paio di secoli dopo, l’ex Segretario di Stato Usa ci infila il pensiero del Cardinale che abbiamo citato, ad esempio accostandolo al seguente passaggio di una lettera sul concetto di realpolitik indirizzata dal Cancelliere di Ferro al suo mentore, generale Ludwig von Gerlach, aiutante di campo del Re di Prussia: “Sono pronto a discutere con voi il punto di vista dell’utilità, ma se porrete antinomia fra diritto e rivoluzione, cristiani e infedeli, Dio e il diavolo, non potrò più discutere e mi limiterò a dire: ‘Non sono della vostra opinione e voi giudicate in me ciò che non vi spetta giudicare’. Questa amara dichiarazione di fede era l’equivalente funzionale dell’asserzione di Richelieu che, essendo l’anima immortale, l’uomo deve sottoporsi al giudizio di Dio, ma, essendo lo Stato mortale, questo può essere giudicato solo da come funziona” (Henry Kissinger, l’Arte della Diplomazia). Richelieu e Bismarck pongono alcune questioni di filosofia della politica assai utili da considerare nell’analisi della situazione italiana odierna, di un paese cioè che pare non veda nessuna luce nel tunnel di decadenza nel quale si è infilato ormai trent’anni fa. A titolo di aggiornamento, nell’ultimo mese del 2023 il Bel Paese è finito, consapevolmente oppure meno, addirittura al centro di una sorta di Triangolo delle Bermuda, foriero di foschi presagi per il 2024 e gli anni a venire.
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Salvare l’economia da sé stessa
Jacopo Caja intervista Steve Keen
L'economista australiano Steve Keen, intervistato da Jacobin, propone una visione alternativa a quella dell'economia neoclassica che domina da cinquant'anni, per fronteggiare le disuguaglianze e scongiurare il collasso climatico
La politica economica dei paesi avanzati negli ultimi anni ha mostrato tutti i suoi limiti ed è sempre più in discussione. Da quasi cinquant’anni, l’economia è dominata dalla visione neoclassica che presuppone la razionalità degli individui e ignora il ruolo della moneta, escludendola dai modelli di previsione. Questa semplificazione, nata con l’idea di rendere più «maneggevole» l’economia, ha prodotto effetti profondi nel mondo reale, aprendo alla deregolazione dei mercati finanziari e alle politiche di austerità.
Steve Keen, professore di economia alla Western Sydney University e all’University College di Londra nel libro L’economia Nuova, da poco uscito in Italia per Meltemi, evidenzia la necessità di un’alternativa a questa visione prevalente. Un’alternativa che tenga conto delle complessità per fronteggiare realmente le disuguaglianze e scongiurare il collasso climatico.
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Lei è da sempre uno studioso del mercato monetario e del ruolo del debito privato. Ed è stato uno dei pochi economisti ad aver previsto la crisi del 2008. Come mai, invece, non l’hanno prevista gli economisti mainstream?
Gli economisti neoclassici hanno sempre sostenuto che il denaro non abbia importanza per l’economia reale. Pensano che il governo controlli l’offerta di moneta: se quest’ultimo crea troppa moneta, produce inflazione. In questa visione, i fattori monetari non influenzano il livello reale della produzione. E questo è categoricamente sbagliato. Al contrario, il denaro creato dalle banche diventa sia parte del reddito aggregato che della spesa aggregata. Quindi, il denaro ha effetti reali.
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Il vero volto della politica economica del governo Meloni
di Andrea Fumagalli
La fine del mese di novembre 2023 e la prima settimana di dicembre verranno ricordate dai posteri per aver mostrato il vero volto della politica economica del governo Meloni, proprio nel momento in cui la stampa mainstream e di destra si sforzavano di sottolineare come fosse stato raggiunto il più elevato tasso d’occupazione mai registrato in Italia, a riprova della bontà delle scelte governative…
1. Il mercato del lavoro in Italia
“Nonostante l’economia in frenata, l’occupazione continua a crescere: in un anno + 458mila lavoratori”, con 27 mila occupati in più nel solo mese di ottobre. Così titolava il Sole 24ore di giovedì 30 novembre 2023. Un titolo più o meno simile a quello di tutti gli altri grandi quotidiani. Tale performance ha portato il tasso di occupazione al 61,8% (+0,1 punti), toccando così un nuovo record. Nel mese di ottobre 2023, ultima rilevazione, cresce anche il numero di persone in cerca di lavoro (+2,3%, pari a +45mila unità): un aumento che coinvolge sia gli uomini sia le donne e riguarda tutte le classi d’età a eccezione dei 35-49 che registrano un lieve calo. Il tasso di disoccupazione totale sale così al 7,8% (+0,1 punti) e quello giovanile al 24,7% (+1,5 punti). Tale apparente paradosso (la simultanea crescita di occupati e disoccupati) è spiegata dalla forte riduzione degli inattivi: -69mila unità sul mese.
Occorre ricordare che a partire dal 2021, sono considerate occupate “le persone che, durante la settimana di riferimento, hanno lavorato per almeno un’ora a fini di retribuzione o di profitto, compresi i coadiuvanti familiari non retribuiti”. Il dato tanto sbandierato come il più elevato dal 1977 (anno di inizio delle serie storiche Istat sull’occupazione) dal governo Meloni non può quindi essere comparato con i dati sull’occupazione precedente al 2021. Alla luce della nuova definizione, l’essere occupato/a non è più garanzia di un reddito stabile superiore alla soglia di povertà relativa. Differenziando i dati per settore, infatti, l’occupazione cresce di più nei settori caratterizzati da “lavoro povero” a minor valore aggiunto, quali costruzioni, terziario arretrato, logistica, servizi di cura e pulizie.
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Da una finanziaria all'altra
Riflessioni sulle politiche economiche del “nuovo” governo
di Renato Strumia
Nel settembre 2022 una coalizione di destra-destra ha ricevuto, per la prima volta nel dopoguerra, il mandato di governare il paese, con 12,3 milioni di voti su 51 milioni di elettori.
Una volta ancora il voto ha premiato quello che appariva l’elemento di novità, con l’investitura personale di una leader politica a lungo apparsa “fuori dai giochi” e priva di responsabilità nello sfascio progressivo del sistema paese. Era accaduto prima con Renzi, Di Maio, Salvini e compagnia cantante: meteore transitate veloci nel firmamento della politica, per poi disintegrarsi senza lasciare traccia, se non qualche scoria ancora depositata nel sottosuolo tossico del paese.
La vicenda di ”Giorgia” sembra inscritta nel solito tragitto, che porta i politici a conquistare il potere usando toni incendiari e agitando polemiche violente, per poi rientrare nei ranghi, delimitati dalle compatibilità e dai limiti intrinseci dell’azione di governo. Quello che stupisce, nella nuova formazione al governo, è la velocità e l’intensità di questo processo di allineamento, del tutto prevedibile e scontato.
La continuità delle politiche con la linea Draghi (del cui governo peraltro facevano parte sia Forza Italia che la Lega) è impressionante, su tutte le questioni di fondo. Tuttavia, è interessante rilevare i punti con cui il governo ha cercato di smarcarsi, “vendendo” gli elementi di rottura, prevalentemente identitari e categoriali, come strumento per dare soddisfazione al proprio elettorato di riferimento. Nient’altro che un tranquillizzante: “ora ci siamo noi, cominciamo a dire qualcosa di destra, dateci tempo, prima o poi le faremo anche…”.
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Qui una anteprima del libro
Giorgio Monestarolo:Ucraina, Europa, mond
Andrea Cozzo: La logica della guerra nella Grecia antica
Qui una recensione di Giovanni Di Benedetto
Moreno Biagioni: Se vuoi la pace prepara la pace
Qui una presentazione del libro