Print Friendly, PDF & Email

sollevazione2

I gilet gialli, Toni Negri... e Lenin

di Moreno Pasquinelli

toni negri gilet gialliNella sua grandezza il moderno movimento rivoluzionario italiano ha conosciuto diverse iatture, prima tra tutte quella di essere sorto sotto la cattiva stella di un ribellismo anarcoide, tanto valoroso quanto impotente dal punto di vista politico —id est: incapace di costruire egemonia in vista della conquista del potere statale. Il bordighismo, sotto il cui stemma il partito comunista nacque nel 1921, si presentò come la cura per guarire il movimento dal suo congenito sovversivismo confusionario. Il suo dottrinarismo, dogmatico e paralizzante, come terapia, fu peggiore della malattia. Ed infatti, il bordighismo, miseramente fallì. Negli anni '60 del secolo scorso, dopo quattro lustri di indiscussa egemonia togliattiana, la originaria matrice ribellistica, ora impastata, e non a caso, col vecchio mito sindacalista dei "produttori", risorse sotto le eleganti fattezze dello "operaismo". Di lì venne, nel "decennio memorabile dei '70", la cosiddetta "autonomia operaia" che fu il principale vettore della sovversione sociale, una splendente supernova che quasi tutti travolse nel suo collasso destinale.

 

Cantonate strategiche

Ecco, Toni Negri, cultura grande e mente perspicace, è stato l'esponente di punta della "autonomia operaia" (per questo ingiustamente perseguitato dal potere), e dopo della "autonomia post-operaia" (per questo apprezzato dal potere). Non è qui il luogo per ripercorrere la sua, al contempo, pirotecnica ma, a ben vedere, invariante evoluzione teorico-politica.

Vale ricordare, proprio per capire cosa egli ha scritto del movimento francese dei Gilet Gialli, la sua pornografica infatuazione per l'euro e l'Unione europea ... come "terreno di lotta" — vedi QUI, QUI e QUI — per finire con la supercazzola pronunciata alle porte delle decisive elezioni del 4 marzo scorso:

«Mi auspico che Bruxelles prenda le redini dell’Italia dopo il 4 marzo. Non lo desidero, per me la burocrazia europea è il grande nemico. Però è meglio avere qualcosa, che il nulla più completo. Angela Merkel, fatti avanti…». [ Toni Negri: «Sinistra polverizzata. Ci salveranno i poteri forti». In: Vanity Fair del 18 gennaio 2018 ]

Ho detto invariante poiché c'è un nocciolo filosofico a cui egli ha sempre tenuto fede e che sta a fondamento de l'Impero, sua opera magna. Anni addietro individuavo questo nocciolo nel mix di determinismo e provvidenzialismo:

«Il provvidenzialismo (quello di Negri contaminato da un immanentismo di stampo gentiliano) è sempre stato l’altra faccia del pensiero meccanicistico e deterministico.

Chi riteneva che Negri fosse un partigiano semi anarchico della spontaneità si è sbagliato di grosso. La spontaneità è confinata da Negri nella sfera delle soggettività biopolitiche, alle singolarità desideranti, cioè nel campo della micropolitica sociale. Ma queste singolarità sono piccoli ingranaggi della grande macchina della storia che è causa sui, il cui movimento oggettivo è non solo determinato, ma predeterminato. Per Negri, come per Spinoza, la sola libertà concepibile è quella della consapevolezza della necessità razionale, dove al posto della metafisica Sostanza spinoziana, vien posta la forza creatrice delle moltitudini».

Che ente sia questa "forza creatrice delle moltitudini" —pur essendo, come disse Danilo Zolo "concetto sfuggente, il meno felice dell'intero arsenale concettuale de l'Impero" — sarà bene spiegarlo poiché costituisce il vero e proprio paradigma del Negri-Pensiero che ci ritroveremo infatti tra i piedi nel suo giudizio sui Gilet Gialli. Questo paradigma, spacciato come novum, non è null'altro che la radicalizzazione del concetto dialettico servo-padrone che Hegel scolpì nella suaFenomenologia dello spirito, per cui, ad un certo punto, sarebbe stato il servo, il lato negativo della relazione, la vera forza progressiva della storia. Tradotto nel linguaggio di Negri: a fronte di un Capitale oramai mero parassita il vecchio operaio-massa e suo figlio l'operaio-sociale si sarebbero transustanziati e trasfusi nella moltitudine, quest'ultima a sua volta coagulata attorno al "lavoro cognitivo". Moltitudine che sarebbe la vera forza motrice che spingerebbe, per tappe successive e necessitate, l'umanità in avanti, verso il comunismo.

«Nel nostro tempo, il desiderio che fu messo in moto dalla moltitudine è stato indirizzato (in modo strano e perverso, ma nondimeno reale) alla costruzione dell’Impero. Si potrebbe anche dire che la costruzione dell’Impero e delle sue reti globali costituisce una risposta alle lotte contro la moderna macchina di potere e, in particolare, alla lotta di classe spinta dal desiderio di liberazione della moltitudine. La moltitudine ha evocato la nascita dell’Impero». [Impero, pagina 55]

L'Impero dunque (alias la mondializzazione neoliberista), lungi dall'essere disdicevole, siccome sarebbe prodotto dalla moltitudine, è benedetto come comunismo in marcia, come processo incontrovertibile che occorre assecondare e contro cui combattere sarebbe dunque reazionario. Ergo: l'hegeliana “scopa di Dio”. Di qui il sostegno all'iper-modernità macchinica e allo stigma della mondializzazione: l'ibridazione cyborg uomo-macchina, la mescolanza di identità, il melting pot biopolitico, la tendenza alla distruzione degli stati nazionali —che prima verranno fatti fuori meglio sarà. Il tutto all'ombra dello spettro (anarco-foucaultiano) per cui la sola salvezza verrebbe dal potere costituente (della moltitudine) di contro alla maledizione del potere costituito.

«Oltre a pensare la rivoluzione in termini etici e politici, noi la pensiamo anche in termini di profonda modificazione antropologica: di meticciaggio e ibridazione continua di popolazioni, di metamorfosi biopolitica. Il primo terreno di lotta è, da questo punto di vista, il diritto universale a muoversi, a lavorare, ad apprendere sull'intera superficie del globo. La rivoluzione che noi vediamo non è solo dunque dentro l'Impero ma è anche attraverso l'Impero. Non è qualcosa che si batte contro un improbabile Palazzo d'Inverno (ci sono solo gli anti-imperialisti che voglio bombardare la Casa Bianca) ma che si estende contro tutte le strutture centrali e periferiche del potere, per svuotarle e per sottrarre la capacità produttiva al capitale». [ L'Impero e la moltitudine, un dialogo sul nuovo ordine della globalizzazione. Antonio Negri e Danilo Zolo]

 

La teoria alla prova dei fatti

Col che siamo a quanto il nostro ha scritto nei primi giorni di dicembre sulla rivolta dei Gilet Gialli col titolo ingannevole e sesquipedale L'insurrezione francese. Anticipo la mia conclusione: Negri non ci ha capito niente. E non ci ha capito niente proprio perché, nel disperato tentativo di asseverare il suo teorema politico, l'ha utilizzato per spiegare la sollevazione popolare francese e renderla potabile, ovvero conciliarla col suo paradigma. Proveremo a dimostrare il penoso fallimento di questo tentativo.

La prova lampante della incapacità di comprendere la natura del movimento dei Gilet Gialli ci è fornita dal pronostico che il nostro fa nel suo articolo. Egli, siamo ai primi di dicembre, prima del quarto sabato di lotta, sosteneva:

«Basterebbe dunque poco, se non per bloccare il movimento con qualche proposta opportunista e demagogica, almeno per attenuarne l’indignazione (che non è forza sottovalutabile): basterebbe, come si è detto, ritornare sulla tassa contro le grandi fortune e recuperare quei quattro miliardi concessi ai padroni dei padroni per ridistribuirli, in luogo dell’imposizione della tassa carburante».

Il 22 dicembre abbiamo avuto invece il Sesto atto e non pare che la mobilitazione voglia fermarsi. Questo, per di più, dopo la plateale ritirata compiuta da Macron.

Ma i Gilet Gialli non hanno smentito solo il pronostico, assieme a Macron hanno colpito al cuore il paradigma teorico del Negri-pensiero. Domandiamoci: è forse il "lavoro cognitivo" la forza propulsiva del movimento dei Gilet Gialli? Sono per caso i settori del "lavoro immateriale", ovvero le figure sociali a stretto contatto coi luoghi a più avanzata composizione tecnologica coloro che stanno scendendo per strada? No, non lo sono! Avviene anzi tutto il contrario visto che i settori tecno-cognitivi tanto celebrati dalla retorica negriana sono ai margini della mobilitazione, anzi, ne sono del tutto assenti.

Il movimento è nato, ha messo radici e si è consolidato come fatto di massa non nella grande metropoli (luogo d'elezione del cognitariato) bensì nelle zone periferiche, quelle della cosiddetta "Francia profonda", dove i flussi della globalizzazione si manifestano soltanto come predazione sfrontata e generatrice di esclusione sociale e di miseria esistenziale.

Laddove quindi il mito ideologico della rivoluzione tecnologica emancipatrice ha fatto miseramente fiasco. Eterogeneo come ogni movimento realmente popolare esso è sorto insomma nei luoghi periferici addirittura rurali più duramente compiti dalle politiche economiche austeritarie e neoliberiste. Parrebbe manifestarsi addirittura, mutatis mutandis, l'inveramento della tesi maoista della campagna che accerchia le città...

Il nostro se ne avvede ma, lungi dal fare ammenda, con una spocchia élitaria simile a quella sfoderata dall'establishment neoliberista davanti all'esito del referendum per la Brexit o alla ascesa al potere di Trump, ci propone una variante della narrazione post-modernista, fondata a sua volta sui concetti di "arretrato" e "progredito". Proprio parlando dei Gilet Gialli afferma infatti che si tratta dei:

«settori meno modernizzati ed economicamente periferici del Paese... ceto medio impoverito, periferico rispetto alla metropoli, e abitante nella Francia centrale, nei grandi spazi che questa presenta e nelle piccole città.... ceti sociali tradizionali recentemente dinamizzati dalle riforme neoliberali e tuttavia meno valorizzanti dei settori dei servizi urbani e della produzione cognitiva». [corsivo nostro]

Non è questa la sede per affrontare la questione del "valore", basti dire che per Negri, all'altezza dell'attuale sviluppo capitalistico (quindi dell'energia biopolitica della moltitudine), non opererebbe più la marxiana legge (del valore) — col che, detto en passant, addio al marxismo.

Ma è la sede per mettere in evidenza un paradosso. Malgrado la sua lettura dei Gilet Gialli di cui sopra, egli lo qualifica, e per almeno una dozzina di volte in poche pagine, come "moltitudine". Ci sono cadute le braccia! Ma come? Non era la moltitudine la soggettività iper-moderna, l'incarnazione del macchinismo al suo supremo stadio, il cuore pulsante della metropoli meticcia e cosmopolitica, il vettore comunistico del rifiuto di ogni ordine statuale, l'incarnazione del general intellect? Qui, se non proprio disonestà intellettuale, c'è la cieca ostinazione a difendere una teoria moribonda.

E poi, per quanto attiene alla composizione sociale del movimento, Negri squaderna la melensa fuffa sociologica che va per la maggiore e che nulla ci dice: "ceto medio impoverito". Quindi — propinandoci il più abusato dei cliché marxisti contro la piccola borghesia —, lascia intendere che i Gilet Gialli siano anzitutto dei bottegai frustrati e arrabbiati, quindi facili da addomesticare con qualche elemosina e sempre disponibili a fungere da carburante per avventure reazionarie. Non per caso, quando il nostro deve andare a cercare un'analogia storica — non gli è venuto in mente il boulangismo (1885-89), sia che lo si intenda come un "battistrada del socialismo moderno" (Réne Rémond o come "socialismo della canaglie" (Jean Jaures) , ricorre al precedente che più infelice non si potrebbe, quello bottegaio per antonomasia del poujadismo.

Rivelatrice la comparazione che Negri ci consegna:

«C’è qualcosa che colpisce soprattutto in questo movimento e che lo rende diverso dalle lotte più dure che la Francia abbia conosciuto negli ultimi anni, per esempio dalla lotta del 2005 dei cittadini delle banlieues. Quella era una lotta che aveva il segno di una liberazione, questa del 2018 ha una faccia disperata. E non parliamo del ’68. Nel ’68, il movimento degli studenti si impiantava su un continuum di lotte operaie. Il ’68 è 10 milioni di operai industriali in sciopero, è una tormenta che si dà sul punto più alto dello sviluppo e della ricostruzione post-bellica. Qui, oggi, la situazione è chiusa. A me, piccolo interprete di grandi movimenti, ricorda la rivolta nelle prigioni più che la gioia del sabotaggio dell’operaio massa». [corsivo nostro]

Avete capito bene? Nella sommossa delle banlieues c'era la liberazione, coi Gilet Gialli abbiamo invece la disperazione; nel '68 il sabotaggio, qui dei sudditi imprigionati. Vedete voi dove porta il mito anarcoide e sovversivista... Si perde il pelo non il vizio.
Che vogliono e chi sono i Gilet Gialli

Ma davvero il movimento mobilita anzitutto "ceto medio"? No, non è vero. Come ogni movimento popolare che si rispetti va da sé che esso includa la piccola borghesia, ma la sua grande massa è composta da proletari a vario titolo, dalle plurime figure del lavoro salariato: magazzinieri, insegnanti, pensionati, finte partite iva, operai precari, giovani e meno giovani disoccupati. In una parola i paria della "nuova economia", gli esclusi e gli emarginati dai processi della cosiddetta modernizzazione neoliberista. Di più: sono proprio questi settori la punta di diamante, la prima linea, la forza motrice dei Gilet Gialli, la forza d'urto che li ha spinti a mettere a soqquadro Parigi. Ci sono anche piccolo-borghesi e bottegai? Ovvio che sì, e questo punto di forza del movimento il Negri rifiuta e che invece vorrebbe, fare attenzione, snaturare e rimpicciolire a "movimento di classe":

« L'attività dei militanti sarà dunque quella di costruire nuove solidarietà attorno ai nuovi obbiettivi che nutrano il "contro-potere". E' solo così che la moltitudine può diventare classe». [corsivo nostro]

Detto in soldoni: siccome il movimento dei Gilet Gialli manda in frantumi la sua profezia e fa a pezzi il suo paradigma teorico il nostro vorrebbe sottoporlo ad un intervento di chirurgia plastica, anzi modificarlo geneticamente. Peggio! A conferma di quanto il nostro sia distante dalla realtà (e dalle riflessioni di Antonio Gramsci), lo scomunica in quanto esso è nazional-popolare e populista, così negando che quella in corso in Francia sia vera lotta di classe, la sola lotta di classe che, nel contesto dato, ha forza egemonica (vedi il consenso generale di cui gode) e quindi potenza universalistica.

Lezione che a ben vedere riguarda non solo i cascami dell'operaismo ed i movimentisti a vario titolo, ma tutta la resistente genia dei sindacalisti (più o meno di base) i quali dovrebbero porsi qualche "domandina": come essi si spiegano che mentre i Gilet Gialli hanno piegato Macron e conservano l'appoggio della maggioranza, le recenti mobilitazioni sindacalistiche contro la Loi Travail, quella dei ferrovieri, e quella studentesca di Nuit Debut sono state sconfitte e sono evaporate? Non lo spiegano, anzi, non si pongono nemmeno la domanda poiché, ove lo facessero, scoprirebbero che sono rimasti loro sì indietro qualche anno luce, e quindi si vedrebbero obbligati a cambiare mentalità, simboli, linguaggi, strumenti teorici, modalità d'azione, quindi mestiere. Riciclarsi è arduo, e forse il tempo è per essi scaduto.

Lo è a maggior ragione moribonda (la teoria politica di Negri), se spostiamo l'analisi dei Gilet Gialli dal volgare livello sociologico a quello politico. Dato che i movimenti di lotta popolare sono per definizione socialmente eterogenei ("polvere d'umanità") cosa decide, in ultima istanza, la loro natura? Dal nemico che essi combattono, dagli obbiettivi che si pongono, dalle loro finalità. E' vero che i Gilet Gialli non hanno né una piattaforma nazionale unica né una direzione unificata, come è vero che le rivendicazioni differiscono da zona a zona e che son tanti i cahier de doléances, che essi l'unità la trovano nell'azione. Come è vero (e come potrebbe essere altrimenti?) che unificano cittadini di sinistra, di destra e senza opinioni politiche (dal che aleggia in certe menti malate e tignose il fantasma del rossobrunismo)? E' chiaro però cosa essi identificano come nemico (Macron come esponente del super potere finanziario ed eurocratico), e cosa essi chiedano: giustizia e diritti sociali, porre fine sia all'austerità che alle politiche neoliberiste, comprese quelle fiscali per mezzo delle quali si sposta ricchezza dal basso verso l'alto. Di più: questo movimento resiste alla globalizzazione, respinge la visione cosmopolitica chiedendo sovranità e rispetto della cittadinanza, con ciò rivalorizzando il concetto di identità nazionale, riscoprendo il carattere sociale della repubblica. Il tutto in in barba alla sinistra transgenica che vuole vedere solo i diritti civili e dimentica quelli sociali.

Per essere ancora più precisi i Gilet Gialli, riproponendo la centralità dello Stato come organo deputato a tutelare gli interessi del popolo — per la precisione del popolo lavoratore e/o che rivendica il lavoro non solo come simbolo di dignità ma come asse a cui incardinare la cittadinanza — sono i giacobini del terzo millennio.

Così ci spieghiamo l'uso patriottico del tricolore in ogni manifestazione, l'inno a squarciagola della Marsigliese. Tricolore e Marsigliese come simboli dell'unità popolare, di cittadini fino a ieri invisibili che nella lotta si sentono comunità, che chiedono, di contro alla atomizzazione indotta dal neoliberismo globalista, si ricostruisca comunità, nazionale e popolare.

Cosa ha a che vedere la sollevazione nazional-popolare francese con l'idea teologica dell'Impero che è dappertutto e in nessun luogo, deterritorializzato e senza centro (alias la tesi della fine definitiva delle nazioni ed il disprezzo per ogni patriottismo)? Cosa hanno a che fare i Gilet Gialli con le deleuziane "macchine desideranti" — che Costanzo Preve bollava argutamente come “neoplebi desideranti” partorite dalla filosofica "pallocrazia parigina"? Cosa ha a che vedere la dura fisicità della rivolta popolare più potente degli ultimi decenni con la vacua e ineffabile figura della moltitudine, di cui solo un aspetto era evidente, il suo essere concetto opposto del popolo come nazione?

Date voi le risposte. Per chi scrive niente di niente.

 

Conclusione

E dunque, almeno per questa volta, invece di ascoltare falsi profeti e di ingurgitare nuovismi astrusi, proviamo a dare retta, per capire come va il mondo, ad uno che di rivoluzioni certo se ne intendeva:

«Colui che attende una rivoluzione sociale “pura”, non la vedrà mai. Egli è un rivoluzionario a parole che non capisce la vera rivoluzione. La rivoluzione russa del 1905 è stata una rivoluzione democratica borghese. Essa è consistita in una serie di lotte di tutte le classi, i gruppi e i malcontenti della popolazione. V’erano tra di essi i pregiudizi più strani, con i più oscuri e fantastici scopi di lotta, v’erano gruppi che prendevano denaro dai giapponesi, speculatori e avventurieri, ecc. Obiettivamente, il movimento delle masse colpiva lo zarismo e apriva la strada alla democrazia, e per questo gli operai coscienti lo hanno diretto. La rivoluzione socialista in Europa non può essere nient’altro che l’esplosione della lotta di massa di tutti gli oppressi e di tutti i malcontenti. Una parte della piccola borghesia e degli operai arretrati vi parteciperanno inevitabilmente – senza una tale partecipazione non è possibile una lotta di massa, non è possibile nessuna rivoluzione – e porteranno nel movimento, non meno inevitabilmente, i loro pregiudizi, le loro fantasie reazionarie, le loro debolezze e i loro errori. Ma oggettivamente essi attaccheranno il capitale, e l’avanguardia cosciente della rivoluzione, il proletariato avanzato, esprimendo questa verità oggettiva della lotta di massa varia e disparata, variopinta ed esteriormente frazionata, potrà unificarla e dirigerla, conquistare il potere, prendere le banche, espropriare i trust odiati da tutti (benché per ragioni diverse!), e attuare altre misure dittatoriali che condurranno in fin dei conti all’abbattimento della borghesia e alla vittoria del socialismo, il quale si “epurerà” delle scorie piccolo-borghesi tutt’altro che di colpo». [V.I. Lenin, L’insurrezione irlandese del 1916, Opere Complete, Editori Riuniti, volume XXII, pag. 353-354]

Che poi occorra andare anche oltre Lenin, a noi è chiaro. Oltre, non in opposta direzione.

Comments

Search Reset
0
Scintilla
Thursday, 07 March 2019 16:52
Sviluppo della contraddittorietà semantica tra LAVORATORE e OPERAIO come possibili SOGGETTI POLITICI eversori del sistema. Uno sorpassato, l’altro presente e venturo.
.
Chi ha avuto la sorte di poter sviluppare conoscenze (accademiche) teoriche vaste, profonde ed avanzate come molti compagni italiani (che non hanno dovuto emigrare in terre meno fertili e lussureggianti, per esempio) potrà o potrebbe tradurre questa mia osservazione in termini più “scientifici” e “materialistici” ( :))) ) marxiani, ma eccotela comunque, Pasquinelli, a proposito di questa interessante ed utile critica “I gilet gialli, Toni Negri... e Lenin”.
.
Per cominciare: dovemmo pur riuscire a recuperare un dibattito meno spietato, anche con Toni, per sommare piuttosto che ridurre i “nostri” apporti politici diretti alle nuove lotte e movimenti. Che si stanno ravvivando con la scintilla Greta. Certo che per esempio il termine e concetto di “moltitudini” risulta o può risultare molto deludente (eufemismo), però potremmo resettarlo o reubicarlo in funzione strategica - comunista? Bé, lo vedremo tra poco - come altri più vecchi altrettanto significativi. Come classe e movimento, per esempio. Cioè nell’ambito semantico della “definizione” politica del soggetto (rivoluzionario?); o dei soggetti. Definizione ma soprattutto produzione!
.
Perché mi pare evidente che anche Marx, pur con le sue straordinarie esplorazioni e scoperte realizzate a partire da una profonda etica comunista – ci risiamo -, abbia a sua volta usato termini e concetti – cominciando da CLASSE – in ben determinate condizioni semantiche, di rapporti tra espressioni e realtà extralinguistiche, ma soprattutto – mi pare - di pragmatica rispetto al progetto politico. Parliamo logicamente di concetti centrati sul soggetto rivoluzionario.
E non voglio entrare per ora nelle sue pecche politiche ‘storico-congiunturali’, tedesco-lavoriste, di ‘militanza’ AIL, ecc. legate a quella sorpassata tappa di formazione sociale capitalista.
.
Ora proprio questo concetto chiave marxiano, e di tutti i marxismi, CLASSE, è stato così profondamente smantellato, corrotto e sfregiato dalle sociologie sistemiche tanto per cominciare, (ma anche da cosiddetti “socialismi” più o meno reali e “comunismi”!!!), che dovremmo appunto aprire con maggior generosità le più recenti proposte innovatrici, o magari disruttrici, come le imperiali negriane... Coraggio, dai!
Altro esempio: la proposta “raveliana...” di DIMENSIONE OPERAIA (o di “classe operaia mondiale”?) così come si presenta ora in Sinistrainrete, per esempio:
https://www.sinistrainrete.info/sinistra-radicale/14499-karlo-raveli-proprieta-patriarcato-e-criminalita-ecologica-cop24.html
.
Infatti, e veniamo al comunismo, mi pare che il nocciolo della questione sia proprio quello di recuperare a fondo, interamente, una dimensione-soggetto politica assolutamente opposta, realmente complessiva e antitetica, al “Capitale”. Eticamente antitetica, nei valori di fondo, come pretendeva il Marx teorico quando scriveva “classe operaia”. O lavoratrice…
Quindi:
dimensione operaia a cominciare precisamente dalla sostanza-valore del capitalismo, ereditata fin dalla cosiddetta rivoluzione neolitica: la generazione e riproduzione patologica di forme sempre più sofisticate e adulterate di appropriazione privata dei beni comuni.
Dove lo sfruttamento (dei settori lavoratori o/e salariati della dimensione operaia o classe) sia una delle finalità, conseguenze o deduzioni dell’appropriazione ed accumulazione privata, personale o anonima, di beni comuni.
Non centro categorico assoluto K/L, ma solo componente – pur fondamentale – della soggettività antitetica al modo di sviluppo umano capitalistico.
.
Ecco la scelta di OPERAIO: come ricerca di contraddizione al suo “semplice” e limitato settore interno del LAVORO salariato.
Assumendo perciò una concezione di “classe” operaia, o di dimensione sociale operaia, come SOGGETTO GLOBALE ANTITETICO nel quale siano incluse e messe al centro del processo (rivoluzionario, comunista) in primo luogo l’appropriazione privata, e poi tutte le conseguenti forme d’alienazione – sfruttamento del lavoro compreso –. Proponendo cioè un SOGGETTO che debba assumere tutta la contraddittorietà della dimensione capitalista. Che possa quindi raccogliere integralmente le possibili energie di moltitudini di MOVIMENTI, soggetti, settori ed aggregazioni varie (gilets jaunes...) in lotta. A cominciare dal “femminismo”, dall’ecologismo, dal sindacalismo lavorista, dalle diverse precarietà, intermittenze, emarginazioni e migrazioni organizzate, e così via.
Cioè:
una dimensione globale che poi solo massime, aperte e pragmatiche intelligenze “leniniste...” possano dinamizzare – secondo diversi territori e diseguali livelli di composizione - per il superamento globale della criminalità capitalista e dei suoi tragici processi in corso d’autodistruzione. Umana, animale, ecologica...
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
gianmarco martignoni
Sunday, 06 January 2019 22:36
Le tesi dei post-operaisti sono decisamente infondate, tanto che Carlo Formenti in " Felici e sfruttati " ha demolito la presunta centralità negriana del cosidetto lavoratore cognitivo.Da tempo l'attendibilità politica di Negri è più che discutibile ,mentre è evidente che i Gilet Gialli sono il prodotto della polarizzazione sociale prodotta dal modo di produzione capitalistico, nonchè della sua intensificazione dentro alla cornice europea per via della "stagnazione secolare " Poichè Macron si è presentato nelle vesti del salvatore del nazionalismo francese, pur non disdegnando il suo sguardo al futuro dell'Europa, nel solito gioco dell' attrazione-repulsione con la Germania della Merkel,ogni mobilitazione contro i parametri della dottrina neo-liberista va valutata in senso positivo.Senza però inoltrarsi in poco opportune congetture su un movimento fuori dagli schemi con cui abbiamo analizzato i movimenti del passato. .
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
michele castaldo
Sunday, 06 January 2019 10:20
Due brevissime annotazioni a questo scritto:
a) La rivoluzione russa - tutta la rivoluzione russa, sia quella della prima parte del 1905, sia quella della seconda parte dello stesso anno, sia della prima parte del 1917 che quella della seconda parte dello stesso anno - non ha niente in comune con l'attuale fase che si caratterizza come avvio di un caos mondiale e di implosione del modo di produzione capitalistico. La rivoluzione sarà la conseguenza di questa straordinaria implosione. .
b) Il movimento dei Gilet gialli è espressione di una crisi profonda del modo di produzione capitalistico, mentre la rivoluzione russa era propedeutica allo stesso, era cioè l'espressione dell'estensione a macchia d'olio di un movimento generale degli uomini con i mezzi di produzione maturato in Occidente ed estesosi man mano in maniera impetuosa nel resto del mondo.
Detto questo, vanno evidenziati due errori degli odierni analisti, di tutte le componenti, il voler collocare il movimento dei Gilet gialle nello schema novecentesco, secondo il criterio marxiano della ricerca del soggetto nelle classi sociali, mentre il soggetto è uno, cioè l'insieme del modo di produzione come movimento storico e le classi come fattori in esso complementari. Sicché tutto si tiene o niente si tiene. I segnali che arrivano dall'economia e dalle varie crisi nazionali sono un termometro che indica che l'intero sistema sta scricchiolando, cioè "il tutto comincia a non tenersi più".
Il movimento dei Gilet gialli non è importante per la sua portata soggettiva, quanto per la sua portata oggettiva, perché è l'espressione di una crisi di sistema nel suo epicentro, cioè in Occidente, è questo che lo fa importante. Ecco perché chi è legato agli schemi novecenteschi non lo potrà capire e sbanda tra l'esaltazione dell'atto "rivoluzionario" in sé - magari perché inebriato per qualche cassonetto bruciato - e la ricerca della rivoluzione nella purezza della classe operaia.
Questo movimento pone serissimi problemi ai difensori del sistema che sono seriamente preoccupati perché sanno che si tratta di una serpe allevata in seno che si ribella contro il suo allevatore, il modo di produzione che non potrà in alcun modo garantirgli quello che fino a qualche anno fa era possibile. Chi invece cerca nelle rivendicazione di questo movimento la sua natura di "classe" somiglia a un ubriaco analfabeta che cerca la via di casa dell'amico leggendo la toponomastica.
Ma questo movimento pone a quanti si richiamano alla rivoluzione anticapitalistica più problemi di quanti ne immaginavano, perché smentisce una tesi del Manifesto di Marx Engels sulla rivoluzione affidata a un soggetto, quale la classe operaia, mentre essa si è mostrata per quel che è: una classe fra le classi complementare e dunque in quanto tale incapace di abbattere l'altra classe - la borghesia - altrettanto complementare pur se in un ruolo diverso, cioè di sfruttatrice piuttosto che di sfruttata.
Mi rendo conto che si tratta di un linguaggio ostico per chi è abituato a ragionare in un certo modo del soggetto della storia, ma è ora che ci diamo una svegliata, perché il modo di produzione capitalistico ha una caratteristica storica molto particolare: è impersonale, per dirla con Marx del Capitale, e prescinde dai Macron, come prescindeva dai Weber, dai Lenin, dai Trockyj, o dai Robespierre. Proprio per questa ragione non poteva essere evitato e per la stessa ragione non potrà evitare l'implosione.
La storia è una cosa molto più seria del recitare stantie litanie ideologiche.
Michele castaldo .
Like Like Reply | Reply with quote | Quote

Add comment

Submit