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Ecologia del tempo. Un nuovo sentiero di ricerca
di Piero Bevilacqua
Riproduciamo, con le note redazionali di Adriana Perrotta Rabissi e Franco Romanò, gli ultimi due capitoli del saggio di Piero Bevilacqua 'Ecologia del tempo. Un nuovo sentiero i ricerca'. L'intero saggio compare su 'Altronovecento, ambiente, tecnica, società. Rivista on line promossa dalla Fondazione Luigi Micheletti'. Dei due capitoli iniziali – Il tempo della fabbrica e Un secolare apprendistato sociale – riportiamo l’ultimo capoverso del secondo che ci sembra riassumere efficacemente la lunga digressione storica
Il saggio di Bevilacqua ricostruisce il lungo processo storico che ha piegato gli individui e la natura stessa alla logica della produzione capitalistica. Lo sfruttamento intensivo delle risorse naturali ha introdotto una drammatica asimmetria fra il tempo della natura e quello del consumo di cui solo recentemente si stanno tutte le implicazioni, così come la percezione del lavoro occulto necessario alla riproduzione sociale, in larga parte delegato alle donne.
* * * *
"Dunque, il sistema industriale di fabbrica organizzato dal capitalismo per produrre merci su una scala incomparabilmente più vasta rispetto al passato ha inaugurato un mutamento epocale: un’appropriazione totalitaria del tempo di vita degli uomini ( e, come vedremo, una dimensione e velocità di sfruttamento della natura destinata a crescere indefinitamente.) Finora gli storici hanno sottolineato, di questo grande mutamento, soprattutto le conquiste della tecnologia, la crescita senza precedenti della produzione della ricchezza, lo sfruttamento dei lavoratori. Assai meno l’inizio una nuova storia della vita biologica e psichica degli esseri umani: quello della perdita del controllo personale del tempo della propria vita e il loro assoggettamento a una potenza astratta e totalitaria che li avrebbe rinchiusi entro ferree delimitazioni e ritmi imposti. Gli uomini sottomessi al tempo della società industriale diventavano gli utensili di una nuova epoca di asservimento. E oggi suona paradossale rammentare che, nell’epoca in cui Immanuel Kant indicava come supremo principio etico del nascente illuminismo quello di considerare « l’uomo sempre come fine e mai come mezzo», gli uomini in carne ed ossa stavano per essere trasformati, nella loro grande maggioranza, in mezzi della società industriale capitalistica.
I tempi di lavoro della natura.
L’epoca che vede nascere la teoria del valore-lavoro, e quindi l’oscuramento del ruolo delle risorse fisiche nel processo di produzione della ricchezza, è la stesso che assiste al più gigantesco sfruttamento di quello che potremmo chiamare a buon diritto il tempo di lavoro della natura.
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Due marxismi?
di Greg Godels
Google sa che nutro un costante interesse per il marxismo. Di conseguenza, ricevo spesso link ad articoli che gli algoritmi di Google selezionano come popolari o influenti. Sistematicamente, in cima all'elenco figurano articoli di o sull'incontenibile Slavoj Žižek. Žižek padroneggia alla perfezione le arti dell'intellettuale pubblico - è divertente, pomposo, offensivo, deliberatamente oscuro e ricercato. L'aspetto trasandato e la barba lo fanno assomigliare a una caricatura del professore europeo che dona al mondo grandi idee avviluppate in strati multipli di astrusità - un metodo di sicuro effetto per apparire profondi. E di sicuro effetto anche per promuovere il proprio potenziale commerciale di intrattenimento.
I più fedeli seguaci del «maestro» pubblicano perfino video di Žižek che divora hot-dog - tenendone uno in ciascuna mano! Attualmente sta incassando alla grande con un dibattito pubblico con un pallone gonfiato di destra - a quanto si dice, i biglietti di ingresso costano una fortuna. Il marxismo come attività imprenditoriale.
Žižek è tra le più recenti incarnazioni di una lunga successione di accademici, perlopiù europei, che si sono costruiti una modesta fama pubblica attraverso l'identificazione con il marxismo o con la tradizione marxista. Da Sartre e l'esistenzialismo, attraverso lo strutturalismo, il postmodernismo e il post-essenzialismo, fino a giungere al post-fordismo e alla politica identitaria, vari accademici si sono impossessati di frammenti della tradizione marxista e hanno preteso di rielaborare tale tradizione, mantenendosi nel contempo a distanza di sicurezza da qualsiasi movimento marxista. Sono marxisti quando questo serve loro ad attirare un pubblico, ma di rado reagiscono agli appelli all'azione.
L'aspetto curioso di questo marxismo intellettuale, di questo marxismo dilettante da salotto, è che non è mai marxismo e basta; è sempre un marxismo «con riserva». Il marxismo va bene se è quello del «primo» Marx, il Marx «hegeliano», il Marx dei Grundrisse, il Marx senza Engels, il Marx senza classe operaia, il Marx prima del bolscevismo o prima del comunismo.
È comprensibile: chi aspira a essere il prossimo grande «interprete» di Marx deve distinguersi dalla massa, deve ripensare il marxismo, riscoprire il «vero» Marx, individuare dove Marx ha sbagliato.
Nel passato, intere generazioni di studenti universitari benintenzionati ma confusi sul concetto di classe si sono fatte sedurre da pensatori «radicali» che offrivano loro un assaggio di ribellione confezionato in un'accattivante veste accademica.
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Sovranità nazionale, pace e giustizia sociale
di Alessandro Somma
La tesi dell'ultimo libro di Carlo Galli, Sovranità (il Mulino, 2019), è che alla sovranità si possono indubbiamente addebitare momenti bui della storia recente, ma essa resta pur sempre il motore delle istanze emancipative fondative del nostro stare assieme come società
Alcune recenti pubblicazioni indicano l’affiorare di un filone letterario in controtendenza rispetto alla vulgata per cui la sovranità costituisce un concetto “odioso perché presuppone uno stare sopra” e dunque implica “subordinazione”[1]. Non è ancora un filone dai tratti particolarmente definiti, e tuttavia l’indicazione che se ne ricava è sufficientemente univoca: nella storia recente della sovranità si possono indubbiamente registrare momenti bui, ma essa resta pur sempre il motore dei moti emancipatori fondativi del nostro stare assieme come società. Si colloca su questo terreno l’analisi di coloro i quali, dai punti di vista più disparati, salutano con favore il ritorno dello Stato e “un recupero non nazionalista della dimensione nazionale”[2], e a monte della sovranità popolare[3]. E che nel contempo sottolineano le radicali differenze tra la loro prospettiva e quella di chi invoca confini al solo fine di promuovere identità violente e premoderne[4].
Ad accrescere questa produzione si è aggiunta l’ultimo libro di Carlo Galli[5]. Questi non si sofferma tanto sulle ragioni per cui la sovranità debba essere recuperata, il che presupporrebbe la possibilità di farne a meno, bensì sui motivi per cui essa costituisce l’imprescindibile “forma politica di una società, che grazie a essa si costituisce e agisce” (29). Il tutto documentato a partire da una panoramica succinta ma ricca e ampia sullo sviluppo storico e i fondamenti di ordine filosofico della sovranità, impiegata come sfondo per riflettere sui pericoli e le potenzialità riconducibili a quanto viene volgarmente descritto in termini di momento sovranista. E per farlo rifuggendo dai facili entusiasmi tipici di certa letteratura critica con il cosmopolitismo, ma non per questo aliena dalle semplificazioni che caratterizzano l’argomentare dei suoi fautori.
Storicizzare la sovranità
Prima di entrare nel vivo delle riflessioni di Galli, occorre soffermarsi su un invito ricorrente nella sua opera, ma che in questo caso è particolarmente amplificato: l’invito a storicizzare l’oggetto di studio.
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Come ti sistemo quelli del sovranismo altrui
Il Bilderberg dei nostri
di Fulvio Grimaldi
Ecco qui coloro che ci hanno guidato alle nostre magnifiche sorti e progressive. E insistono
“Mai otterrai che il granchio cammini diritto” (Aristofane, Le Commedie)
Trentesimo anniversario dei fatti di Tien An Men, 65esima riunione segreta del Gruppo Bilderberg. C’è qualcosa che collega i due anniversari? Inevitabilmente, l’uno, nella congiuntura, è propedeutico all’altra e ne fonda l’attualità. Insieme a temi vari, segretissimi nella definizione del metodo, tra i quali abbastanza scoperto è quello delle Quinte Colonne politico-economico-mediatiche da infiltrare in campo amico, neutro o nemico. Però manifesti negli obiettivi, giacchè praticati dalla fondazione in piena prima guerra fredda, 1954. Fondazione in Olanda agevolata e protetta dai servizi segreti angloamericani e a cui hanno dato corpo, denaro, tattica e strategia le residue case monarchiche e le massime divinità del capitalismo imperial-tribale, Rockefeller e Rothschild. Obiettivo finale: globalizzazione, affermazione di una sovranità di portata planetaria e guerra totale a quella altrui, a partire – o finire – con la conquista del “cuore terrestre del mondo” (“Heartland”, nella famosa espressione di Brzezinski), Russia e Cina.
L’evento, dagli aspetti securitari di una trasparenza democratica da far scoppiare d’invidia un vertice mondiale della ‘ndrangheta e di Cosa Nostra messi insieme, ha avuto luogo dal 30 maggio al 2 giugno tra i fasti ultralusso dell’Hotel Montreux, congeniali a questo parterre de Rois , ascendente nobile dei Casamonica, nell’omonima cittadina svizzera. 130 partecipanti da 23 paesi, euro-atlantici con poche eccezioni. Tra cui lacréme de la créme di quell’0,1%, poche decine di individui, che veleggia sulla ricchezza di metà dell’umanità grazie a una pervicace creazione di diseguaglianza tramite guerra di classe capitalista , colonialismo, guerra e, appunto, globalizzazione.
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Il PCI e la democrazia industriale
Consigli di fabbrica e partecipazione conflittuale
di Mattia Gambilonghi*
Introduzione: autogoverno dei produttori e governo dell’economia nella strategia del comunismo italiano
L'ipotesi di riforma dello Stato che muove il PCI e il suo progetto riformatore, così come la sua concezione di democrazia mista – che vede la dimensione generale e rappresentativa rapportarsi alla base con una ricca articolazione di momenti ed istituti democratici (dai consigli di quartiere ai consigli di fabbrica, passando per le nuove forme di rappresentanza all'interno del mondo della scuola ottenute agli inizi dei Settanta) – delineano un preciso modo di essere della programmazione economica e del governo dell'economia che ha il suo fulcro nel concetto di autogoverno dei produttori.
I lavoratori e la classe operaia sono cioè chiamati ad incidere e (co)determinare la politica economica e i processi produttivi tanto sul livello nazionale, attraverso l'azione svolta dai partiti di riferimento nell'ambito della rappresentanza politica generale, quanto su quello aziendale, attraverso l'azione di pressione e contrattazione e successivo controllo esercitata dai consigli di fabbrica e dalle organizzazioni sindacali nei confronti delle dirigenze d'azienda, riguardo quelle tematiche relative all'organizzazione del lavoro e alla localizzazione e composizione degli investimenti. Nonostante le caratteristiche e le specificità della strategia di riforma e trasformazione sociale delineatasi a livello teorico nel comunismo italiano, quest'ultima risulta accomunata alle altre e differenti realtà della sinistra europea (includendo perlopiù all'interno di questa categoria le esperienze di governo socialdemocratiche) dall'ispirazione e dall'idea di fondo. Ossia, la convinzione che attraverso questo doppio movimento (“dall'alto” e “dal basso”, “statale” e “sociale”) di intervento e di governo delle dinamiche economiche, attraverso l'immissione nel circuito sotteso al processo di circolazione e valorizzazione capitalistica di «soggetti e finalità antagonistiche alla pura logica di mercato», fosse possibile non solo «sottrarre spazio al calcolo puramente economico», ma soprattutto «reagire alla condizione di merce della forza lavoro e agli effetti negativi […] della gestione privata dell'accumulazione»[1].
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Un’Europa sempre meno europeista
di David Insaidi
Il primo dato che salta all’occhio osservando i risultati delle ultime elezioni europee è la permanenza di un notevole tasso di astensionismo, circa il 50%, sebbene questo sia leggermente diminuito rispetto alle precedenti elezioni del 2014. Un europeo su due non va a votare.
Questo tasso è particolarmente elevato nei paesi dell’Europa dell’est, ossia, quelli dell’ex Patto di Varsavia e della ex Jugoslavia. Infatti, se si escludono Romania e Lituania, i quali superano a fatica il 50%, tutti gli altri paesi si trovano al di sotto di questa soglia, alcuni anche abbondantemente al di sotto.
E’ la dimostrazione di come fra i popoli dell’est prevalga ampiamente se non proprio sfiducia, quantomeno scetticismo rispetto all’utilità di queste elezioni, se non proprio dell’Unione Europea in generale.
Ma la percentuale di votanti è molto bassa anche nel Regno Unito (37%) e ancor di più nel Portogallo (31,4%). Nel primo caso risulta evidente che il presunto ripensamento dei britannici rispetto alla Brexit è da ritenersi una favoletta dei mass-media. Se così fosse, infatti, gli europeisti sarebbero dovuti andare a votare in massa per le forze filo-UE, cosa che invece non s’è verificata.
Nel caso del Portogallo a risaltare non è soltanto la bassa percentuale di votanti, leggermente diminuita anche rispetto alle elezioni di 5 anni prima – in pratica nemmeno un portoghese su tre si è recato alle urne – quanto l’enorme differenza rispetto alle precedenti elezioni politiche del 2015, in cui era andato a votare il 56% degli aventi diritto, quasi il doppio. Sicuramente anche tra i lusitani, come per gli europei dell’est, prevale un certo scetticismo verso l’utilità di queste elezioni.
Ma passiamo all’analisi dei risultati veri e propri che hanno ottenuto le forze politiche, tenendo presente che, in questa sede, mi limiterò – per motivi di spazio e tempo – ad analizzare i paesi più significativi per grandezza e per importanza economica (Germania, Francia, Regno Unito e Italia), più la Grecia, la quale negli anni scorsi è stata al centro di avvenimenti cruciali, la Spagna, che rimane un paese di grandi dimensioni e con un accenno anche all’Ungheria, dove vi è una situazione particolare.
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Mestruazione: liberazione
di Karlo Raveli
La basilare ricchezza, risorsa, realizzazione e prosperità umana non sorge certamente da patrimoni o cosiddette fortune – materiali, tecniche, intellettuali, creative... - ma prima di tutto dalla fertilità femminile. È la riproduzione della specie. E la mestruazione ne è la sua armonica rivelazione sanguigna. Ciò che segnala ben materialmente tangibilità di vita e prosperità reale di una società. Come la nostra che però si sviluppa ora in modo sempre meno naturale infettando il divenire del proprio ecosistema vitale.
Commettiamo un errore (solo un lapsus?) gravissimo quando affermiamo, ormai sempre più di frequente, che “dobbiamo salvare il pianeta”. No, il pianeta Terra esisterà ancora per milioni o miliardi d’anni e l’attuale nefasto Capitalocene sarà superato da più periodi geologici. Con altre ere ed estinzioni dopo la nostra, ormai sempre più probabile e vicina! Ciò che dobbiamo (tentare di?) salvare non è il pianeta ma la specie umana, assieme ai milioni di altre varietà viventi sopravvissute a infezioni e disastri provocati proprio da quest’ultimo periodo di svolgimento dell’umanità. Che poi chiamano evoluzione, sviluppo o progresso, però sempre più contro natura. La nostra e di tutto l’ecosistema.
Ed ecco il fulcro vitale non solo per affrontare una possibile liberazione sociale generale, ma appunto ormai per la stessa sopravvivenza del homo cosiddetto sapiens: il recupero di una comprensione intelligente e naturale di questa nostra primordiale finalità e ricchezza: la riproduzione della specie. Cominciando dal significato della mestruazione come sua notifica, manifesto e decisivo passaggio operativo. Vincendone le patologiche alienazioni generate negli ultimi millenni da un percorso patriarcale che ha umiliato il ciclo femminile con pregiudizi e tabù. Come passo essenziale per istituire decorsi e finalità maschiliste sempre più sofisticate sulla cultura umana di riproduzione: dalla nascita e crescita dei figli e poi via via con sempre più multiformi ammaestramenti, organizzazioni, istituzioni e sistemi sociali.
Ma perché a partire sostanzialmente dalla mestruazione? E come?
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A trent’anni da Tienanmen
di VoxPopuli
Tienanmen, trent’anni fa un evento che ha segnato la storia della Cina per sempre e che lascia una cicatrice non indifferente nel tessuto di un paese in piena ascesa mondiale.
Quella piazza stracolma di studenti ma anche operai fu sicuramente uno spaccato dell’evoluzione delle città cinesi dal 1949 in poi. Fu una protesta nata durante le celebrazioni della morte dell’ex segretario del Partito Comunista Hu Yaobang il 26 aprile del 1989 che presto si trasformò nell’occupazione permanente della piazza centrale di Pechino, almeno fino alla notte tra il 3 il 4 giugno quando scattò l’ora della repressione. I morti ci furono da entrambe le parti, vennero massacrati soldati come operai e studenti, un bagno di sangue a cui si arrivò grazie all’intransigenza dei massimi dirigenti del Partito Comunista, Deng Xiaoping in primis, e all’ala degli studenti che ottenne l’egemonia di quel movimento ancora in una fase embrionale.
Molti di quei leader sono diventati idoli assoluti della propaganda occidentale come Liu Xiaobo, un liberal liberista che oltre a voler distruggere ogni traccia di socialismo in Cina, privatizzando la terra, la cui proprietà collettiva è la più grande eredità del maoismo, e smantellando tutte le aziende statali, professava un indefesso sostegno a tutte le guerre imperialiste promosse dagli USA in giro per il mondo e la superiorità della cultura occidentale. Famosa la sua frase del 1988, un anno prima di Tienanmen, in cui auspicava 300 anni di colonialismo per elevare la Cina al rango di nazione decente.
In quella piazza ovviamente non c’erano solo carogne di questa fattezza, la tanto diffusa immagine della Statua della libertà in miniatura o gli studenti che imbrattavano il volto di Mao.
C’erano anche autentici comunisti che in quella piazza parlavano di Marx, cantavano l’Internazionale e magari speravano, in buona fede, nel successo delle riforme di Gorbačëv in URSS. Il movimento di Piazza Tienanmen stava anche ottenendo un sostegno da parte degli operai urbani, con la nascita di un Coordinamento Operaio Autonomo, quindi libero dal vincolo Partito-Stato.
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Hosea Jaffe, “Era necessario il capitalismo?”
di Alessandro Visalli
Proseguendo la lettura della “teoria della dipendenza” e delle sue diramazioni, ed in particolare in continuità con l’analisi della posizione, estesa su quattro decenni e soggetta a notevoli mutamenti, di Andre Gunder Frank, vale la pena affrontare questo libro del 2008 di Hosea Jaffe che affronta, attraverso un serrato corpo-a-corpo con la tradizione marxiana, una questione decisiva e tenta di risolverla negando radicalmente la funzione progressiva del capitalismo. Vediamo però prima qualche consonanza con gli altri orientamenti teorici di cui abbiamo già parlato: come il suo amico Frank, in particolare dopo la svolta[1] degli anni zero, Jaffe pensa che sia l’eurocentrismo del XIX secolo ad aver portato fuori strada molta parte della tradizione marxista, ed è convinto che non sia tanto la presunta superiorità tecnologica o istituzionale ad aver consentito all’occidente di prevalere, ma il colonialismo[2]. Concorda quindi con la tesi di fondo della “teoria della dipendenza”, sin dalle prime formulazioni in Baran[3], per la quale non è affatto la carenza di capitalismo a provocare il sottosviluppo, ma la sua presenza. Il capitalismo, cioè, estendendo le sue pratiche di sfruttamento, determina per sua natura una gerarchia di centri di sviluppo organizzati in una catena con connessioni che rendono il sottosviluppo altra faccia necessaria dello sviluppo. Come concluderà, il capitalismo non è progressivo, ma antagonistico dello sviluppo umano.
Hosea Jaffe nasce a Città del Capo nel 1921 e muore in Italia, a San Martino Valle Caudina nel 2014, è stato uno storico ed economista sudafricano. Ha insegnato in mezzo mondo e tre continenti, ed ha svolto una funzione critica verso l’evoluzione della globalizzazione prima e l’Unione Europea dopo. La prima è intrinseca al capitalismo (una tesi che è propria in qualche modo di tutta la scuola e che evolve a partire dalle analisi sull’imperialismo di primi novecento), la seconda, che il nostro tratta in alcuni libri sulla Germania[4] già negli anni ottanta e poi nei primi anni novanta, è individuata come dispositivo concorrenziale ad egemonia tedesca.
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C’è vita oltre il capitalismo?
di Tiziano Cancelli*
Una lettura di Quattro modelli di futuro (Treccani) condotta insieme al suo autore Peter Frase
Pensare il futuro nell’epoca del realismo capitalista richiede la capacità di pensare la contraddizione. Il concetto di antropocene parla esattamente di questa difficoltà di vedere le cicatrici lasciate ogni giorno sulla superficie del pianeta e dei suoi abitanti, di questa difficoltà di capire come il presente si trasformi ogni giorno inevitabilmente nel futuro che abbiamo scelto. Nell’era della tecnica l’umanità sogna di terraformare Marte mentre si avvicina lentamente a una probabile estinzione; sogna l’avvento dei robot mentre in ogni parte del pianeta lascia morire di malnutrizione e di lavoro. Pensare il futuro non è un compito facile: per farlo è necessario sopportare il pensiero del paradosso, il peso di un mondo schivo che ha paura di guardarsi allo specchio e che per questo motivo sembra incapace di immaginarsi diverso.
Quattro modelli di futuro: c’è vita oltre il capitalismo di Peter Frase, appena uscito per Treccani [l’editore di questa rivista], è in questo senso un esercizio necessario di immaginazione e al contempo una filosofia dell’hic et nunc: partendo dall’impossibilità di un ritorno ai cari vecchi tempi della“tradizione”, frutto per la maggior parte di una visione idealizzata e mistificata del passato, bisogna fare i conti con la sfida del possibile, ritrovare la capacità di capire dove siamo, dove stiamo andando e dove vorremmo andare.
“Questo non è proprio un normale saggio, ma non è neanche un’opera narrativa, né ritengo che appartenga al genere futuristico. È piuttosto un tentativo di usare gli strumenti della scienza sociale insieme a quelli della narrativa speculativa per esplorare lo spazio di possibilità in cui andranno in scena i nostri futuri conflitti politici”, scrive l’autore.
Attraverso l’uso magistrale dell’ipotesi fantascientifica, condita da una dose significativa di interrogazione genuinamente politica, Frase riesce nel difficile compito di delineare quattro ipotesi di futuro possibili alla luce dei conflitti che abitano il presente, tutti segnati dalla consapevolezza di un dato fondamentale: volenti o nolenti il capitalismo per come lo conosciamo sta per finire, quello che verrà dopo dipenderà in larga parte dalle decisioni che prenderemo a livello collettivo, e quindi politico.
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Il partito delle ZTL non fermerà la destra
di Punto Critico
Di fronte al successo della destra reazionaria si può disperare oppure analizzare i risultati razionalmente cogliendo le ragioni di quel successo, ma anche la sua estrema precarietà. E ci si può opporre a Salvini come fa la borghesia intellettual-progressista, che (dal ‘94) evoca lo spettro del fascismo per difendere il rigore dei conti oppure dando alle periferie soluzioni ai problemi invece che capri espiatori. Quello che la sinistra non ha fatto.
Uno degli aspetti più rivelatori della crisi in cui versa la politica italiana è la sua incapacità di analizzare i risultati elettorali in termini materialistici, cioè guardando i numeri (tutti, non solo quelli più convenienti), ma anche indagando la loro distribuzione per territorio, per classe sociale, fascia anagrafica ecc. Non è un caso, è piuttosto il riflesso della visione del mondo tipica di partiti che hanno abbandonato il metodo delle scienze sociali per adottare tecniche di marketing e vendere su un ‘mercato elettorale’, fatto apparentemente di ‘consumatori’ indistinti, ‘prodotti’ di cui spesso si riesce a distinguere la ‘marca’ soltanto grazie alla ‘confezione’, non certo alla qualità. Col risultato che la chiacchiera post-elettorale, in cui spesso ci sono più vincitori che vinti, soppianta l’analisi del voto. E che le vendite, nonostante tutto, continuano a diminuire.
Il voto in numeri
Nella Tabella 1 abbiamo cercato di raccogliere le informazioni utili a fornire una panoramica dell’andamento dei voti assoluti negli ultimi 15 anni. La dittatura delle percentuali infatti determina una lettura distorsiva che invece di concentrarsi sul reale consenso delle forze politiche lo trasforma in un particolare secondario. Se ragioniamo sui voti assoluti la principale tendenza che emerge dai dati è la perdita di consenso generalizzata dei tradizionali schieramenti politici della ‘seconda repubblica’ – centrosinistra, centrodestra, sinistra e destra – che dal 2006 al 2018 alle politiche subiscono un salasso di circa 16 milioni di voti, di cui solo una parte – tra i 5 e i 10 milioni – recuperata dal M5S.
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La nuova stagione del comunismo
Ripensare Marx, riscoprire la lotta di classe, rilanciare i movimenti
di Giovanni Bruno
Marx 201. Ripensare l’alternativa è il titolo del bel convegno, estremamente ricco e variegato, che si è svolto a Pisa da mercoledì 8 a venerdì 10 maggio. Si è trattato di una tre giorni, con nove sessioni di discussione, organizzata da Alfonso Maurizio Iacono, filosofo e professore ordinario dell’Università di Pisa, e da Marcello Musto, uno tra i più significativi studiosi attuali di Marx su scala internazionale: l’idea fondamentale è stata quella di ripercorrere e recuperare alcune definizioni del pensiero di Marx, a partire da categorie e tematiche fondamentali, “depurandolo” dalle incrostazioni derivanti dalle interpretazioni e dalle piegature storico-politiche novecentesche dei molteplici marxisti e marxismi, per tornare alle radici del suo pensiero. L’altro aspetto che ha caratterizzato il convegno è la volontà di coniugare la dimensione politica con quella teorico-scientifica, mettendo in relazione le analisi e la visione della storia di Marx con alcuni della variegata galassia dei movimenti e delle forme di resistenza al dominio del capitale che si sono manifestate in questo scorcio di inizio XXI secolo.
È in questo contesto che vi è stato l’intervento di Álvaro Garcia Linera, intellettuale e sociologo impegnato nei movimenti guerriglieri boliviani, e oggi Vicepresidente della Bolivia di Evo Morales, nonché vera e propria eminenza grigia del governo boliviano e del MAS (Movimiento Al Socialismo), organizzazione con cui insieme a Morales ha vinto le elezioni nel 2005. Al suo attivo numerosi libri teorici e politici, tradotti in inglese ad attestare lo spessore internazionale del suo profilo di intellettuale di sinistra e marxista, tra cui Las Tensiones Creativas De La Revolución, La Potencia Plebeya, A Potência Plebeia. Ação Coletiva e Identidades Indígenas, Operárias e Populares na Bolívia.
L’ampia relazione di Linera, dal titolo: Marx en América Latina. Nuevos caminos al comunismo, ha sviluppato una riflessione sul pensiero rivoluzionario di Marx, a partire dalla sottolineatura della differenziazione tra la società dell’America Latina, a base prevalentemente contadina e rurale, rispetto alle società industriali come quella europea o nordamericana: si percepiscono sullo sfondo, filtrate e rielaborate, categorie del pensiero gramsciano, che in America Latina è peraltro conosciuto e studiato a fondo.
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Una discussione sulla teoria dell’effetto di sdoppiamento
di Giorgio Galli - Roberto Sidoli
Nel corso degli ultimi mesi si è avviata una discussione multilaterale fra l’autore del libro I rapporti di forza e il professor Giorgio Galli, dibattito che fra le altre cose ha avuto come oggetto anche lo schema teorico dell’effetto di sdoppiamento e la centralità della sfera politica, intesa in senso leninistico come “espressione concentrata dell’economia”, all’interno del processo di riproduzione delle variegate e diverse società via via apparse sull’arena storica nel corso degli ultimi undicimila anni, a partire dalla protocittà collettivistica di Gerico. Il risultato e il sottoprodotto del confronto avviato in questo ultimo periodo è costituito dallo scambio epistolare sotto riprodotto, che spera e intende avviare un percorso di confronto teorico su tali temi nella sinistra antagonista [Daniele Burgio]
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Commento
di Giorgio Galli
“Il cruciale biennio novembre 1989 (abbattimento del muro di Berlino) – agosto 1991 (implosione dell’Urss, col colpo di stato di Eltsin), poté essere presentato come riprova del fallimento del marxismo e come sua scomparsa dall’orizzonte politico-teorico europeo, che aveva dominato per un secolo, dall’ultimo ventennio del XIX secolo al citato biennio del XX. In realtà, la struttura di pensiero che ha preso nome da Marx non scomparve da quell’orizzonte culturale: per limitarci all’Italia, hanno continuato ad essere pubblicati prodotti ad alto livello a quel pensiero ispirati: ne cito soltanto due, che hanno diretta attinenza col terzo (dattiloscritto di Roberto Sidoli, “I rapporti di forza – Analisi della dinamica politico-sociale dal 9000 a.C. fino ai nostri giorni”), al quale questo commento è dedicato.
Dei due testi che qui segnalo, il primo è “Guida alla lettura de ‘Il Capitale’” (di Luigi Ferrari, ed. Del Pavone, 2019). Vi si dimostra l’assoluta scientificità del pensiero di Marx, che viene collocato, ne “L’ascesa dell’individualismo economico”, sempre di Ferrari, stesso editore, 2017), con base sul rapporto tra individualismo e collettivismo (la “linea nera” e la “linea rossa” di Sidoli).
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Islamismo capitalista
Intervista ad Emiliano Laurenzi
Dott. Emiliano Laurenzi, Lei è autore del libro Islamismo capitalista. Il wahhabismo in Arabia Saudita edito dalla Manifestolibri: quali contraddizioni vive l’Arabia Saudita?
La domanda tocca una grande molteplicità di aspetti religiosi, sociali ed economici, che in qualche modo attraversano tutto il mondo musulmano. Per rispondere in modo chiaro, va quindi immediatamente sgomberato dal discorso il pregiudizio di un Islam uniforme, compatto ed unito. Niente infatti è più lontano dalla realtà dei fatti e non a caso si parla di contraddizione, non a caso il libro si apre proprio utilizzando come metafora della stridente situazione dell’Arabia Saudita la pratica del tafheet. Tafheet è il termine arabo per indicare il drifting, una pratica illegale che spopola in Arabia Saudita e consiste nel lanciare ad elevate velocità grosse automobili, costose e potenti, per farle sterzare in controsterzo, con giravolte ed intraversamenti. Una pratica spesso fatale, in parte recuperata attraverso la creazione di campionati legali, con gare vere e proprie – in cui la RedBull fa la parte del leone – e la sua spettacolarizzazione cinematografica.
Questa pratica, che unisce uno degli oggetti consumistici più riconoscibili sul pianeta, l’automobile, allo sfoggio di abilità personale, sullo sfondo di un’urbanizzazione molto forte, di cui noi però conosciamo solo gli aspetti sfarzosi ed alla moda che ci vengono proposti dai media, è icastica delle contraddizioni che scuotono l’Arabia Saudita. Queste contraddizioni, prima ancora che sociali ed economiche, sono fondamentalmente quelle tipiche dei paesi che vengono investiti dalle dinamiche del regime capitalistico e dalle sue ricadute consumistiche in termini di comportamenti individuali.
La principale contraddizione che vive l’Arabia Saudita oggi è infatti quella di un paese che afferma di avere come costituzione il Corano, che è custode dei luoghi Santi dell’Islam e che diffonde la religiosità wahhabita in tutto il mondo, ma che allo stesso tempo è uno dei laboratori più avanzati del capitalismo contemporaneo, con tutto il suo carico di sregolato desiderio consumistico.
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Italy-Europa e ritorno
di r.s.
Su cosa si è votato domenica scorsa? Non sull’Europa che vogliamo. L’elettore medio europeo non da ora si è dovuto convincere, con buona dose di realismo, che l’obiettivo è più modestamente quello di ridefinire, per quanto ciò è possibile con il voto, i rapporti tra il proprio stato e questa strana entità sovranazionale che non è né una federazione né una confederazione, ma piuttosto un comitato di contrattazione permanente tra componenti statuali e potentati economici. Dagli interessi visibilmente divergenti e però tali da pesare, eccome, sulla vita del cittadino/clienteeuropeo. Piano dunque oramai inaggirabile anche se - secondo una percezione oramai diffusa - a rischio di implosione a misura che il gioco geopolitico e geoeconomico globale va facendosi sempre più duro. Su questo criterio di fondo si è andati a testare l’offerta politica nazionale cogliendo altresì l’occasione, soprattutto in alcuni scenari nazionali, di fare una verifica dei poteri. Il che, al di là del velo mistificante di una comunicazione politica continuamente on, è nei fatti operazione sempre più rara e difficoltosa.
Sotto questo aspetto, in Italia il voto ha sostanzialmente registrato la tenuta del governo nel suo atteggiamento di fronte alla UE. Premiando, ovviamente, chi si è mostrato più battagliero e coerente, quindi indubbiamente Salvini, nel recupero di sovranità senza rimessa in discussione dell’euro, sul doppio terreno dell’allentamento dei vincoli economici posti da Bruxelles e della richiesta di regolamentazione condivisa dell’immigrazione extra-europea. I due temi, attenzione, strettamente intrecciati nella percezione - che per quell’animale simbolico che è l’essere umano è parte essenziale della realtà - dei ceti popolari medio-bassi. Questi vivono sulla propria pelle il quadro di crisi profonda del paese e sanno che la questione immigrazione è già oggi questione di distribuzione del welfare e, domani, anche del (cattivo) lavoro che resterà. Buon senso materialistico, che può non piacere, ma sarebbe disonesto liquidare come razzismo.
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Vincerà la Cina?
di Vincenzo Comito
Quali potrebbero essere le contromisure ai dazi di Trump, dalla cacciata di Apple al renmimbi come valuta alternativa al dollaro fino alla vendita dei titoli pubblici statunitensi detenuti dalla Banca centrale cinese (1.130 miliardi). Tutti incubi per gli Usa
Di cosa siamo abbastanza sicuri
Sulla guerra scatenata su più fronti da Trump nei confronti della Cina alcune cose sembrano già oggi chiare. La prima è che tale guerra, partita apparentemente come un problema commerciale, si è via via mostrata nel suo vero volto, che è quello della lotta per il dominio tecnologico e, più in generale, per l’egemonia globale sul mondo. La potenza sino a ieri dominante cerca di impedire in ogni modo a quella emergente di raggiungerla e, peggio, di effettuare il sorpasso. Non è evidentemente la prima volta che ciò accade nella storia, con esiti nel tempo piuttosto vari.
Un’altra cosa che sembra certa è che tale guerra non si chiuderàcon qualche accordo decisivo. Nel breve termine sembrerebbe in qualche modo possibile che si trovi un punto di incontro, perché i costi della rottura sarebbero troppo alti per entrambi i contendenti, anche se bisogna tener conto dell’irrazionalità frequentemente presentenei comportamenti umani. Tra l’altro, le catene di fornitura a livello mondiale sono strettamente interconnesse e introdurvi dei cambiamenti significativi costa molto e richiede comunque tempi adeguati.
Ma la lotta è destinata a protrarsi a lungo e a non venir meno anche se le prossime elezioni presidenziali venissero vinte dai democratici; infatti, “moderati” o liberal che siano, i membri di quest’ultimo partito appaiono dei sostenitori ancora più accaniti dell’egemonia statunitense. Qualcuno pensa persino che il conflitto tra i due Paesi strutturerà tutto il XXI° secolo (Frachon, 2019).
L’altra cosa che almeno a chi scrive sembra evidente è che, in qualche modo, come anche qualcuno ha detto, il presidente Usa era obbligato a fare qualcosa per contrastare l’avvento di un nuovo potenziale Paese egemone. Alla fine, plausibilmente, la Cina vincerà la nuova guerra fredda o almeno questa prima battaglia, peraltrocon qualche danno temporaneo; maa soffrire, per un po’ almeno, saranno, oltre alla Cina, anche gli Stati Uniti, ma non solo, tutta l’economia mondiale.
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Dobbiamo cominciare a pensare a come sarà la guerra futura
di Noi Restiamo
Pubblichiamo di seguito la traduzione di un articolo comparso su Nature dal titolo Europe’s controversial plans to expand defence research di Elizabeth Gibney, con l’intento di rovesciare il punto di vista della questione che pone Kleyheeg – specialista nel settore difesa del TNO, un ente di ricerca indipendente che si propone di mettere la propria conoscenza e la tecnologia che sviluppa al servizio della difesa e della sicurezza – “Dobbiamo cominciare a pensare a come sarà la guerra futura”.
La tendenza alla costruzione dell’Esercito Europeo e alla conseguente indipendenza militare dell’UE sta nei fatti ed ha percorso strade del tutto originali. Spesso infatti le tecnologie sviluppate in ambito militare trovano applicazione nel civile ma l’Unione Europea – forse perché ancora ancorata alla NATO – con le tecnologie dual use e nell’ambito del programma quadro Horizon 2020 utilizza le ricerche a scopo civile in ambito militare: ed è così che i droni possono essere usati per le previsioni atmosferiche, per le rilevazioni geografiche come pure per il controllo dei territori e la guerra guerreggiata. Alta tecnologia che spesso non ha bisogno di “carne da cannone” ma di militari esperti, si veda in cui avevamo fatto notare la preoccupazione del governo nel creare una élite militare altamente formata. E’ interessante inoltre notare come questo processo si rafforzi in virtù delle contraddizioni che esso stesso genera, la Brexit che sembra indicare la possibilità reale di uscita dall’Unione Europea imprime una spinta notevole sugli investimenti in campo militare che allo stesso tempo rafforza il polo imperialista europeo. Ma se alcune contradizioni si risolvono se ne aprono altre: quali interessi deve proteggere un eventuale Esercito Europeo? La questione è tutta politica e le divergenze tra gli stati membri sono attualmente l’unico limite allo sviluppo coerente di questo processo, insomma è necessario delineare una politica estera comune e il Trattato di Aquisgrana tra Francia e Germania sembra andare proprio in questa direzione.
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Sul Salario minimo
di Carla Filosa*
Di seguito un breve intervento di Carla Filosa sulle ipotesi di Salario minimo. La questione è stata affrontata con Carla nella trasmissione domenicale di Radio onda rossa 87.9 a Roma – http://www.ondarossa.info – proprio al ridosso della sua iniziale pubblicazione su La Città Futura. Qui il podcast
Per leggere anche i disegni di legge sul salario minimo (PD: n. 310 ; 5Stelle: ddl n. 658; LEU: ddl n. 862) non è sufficiente conoscere il significato comune o apparente delle parole ivi contenute: è necessario riconoscerne il significato, sempre sottinteso se non ignorato, per comprenderne il contenuto reale o scientificamente concreto. Per la corretta individuazione di quest’ultimo si accolgono qui le categorie dell’analisi marxiana della critica dell’economia politica, alla luce della quale soltanto è possibile cogliere la forma attuale, ma celata, di questo sistema di uso profittevole del lavoro, inconsapevolmente destinato, lui, all’immiserimento progressivo. Per forma è da intendere la sostanza, l’organizzazione, l’edificio interno ed esterno entro il quale prende vita e si racchiude di necessità ogni relazione sociale, nelle sue modalità altrimenti inconoscibili perché queste non evidenziano la natura, le cause reali del loro apparire, come fossero sufficienti a sé stesse, senza rinvio ad altro che non sia l’essere così come sembrano. Comprendere la concretezza dei rapporti sociali, delle cose e delle parole è possibile allora solo conoscendo in quale forma storica e logica essi si presentano e vengono usati. Ad esempio il lavoro salariato è la forma specifica in cui bisogna comprendere cosa sia il lavoro in questo sistema capitalistico, in cui si presenta libero e separato dai mezzi di produzione. L’accesso al salario è qui finalizzato alla produzione di un valore (tempo di lavoro erogato) eccedente (che non viene pagato) il necessario (pagato) per vivere. Il salario insomma non ripaga tutto il lavoro contrattato ma solo una parte e questa viene continuamente ristretta, compressa. Il lavoratore oggi incarna una forma di proprietà privata nel senso che questa lo esclude, lo priva del prodotto del suo lavoro come della maggior parte della ricchezza sociale appropriata da una minoranza di espropriatori.
All’esame del disegno del PD si evidenzia immediatamente, nelle finalità della proposta, l’ambiguo obiettivo di fornire al lavoratore “una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente….”, richiamando l’art. 36 della Costituzione.
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Contro le ideologie del monopolio e contro il neopositivismo
Problemi e alternative della critica marxista in Italia (1955-1960)
di Eros Barone
Sdegno e tenacia, scienza e ribellione, rapido impulso, meditato consiglio, fredda pazienza, perseveranza infinita, intelligenza del particolare e intelligenza del tutto: solo ammaestrati dalla realtà potremo cambiare la realtà.
Bertolt Brecht, La linea di condotta.
1. Analisi della risoluzione Contro le ideologie del monopolio
Il documento in parola 1 costituisce senza dubbio una tappa essenziale della politica culturale del PCI durante gli anni Cinquanta del secolo scorso. Lo sforzo di aggiornamento e di affinamento degli strumenti di analisi e di elaborazione teorica, mutuati dal ‘laboratorio’ dello storicismo gramsciano, si colloca su un terreno largamente ignoto alla tradizione retorico-umanistica che per diversi anni, durante il periodo post-Liberazione, aveva condizionato gli stessi intellettuali comunisti; sul terreno, cioè, di una serrata critica delle ideologie tecnocratiche, aziendaliste e interclassiste sorte nel quadro della espansione dei monopoli e delle innovazioni organizzative introdotte nei moderni processi produttivi, particolarmente in alcuni grandi complessi industriali del Nord-Italia.
La parola d’ordine che illuminava le finalità politico-culturali della risoluzione riprendeva l’appello alla storica lotta “tra progresso e reazione” nella cultura moderna e riecheggiava gli anni delle battaglie per la laicità dell’istruzione e della cultura contro l’invadenza clericale e l’offensiva oscurantista scatenata dalla DC e dalla Chiesa di Pio XII dopo il 1948, nel periodo della restaurazione capitalistica. La parola d’ordine era infatti: “Per l’ulteriore sviluppo di una cultura libera, moderna e nazionale alla luce dell’umanesimo e dello storicismo marxista”.
Nel primo dei quattro paragrafi in cui si articolava il documento veniva tracciato in termini di severa autocritica un bilancio dell’azione del partito e degli intellettuali comunisti sul classico “terzo fronte”. Questa azione si era venuta svolgendo, nel quadro di una ricerca strategica in quel settore specifico delle alleanze politiche rappresentato dalle alleanze culturali, attraverso lo sforzo di promuovere una “cultura libera, moderna e nazionale”, sforzo parallelo alla lotta per l’affermazione del marxismo.
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Elezioni europee maggio 2019: di caos in caos
di Michele Castaldo
Esattamente un anno fa pubblicavo un articolo dal titolo: Caos Italia, ovvero la rivolta del ceto medio. A distanza di un anno con i risultati delle elezioni europee viene confermata la tesi di fondo. Ovvero il ceto medio, cioè un insieme di categorie sociali cresciute a dismisura durante gli anni di crescita dell’accumulazione capitalistica, con la crisi non trovano più spazio nel modo di produzione e si ribellano.
Quando ho pensato di scrivere queste note mi sono posto una domanda: chi è l’interlocutore al quale mi devo rivolgere? In che modo si può parlare da vecchio militante di estrema sinistra a chi – privo di schema ideologico – come centinaia di migliaia di giovani, proletari e non, occupati, precari o disoccupati che hanno visto nel M5S un faro nella notte e lo hanno supportato fino a farlo diventare il primo partito italiano in soli 10 anni? Non mi nascondo dietro il dito: la risposta è molto complicata.
Intanto ci provo, ma con un’avvertenza: cari giovani, mentre da parte mia c’è da fare lo sforzo di rendere alcune questioni, molto complicate, accessibili a chi vuole sforzarsi di capire, da parte vostra – interessati in prima persona - c’è da fare lo sforzo di non chiedere, in primis “hic et nunc”, qui e ora, «c’amma fa?» per una ragione molto semplice: perché chi dovesse rispondere a questa domanda proporrebbe la propria idea dall’esterno, sul da farsi, a chi vive il sentimento della precarietà e del disagio, applicando così uno schema metafisico, un tempo si sarebbe detto da «coscienza esterna» cioè di sovrapposizione di un’idea esterna all’umore di chi pone quella domanda. Se proprio si vuole una risposta ci si può rivolgere a un Marco Travaglio, Gomez, Padellaro e altri sponsor del M5S.
Detto in modo brutale: chi è esasperato ed intende agire non chiede “che fare?”, ma è spinto a fare e strada facendo aggiusta il tiro.
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Caro Sergio, non perdiamo la bussola
di Leonardo Mazzei
Sono molte le volte che in questi ultimi dieci anni ci siamo trovati a fianco dell'amico e compagno Sergio Cesaratto, e lui a fianco nostro. Sergio non si è mai tirato indietro, partecipando generosamente alle nostre iniziative seminariali e politiche di critica all'Unione europea e al regime ordoliberista della moneta unica — fino al recente Forum Eurexit dell'aprile scorso. Anche per questo siamo sorpresi leggendo una sua recente intervista...
* * * *
Una recente intervista di Sergio Cesaratto ha stupito molti suoi amici. Tra questi, pure chi scrive queste righe. Successivamente, allo scopo di precisare meglio il suo pensiero, Cesaratto ha pubblicato un nuovo intervento. Il quale, se da un lato puntualizza alcune questioni, dall'altro entra in contraddizione con quanto affermato nella conversazione con Marco Biscella.
Entriamo dunque nel merito. «Lettera UE all'Italia - Le mosse da non sbagliare con l'Europa», è questo il titolo dato all'intervista, e ne restituisce perfettamente il senso. Nelle sue risposte Cesaratto dice essenzialmente quattro cose. La prima è che «i parametri di Maastricht hanno perfettamente senso». La seconda è che alla lettera UE bisogna dare «una risposta ragionevole con proposte ragionevoli e non sgangherate, come sbattere i pugni sul tavolo o minacciare di ribaltare i trattati». La terza è l'invito al governo italiano affinché lavori al seguente compromesso: «L’Europa dovrebbe aiutarci ad abbassare drasticamente i tassi d’interesse sui nostri titoli pubblici e l’Italia impegnarsi, firmando un memorandum, a una stabilizzazione, non riduzione, del rapporto debito/Pil». La quarta riguarda lo strumento "per cambiare l'Europa", che per Cesaratto è l'aumento progressivo del "bilancio federale", obiettivo da raggiungere anche alleandosi con Macron.
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Pensiero forte in tempi minacciosi
di Carlo Galli
Per chi appartiene alla mia generazione ha l’effetto di una madeleine reincontrare Marcuse filosofo politico. Questi testi inediti o poco conosciuti risvegliano nella memoria le antiche emozioni intellettuali, le antiche ingenuità e gli antichi ambivalenti ideali. Per parafrasare quanto fu detto di Heidegger da Löwith, nel leggere Marcuse era incerto se ci si dovesse dedicare a tempo pieno allo studio della Fenomenologia dello Spirito o insorgere contro il dominio filisteo e repressivo del ‘sistema’. O forse entrambe le cose, poiché in fondo si trattava, nella testa dei giovani che siamo stati – e dello stesso Marcuse –, della medesima cosa.
La potenza della filosofia classica tedesca, che qui risuona, sta proprio in questa confusione (o fusione) fra vita e sapere, fra politica e gesto conoscitivo, fra analisi e passione intellettuale, fra rigore scientifico ed emozione. È difficile che chi non ne ha fatto esperienza – o chi a ciò sia sordo – possa comprendere e consentire alla potenza del pensiero; come è difficile che ancora oggi parte della gioventù vi si possa sottrarre, anche se oggi il veicolo dell’innamoramento filosofico-politico può non essere Marcuse ma qualche altro pensatore più di moda.
Ma la lettura di Marcuse non attinge l’unico risultato di farci ripensare con rimpianto a un’età di giovanili entusiasmi – che hanno dovuto essere disciplinati per altre vie, e messi alla prova di altre strutture di pensiero –; c’è, in queste pagine, persistente, una sfida, connaturata alla forma della sua espressione filosofica. Una sfida che è ancora e sempre la nostra sfida: decifrare la politica attraverso la filosofia, e così intervenire in quella, per criticare le sue strutture reali e i suoi saperi specialistici – le scienze economiche e sociali in primo luogo – con quello «spirito di contraddizione reso sistema» che è il sapere filosofico. Una contraddizione che non vuol essere ignoranza ma superiore sapienza; e che consiste nello storicizzare i saperi della politica (in entrambi i sensi del genitivo), nell’attraversarli per mobilitarli, nel mostrarne la riconducibilità a un orizzonte epocale determinato e quindi all’esigenza del suo superamento.
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Il consumatore votante
di Salvatore Bravo
Il monstrum del sistema del capitale invita al voto, ma senza contenuto umanistico. Il voto è invece un gesto che umanizza. Occorre un voto che sia non utile, ma etico e partecipato
“Per tutti i gusti”: ecco la definizione che si può attribuire alle elezioni europee. In assenza di cittadini capaci di esprimere un voto consapevole, di cittadini che abbiano maturato una progettualità politica di lungo termine, ci troviamo dinanzi al monstrum del sistema capitale che invita al voto, lo declama, ne fa segno del riconoscimento immediato della democrazia europea in una pluralità di “prospettive politiche”. In realtà il voto è già inficiato in partenza dall’essere in generale espresso non dal cittadino consapevole ma dal suddito consumatore: si vota nella stessa maniera con cui si scelgono le merci. Le merci rispondono ad un bisogno immediato, possono essere scelte e consumate per essere sostituite senza scrupoli morali, senza progettualità, senza consapevolezza. Si vive nell’empirico, si sceglie, si desidera, si oblia per poi ricominciare l’eterno ritorno del medesimo. Si vota in modo simile, si sceglie il candidato su un unico asse: l’asse dei propri particolari interessi personali. Non ci si scandalizza delle contraddizioni, dell’incoerenza: Salvini che osanna i cieli e gli altari; Di Maio che insegue, solo al comando, un’improbabile partecipazione dal basso, falsificata da una piattaforma (povero Rousseau!, casaleggiato) che non ammette dialettica, ma che pure si chiama Rousseau, nome che ammicca palesemente alla democrazia diretta.
Nessuno scandalo, in realtà, perché da decenni ormai si ripete che l’unico fondamento dell’esistenza di ciascun europeo sono i propri interessi privati, per cui le parole non sono ascoltate, valutate, misurate. Ci si sofferma solo sugli interessi economici che rispecchiano i propri gusti-interessi, il resto è una parodia neanche percepita. La sacralità atea ed informe del nichilismo dell’ultimo uomo è tra di noi, ha la forma brutale del capitalismo acquisitivo che martella nella mente, che ordina novello e terribile imperativo categorico a perseguire solo i propri privati interessi economici.
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Debito pubblico, alla ricerca di una via di fuga
di Claudio Conti
La discussione mainstream intorno al debito pubblico, lo spread, le “letterine” che partono da Bruxelles e le “rispostine” – corrette in corsa – del ministero dell’economia italiano, soffre da sempre di una distorsione evidente e sempre più faticosamente nascosta.
Se uno legge infatti Repubblica o il Corriere, o peggio ancora ascolta Cottarelli e Giannini in tv, è obbligato a pensare che il debito aumenta perché aumenta la spesa pubblica, con governi che non applicano le indicazioni “sagge” provenienti dall’Unione Europea (e specificamente dalla Commissione, ossia il “governo” Ue).
Chi guarda invece i numeri scopre che la spesa pubblica, negli ultimi venticinque anni è stata costantemente ridotta, al punto che da diversi anni presenta costantemente – e sotto qualsiasi tipo di maggioranza governativa – un consistente avanzo primario. Che significa: lo Stato spende ogni anno meno di quanto incassa con le tasse.
E del resto molti governi degli ultimi anni – ma anche quelli di Berlusconi – hanno obbedito più o meno ferreamente agli ordini provenienti dall’alto. In particolare quello dei ferocissimi Mario Monti ed Elsa Fornero, che sono stati protagonisti anche del più brusco innalzamento del debito pubblico in tempi recenti. Sono infatti entrati a Palazzo Chigi con un fardello pari al 120,1% del Pil e ne sono usciti lasciandocelo a 129% (oggi siamo al 132).
Ci troviamo insomma di fronte a un piccolo mistero: più ci si piega alle prescrizioni inscritte nei trattati europei, ribadite con frequenti bacchettate sulle dita, più peggiora la situazione. Lo stesso, e anche peggio, è accaduto alla martoriata Grecia governata direttamente dalla Troika – con Tsipras a fare la “copertura a sinistra” di politiche ferocemente antipopolari – quindi non si può neppure parlare di anomalia italiana.
Gli scostamenti dal percorso operati dal governo gialloverde – quasi soltanto, e molto limitatamente (come ricorda Tria nella sua contestata lettera a Bruxelles), per “quota 100” e “reddito di cittadinanza” – aggravano un po’ la tendenza, ma senza modificarne eccessivamente la direzione.
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Le elezioni e gli eletti
di Roberto Buffagni
Che cosa ci insegnano, o almeno suggeriscono, le elezioni europee testé concluse?
Anzitutto, direi che ci confermano un fatto noto ma sempre rilevante: le elezioni europee non cambiano l’Unione Europea, che conforme la sua natura e l’intenzione profonda – anche filosofica e spirituale – che la costituisce è (quasi) impermeabile al voto popolare, diciamo almost ballotsproof, salvo un vero e proprio diluvio o maremoto di voti ad essa contrari o favorevoli che non si verificherà, molto probabilmente, mai. L’Unione Europea sta o cade per l’azione degli Stati-nazione che la compongono, e/o per un evento esogeno o endogeno che ne faccia precipitare le gravi disfunzionalità.
Le elezioni europee e il voto popolare cambiano invece gli equilibri politici nazionali, come d’altronde è naturale, visto che l’unico contesto in cui la democrazia rappresentativa sia possibile e vitale è – oggi come ieri – la nazione. Cambiano gli equilibri politici nazionali, anche se le elezioni europee vanno per così dire “fuori tema”, visto che il voto europeo non muta gli equilibri parlamentari nazionali; ma il sistema elettorale proporzionalistico che adottano, e l’emergere sempre più chiaro del consenso/dissenso rispetto alla UE come clivage politico principale, le trasformano in un fattore politico e simbolico di prima grandezza.
Le elezioni europee testé concluse infatti ci insegnano, o almeno ci suggeriscono, che il consenso/dissenso riguardo la UE e alle sue logiche premesse, implicazioni e conseguenze – il mondialismo, l’individualismo, il progressismo, il costruttivismo sociale, l’universalismo politico – emerge con sempre maggiore chiarezza come il principale clivagepolitico, non solo in Europa ma in tutto l’Occidente.
Chi non si schiera di qua o di là, chi esita, chi tiene il piede in due staffe, chi azzarda dei “sì, ma” o dei “ni” è perduto. Il più antico partito d’Europa, il partito conservatore britannico, ha patito la più cocente disfatta di sempre per le sue esitazioni, compromessi e retropensieri in merito alla Brexit.
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