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Debito pubblico, l'unica razionalità

Riccardo Bellofiore

La crisi mette in difficoltà anche le teorie economiche. Con risultati singolari, come ad esempio l'intervento di Jeffrey Sachs sul Financial Times («È ora di fare un piano per il mondo dopo Keynes»), che sembra cancellare una serie di fatti.

La crisi del debito «sovrano» è dovuta alla semplice circostanza che il debito privato (dopo il caso Lehmann) è stato trasferito all'operatore pubblico, a cui si è chiesto senza limiti di salvare il sistema bancario e finanziario. L'esplosione dei disavanzi non è stata affatto «keynesiana», perché le misure di stimolo all'economia reale sono state compresse ed effettuate in minima parte, per salvare l'economia di carta. Anche in Europa, e persino in Germania, ci sono state misure anticicliche, in buona misura grazie alla presenza di stabilizzatori automatici, in parte per sostegni temporanei a imprese e lavoro, abbandonati ai primi germogli di una supposta ripresa. Questo abbandono e le misure di selvaggia restrizione dei bilanci pubblici in Europa sono un errore che tutti pagheranno caro. Far finta di non sapere che l'indebitamento irlandese, spagnolo o greco è l'altra faccia degi avanzi tedeschi e olandesi, poi, più che ignoranza, pare un crimine. Irlanda e Spagna erano gli allievi modelli dell'Europa sul piano fiscale, quando le cose andavano bene.

E' singolare pensare che che i paesi in disavanzo esterno, come Usa e UK, debbano puntare sulle esportazioni nette, senza dire una parola sulla necessità che contemporaneamente siano i paesi in surplus commerciale a espandere la loro domanda. Stanno facendo quasi tutti il contrario. E' singolare che si invochi l'investimento (privato?) quando quest'ultimo non ha mai trainato l'economia mondiale nei decenni precedenti; figuriamoci ora.

Il punto di Keynes è che la crescita deve essere trainata dalla domanda autonoma. E dove si può trovare ora il motore della crescita, se non può venire dai salari, né dal consumo spinto dal debito e dalle bolle, né dagli investimenti privati, né tantomeno dalle esportazioni nette su scala globale (visto che il pianeta è una «economia chiusa»)? Non si vede proprio alternativa alla spesa pubblica, se non la crisi. Senza dimenticare una vecchia verità: non c'è sviluppo che non nasca dal debito. Può essere il debito dell'imprenditore schumpeteriano (oggi insufficiente), o del privato per sviluppare i consumi (ma si è visto che è insostenibile). Non resta che il debito che sostiene la spesa pubblica in disavanzo (se è sostenibile e se dà luogo a nuova produzione). E' il debito privato non schumpeteriano, non quello pubblico, a essere sul banco degli imputati.

Dice Sachs che non si può sperare che un'agenda strutturale di lungo termine risolva i problema immediati posti dalla recessione. E ammette la necessità di una spesa sociale anti-ciclica che dia sostegni al reddito, alla sicurezza sociale, alla salute, alla ricerca e all'educazione (il contrario di quel che fa Tremonti). Ma anche lui pretende che il piano di medio-lungo termine inizi con tagli al disavanzo ora. E' vero proprio il contrario.

Il punto è che si devono fare due cose insieme: il sostegno alla spesa e l'investimento di lungo termine, la «ripresa» e la «riforma». Non è facile, ma non vedo altra strada. E' la qualità della spesa pubblica che conta perché, se fa aumentare la qualità del sistema, questo produrrà il reddito e le entrate a copertura della spesa, riducendo disavanzi e debito; in secondo luogo, aumenterà la produzione e la produttività. Non esiste un'altra via. Se si taglia oggi il disavanzo solo per tagliarlo, riesploderà poco dopo per gli effetti automatici recessivi della manovra, abbattendo ulteriormente produzione e produttività del sistema. E' dunque lo Stato, qui e ora, che deve fornire lavoro non qualificato e qualificato, insieme. Certo, quanto detto non risolve del tutto il problema del reperimento del finanziamento. E qui Sachs dice l'ovvio che tutti hanno paura di dire: i ricchi devono pagare non solo di più, ma molto di più. Di spazio, per un discorso del genere ce n'è; e da noi molto più che altrove. Come pure per la riduzione di spesa inutile e socialmente dannosa, a partire da quella militare.

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