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Vogliamo tutto, o del coraggio d’immaginarsi compagni
di Beniamino Della Gala
Nanni Balestrini ha scritto il grande romanzo del lungo Sessantotto italiano. Ha raccontato la forza politica e l'epica dal basso di personaggi che da singoli diventano collettivi
Sono passati da quando Bompiani pubblicò, a cura di Aldo Nove,La Grande Rivolta (1999), volume che raccoglieva per la prima volta i tre romanzi politici di Nanni Balestrini, composti tra gli anni Settanta e l’inizio dei Novanta: Vogliamo tutto (1971), Gli invisibili (1987), L’editore (1989). Prima grande sistematizzazione in trilogia, in un ciclo epico, delle opere del poeta milanese, ed esplicitazione di ciò che chiunque avesse letto i romanzi già aveva intuito: quello di Balestrini è stato il tentativo coerente di una grande mitopoiesi dei movimenti del Sessantotto; dapprima nel vivo delle lotte e, in seguito, con l’amaro senno di poi degli anni Ottanta (gli odiati «anni di merda»), senza perdere in nessun caso né la rabbia né la forza di combattere su quel campo minato di narrazioni per dare vita a una contro-storia.
L’esordio politico, però – Vogliamo tutto: l’epopea di Alfonso, anonimo operaio-massa, guappo meridionale che, cercando al Nord la sua fetta della torta del boom economico, scopre la fabbrica, poi un istintivo rifiuto del lavoro, la lotta e la rivolta – mantiene ancora oggi dei caratteri di eccezionalità rivoluzionaria che forse vanno attenuandosi nelle opere successive, distaccate anche cronologicamente di più di un decennio. Per essere stato composto nel vivo delle lotte, appunto, e dunque per costituire un tentativo genuino di agit-prop attraverso una letteratura tanto screditata in quegli anni; e poi, grazie alle innovazioni formali, come la tecnica del cut-up per cui l’autore, registrata la viva voce degli operai della Fiat con il magnetofono, successivamente spezzettava e remixava in forma narrativa le frasi delle registrazioni per comporre un testo scritto.
Proporre Vogliamo tutto come grande romanzo del secondo Novecento – come il grande romanzo del lungo Sessantotto italiano – ha però in sé qualcosa di problematico. Nanni Balestrini qui scardina, corrode, ribalta dall’interno il romanzo.
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Elezioni UE. Sovranisti e sovranità, populisti e popolo
E chi ciurla nel manico
di Fulvio Grimaldi
Cos’è l’UE e che farne
In vista delle elezioni europee, manifestazione di democrazia allestita dagli illusionisti Silvan e Forest, si moltiplicano i messaggi che mi chiedono per chi voto e anche per chi votare. Di questo, dopo.
Divertente il Fatto Quotidiano, quando sbertuccia gli ordini di servizio del Grande Fratello mimetizzati da stampa italiana (e occidentale tutta), meno divertente quando compra le sue penne, che dovrebbero illustrarci il mondo là fuori, negli store del Pentagono o dell’intelligence anglosassone. Divertentissimo quando ci squaderna in paginoni su paginoni le facce e i curricula dei candidati: una galleria degli orrori tra pregiudicati, condannati, inquisiti, cambia casacca, riciclati, mummificati: la faccia dell’establishment. E poi i sinistri ci fustigano perché ancora insistiamo sul concetto populista di una guerra tra popolo ed élite.
Certo il panorama dei concorrenti è affascinante. Barnum e il suo circo fanno la figura di un saggio di Terza elementare. C’è tutto un mondo di più o meno grassi o smilzi sopravvissuti al proprio disfacimento. La notte dei morti viventi gli fa un baffo. E quando non sono i guappi, malandrini, mariuoli, preti, camorristi (in senso largo) e busti di gesso dei partitoni gonfi, punzecchiati dagli scugnizzi, prima col referendum renziano del 2016, poi con il voto politico del 2018, sono i detriti di quelli che gli correvano appresso fingendo di volergli mettere il sale sulla coda, mentre si nutrivano delle briciole che ai primi cadevano dal desco. A dare un minimo di serietà alla competizione, ecco ai nastri di partenza una fauna variopinta di correttori di bozze, alcuni che contano di rianimarsi grazie al volenteroso bocca a bocca di qualche elettore inconsapevole, altri che si accontentano di vedersi presi sul serio dai cancellieri che li stampano sulle schede elettorali.
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Venezuela: no a golpe ed invasione militare
Ma appoggiare Maduro “senza se e senza ma” proprio non si può
di Angelo Zaccaria
Con grande piacere e gratitudine vi propongo questo articolo inviatomi da Angelo Zaccaria, che si trova in Argentina e sul nostro sito ha scritto più volte di Venezuela. Buona lettura! [A.G.]
Per me scrivere sul e del Venezuela diventa sempre più difficile. Lo é perché pur avendoci trascorso in diverse permanenze quasi 9 mesi, non ci metto più piede da quasi 6 anni, e perché di fronte alla complessità raggiunta lì dalla situazione, scrivendone a distanza si rischia di perdere dei pezzi importanti della situazione concreta sul terreno. Proverò lo stesso a fissare alcuni punti, aiutato forse dal fatto che trovandomi in Argentina, si tratta di una distanza relativa che perlomeno apre squarci sulle differenti sensibilità con le quali da quaggiù si guarda agli eventi in corso.
Cominciamo da Juan Guaido’
Che quella da lui incarnata sia una strategia di tipo golpista, mi pare fuori di dubbio. Se non bastassero gli ossessivi richiami alla ribellione delle forze armate, si guardi coloro che ne sono, in nome di democrazia e diritti umani, i principali sponsor nella regione.
Cominciamo dalla Colombia di Ivan Duque. Secondo le stime più ottimistiche, nonostante gli accordi siglati con le Farc, nel solo 2018 in Colombia son stati assassinati quasi 160 attivisti e dirigenti politici e sociali di opposizione. Altre stime invece sempre per il solo 2018, portano questa cifra ad oltre 600. Può quindi un paese, che ancora oggi spicca nel mondo come un terrificante mattatoio di chi non é allineato al potere, ergersi a fustigatore del governo Venezuelano in nome della democrazia…? Direi di no.
Scarse anche le credenziali a riguardo esibite da due altri ”fari della democrazia” nel mondo, distintisi per gli attacchi a Maduro: gli Usa di Trump ed il Brasile di Jair Bolsonaro.
Infine guardiamo all’Argentina di Mauricio Macri, che mentre con una mano si atteggia a restauratore della democrazia in Venezuela, con l’altra promuove il consolidamento di uno stato di polizia nel suo paese, dove le brutali politiche neoliberali promosse dal suo governo, stentano ad imporsi a fronte di una energica e diffusa opposizione politica, sociale e sindacale.
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“La Sinistra” per riformare la UE, i comunisti contro UE e capitalismo
di Fabrizio Poggi
Classi sociali; antagonismi di classe; sfruttamento del lavoro salariato; dittatura della borghesia. Lotta di classe; liberazione del lavoro dal giogo del capitale; rivoluzione; eliminazione dei rapporti sociali capitalistici; dittatura del proletariato. Socialismo; comunismo.
Inutile cercare simili concetti nell'interminabile elenco di buoni propositi con cui il PRC chiama a votare per “La Sinistra” alle elezioni europee del 26 maggio. Inutile cercarveli, perché non ci sono nei programmi del PRC, con o senza elezioni europee.
La questione del voto del 26 maggio è quella che, al momento, incombe sulle scelte sia dei comunisti, sia della sinistra in generale. La questione dei punti presentati dal PRC per “La Sinistra”, in vista di quel voto, è quella che lega il momento contingente dell'atteggiamento dei comunisti nei confronti della “riformabilità” o meno della Unione Europea - che si esprime, tra l'altro, anche nella scelta di partecipare o meno al voto del 26 maggio e, se vi si partecipa, in che forma, con quale visione della UE stessa e con quali obiettivi – a quello più ampio del giudizio su tale “cartello” imperialista di potenze dal peso tra loro disomogeneo e, soprattutto, alla visione strategica del passaggio rivoluzionario dai rapporti sociali antagonistici del capitalismo al socialismo.
Lasciando per un momento in sospeso la questione della partecipazione o meno al voto per il Parlamento di un'istituzione per sua natura espressione del capitale monopolistico - l’Unione Europea, come detto nell'appello comune “per l'astensione attiva” lanciato da alcune organizzazioni comuniste, “non è riformabile a favore dei lavoratori e dei popoli, né si può “emendare”, perché è diretta dal grande capitale e dai centri di potere della finanza” - i punti (ben undici) presentati da “La Sinistra” annunciano il proposito di una “rifondazione democratica dell'Europa”, che “ponga alla sua base i diritti sociali, civili, di libertà, delle persone”, per sviluppare “tutte le forme di espressione e di democrazia diretta dei cittadini su scala europea”.
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Ripensare Karl Marx e la lotta di classe, i nuovi movimenti reali
di Giovanni Bruno
“Marx 201. Ripensare l’alternativa” è il titolo del bel convegno, estremamente ricco e variegato, che si è svolto a Pisa da mercoledì 8 a venerdì 10 maggio. Si è trattato di una tre giorni, con nove sessioni di discussione, organizzata da Alfonso Maurizio Iacono, filosofo e professore ordinario dell’Università di Pisa, e da Marcello Musto, uno tra i più significativi studiosi attuali di Marx su scala internazionale: l’idea fondamentale è stata quella di ripercorrere e recuperare alcune definizioni del pensiero di Marx, a partire da categorie e tematiche fondamentali, “depurandolo” dalle incrostazioni derivanti dalle interpretazioni e dalle piegature storico-politiche novecentesche dei molteplici marxisti e marxismi, per tornare alle radici del suo pensiero. L’altro aspetto che ha caratterizzato il convegno è la volontà di coniugare la dimensione politica con quella teorico-scientifica, mettendo in relazione le analisi e la visione della storia di Marx con alcuni della variegata galassia dei movimenti e delle forme di resistenza al dominio del capitale che si sono manifestate in questo scorcio di inizio XXI secolo.
È in questo contesto che Alvaro Garcia Linera, intellettuale e sociologo impegnato nei movimenti guerriglieri boliviani, e oggi Vicepresidente della Bolivia di Evo Morales, nonché vera e propria eminenza grigia del governo boliviano e del MAS (Movimiento Al Socialismo), organizzazione con cui insieme a Morales ha vinto le elezioni nel 2005. Al suo attivo numerosi libri teorici e politici, tradotti in inglese ad attestare lo spessore internazionale del suo profilo di intellettuale di sinistra e marxista, tra cui Las Tensiones Creativas De La Revolución, La Potencia Plebeya, A Potência Plebeia. Ação Coletiva e Identidades Indígenas, Operárias e Populares na Bolívia.
L’ampia relazione di Linera, dal titolo: Marx en América Latina. Nuevos caminos al comunismo, ha sviluppato una riflessione sul pensiero rivoluzionario di Marx, a partire dalla sottolineatura della differenziazione tra la società dell’America Latina, a base prevalentemente contadina e rurale, rispetto alle società industriali come quella europea o nordamericana.
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Su una campagna elettorale a senso unico
di Carlo Formenti
A una settimana dal voto la campagna elettorale tocca vertici di isteria parossistici. Il raduno “sovranista” internazionale indetto da Salvini in Piazza Duomo ha offerto lo spunto per mettere nello stesso sacco tutte le critiche radicali nei confronti delle politiche antipopolari dell’Unione Europea, etichettandole come neofasciste, razziste, xenofobe, sessiste e quant’altro. Giornalisti, opinionisti, intellettuali, “esperti” di economia e politica internazionale, ex presidenti e presidenti in carica, esponenti di tutti i partiti di destra “moderata”, centro e sinistra si sono mobilitati per invocare la Santa Alleanza contro il pericolo fascista e chiamare l’elettorato a respingerlo votando compatto per i partiti europeisti. Prima di spendere due parole sulla consistenza reale di questa presunta minaccia, vorrei analizzare il fondo di Ferruccio de Bortoli sul Corriere del 19 maggio, per poi accennare a un passaggio del discorso di Salvini e a una battuta del leader dell’M5S Di Maio.
De Bortoli esordisce notando che in questa campagna di tutto si discute meno che di Europa, dopodiché – fatta la concessione di rito al “riemergere dei fantasmi totalitari del Novecento che solo una Ue più forte può esorcizzare” – ci spiega quali sarebbero i veri temi da affrontare: sottolinea la contraddizione fra Salvini e i suoi alleati stranieri, i quali, in caso di vittoria, si guarderebbero bene dall’accoglierne le richieste in materia di ridistribuzione dei flussi migratori; respinge la “rappresentazione elettorale dell’Europa sorda, austera, a guida tedesca e cuore bancario” (peccato che non sia una “rappresentazione elettorale” ma il volto spietato di quell’Europa che ha ridotto in miseria il popolo greco per salvare gli interessi delle banche francotedesche); invita a non mandare a Bruxelles candidati “inesperti, inadeguati” (si sa che gli unici candidati esperti sono quelli che condividono i principi neoliberisti);
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Introduzione al Manifesto del Partito Comunista
di Stefano Garroni*
Com'è ben noto Il Manifesto fu scritto da Marx ed Engels su commissione della Lega dei comunisti, organizzazione londinese, che però raccoglieva anche lavoratori di altri paesi e che aveva una consistente rete di rapporti internazionali.
Lo scopo dell'opuscolo - perché di questo si trattava - era di propagandare un unitario orientamento politico, che fosse, nello stesso tempo, capace di rinserrare le file dei più decisi e combattivi rivoluzionari europei, come anche di fornire a quell'orientamento uno spessore storico e teorico. Insomma, si trattava anche - e forse fondamentalmente - di organizzare un effettivo argine contro il dilagare, nel movimento rivoluzionario, di orientamenti utopistici, spesso costruiti su ispirazioni di tipo francamente religioso e, generalmente, tanto roboanti sul piano verbale, quanto inconcludenti su quello effettivamente pratico e politico.
Ricordiamo che tutta la vicenda si ambienta nel 1848, in un'epoca, dunque, ricca di fermenti rivoluzionari, ma pure caratterizzata ancora dal fatto che il movimento proletario e persino gli ambienti rivoluzionari più solidi, mancano di una propria autonomia teorica, non sanno discriminare adeguatamente tra le critiche alla società presente che esprimono i rimpianti delle classi tramontate; e quelle, invece, che rappresentano un nuovo punto di vista, legato al moderno proletariato di fabbrica.
È un'epoca, dunque, di incertezze teoriche, che si esprimono sia in oscillazioni politiche, sia nella proclamazioni di tesi francamente utopistiche e spesso "colorate" - lo ripeto - in senso religioso e sentimentale.
La battaglia per dare al movimento rivoluzionario un orientamento teorico diverso, che fosse fondato dal punto di vista critico-scientifico, già aveva visto nettamente impegnati sia Marx che Engels: l'incarico, dunque, ottenuto dalla Lega dei comunisti era anche una loro personale vittoria. Tuttavia, il compito assegnato era sempre - e solo - quello di scrivere un opuscolo agitatorio. Ricordare ciò può sembrare bizzarro, quasi si insistesse su un'ovvietà.
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L’ascesa dell’Intelligenza Artificiale
di Anonimo
Il 15 e 16 maggio 2019 si terrà a Berlino la fiera annuale “RISE OF AI“ (L’ascesa dell’intelligenza artificiale). Si tratta della più grande fiera per l’intelligenza artificiale (AI) in Europa. Oltre alle aziende che operano per la ricerca e lo sviluppo di AI, ci saranno anche rappresentanti politici che vogliono fare della Germania il luogo di sviluppo leader per AI. I politici hanno dichiarato quest’anno come “l’Anno del l’AI“ e Berlino svolge un ruolo importante in questo campo a livello mondiale. Questa è un’altra ragione per affrontare questo attacco tecnologico contro l’autodeterminazione, in opposizione alle idee e alle strutture di aziende leader, istituzioni e le loro masse sacre. Un punto focale per tutti coloro che vogliono interrompere il dominio, il controllo e l’eteronomia. Verso “RISE DI AI“ e oltre.
Comunque, cos’è l’AI?
Al giorno d’oggi, intelligenza artificiale è una parola d’ordine che attira l’attenzione di aziende start-up tecnologiche, investitori e simili. Nel corso degli anni è diventato una sorta di credenza magica proiettando i sogni e gli incubi sulle macchine che diventano intelligenti e sostituiscono le persone… In realtà, il termine “AI“ descrive molti modi diversi in cui i computer sono programmati (algoritmi) per produrre modelli e informazioni, fare scelte e decisioni.
Un particolare tipo di algoritmo “AI“ è diventato una delle nuove ammiraglie del capitalismo: gli algoritmi “Machine Learning“ (apprendimento automatico). Gli algoritmi di apprendimento automatico sono formati sulla base dei set di dati iniziali per determinare i modelli che saranno utilizzati ulteriormente per identificare e classificare oggetti, immagini, parole, comportamenti, ecc. Tali insiemi di dati di formazione di solito non sono oggetto di indagine e sono formati da persone in base ai loro pregiudizi esistenti. Ad esempio, le donne e le persone colpite dal razzismo sono molto meno presenti nei dati di formazione, in quanto sono spesso invisibili e privi di potere nella società.
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Vitalità della riflessione marxiana e marxista sull’ideologia
di Alessandra Ciattini*
Premessa
In un mondo, nel quale a detta di alcuni, stiamo assistendo al trionfo della cosiddetta post-verità, in cui siamo intrisi sino alle midolla di ideologie invisibili che si presentano come l’effettiva rappresentazione dei fatti, in cui il paese più potente del mondo legge la storia attuale e futura come il dispiegamento del “secolo americano”, in cui trova spazio l’estremismo islamico, in cui risorge il populismo neofascista e neonazista, non possiamo in nessun modo accantonare la nozione di ideologia.
E ciò soprattutto perché si tratta di un’idea pericolosa, come dice il titolo italiano della traduzione del libro dello studioso britannico Terry Eagleton Ideologia. Storia e critica di un’idea pericolosa (2007) (il titolo in inglese invece è Ideology. An Introduction, 1991)[1]. Idea pericolosa perché stabilisce una correlazione, complessa e articolata, tra certe idee e una certa struttura di potere. Oltre a queste considerazioni teniamo in conto che, dopo la caduta del muro di Berlino, alcuni non sprovveduti, cui i mass media hanno dato notevole e continua risonanza, hanno anche osato parlare di fine delle ideologie, evidentemente ignorando che la verità è solo un processo interminabile di paziente studio e ricerca, sul cui sfondo sta il nostro modo di concepire la vita sociale.
Un’altra considerazione che ci consiglia di tornare a riflettere sull’ideologia e le sue molteplici valenze è rappresentata dal fatto che costituisce un nodo problematico del pensiero marxista, sul quale molti si sono divisi, accusandosi di riproporre con l’opposizione struttura / sovrastruttura l’antico dualismo positivistico, di ricadere nel volgare economicismo per l’uso della categoria del riflesso o di finire nell’idealismo per l’accento posto con enfasi sulle idee rispetto alla dimensione materiale.
Ispirandosi a Eagleton, anche due autori latinoamericani sottolineano la necessità di tornare a riflettere sulla nozione di ideologia, la quale a loro parere rappresenta
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Antifascismo come arma di distrazione di massa?.......
di Fulvio Grimaldi
«Quando i nazisti presero i comunisti,/ io non dissi nulla/ perché non ero comunista./ Quando rinchiusero i socialdemocratici/ io non dissi nulla/ perché non ero socialdemocratico./ Quando presero i sindacalisti,/ io non dissi nulla/ perché non ero sindacalista./ Poi presero gli ebrei,/ e io non dissi nulla/ perché non ero ebreo./ Poi vennero a prendere me./ E non era rimasto più nessuno che potesse dire qualcosa» (Martin Niemoller, pastore protestante. Testo originale, poi variamente riscritto, erroneamente attribuito a Bertold Brecht)
https://www.youtube.com/watch?v=94ZJNnYUVQ0 (saltate l’annuncio)
Polacchi e Conte fedeli alle linee. Di Mussolini e Guaidò
Francesco Polacchi, casa editrice Altaforte: “L’antifascismo è il male d’Italia”. Errore. Il male d’Italia è l’antifascismo strumentale, di copertura, arma di distrazione di massa che occulta il totalitarismo post- e neofascista della globalizzazione finanzcapitalista di guerra e di sanzioni.
Il fondo l’abbiamo raggiunto da tempo, lo si sa. Ma fino a che punto noi si sia scavato ci è ancora poco chiaro. Un indizio ce lo dà Matteo Salvini, vicepremier e ministro dell’Interno, tramutatosi in imbonitore tv da far rosicare Vanna Marchi (“Vincisalvini”), per rastrellare qualcuno disposto a farsi un selfie con la sua protuberanza ventrale. Un altro, più in basso se possibile, ce lo spara, con inusitata violenza per un fan di Padre Pio (che per l’appunto, pur santificato dal Bergoglio, era valido picchiatore squadrista di consiglieri comunali socialisti), il premier Conte. Mandando in frantumi la prima presa di posizione dignitosa e autonoma dell’Italia serva e di dolore ostello (non donna di provincie ma bordello) dall’isolata bravata di Craxi a Sigonella (rifiuto di consegnare il palestinese ai Marines), il premier ha inserito il suo governo nella schiera di coloro a cui il padrino statunitense ha ordinato di farsi gangster nei confronti del diritto internazionale, nazionale, domestico, di condominio, umano.
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Ripoliticizzare le scienze
di Mattia Galeotti
Dopo anni di contrapposizione tra scienza e anti-scienza, la questione ambientale ha invertito i ruoli sottoponendo i governi a una questione di verità. Ciò che serve è frammentare il monolite della Scienza nei tanti (e conflittuali) sforzi scientifici
Il tema scientifico è diventato sempre più centrale negli immaginari politici degli ultimi anni. Se per lungo tempo abbiamo visto una contrapposizione che ruotava attorno alla dicotomia tra scienza e anti-scienza, negli ultimi mesi la questione ambientale ha fatto irruzione nel dibattito proponendo una sorta di inversione dei ruoli: sono le popolazioni mobilitate che sottopongono una questione di verità inaggirabile ai governanti. Nel contesto italiano una anomalia si era già prodotta con la firma di Beppe Grillo sul “Patto Trasversale per la Scienza” di Burioni: quelli che sembravano due schieramenti opposti – un leader NoVax e un prof famoso per la frase «la scienza non è democratica» – si sono trovati di fatto alleati senza che questo creasse scompensi politici. Per questo è necessario decostruire l’immaginario del “partito dell’ignoranza” contrapposto alla verità scientifica, e azzardare un’altra lettura.
Una società costruisce innovazione tecnica e analitica in maniera condivisa, ma oggi, quando parliamo di scienza, nominiamo qualcosa di più strutturale: la catena di legittimazione dei saperi attraverso cui uno Stato (o una comunità di Stati) prende le sue decisioni. Si tratta quindi, per lo Stato, di governare ciò che si intende come “progresso”, intercettando i comportamenti individuali e collettivi, i linguaggi e i desideri. Definendo attraverso questa idea di progresso la comunità dei governati: la popolazione. Questa idea governamentale della scienza ha il suo rovescio nella realtà storica delle pratiche scientifiche: linguaggi e gesti che permettono una presa sul mondo senza mai contenerlo, senza cioè che si risolva una volta per tutte la questione, ma lasciando sempre uno spazio alle rotture del punto di vista.
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Otto domande (e risposte) sull’Europa
di Redazione
1. Cosa è in gioco con le elezioni europee? Il Parlamento europeo ha veri poteri?
Tra meno di due settimane tutti i cittadini dell’Unione europea saranno chiamati alle urne per eleggere i propri rappresentanti nel Parlamento Ue. La data sembra particolarmente carica di significati, si tratta infatti di un appuntamento che cade a 40 anni esatti dalle prime elezioni europee a suffragio universale, nel 1979. Saranno anche le prime senza il Regno Unito. Alle elezioni europee storicamente hanno votato meno persone che nelle elezioni politiche. Negli anni ’80, in un sistema di partiti ancora molto strutturato, la differenza era più contenuta ma già significativa: nelle politiche votava quasi il 90% dell’elettorato, nelle europee circa l’82-83%. Un divario che nei decenni successivi si è progressivamente allargato. 58,69% gli elettori che sono andati a votare alle europee del 2014 in Italia.
Il Parlamento europeo è l’assemblea dell’Unione europea, ad oggi è l’unica istituzione direttamente eletta dai cittadini e dalle cittadine dell’Unione europea. E’ composta da 750 deputati e deputate, più il presidente. Svolge una funzione legislativa con il Consiglio europeo, elegge il Presidente della Commissione e approva o respinge la nomina dell’intera Commissione.
Questo è quanto si può leggere sulla “carta”, ma che cosa accade nella realtà?
Il parlamento nasce come organo consultivo sin dalla nascita della Comunità europea, ma è solo partire dal 1999, con il Trattato di Amsterdam, quello che poi è diventato a tutti gli effetti la Costituzione dell’Unione europea, che i suoi poteri sono stati in parte rafforzati. Sebbene sia intervenuta questa “riforma” attualmente ancora non dispone di reali funzioni legislative, non ha infatti potere di iniziativa legislativa, che spetta invece alla Commissione, se non limitatamente ad alcuni casi.
Di fatto la “Legge Primaria” in Europa rimangono i Trattati, come Maastricht, Lisbona, o il Fiscal Compact, limitando pertanto la sovranità di elettori e elettrici quando vengono chiamati alle urne per indicare l’unica istituzione europea a carattere elettivo.
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Lettera aperta a Monica Di Sisto: Passo falso del Movimento No Triv
di Fulvio Grimaldi
Quando parlano i radicali l'ambiente si tappa le orecchie
In calce alla mia lettera a Monica Di Sisto, che qui pubblico, c’è una lettera al governo detta “dei movimenti”. A guardar bene, più che di movimenti, di movimento al singolare si tratta, per quanto con la firma autorevolissima di una grande combattente contro le mostruosità del neoliberismo, specie in termini di accordi internazionali come il CETA, o il TTIP (tornati di attualità), che configurano un pericoloso sbilanciamento a favore degli Usa, delle multinazionali e della sovranità popolare e nazionale, come qui e sul blog ho ripetutamente illustrato.
Tra le firme ci sono, oltre a quelle di Fairwatch, protagonista della battaglia di Di Sisto, presieduta da Alberto Zoratti, le firme di Enzo Di Salvatore, costituzionalista di riferimento del movimento No Triv, di Enrico Gagliano, dirigente No Triv, Francesco Masi, portavoce No Triv, più altri di cui si conosce la frequentazione di Radio Radicale. C’è anche un rappresentante di PAP che non sembra badare tanto alle compagnie. Lo stesso Gagliano è stato portatore, nelle comunicazioni al movimento, di apprezzamenti e suggestioni dei Radicali, cosa questa che ha provocato nette espressioni di disaccordo.
Va dunque sottolineato che, a prescindere dalla diffusione della “Lettera al governo del non cambiamento” promossa da Monica Di Sisto, l’iniziativa sia da ricondursi al solo movimento No Triv, i cui responsabili vantano una particolare vicinanza ai Radicali, elemento sconcertante alla vista delle politiche di questa forza politica a sfavore di tutto ciò che conviene alla protezione dell’ambiente, dei diritti sociali e all’autodeterminazione dei popoli. I Radicali rivendicano un ruolo determinante nella costruzione di questa Europa e nella sua difesa appassionata, a dispetto di quanto questa costruzione di burocrati e lobby economiche ha inflitto, in termini di disuguaglianze, impoverimento e austerità, ai paesi dotati di minore potere contrattuale, a partire dalla Grecia e a proseguire con l’Italia.
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Perché la regionalizzazione della scuola è costituzionalmente borderline
di Carlo Scognamiglio
1. Genesi e sostanza dell’autonomia differenziata
L’accelerazione politica del processo di decentramento amministrativo sollecita un ritorno alla discussione sul tema del federalismo, e solleva l’allarme sulla sua compatibilità costituzionale, poiché tra le tante materie su cui si intendono distribuire le competenze, c’è anche l’organizzazione del sistema di istruzione, tradizionalmente legato alla questione unitaria. Questo è un tema difficile, che non può essere affrontato con facili proclami. A poco serve urlare all’incostituzionalità o alla rottura dell’identità nazionale. Occorre ragionare con calma. Altri Stati hanno sistemi di istruzione organizzati regionalmente, e l’Italia stessa ha già delegato agli enti regionali molte funzioni. Bisogna capire, in questo caso, cosa significa e come si sviluppa la questione politica dell’autonomia differenziata. Proviamo a fare un passo indietro, per inquadrare correttamente il tema.
L’Italia ha una tradizione comunale, non regionale. Il Risorgimento aveva condotto all’agognato e difficile obiettivo del superamento di una frammentazione territoriale tradizionalmente percepita come il principale fattore di debolezza dell’Italia. Lo Stato unitario aveva certamente aggregato all’antica istituzione comunale l’amministrazione periferica prefettizia, le Province, con funzioni prevalentemente tecniche. Nel 1865 Minghetti propose la costituzione di Regioni amministrative, ma la proposta venne bocciata. Si trattava di un progetto che – si diceva – metteva a rischio il senso di unità nazionale già fragile. Don Luigi Sturzo e il Partito Popolare, nel primo dopoguerra, ripresero la questione, in vista di un’auspicata autonomia regionale. Ma poi ebbe inizio il ventennio fascista, contrario alle autonomie locali, subordinando anche gli istituti comunali alla tutela dello Stato centrale. Per questa ragione, secondo lo storico Claudio Pavone, “la Resistenza è stata pressoché unanime, nelle sue prese di posizione esplicite, nel rivendicare decentramento e autonomie locali”.
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Gramsci e il populismo
Recensione di Nicolò Pennucci
Guido Liguori (a cura di): Gramsci e il populismo, Unicopli, Milano 2019, pp. 173, ISBN: 884002056X
Gramsci e il populismo ha l’ambizione di affrontare un problema fondamentale nel dibattito politico contemporaneo, quello della relazione del pensiero politico della sinistra con il populismo e in particolare il rapporto tra la categoria della classe sociale, centrale nell’elaborazione marxista, e quella di popolo, che sembra negare in toto la portata sociologica e politica dell’unità d’analisi marxista. Partire da Gramsci è imprescindibile, in quanto la teoria politica contemporanea che avoca la possibilità di un populismo di sinistra si riferisce direttamente al suo pensiero nell’elaborazione concettuale della propria proposta. Ciò solleva non pochi problemi alla base dei contributi che si susseguono nel volume collettaneo.
Cercare di analizzare un problema contemporaneo con le lenti di un pensatore di un’altra epoca pone infatti un problema metodologico. Quentin Skinner in un lavoro paradigmatico per la storia del pensiero politico insegna che il pensiero si conosce attraverso i testi che devono essere letti sotto la doppia luce di testo e contesto per evitare distorsioni e imprecisioni ermeneutiche (SKINNER, QUENTIN, 1969: Meaning and Understanding in the History of Ideas, “History and Theory”, Vol. 8, No. 1 pp. 3-53 ). Sradicare completamente un testo dal suo contesto storico-politico è un’operazione che si apre alla possibilità di distorsioni pericolose e all’abuso di categorie che diventano completamente snaturate. Ciononostante un pensatore, soprattutto un pensatore come Gramsci che ha fatto della praxis la nota definitoria del suo progetto filosofico, non può restare relegato all’uso dei filologi. Come conciliare la corretta lettura filologica con l’uso politico del pensiero gramsciano nella contemporaneità è la grande domanda che sottostà all’intero sviluppo del libro e valutare i limiti e le potenzialità di questo sforzo è uno dei compiti del presente lavoro. Che questo doppio filo leghi tutti i contributi è dimostrato dallo stesso curatore. Liguori, infatti, nell’introduzione dichiara «presentiamo i contributi che compongono il volume non nell’ordine nel quale si sono susseguiti nel corso del seminario di Roma, ma cercando di collocarli in una sequenza che, partendo da Gramsci e dalla lettura dei suoi testi, cerchi di interrogare il presente del dibattito sul neopopulismo contemporaneo» (p. 10).
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La Germania dubita
di Vincenzo Comito
La frenata dell’economia tedesca dipende solo in parte dalla situazione congiunturale della guerra dei dazi Usa-Cina. Serpeggia in Germania un diffuso disagio e anche un fermento politico che mette in dubbio i dogmi dell’austerity
L’andamento dell’economia
Come ha sottolineato di recente, tra gli altri, anche il Financial Times (The Editorial Board, 2019), negli ultimi 15 anni la Germania è stata il motore della più o meno elevata crescita europea; vi si sono registrati alti livelli di produttività, relativamente, anche se solo relativamente, bassi livelli di diseguaglianza, ridotti tassi di disoccupazione, pur se non sono mancati a questo proposito altri problemi, quali un’accresciuta precarietà del lavoro. Dalla crisi finanziaria ad oggi la crescita del reddito pro-capite tra i Paesi del G-7 è stata comunque la più elevata dopo quella degli Stati Uniti. Perché dubitare di tale modello, si chiede dal canto suo Le Monde (Editorial, 2019), quando il Paese registra un avanzo annuale di bilancio di 60 miliardi di euro, un debito pubblico inferiore al 60% del Pil, una bilancia commerciale fortemente in surplus?
Ma idati e le valutazioni più recenti disponibili per quanto riguarda quella economianon sembrano piùmolto incoraggianti, o almeno essi appaiono contraddittori e incerti. Il quarto trimestre del 2018 ha registrato così una crescita del Pil pari a zero, mentre per l’intero anno il risultato è stato quello di un aumento dell’1,4%, contro il 2,2% a suo tempo ottenuto nel 2017. Per l’anno in corso poi, le ultime stime di marzo del governo parlano di una possibile crescita dello 0,5%, percentuale che non sarebbe certo vista con molto entusiasmo neanche in un Paese come l’Italia.
Peraltro molti economisti appaiono relativamente più ottimisti del governo, puntando ad uno 0,8%,mentre gli ultimi dati a consuntivo pubblicati nel maggio 2019 mostrano qualche speranza per un miglioramento della situazione anche per il settore industriale, grazie alla resistenza delle esportazioni, mentre in ogni caso il settore dei servizisi comporta abbastanza bene.
Per altro verso, si registra anche, nell’ultimo periodo, un crescente senso di insoddisfazione e di ingiustizia nel Paese (Bramucci, 2019), sul piano economico come su quello sociale e politico. Qualcuno parla, a questo proposito, tra l’altro, di un declino sociale del Paese (Nachtwey, 2019).
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Immanenza e politica, crisi di un rapporto
di Mattia Di Pierro, Francesco Marchesi
L’Almanacco di Filosofia e Politica (Quodlibet, 2019), diretto da Roberto Esposito, sarà presentato giovedì 16 maggio alle 17.00 a Villa Mirafiori (via Carlo Fea 2, Aula IV) all’interno del Seminario permanente di Filosofia Teoretica dell’Università di Roma La Sapienza. Intervengono Donatella Di Cesare, Roberto Esposito, Marcello Mustè, Mario Tronti, Elettra Stimilli. Modera Roberto Ciccarelli. Qui anticipiamo un estratto dell’introduzione dei curatori del primo numero, dedicato alla Crisi dell’immanenza
Perché i conflitti che ci interessano significano solo se stessi, perché il Ruanda, la Jugoslavia, le primavere arabe significano solo se stesse, sono eventi illeggibili, pure vittime, mentre la politica comincia quando non esistono più eventi illeggibili o pure vittime, quando diventa giusto morire e soprattutto uccidere in nome di qualcosa, anche se oggi non osiamo più pensarlo, anche se oggi non oseremmo scriverlo, o lo faremmo solo in una poesia. Per questo guardo il viale e passo ad argomenti prossimi, per questo voglio sentirmi credibile e presente – i miei problemi, la forma dei suoi occhiali, la chemioterapia di un amico, la gravidanza di un’amica, un altro neonato. Ci salutiamo così.
(Guido Mazzoni, Angola)
1. Dopo il ’68
Sul piano della teoria la spinta propulsiva del Sessantotto sembra essersi esaurita. L’immanenza, e la ricerca di una politica radicata in essa e solo in essa, hanno visto venire progressivamente meno la loro funzione. Si è consumato così un grande progetto di liberazione. Quello sessantottesco è stato, se colto da questo punto di vista, il tentativo di costruire un pensiero del tutto privo di gerarchie: condizione ritenuta essenziale per la creazione di un mondo radicalmente egualitario. Di qui l’immanenza come, ad un tempo, premessa e fine del lavoro filosofico, depurato di universali sovraordinati o di fondamenti celati sotto la superficie del visibile. Questo tratto complessivo assumeva tuttavia due accezioni in parte divergenti: da un lato riprendeva la sperimentazione delle scienze umane del dopoguerra, tesa nel suo insieme a pensare sistematiche del tutto orizzontali, ma pur sempre sistematiche. Un’eredità modernista ancora persuasa della possibilità di un ordine egualitario, che ordine restasse. Dall’altro si apriva a un processo poi risultato prevalente, almeno in ambito continentale: la distruzione di tutti gli assoluti filosofici che non fossero la singolarità isolata e quasi tribale visibile ancora oggi, in un movimento di pensiero libertario che ha teorizzato la disseminazione e la proliferazione delle differenze, approssimandosi alla decostruzione complessiva dei fondamenti della tradizione filosofica. Su una dotazione di senso egualitaria ha così prevalso la superficie dispersa. Sul piano politico questo è progressivamente divenuto l’ideale regolativo guida ma anche l’obiettivo pragmatico da conseguire.
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Vittoria del capitalismo?
di Hyman Minsky
"Il 25 ottobre 1990 il Centro culturale Progetto di Bergamo ha organizzato il convegno Vittoria del capitalismo?, relatore Hyman Minsky. Pochi mesi dopo la caduta del muro di Berlino, quando c’era chi preconizzava la fine della storia con la vittoria finale del capitalismo, Minsky contrapponeva una lucida lettura, anticipando le caratteristiche del nuovo fragile sviluppo capitalistico..."[Paolo Crivelli]
Il collasso delle economie di tipo Sovietico è stato salutato come una vittoria del Capitalismo e il crollo simultaneo dei regimi politici comunisti è stato usato per convalidare l’identificazione del Capitalismo con la democrazia.
Da alcune parti si avanza l’idea che questa vittoria segni la fine della Storia così come noi l’abbiamo conosciuta. Ma le vicende del Golfo, la fragilità della prosperità capitalistica e le pressioni nazionaliste risvegliate dal collasso dell’egemonia Sovietica nell’Europa orientale indicano che la Storia non finisce, ma fluisce come il Mississippi che nella canzone “...continua a scorrere”.
Non c’è dubbio che il Socialismo centralistico autoritario di tipo Sovietico è crollato. Ma questa forma di Socialismo non è la sola possibile. Il modello Sovietico ha sempre avuto la caratteristica di non consentire che le preferenze e i desideri della gente influenzassero la produzione. Segnali effettivi (decisioni) nel Socialismo di tipo Sovietico andavano dall’alto verso il basso, mai dal basso, dalla popolazione verso coloro che avevano il potere di decidere che cosa e come produrre. Esistono modelli teorici alternativi di Socialismo nei quali regna una sovranità del consumatore più ampia rispetto a quella delle economie di tipo capitalistico.
Questo modello autoritario di economia centralizzata non è cattivo quando i compiti assegnati all’economia sono semplici: quando si deve produrre solo pane o carri armati. Un’economia centralistica ha funzionato bene nella trasformazione da una società di tipo contadino ad una economia di produzione di massa limitata nella varietà di beni – quando acciaio, cemento e macchinari sono tutto ciò che deve essere prodotto: questo tipo di economia funziona altrettanto bene per la produzione di materiale bellico. Gli approvvigionamenti militari negli Stati Uniti e nel Regno Unito durante la Seconda Guerra Mondiale seguivano un modello di economia centralistica.
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“Capitale, egemonia, sistema. Studio su Giovanni Arrighi” di Giulio Azzolini
di Paolo Missiroli
Recensione a: Giulio Azzolini, Capitale, egemonia, sistema. Studio su Giovanni Arrighi, Quodlibet, Macerata 2018, pp. 176, euro 18, (scheda libro)
Giovanni Arrighi non è un pensatore troppo valorizzato nel panorama italiano e sono pochi i luoghi che dedicano un qualche spazio a riflessioni su questo storico ed economista. Eppure Arrighi è importante nel dibattito internazionale a proposito del capitalismo e della sua storia; esempio ne sia il suo ruolo nella discussione seguita alla pubblicazione di Impero di Toni Negri e Michael Hardt. Dai post-operaisti Arrighi era considerato, pur nel forte disaccordo, un interlocutore di prim’ordine.
Per questo la pubblicazione di una monografia su Arrighi è una buona notizia. Capitale, egemonia, sistema di Giulio Azzolini, oltre ad essere una novità per il solo fatto di trattare di Arrighi, ha il pregio di trattare la sua opera dall’inizio alla fine, cogliendone i punti salienti in un numero di pagine ammirevolmente ridotto; pone con chiarezza gli elementi di contatto con altri autori, scuole e correnti di pensiero; colloca Arrighi nel suo tempo storico ed anche nella sua dimensione di militante politico all’altezza degli anni Settanta. Fare una recensione di un testo simile significa quindi porsi, non senza un qualche grado di arbitrarietà, l’obbiettivo di riportare alcuni fra tutti questi elementi. L’arbitrio sta, appunto, nel fatto che non tutti potranno essere qui trattati. Il testo che discutiamo, peraltro, si presta con facilità, data anche la buona scorrevolezza che lo contraddistingue, ad essere sfogliato e letto da chiunque lo voglia. Non ci concentreremo eccessivamente sugli esiti più noti del pensiero dell’Arrighi maturo, che sono già stati trattati, su Pandora, in recensioni apposite. Qui è possibile trovare la recensione a Il lungo XX secolo e qui e quiquelle a Adam Smith a Pechino.
Può facilitarci il compito il fatto che in effetti si potrebbe dire che il senso della riflessione arrighiana è quello di dare ragione della crisi all’interno del sistema capitalistico. Questo presuppone, com’è evidente, una definizione di tale sistema, ma non è l’obbiettivo del suo pensiero. Già la formulazione della questione in questi termini “la crisi all’interno del sistema capitalistico” non è affatto scontata, come vedremo.
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Landini, Marx e la cultura economica della CGIL
di Luca Michelini
Un bel convegno organizzato dall’Università di Pisa sul pensiero di Marx (dal titolo Marx 201. Ripensare l’alternativa) ha avuto tra gli ospiti Maurizio Landini, neo-segretario della CGIL. Ero molto curioso di ascoltare Landini, perché mi aspettavo che parlasse appunto di Marx e del marxismo, cioè del ruolo che il pensiero marxiano e marxista poteva avere, o non avere, oggi, all’interno della più grande organizzazione del cosiddetto movimento operaio italiano. Il titolo della relazione, del resto, prometteva bene: Il lavoro nel capitalismo globalizzato. Per una nuova internazionale.
I presupposti culturali perché il tema fosse rilevante sono numerosi. Il marxismo è stato per lungo tempo l’ideologia portante del sindacato italiano “rosso”, fin dalle sue origini. Ciò non significa affatto che Marx fosse una sorta di profeta da cui trarre dottrina e pratica del sindacalismo: fin dalle sue origini, la fortuna di Marx in Italia si è intrecciata con continue riletture e re-interpretazioni del suo pensiero, fino ad arrivare a vere e proprie critiche, talune anche radicali, tanto da decretarne l’accantonamento come punto di riferimento teorico e politico. Particolarmente rilevante fu in Italia il cosiddetto “revisionismo”, che ebbe notevole impatto sul pensiero economico socialista, grazie ad Achille Loria; ma ebbe rilievo anche in ambito filosofico e storiografico grazie agli scritti di Benedetto Croce di Giovanni Gentile.
Marx, tuttavia, rimaneva un pensatore con il quale il confronto era ineludibile, se non altro perché la storia del capitalismo italiano e la storia mondiale riproponevano continuamente la sua attualità: ora analitica, con lo svilupparsi degli imperialismi occidentali, lo scoppio del primo conflitto mondiale, la Grande Crisi, lo svilupparsi si sistemi economici socialisti; ora politica, con la Rivoluzione d’Ottobre, la nascita del fascismo e del nazismo, l’instaurarsi di regimi socialisti di ispirazioni marxiana, come la Cina ecc. La tradizione di pensiero che, opponendosi al revisionismo, principia con il filosofo Antonio Labriola ed arriva fino ad Antonio Gramsci, costituirà una delle colonne portanti della cultura del Partito Comunista Italiano, cioè di quel partito che con la CGIL aveva un rapporto privilegiato e di continua osmosi culturale e politica.
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La relazione europeismo-corporativismo nei sindacati
di Domenico Moro
Da circa dieci anni l’austerity europea, combinata con la più grave crisi economica dal 1929, sta devastando la società europea. I danni più gravi sono stati sopportati dal lavoro salariato che ha registrato importanti balzi all’indietro a tutti i livelli. Eppure, le mobilitazioni più importanti contro l’austerity europea sono venute soprattutto da movimenti extrasindacali sorti fuori dai luoghi di lavoro, come gli indignados e i gilet gialli, invece che dalle organizzazioni tradizionali dei lavoratori. Non sono mancate le eccezioni, come in Francia, dove negli ultimi anni si sono avute alcune forti mobilitazioni sindacali, anche recentemente, come nel caso dei ferrovieri. Invece, le mobilitazioni contro l’austerity e le controriforme del mercato del lavoro, delle pensioni, ecc. sono state particolarmente deboli nel nostro Paese, dove persino i provvedimenti del governo Monti, di gran lunga il peggiore almeno dell’ultimo decennio, sono passati senza alcuna opposizione da parte dei sindacati principali. Le ragioni della particolare debolezza della riposta sindacale in Italia sono molteplici, e vanno dalle massicce delocalizzazioni alla estrema frammentazione contrattuale del lavoro salariato. Ma, almeno in parte, sono da ascriversi alle scelte politiche del sindacato stesso, in particolare al connubio di concertazione, neocorporativismo e filo-europeismo, che ha caratterizzato i tre principali sindacati italiani, compreso il maggiore, cioè la Cgil.
Un appello e una lettura dell’Europa sbagliati
Il recente Appello per l’Europa, firmato congiuntamente da Confindustria e sindacati (Cgil, Cisl e Uil), è la dimostrazione emblematica di questa situazione. L’organizzazione che rappresenta i maggiori beneficiari delle controriforme europee, le grandi imprese internazionalizzate, e le organizzazioni che dovrebbero rappresentare i più penalizzati, i lavoratori salariati dell’industria, firmano insieme un manifesto che riproduce quelle illusioni sull’Europa nelle quali forse si poteva cadere qualche anno fa, ma che ora non ha più senso ripetere.
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Moneta fiscale: perchè tocca ai governi attuare misure non convenzionali per rilanciare lo sviluppo
di Enrico Grazzini
Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo contributo sulla controversa proposta di moneta fiscale, con l’auspicio che possa contribuire al dibattito pubblico
L’eurozona è ancora una volta in crisi e ha urgente bisogno di nuovo ossigeno monetario per fare ripartire la domanda aggregata, e quindi la produzione e l’occupazione. La BCE per bocca di Mario Draghi ha annunciato una nuova serie di operazioni di rifinanziamento a lungo termine (T-LTRO 3) per le banche a partire da settembre 2019 fino a marzo 2021 con scadenza biennale. L’obiettivo proclamato è di rifornire le banche a costo (quasi) zero della liquidità necessaria per alimentare i prestiti all’economia reale.
L’annuncio dello T-LTRO III segue solamente di pochi mesi la fine (evidentemente prematura) della più importante manovra monetaria anticonvenzionale portata a termine nella storia dell’eurozona e dell’Europa: il Quantitative Easing. Grazie al piano di espansione monetaria la BCE dal marzo 2015 al dicembre 2018 ha fornito 2600 miliardi di euro al sistema bancario in cambio di titoli di stato (comprati dalle banche) e altri titoli. 2600 miliardi sono una cifra enorme, pari a circa il 20% del PIL europeo. Eppure anche il QE non ha ottenuto l’effetto sperato: per molti aspetti è stato un fallimento. L’eurozona è ferma, la domanda aggregata nell’economia reale langue, investimenti e consumi non ripartono, l’inflazione non cresce e la disoccupazione resta elevata. In realtà l’eurozona non è mai uscita dalla crisi, nonostante l’enorme quantità di moneta creata dalla BCE a favore (soprattutto) delle banche in ragione di migliaia di miliardi di euro.
Se i soldi creati dalla BCE fossero stati assegnati non alle banche ma direttamente agli stati, alle famiglie e alle imprese la domanda aggregata (consumi, investimenti, spesa pubblica) e l’inflazione si sarebbero riprese subito e avrebbero trascinato immediatamente al rialzo la produzione e l’occupazione. Basta fare due semplici calcoli: 2,6 triliardi distribuiti ai 340 milioni di abitanti dell’eurozona (neonati e ultraottantenni compresi) avrebbero comportato che ogni abitante poteva percepire oltre 7650 euro, cioè circa 160 euro al mese per i 46 mesi del QE.
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Cambiare o Perire: la dura Scelta del Bolivarismo venezuelano
di Amos Pozzi
Il tentato golpe raffazzonato di Juan Guaido degli ultimi giorni ha riportato sotto i riflettori mondiali il Venezuela. E con esso il solito insieme di cliché sulla sua situazione economica. I media non ci hanno risparmiato nulla: dal socialismo “che rende tutti poveri”, all’aneddoto dei cugini che “stavano benissimo” e ora “muoiono di fame”. Ma abbiamo anche sentito la campana di un certo riduzionismo culturale che attribuirebbe l’intera crisi al ruolo degli USA o degli speculatori interni. Ci è sembrato quindi il caso, per quanto assolutamente non facile, di provare a fare il punto della situazione economica dello stato sudamericano, dell’evoluzione della crisi e delle sfaccettature sociali della stessa.
Naturalmente trovare dati economici affidabili sul Venezuela dopo il 2014 è diventata un’impresa. Per quanto possibile ci siamo basati su dati della Banca Mondiale evitando dati governativi o think tank interni di area opposizione in modo da mantenere il più possibile “neutra” la raccolta dei dati di partenza.
Partiamo quindi dall’osservare l’evoluzione del PIL venezuelano dal 1990 fino al 2014, ultimo anno in cui abbiamo dati indiscutibili sullo stesso.
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“Ciò che sta dietro il denaro”
Ancora una postilla sulla Ciociara di Moravia
di Eros Barone
La realtà vera, nei suoi complessi rapporti che la legano alla finzione, si dischiude solo a una coscienza sviluppata, che non è più in sé, ma è per sé e per gli altri.
György Lukács
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1. Forza dialettica e oggettività del “realismo critico”
Le pagine centrali della Ciociara sono quelle più vicine alla diretta esperienza dell’autore. 1 E fra le pagine più belle perché più vere vi sono quelle dedicate alle riflessioni sulla natura e sugli scopi della guerra, uno ‘specimen’ delle quali si è scelto qui di riprodurre attraverso la figura e la vicenda di Tommasino, cioè di un personaggio legato alla monomania del negozio e, come accadeva in tempo di guerra, alla pratica della borsa nera: un personaggio quindi ferreamente condizionato dal feticismo del denaro e che pagherà con la perdita del senno e della vita la scoperta di “ciò che sta dietro il denaro”. Si tratterà allora, per un verso, della scoperta di ciò che costituisce la vera sostanza di quell’apparenza spettrale, ossia nel caso la macchina bellica, e, per un altro verso, del fatto che la merce non potrà mai sfamare il mondo, che è proprio quanto dovrà constatare amaramente a sue spese la moglie di Tommasino.
E qui Moravia, ritrovando, potenziata ‘in rebus ipsis’ dalla lezione del marxismo e del leninismo, la forza morale dello scrittore “agro e giansenista” che egli era stato nella sua giovinezza, 2 esprime una piena ed icastica consapevolezza di quale sia la realtà retrostante alla forma-denaro e alla forma-merce, ossia il nocciolo sanguinoso e distruttivo della lotta per il profitto capitalistico e per la supremazia territoriale, la cui logica – suggerisce l’autore – si esplica in tutta la sua dirompente violenza (il bombardamento a tappeto serve, innanzitutto, a terrorizzare la popolazione civile, incrinandone il consenso al governo esistente) nella guerra inter-imperialistica e nelle contrapposte occupazioni militari (quella tedesca che sarà responsabile del sequestro e dell’uccisione di Michele, quella anglo-franco-americana che sarà responsabile dello stupro di Rosetta).
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Franco CFA
Tutto quello che avreste sempre voluto sapere e non avete mai osato chiedere
di Thomas Fazi
Franco CFA. Fino a poco tempo fa queste due parole non avrebbero significato un granché per la maggior parte degli italiani. Oggi, invece, il termine è entrato nel dibattito pubblico anche da noi, grazie alle dichiarazioni di alcuni noti politici italiani, che hanno scatenato un’aspra crisi diplomatica tra Roma e Parigi. Dunque, chi segue la cronaca politica sa probabilmente che il franco CFA è una valuta utilizzata da una serie di paesi africani e soggetta alla tutela più o meno esplicita e più o meno disinteressata – a seconda dello schieramento del dibattito a cui si è scelto di credere – della Francia. Tuttavia per i più la questione rimane a dir poco fumosa. Vediamo dunque di fare chiarezza una volta per tutte.
Tanto per cominciare, quando parliamo di franco CFA, parliamo in realtà di due unioni monetarie: la Comunità economica e monetaria dell’Africa centrale (CEMAC), di cui fanno parte il Camerun, il Gabon, il Ciad, la Guinea Equatoriale, la Repubblica Centrafricana e la Repubblica del Congo; e l’Unione economica e monetaria ovest-africana (UEMOA), che comprende il Benin, il Burkina Faso, la Costa d’Avorio, la Guinea-Bissau, il Mali, il Niger, il Senegal e il Togo.
Queste due unioni monetarie usano due franchi CFA distinti, che però condividono lo stesso acronimo: per il franco della zona CEMAC, CFA sta per “Cooperazione finanziaria in Africa centrale”, mentre per il franco dell’EUMOA sta per “Comunità finanziaria africana”. Ad ogni modo, questi due franchi CFA funzionano esattamente alla stessa maniera e sono ancorati all’euro con la stessa parità di cambio. Insieme a un quindicesimo Stato – l’Unione delle Comore, che usa un franco distinto ma soggetto alle stesse regole – formano la cosiddetta “zona del franco”. Complessivamente, più di centosessantadue milioni di persone usano i due franchi CFA (più il franco delle Comore), secondo i dati ONU del 2015.
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