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L’incerto futuro dell’Europa
di Alfonso Gianni
L’ormai celebre sofagate di Ankara non è stato solo un incidente diplomatico o uno strappo alle regole più comuni del galateo, ma ha assunto un significato ben più profondo. Ha rappresentato, con la plastica evidenza del posizionamento dei corpi - quelli di Ursula von der Leyen, che sta a capo della Commissione europea, e di Charles Michel, presidente del Consiglio europeo - una domanda di per sé non nuova, ma aggravata dalla durezza dei tempi: che cosa è l’Unione europea? Semplicemente, come in effetti la intendono la maggior parte delle elite nazionali, un’organizzazione internazionale votata alla soddisfazione di obiettivi e interessi economici? O qualcosa di più, meglio di diverso, almeno in nuce, ovvero un soggetto politico e istituzionale capace di agire in modo unitario e riconoscibile a livello internazionale? E in ogni caso funziona o no il sistema di governance che lungo gli anni la Ue è andata costruendosi?
Sappiamo da tempo che l’idea della costruzione dell’Europa fondata su una convergenza economica, che poi avrebbe partorito strada facendo le sue strutture politiche ha avuto fin dai suoi primi passi la netta prevalenza sugli ideali di Ventotene, sia dal punto di vista teorico (si pensi alle elaborazioni e ai modelli funzionalisti di Jean Monnet o di David Mitrany) che pratico. Tuttavia il volgere del secolo ha messo in fibrillazione l’intero impianto che su quei principi era fondato.
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Afferrare il secolo alla gola
Il nuovo numero di aut aut
di Emilio Maggio
A connecting principle
Linked to the invisible
Almost imperceptible
Something inexpressible
Science insusceptible
Logic so inflexible
Causally connectible
Yet nothing is invincible
Synchronicity, Police
Per il filosofo americano Eugene Thacker l’uomo contemporaneo è inestricabilmente implicato in un mondo divenuto a lui incomprensibile in quanto ciò che lo qualifica maggiormente è proprio la perdita del senso dell’orientamento. Il suo smarrirsi denota non solo i limiti di una lingua consona a descrivere questo sentimento di disagio ma soprattutto la difficoltà per l’umano a comprendere l’inumano o a pensare l’impensabile1.Viene così a cadere la condizione necessaria che permette all’uomo di esercitare il suo controllo sul mondo: la struttura antropocentrica di un soggetto che non è più in grado di espletare la sua presunta superiorità – mentre diventa sempre più problematico discernere il vivente dal non vivente, l’umano dall’inumano, la vita dalla morte.
La scienza, dalla teoria della relatività alla fisica quantistica, ha reso evidente come il tempo e lo spazio siano concetti labili e relativi, legati cioè a doppio filo alla coscienza umana. Il concetto della sincronicità, introdotto da Jung, vuole dimostrare come il principio di causa-effetto non sia sufficiente a spiegare il rapporto tra un soggetto agente e un oggetto stabilito e come piuttosto la realtà in cui ci troviamo immersi nonostante tutto sia costituita da relazioni occulte.
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Sui morti di Mottarone
di Michele Castaldo
Ci risiamo con l’errore umano, l’incuria dell’ultima ruota del carro, la ricerca del capro espiatorio e la responsabilità personale dell’accaduto. Ovvero tutto poteva essere evitato “se solo” ecc. ecc..
Siamo perciò ancora una volta alla miseria umana, alla cronaca di qualche giorno, al rimbalzo di responsabilità, alle “indagini”, alle inchieste, o – anche, perché no? - all’istituzione di una commissione d’inchiesta, visto che non si capisce bene a chi apparteneva la responsabilità della gestione politica oltre che economica della funivia, il ruolo delle regioni, dei comuni, e così via all’infinito, fino alla prossima tragedia o alla prossima strage. Tanto, una in più una in meno cosa si vuole che conti, basta che passino alcuni giorni e tutto si raffredda, tutto si dimentica, e la giostra continuerà a girare grossomodo come prima.
Ma da un po’ di tempo a questa parte alcune tragedie e disastri inducono alla riflessione persino i grandi pensatori e propagandisti dell’unico sistema sociale possibile, il capitalismo. Si avverte nell’aria una sorta di impotenza rispetto a quanto avviene. Ci sbagliamo? Può darsi, ma a leggere certi editoriali come quello di Antonio Polito sul Corriere della sera di giovedì 27 maggio, cioè pochi giorni dopo l’accaduto, ce la conferma: c’è smarrimento.
Le cose sono molto più complicate di come le si vorrebbe presentare e vanno inquadrate nella dinamica temporale per capire, cioè nella ricerca delle la cause delle cose più che la ricerca del responsabile, come sono portati a fare i grandi commentatori, che si ergono a professoroni di diritto e di etica per relegare nell’angolo buio dell’errore dell’individuo e salvare così un sistema di valori dell’attuale modo di produzione.
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Tulsa 1921. Realizzazione e massacro di un sogno (americano)
di Andrea Sartori
Esattamente un secolo fa, un intero quartiere (Greenwood) abitato da circa 10.000 afroamericani nella città di Tulsa, in Oklahoma, venne dato alle fiamme, causando morti e devastazione. Gli aggressori erano una folla inferocita di uomini bianchi, risentiti e insofferenti del fatto che una popolazione di colore avesse raggiunto, tramite l’impegno e il lavoro, un livello di prosperità economica e sociale superiore al loro. A neanche sessant’anni dall’abolizione della schiavitù (1865), Greenwood era infatti conosciuta come l’America’s Black Wall Street.
In un lungo reportage interattivo e a più mani del 24 maggio 2021,[1] il New York Times sottolinea come, per la white mob di Tulsa, il colore scuro della pelle non potesse combinarsi con una condizione di benessere. La violenza dei bianchi infuriò per due giorni, dal 30 maggio all’1 giugno, diede alle fiamme 35 isolati e più di 1.250 abitazioni, uccise 300 persone poi sepolte in fosse comuni, distrusse chiese, negozi, banche e altre fiorenti attività commerciali. La dinamite lanciata dagli aerei in volo, secondo gli storici, rappresenta il primo attacco dal cielo sul suolo statunitense, il precedente – per mano americana – di Pearl Harbor e dell’11 settembre. All’atroce danno si sommò la beffa, quando i residenti di colore, accusati d’aver incitato le sommosse, vennero detenuti in campi di prigionia.
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Sulla filosofia imperfetta di Costanzo Preve
Ovvero: come valorizzare le intuizioni di un marxista eretico, riconoscendone i limiti ma anche andando al di là delle scomuniche di cui fu vittima
di Carlo Formenti
Dopo il post su Bordiga, proseguo la riflessione su alcuni autori che, pur avendo portato un contributo significativo alla teoria marxista, sono stati messi all’indice e rimossi dalla sinistra a causa delle loro tesi “eretiche” e politicamente “scorrette”. Questa seconda puntata è dedicata al pensiero di Costanzo Preve
In uno dei miei ultimi lavori (1) ho dedicato un paragrafo al “caso Preve”, nel quale osservavo come il contributo di questo autore controverso e geniale alla teoria marxista sia stato oggetto di una rimozione radicale, se non di un vero e proprio linciaggio ideologico, sia per le sue critiche feroci a una sinistra in via di autodissoluzione (formulate in tempi in cui ciò era ancora considerato intollerabile), sia perché la scomunica di cui fu vittima a causa di tale “colpa”, contribuì ad esacerbarne il carattere ombroso, innescando certi suoi atteggiamenti provocatori che gli costarono un isolamento pressoché totale. In questo scritto proverò a spiegare i motivi per cui ritengo importante – tanto sul piano teorico quanto sul piano politico – rivisitarne certe intuizioni che meritano di essere approfondite cercando, al tempo stesso, di evidenziarne limiti e contraddizioni. A tale scopo prenderò in esame due testi distanziati da un quarto di secolo: La filosofia imperfetta (1984) e Finalmente! L’atteso ritorno del nemico principale (2009) (2). La parte dedicata a quest’ultimo testo anticipa alcuni dei temi che affronto nella Prefazione che ho scritto per una nuova edizione, prevista per il prossimo settembre.
1) La filosofia imperfetta
Il libro del 1984 si articola in cinque parti dedicate, rispettivamente, 1) ai tre “discorsi” che, secondo Preve, sostanziano il corpus teorico marxiano; 2) ad alcune delle principali correnti marxiste del Novecento; 3) al pensiero di Heidegger, indicato come la vetta più elevata del pensiero borghese novecentesco; 4) all’utopia concreta di Ernst Bloch; 5) all’ontologia dell’essere sociale di Gyorgy Lukacs.
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Alla ricerca di nuove soglie: il senso politico del pensiero di Romano Alquati
di Veronica Marchio
Continuiamo ad approfondire il rapporto tra le nuove generazioni militanti e il pensiero di Romano Alquati. Un pensiero incarnato in un metodo, un metodo incarnato nelle trasformazioni della composizione di classe e della specifica civiltà capitalistica. È quanto sostiene Veronica Marcio, autrice di questo prezioso contributo. L’autrice ipotizza dunque cosa può voler dire mettere collettivamente a verifica alcune categorie e questioni proprie di un discorso teorico incompleto. È esattamente l’incompletezza delle sue ipotesi, tuttavia, che può divenire per noi oggi griglia di lettura e valutazione della realtà contemporanea, invece che repertorio di risposte certe su di essa.
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Alla domanda sul perché riprendere in mano il pensiero e gli scritti di Romano Alquati oggi, si potrebbe rispondere in tanti modi. Anzitutto ricostruendo una bibliografia dei suoi lavori, passaggio decisamente necessario al fine di collocarne storicamente le riflessioni. Non è però compito di questo scritto elencare o soffermarsi su tutti i testi che compongono l’enorme quantità di riflessioni alquatiane, perlopiù inesplorate. Mi limiterò a ipotizzare cosa può voler dire provare collettivamente a incarnare alcune categorie e questioni proprie di un discorso teorico incompleto, almeno quello che è legato alla sua produzione teorica dagli anni Ottanta in avanti. È esattamente l’incompletezza delle sue ipotesi che può divenire per noi oggi griglia di lettura e valutazione della realtà contemporanea, invece che repertorio di risposte certe su di essa.
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Introduzione al concetto di "capitalismo di stato" in Charles Bettelheim
di Bollettino Culturale
L’analisi del carattere della formazione sociale sovietica è stata ed è oggetto di accesi dibattiti tra intellettuali dalle più diverse sfumature teoriche e politiche. Questo lavoro si propone di analizzare un'interpretazione secondo la quale la formazione sociale sovietica sarebbe un tipo particolare di capitalismo, il capitalismo di stato, come proposto dall'economista francese Charles Bettelheim.
Bettelheim iniziò a utilizzare il concetto di capitalismo di stato alla fine degli anni '60, tuttavia, ricevette una spiegazione più dettagliata in “Le lotte di classe in URSS”. Quest'opera, composta da tre volumi (di cui solo i primi due sono disponibili in italiano), rappresenta uno sforzo dell'autore per "riesaminare" il passato dell'URSS, analizzando i momenti decisivi che ha attraversato questa formazione sociale. Cercherò di analizzare il concetto di capitalismo di stato proposto da Bettelheim nei primi due volumi de Le lotte di classe in URSS.
Bettelheim propone un'analisi che ha come argomento centrale la natura dei rapporti di produzione e il carattere delle forze produttive generate nell'ambito di queste relazioni, concentrandosi, allo stesso tempo, sui processi della lotta di classe che hanno configurato questo specifico assetto sociale. Per Bettelheim, sotto la copertura della proprietà statale, furono mantenuti nell'URSS rapporti di produzione simili a quelli dei paesi capitalisti. Il carattere limitato delle trasformazioni nei rapporti di produzione sarebbe l'origine di processi che cumulativamente sfociano nel fallimento del processo rivoluzionario e nella riproduzione dei rapporti capitalistici sotto forma di capitalismo di stato.
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La Comune di Parigi e il problema della rivoluzione
di Marco Montelisciani
[Estratto della prefazione al volume La Comune di Parigi. Raccolta di otto conferenze di Arturo Labriola]
Il volume che viene qui pubblicato raccoglie la trascrizione di otto conferenze tenute da Arturo Labriola nel 1906, in occasione del trentacinquesimo anniversario della Comune di Parigi. Per chi, come gli uomini e le donne di questa nostra contemporaneità, ha avuto in sorte di vivere in un tempo post, in un «tempo senza epoca»[1], nel quale si presentano «davanti a noi solo avvenimenti, niente eventi»[2], può risultare persino spiazzante l’approccio all’insieme degli avvenimenti di cui questo libro tratta e al modo politico, parziale, partigiano, ma non per questo privo di rigore, in cui l’autore ne dà conto. Appunto, perché l’insieme degli avvenimenti qui narrati, analizzati e commentati costituisce un evento, inteso come un fatto nel quale e attraverso il quale si esprime una forza capace di dire l’epoca. Un evento che si frappone nel preteso continuum della storia, per sostituire alla consolatoria apparenza di uno scorrere la realtà conturbante di un irrompere. In questo irrompere che dice l’epoca, che impone un ritmo nuovo e diverso al movimento che gli esseri umani compiono nel terreno discreto e nient’affatto fluido della storia, risiede l’arcano della Comune di Parigi, del suo fascino, della persistenza del suo mito, dell’interesse e dei dibattiti che, dopo centocinquanta anni, ancora oggi suscita.
Il bagno di sangue proletario riservato a Parigi dalla reazione del governo repubblicano di Thiers chiude il secolo breve delle rivoluzioni in Francia.
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Geopolitica dei Vaccini
di Giovanna Baer
La prima a dirlo è stata Sylvie Kuffman a febbraio sul New York Times: “In a world where the vaccines have become a new measure of geopolitical power, no doubt President Vladimir Putin of Russia and President Xi Jinping of China will smile at the sight of Europe’s difficulties” (In un mondo in cui i vaccini sono diventati una nuova misura del potere geopolitico, senza dubbio il presidente russo Vladimir Putin e il presidente cinese Xi Jinping sorrideranno alla vista delle difficoltà dell’Europa) (1). Dal 2 dicembre 2020, data in cui l’Agenzia di regolamentazione dei medicinali e dei prodotti sanitari (MHRA) del Regno Unito ha approvato l’uso temporaneo del vaccino Pfizer-BioNTech, facendo della Gran Bretagna il primo Paese del mondo occidentale ad approvare l’uso di un vaccino contro il Covid (2), la parola vaccino è diventata sinonimo di potere globale: in mancanza di una cura efficace, prevenire il Covid-19 e le sue complicazioni è il solo modo per tornare alla normalità, qualunque cosa significhi. La disponibilità di vaccini significa soprattutto ritornare a muoversi liberamente: non solo andare a scuola e in ufficio, ma uscire a cena, godersi un film al cinema e un concerto in teatro, viaggiare. Detto in termini economici: produrre e consumare a pieno ritmo. Dopo lo shock economico del 2020, le previsioni di crescita delle nazioni dipendono innanzitutto dalla quota di popolazione resistente al coronavirus: il 17 marzo la Federal Reserve ha rivisto al rialzo le stime di crescita per il 2021 dell’economia americana, che ha inoculato ai suoi cittadini 118 milioni di dosi, portandole al 6,5% dal 4,2 % previsto appena a dicembre, prima della campagna di vaccinazione intensiva promossa da Biden. A marzo scorso il presidente della Fed, Jerome Powell ha dichiarato: “La ripresa economica americana sta guidando quella mondiale. […] Mi piacerebbe che l’Europa facesse meglio sulla crescita e sulle vaccinazioni, ma per ora non sono preoccupato per noi”.
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Dalle ambasciate USA, un nuovo Plan Condor contro il socialismo latinoamericano
di Geraldina Colotti
Il continente latinoamericano mostra con chiarezza i termini dello scontro a livello globale, nel quadro della nuova fase di resettaggio del capitalismo, che ha bisogno di formattare anche il conflitto di classe: schiacciandolo o cooptandolo a seconda dei rapporti di forza, storicamente determinati. E così, mentre nei paesi europei gli apparati ideologici di controllo acuiscono la perdita di memoria del passato conflitto per imporre la visione dei vincitori, la borghesia riadatta, al più alto livello, le tecniche di controllo e repressione messe a punto nei momenti più acuti dello scontro novecentesco, e diventati elementi strutturali della nuova economia di guerra.
Dalla Colombia, al Paraguay, al Cile, vediamo allora riapparire le sparizioni forzate, le torture, l’uso di paramilitari travestiti da civili, coperti dal medesimo silenzio con il quale le organizzazioni internazionali hanno permesso le torture ai baschi in Spagna, ai comunisti in Italia, in Francia, in Gran Bretagna, in Germania: sempre in nome, beninteso, della “lotta al terrorismo” e della difesa “pacifica” della democrazia borghese. Da Cuba al Venezuela, dalla Bolivia all’Ecuador, vediamo continuare le politiche messe in campo nel secolo scorso, tra intossicazione mediatica e arroganza imperialista, per far pesare l’argomento della “lotta al terrorismo” onde mantenere in piedi il circo perverso delle “sanzioni”.
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Laboratorio pandemia. Genere, riproduzione, spazio domestico
di Claudia Borgia, Gabriella Palermo
Mettendo al lavoro il metodo di una critica femminista che parte da Marx per andare oltre, Claudia Borgia e Gabriella Palermo guardano alle trasformazioni della sfera riproduttiva accelerate dalla pandemia. Richiamano un processo complessivo di ristrutturazione della riproduzione che investe lo spazio domestico e il suo esterno, il lavoro salariato e quello non retribuito.
Nella complessità delle trasformazioni in atto, scelgono di indagare due aspetti specifici: «le implicazioni politiche e sociali di una pandemia del tutto scaricata sui cosiddetti lavori essenziali» e «le conseguenze del doppio carico di lavoro sulle spalle delle donne, divenuto estenuante». A partire da qui individuano alcune linea di analisi da sviluppare in avanti.
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La ristrutturazione della riproduzione
Questo contributo raccoglie una riflessione collettiva, in un’ottica politica e militante [i], sulle trasformazioni della sfera (ri)produttiva, alla luce della fase pandemica e della sua gestione economica, sociale e politica che sta disciplinando le nostre vite da più di un anno. La riflessione prova a mettere a lavoro l’idea di un «femminismo marxista della rottura» che cala la pratica teorica nella materialità dei rapporti sociali e delle forme di esistenza per portare l’analisi e la lotta continuamente avanti, dentro i processi di trasformazione del capitale. L’occasione della ripubblicazione e rilettura del testo Oltre il lavoro domestico di Lucia Chisté, Alisa Del Re, Edvige Forti del 1979 [ii], è stata in questo senso utile per tracciare un ragionamento sull’oggi.
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Da Teodorico a Fedez
di Bruno Montanari
La politica è una cosa seria; chi la pratica deve essere certamente colto; non specialista di settore, ma abbastanza per capire le proiezioni sociali dei diversi specifici saperi. Deve essere capace, soprattutto, di avere una “visione del mondo”; espressione che nella lingua tedesca appare particolarmente efficace, Weltanschauung, tant’è che nei decenni passati, quando si discorreva di visioni e teorie politiche, la si usava quasi correntemente, proprio perché evocava un contesto culturale speculativamente assai ricco. Senza un bagaglio culturale ampio non è possibile elaborare intellettualmente un progetto di società rappresentabile politicamente. Rappresentazione politica che deve contenere anche una configurazione del potere idonea a porla in essere.
Che il governo fosse una cosa fatta di “visione del mondo”, dunque di conoscenza e intelligenza, e di potere istituzionalizzato, lo avevano capito anche i cosiddetti “Barbari”, quelli che distrussero e occuparono l’impero romano, almeno quello che era diventato d’Occidente. Quelli, insomma, raffigurati da un elmo con le corna, che però calzava una testa dotata di un cervello capace di capire a quale mondo dovessero rivolgersi per governare.
Lo capì in modo particolare Teodorico, il re degli Ostrogoti, che nella sua corte ravennate ospitò come consigliere ed amico Severino Boezio, affidandogli il compito di tradurre i classici greci, Platone e Aristotele.
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Alquati, «meglio parlarne applicandolo»
di Francesco Bedani e Francesca Ioannilli
Come è noto, Romano Alquati è stata una figura centrale dell’operaismo politico italiano; meno noto il percorso successivo, negli anni Settanta e poi negli Ottanta e Novanta, in cui continua e approfondisce la sua elaborazione e modellizzazione del capitalismo contemporaneo. Comunque, nonostante la notevole produzione teorica, la centralità politica delle lotte che hanno investito la società nella seconda metà del Novecento e le avanzate analisi sul passaggio dal ciclo produttivo al ciclo riproduttivo, la figura di Alquati sconta a oggi alcuni limiti. La complessità delle sue elaborazioni da una parte e la scarsa diffusione dei suoi scritti dall’altra, lo mantengono confinato entro poche e ristrette cerchie di studiosi e militanti. Ostile se non dichiaratamente nemico tanto dell’attivismo politico in senso volontaristico quanto dell’opinionismo, il suo è un pensiero radicale, difficilmente circoscrivibile a una particolare disciplina.
Combattendo sia il rifiuto della sua complessa ricchezza in nome di un nuovismo superficiale e sradicato, sia la tentazione del culto della marginalità, dell’agiografia o dello specialismo per piccoli circoli, in questo articolo Francesco Bedani e Francesca Ioannilli – militanti delle nuove generazioni – spiegano con chiarezza teorica e politica perché Alquati va conosciuto, studiato e utilizzato.
Per approfondire si veda il volume curato da Bedani e Ioannilli Un cane in chiesa. Militanza, categorie e conricerca di Romano Alquati (collana Input di DeriveApprodi, 2020). A giugno DeriveApprodi avvierà la pubblicazione o ripubblicazione dei principali testi alquatiani a partire da un inedito, l’ultimo suo testo: Sulla riproduzione della capacità umana vivente. L’industrializzazione della soggettività.
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Dove si pone il limite? Un sistema economico inaccettabile
di Giovanna Cracco
Mettiamo insieme alcuni dati.
Il 26 gennaio il Fondo monetario internazionale aggiorna il World Economic Outlook sull’economia globale del 2020: nell’anno della pandemia da Covid-19, il Pil mondiale registra un calo del 3,5%. Un numero senza precedenti, evidenzia il documento. Con l’eccezione della Cina (e altre economie asiatiche, come il Vietnam), in territorio positivo, i dati sono negativi (vedi Grafico 1, pag. 7): si va dal -11,1% della Spagna al -7,2% dell’Eurozona al -3,4% degli Stati Uniti, e via a seguire. Per tornare ai livelli pre-pandemia, sottolinea il report, non basteranno né il 2021 né il 2022, e i numeri previsionali sono aleatori perché molto dipende dalle campagne di vaccinazione, da eventuali nuove ondate, dalle varianti del virus che si affacceranno. Una sola cosa è certa: la crisi economica lascerà povertà e diseguaglianza, e spingerà 90 milioni di persone in una indigenza estrema tra il 2020 e il 2021.
Il 25 gennaio l’Organizzazione internazionale del Lavoro (OIL) pubblica la settima edizione della “Nota OIL Covid-19 e il mondo del lavoro. Stime e analisi aggiornate sull’impatto del Covid-19 sul mondo del lavoro”. Lo studio (vedi Grafico 2, pag. 9) stima al 8,8% la perdita delle ore lavorate a livello globale nel 2020, pari a 255 milioni di posti di lavoro a tempo pieno (calcolati su una settimana lavorativa di 48 ore); è una perdita quattro volte superiore a quella registrata nella crisi del 2009.
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Il potere del Grande Altro
di Giorgio Salerno
Viviamo un tempo segnato da un enorme potere antidemocratico e predatorio, è un potere in grado di compiere strumentalizzazioni di una portata senza precedenti e di impossessarsi dell’esperienza umana come materia prima per trasformarla in dati comportamentali. Il capitalismo della sorveglianza è il nome che il fortunato libro di Shoshana Zuboff usa per raccontare l’ennesima trasformazione di un sistema che plasma il modo di vita delle società organizzate per garantire il dominio dell’accumulazione sulla vita. Approfondendo il processo di estrazione di dati dalle stesse esistenze, il capitalismo della sorveglianza è sbarcato da tempo sul grande continente dei nostri dark data: motivazioni, desideri, umori, emozioni, ecc., da “renderizzare” in piccolissimi pezzetti di comportamento, per addestrare sempre meglio le macchine di intelligenza artificiale. Se la civiltà industriale ha prosperato a spese della natura e ora minaccia la biosfera e la nostra esistenza, afferma la Zuboff, la civiltà dell’informazione dominata dal capitalismo della sorveglianza può prosperare solo a spese della natura umana, minacciando la nostra stessa umanità. Una lettura analitica del suo libro invita a non rassegnarsi alla retorica dell’inevitabile e a lottare contro l’esproprio del nostro futuro.
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Un testo di straordinaria attualità e acutezza di analisi, quello di Shoshana Zuboff. Studia la più recente evoluzione del capitalismo, il quale si appropria dell’esperienza umana e la trasforma (renderizzazione) in dati; di questi, una piccola parte serve a migliorare prodotti o servizi, ma tutto il resto è surplus comportamentale, che le macchine di “intelligenza artificiale” (I.A.) trasformano in prodotti predittivi, merce da scambiare nel nuovo mercato dei comportamenti futuri.
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Perchè Berlinguer non ha eredi. Il gesto suicida di un idiota
di Sandro Abruzzese
Sulla Questione comunista in Italia si potrebbe cominciare, se non altro per limitare il campo, da quell’11 giugno del ’69, a Mosca, dove il futuro segretario del Pci, Enrico Berlinguer, alla Conferenza internazionale dei partiti comunisti, non solo ribadisce la via italiana al socialismo: una via democratica, plurale, nel solco della Costituzione repubblicana; ma rivendica un internazionalismo in funzione antimperialista e antifascista fatto di piena sovranità e parità di diritti tra tutte le nazioni. È un discorso noto, in cui, a pochi anni dal Memoriale di Yalta, il Pci di Longo rifiuta ancora una volta l’ipotesi di stati guida, e condanna nuovamente l’intervento sovietico in Cecoslovacchia dell’anno precedente.
La libertà della cultura, la questione dell’indipendenza e della sovranità, ogni ampliamento democratico, sono auspicabili per la credibilità stessa del socialismo, questa la posizione italiana, che segue la linea storicistica tracciata da Gramsci e Togliatti, il quale, come ebbe a dire Renzo Liconi, per primo aveva maturato l’abbandono della statalizzazione dell’economia in virtù della socializzazione della politica.
All’Unione sovietica viene sì riconosciuto lo sforzo per la pace, per l’emancipazione dei popoli, il ruolo guida della Rivoluzione d’Ottobre, tuttavia da tempo in Italia si rivendica completa maturità e autonomia di giudizio.
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Appunti palestinesi
di Jack Orlando
1. Israele è uno Stato criminale. Fondato su basi teologiche e tenuto in piedi dal terrore, dal colonialismo e dalla segregazione. Ma questo è noto, sono note le violazioni dei diritti umani, le occupazioni illegali di terre e di case, gli arresti di bambini, le fucilate sui contadini e gli omicidi mirati all’estero. Come non è nuovo che il concetto di guerra sviluppato nelle stanze dell’esercito “di difesa” israeliano non presuppone il coinvolgimento di civili come perdite collaterali, bensì come obbiettivo esplicito per fiaccare, tramite paura e caos, la resistenza palestinese (ma possiamo immaginare che non si farebbe problemi a bombardare famiglie di innocenti anche all’estero).
Quando si guarda alla forma politica e militare sionista, si guarda all’avanguardia dell’Occidente, laboratorio di governo sociale securitario che combina produzione massiva di consenso con articolati dispositivi di contro-insorgenza e di mobilitazione militare talmente ampia da strabordare oltre ogni confine fino a non poter distinguere più ambito civile da ambito militare.
Bollarlo di nazismo o di barbarie fine a se stessa è solo fuorviante, poiché lo limita ad una situazione di eccezionalità apparentemente irriproducibile, oscurando invece il ruolo oltre che geopolitico, anche laboratoriale strategico: nella questione arabo-israeliana vengono messi a regime e verificati esperimenti di governo propri di un territorio in crisi permanente; che è proprio ciò che l’Occidente ha davanti a sé come prospettiva e da quel laboratorio trae (o meglio, compra) strumenti e lezioni per blindare la sua posizione. Quella che è stata definita più volte democrazia autoritaria ha frequentato parecchie lezioni in ebraico. La questione arabo-israeliana non è qualcosa di altro dall’Europa, è l’eccezione che può serenamente essere norma in un tempo venturo.
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Il falso mito del “Draghi keynesiano”
di Riccardo D'Orsi
Da ormai diverse settimane è in atto un asfissiante opera di propaganda a favore dell’esecutivo tecnico da poco insediatosi, e in particolare, della figura di Mario Draghi. Una simile narrativa si colloca sulla scia dell’approccio scientista che impregna molti dei dibattiti contemporanei e che, nel caso delle questioni economiche, identifica nei professionisti incaricati di occuparsi di una presunta “ingegneria sociale” la soluzione ultima a problemi che in realtà presentano una matrice squisitamente politica. È infatti ignorandone la natura politica che l’economia viene presentata come scienza “dura”, portatrice di verità manifeste e priva di trade-off distributivi. Sulla base di un tale presupposto, gli specialisti che se ne occupano vengono quindi presentati come personalità scientifiche neutrali [1].
È invece dal recupero delle radici ontologiche della scienza economica, originariamente configurata come “economia politica” [2], che è necessario partire per elaborare un giudizio di merito sul nuovo esecutivo. Stabilito quindi che la tecnica non è mai neutrale [3] e che dunque i “tecnici” al governo in realtà esprimono specifiche istanze non suffragate dall’esito della normale dialettica partitica alla base di qualunque sana democrazia liberale, non si può non concludere che questi rappresentino un sintomo della crisi delle istituzioni repubblicane e del fallimento della politica.
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Prefazione alla nuova edizione aprile 2021 di "L'Effondrement de la modernisation" di Robert Kurz
di Anselm Jappe e Johannes Vogele
Questo libro venne pubblicato per la prima volta nel mese di settembre del 1991, in Germania. Ebbe immediatamente una certa eco. Da quasi due anni era caduto il muro di Berlino, da quasi un anno la Germania era stata "riunita", ma l'Unione Sovietica - ancora in preda a delle convulsioni - non si era ancora dissolta formalmente. Scrivere "Collasso", ha coinciso con quel periodo così ricco di cambiamenti. Hans Magnus Henzesberger, un importante intellettuale tedesco dotato di un grande intuito, lo pubblicava presso l'editore Eichborn nella sua prestigiosa collana "Die andere Bibliothek". A far rapidamente raggiungere alla diffusione di questo libro il traguardo delle ventimila copie, fu probabilmente il rapido disincanto tedesco nei confronti delle speranze di nuovi miracoli economici; cosa che portò l'influente giornale "Frankfurter Rundschau" a definire quel libro come «la più discussa tra tutte le recenti pubblicazioni». Venne ben presto tradotto in Brasile, dove scatenò una vera e propria passione per la Critica del Valore.
Oggi, trent'anni dopo, può essere letto sotto diversi punti di vista. Vi si trova l'analisi dello stato del mondo in un momento cruciale, un'analisi che continua ancora a stupire per la sua perspicacia e audacia. Il suo soggetto principale è i crollo del «socialismo reale» nei paesi dell'Est; un avvenimento che , per gran parte dei lettori odierni, si situa prima della loro nascita o nella loro prima infanzia: una storia ormai lontana.
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La liberazione della Palestina ed Israele nel vortice della crisi generale del sistema capitalista
di Noi non abbiamo patria
Quando nei primi giorni di maggio salta la rabbia palestinese di Gerusalemme Est contro il via libera della Corte Suprema di Israele di sfrattare con la forza le famiglie palestinesi dal quartiere di Shaikh Jarrah, per assegnarle ai nuovi colonizzatori israeliani, e scoppiano le violenti proteste presso la moschea di Al Aqsa contro le truppe di occupazioni israeliane (indomite nel provocare i palestinesi durante il mese del Ramadan, negando loro l’accesso alla “Porta di Damasco” e alla moschea stessa), era immediatamente chiaro che si dipanava una pianificata escalation della pulizia etnica della Palestina.
Pianificazione che ha visto alcune precise tappe precedenti nel corso degli ultimi quattro anni, con il sostegno del suo principale manutengolo l’imperialismo USA che ha provato a condizionarne tempi e modalità:
- La dichiarazione unilaterale di Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele;
- Il suo riconoscimento da parte della Casa Bianca degli Stati Uniti d’America ed il seguente spostamento della sua ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme;
- Il riconoscimento dello Stato di Israele da parte degli Emirati Arabi Uniti e Bahrain promossa dall’azione diplomatica di Trump anche per rimettere in riga i paesi dell’OPEC;
- la dichiarazione unilaterale di Israele dell’annessione dei territori occupati della Cisgiordania;
- e non da ultimo la conferma della presidenza degli USA Biden a mantenere la sua ambasciata proprio a Tel Aviv, in continuità con le decisioni prese dall’ex presidente Donald Trump, e a sottoscrivere negli ultimi giorni un contratto di vendita in armamenti per 736 milioni di dollari.
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Tutte le fake news dei cacciatori di fake news
di Fulvio Scaglione
Così è (se vi pare), scena prima, parte prima. Siamo nel giugno 2020, il Washington Post spara la notiziona: la Russia ha pagato i talebani perché, a partire dal 2018, uccidessero soldati americani in Afghanistan. A ruota arriva il New York Times: titolare del programma di assassini prezzolati sarebbe l’Unità 29155 del Gru, i servizi segreti militari russi. E siccome siamo agli inizi della campagna elettorale Usa, si aggiunge: Donald Trump lo sapeva già da febbraio ma non ha detto né fatto nulla. Sottinteso: perché è una marionetta di Putin. Ovviamente Joe Biden ci si butta a pesce: “”Non capisco perché questo Presidente non sia disposto ad affrontare Putin che paga taglie ai taliban perché uccidano soldati americani in Afghanistan”, dice durante il dibattito presidenziale del 22 ottobre. Altrettanto ovviamente la notiziona viene riversata tal quale da tutti (o quasi) i media della provincia italiana.
Scena prima, parte seconda: aprile 2021, sono le stesse agenzie americane, militari e della sicurezza, a smentire la storia che merita, secondo loro, “low to moderate confidence”. La Nbcn, una delle Tv più accanite nell’inseguire la storia, traduce così: “Nel gergo dell’intelligence, una moderata fiducia significa che le informazioni sono plausibili e provenienti da fonti credibili, ma non abbastanza corroborate da meritare una valutazione più alta. Una bassa confidenza significa che l’analisi è basata su informazioni discutibili o non plausibili – o informazioni troppo frammentate o scarsamente confermate per trarre conclusioni solide. Può anche riflettere problemi con la credibilità delle fonti”.
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...e non avete ancora visto niente!
Nota semiseria su «Great Reset» e dintorni
di Il Lato Cattivo
«Udii poi una gran voce dal tempio che diceva ai sette angeli: “Andate e versate sulla terra le sette coppe dell'ira di Dio” Partì il primo e versò la sua coppa sopra la terra; e scoppiò una piaga dolorosa e maligna…»
(Apocalisse di Giovanni, XVI, 1-2)
Si è fatto un gran parlare, anche in ambienti a noi contigui, del presunto progetto di «Great Reset» (grande riaggiustamento), che facendo strumentalmente leva sulla pandemia da Covid-19, mirerebbe a una profonda riconfigurazione dell’economia mondiale. Come è ormai noto, The Great Reset è anche il titolo di un libro di Klaus Schwab e Thierry Malleret, considerato da alcuni come una conferma dell'esistenza del suddetto progetto. Cosicché siamo andati a vedere cosa c'è nel libro, convinti di trovarvi sostanziose indicazioni, ancorché business friendly, sulla ristrutturazione possibile del modo di produzione capitalistico (MPC). Abbiamo allargato le nostre ricerche ad altri testi della stessa risma. Risultato: una grande delusione. Pubblicazioni come quella di Schwab e Malleret testimoniano della situazione di stallo delle frazioni attualmente dominanti della classe capitalista, più che della loro dinamicità. Farne un manuale della ristrutturazione ad uso del grande capitale, non solo è far troppo onore a suoi autori; è soprattutto non comprendere cosa spinga il MPC a rivoluzionare se stesso. Lo vedremo meglio nella seconda parte di questa breve nota. Ma andiamo con ordine.
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Alcune note a margine sul neoliberismo
Dall’«ordine spontaneo» di Hayek al «triedro del potere» di C. Galli
di Salvatore Bianco
Avvertiti della lezione socratica, che di ogni cosa incitava a chiarificarne il senso, e al netto del neoliberista di turno che dirà sempre e comunque che il neoliberismo semplicemente non esiste, avviamo queste brevi note col dichiarare in esplicito che si assumerà qui il neoliberalismo quale paradigma economico storicamente determinato. Corre l’obbligo altresì precisare che si utilizzerà la nozione di «paradigma» nell’accezione classica coniata da Thomas Kuhn, sia pure nel contesto ancora limitato delle rotture epistemologiche (La struttura delle rivoluzioni scientifiche,1962), per rimarcare la dimensione non solo teoretica ma preminentemente pratica del nuovo modello economico vincente. In apertura del suo famoso saggio scrive infatti Kuhn che il paradigma è «una costellazione di concetti, percezioni e valori che creano una particolare visione della realtà» per cui rappresenta «gli occhiali attraverso cui vediamo la realtà» e, ovviamente, dei relativi modi di agire.[1]
Attraverso una vera e propria rivoluzione economica e sociale, sia pure apparentemente incruenta, sul finire degli anni Settanta una nuova visone generale del mondo ha cominciato, infatti, ad affacciarsi nelle già travagliate società occidentali. Ha demolito in un decennio, o poco più, lo Stato sociale keynesiano, egemonico nel trentennio precedente, istituendo via via, in forme sempre più compiute, una «sovranità globale di mercato».
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La geopolitica del petrolio
con il Professor Giuseppe Gagliano (Cestudec)
Giancarlo Capozzoli ha realizzato con l'autorevole Professor Giuseppe Gagliano, Presidente del Centro Studi Carlo De Cristoforis (Cestudec), e docente dell'Istituto alti Studi Strategici e Politici (IASSP), questa analisi storico strategica della guerra del petrolio e delle sue conseguenze geopolitiche nel corso degli anni
Dalla fine del XIX secolo, la corsa al petrolio ha accompagnato lo sviluppo del mondo e la sua crescita. Ha contribuito sia a migliorare drasticamente le condizioni di vita che a volte a distruggerle con una velocità impressionante. Questa dicotomia spiega in gran parte l’importanza strategica che le viene attribuita. Ancora oggi l’accesso all’oro nero fornisce questa leva essenziale per il dominio economico e militare. La sua conquista ha portato a molti conflitti, ha anche ridisegnato alcuni confini e modificato gli equilibri di potere internazionali. Gli Stati sono naturalmente gli attori apparenti in queste aspre lotte. Ma alcune grandi compagnie petrolifere svolgono un ruolo altrettanto importante nel teatro delle operazioni.
Tuttavia, come ha detto Sun Tzu, “L’intero successo di un’operazione sta nella sua preparazione.” Ebbene ,il successo della conquista del petrolio non fa eccezione a questa regola e richiede un lavoro di intelligence efficace a monte. Di conseguenza, i metodi utilizzati saranno moralmente ambigui e molto spesso andranno oltre il quadro della legalità. I servizi di intelligence utilizzeranno quindi i mezzi a loro disposizione spiando, rintracciando e persino istigando rivoluzioni nei paesi presi di mira. Inoltre creeranno stretti legami con politici e imprese per cooperare meglio e difendere gli interessi nazionali. Il loro utilizzo sarà poi a volte difensivo, a volte offensivo a seconda delle manovre da eseguire.
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Frammenti di welfare: formare al lavoro nei piani di ripresa post-pandemica
di ∫connessioni Precarie
Nell’Europa dei Recovery Plan la formazione è destinata a ricoprire un ruolo centrale nel welfare post-pandemico. Nella corsa dei governi nazionali per accedere ai fondi con cui ristrutturare i propri sistemi produttivi e sociali, il welfare assume il volto di una competizione tra progetti: quelli dei governi nazionali e quelli di lavoratori e lavoratrici alla ricerca di un’occupazione sempre più sfuggente e precaria, che richiede di accumulare costantemente quella condanna che è il capitale umano. Valorizzare sé stessi, aggiornare costantemente le proprie conoscenze e competenze diventa il motivetto che donne, precari e migranti dovranno ripetersi perché questo è il criterio sempre più stringente per accedere a una cittadinanza gerarchicamente differenziata secondo la quota di sapere sociale che ciascuno porta con sé.
Di fronte alla crisi pandemica che ha rimesso al centro del discorso politico la necessità di un intervento pubblico nella gestione della riproduzione sociale, e dunque della capacità di assicurare le condizioni economiche e sociali della produzione, l’Europa pianifica per la prima volta avendo a disposizione dei fondi per farlo. L’obiettivo dei suoi piani però non è una novità, anzi si pianifica quel che resta di un vecchio sogno europeo già perseguito in vari in modi negli ultimi vent’anni: fare della formazione e del lavoro un tutt’uno, legare a doppio filo il welfare con le politiche attive per il lavoro, a cui viene interamente piegata la formazione, normalizzare la precarizzazione rompendo il confine tra pubblico e privato.
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