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Sui meccanismi di occultamento delle responsabilità del Neoliberalismo
di Pier Paolo Caserta
Uno degli aspetti e tra le capacità più notevoli dell’ideologia neoliberale è non solo l’essere stata completamente interiorizzata dai subalterni, costituendo così un elemento attivo di modellizzazione dell’immaginario (con conseguente impossibilità di pensare una reale alternativa di sistema), ma anche di deviare continuamente le responsabilità dei danni prodotti dal Modello verso aspetti periferici, fuorvianti se non del tutto erronei, a salvaguardia del Modello stesso. La Scuola e la Sanità pubbliche, ossia due settori vitali per la tenuta della Democrazia, e che proprio perciò sono stati oggetto di un attacco profondo e pluridecennale, forniscono ottimi esempi del funzionamento del meccanismo.
Sul piano della Sanità, si prenda pure il caso paradigmatico dell’emergenza pandemica, quando l’enfasi sui comportamenti individuali, virtuosi o viziosi, servì a deviare l’attenzione dalle responsabilità maggiori alla base dell’impatto della pandemia, imputabili allo smantellamento della sanità pubblica e allo straripare degli interessi privati. Per esempio, se non mantieni posti di terapia intensiva in esubero quando “non servono”, poi non te li ritroverai quando servono di più. Questo basterebbe a mostrare come la spesa pubblica debba farsi carico di costi che il privato non ha interesse a sostenere, a tutela dei diritti, dell’accessibilità ai servizi di base, e della salute pubblica. Per le stesse ragioni, tutte le campagne populiste e antipolitiche contro gli “sprechi” nel settore pubblico sono sempre state organiche all’ideologia neoliberale, perché contribuiscono a preparare la giustificazione per il trasferimento di risorse dal pubblico al privato.
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I droni e le "urgenze" della storia secondo il Corriere
di Fabrizio Poggi
«L'urgenza delle scelte» scrive il signor Danilo Taino nell'editoriale del Corriere della Sera del 11 settembre, in prima pagina sotto il titolone «Raid in Polonia, Putin sfida la NATO», che dà direttamente conto della visione del foglio di regime euro-atlantico a proposito della vicenda dei droni – addirittura privi di carica esplosiva, dice la stessa Procura polacca – caduti in territorio polacco, forse persino là dirottati da precise interferenze radioelettroniche. E, in fondo, per «quanto allarmante possa apparire» scrive la polacca Gazeta Wyborcza, «un attacco con un drone non è sufficiente per scatenare una guerra con la Russia. Nessuno è rimasto ucciso o ferito... non è sufficiente per provocare un conflitto aperto con la Russia». E il Comandante delle Forze NATO in Europa, Alexus Grynkewich: «Se i droni fossero stati centinaia, si sarebbe applicato l'articolo 5, ma al momento non è del tutto chiaro cosa sia successo nello spazio aereo polacco».
L'imbarazzo delle scelte, invece che «l'urgenza», vien da chiosare sfogliando le altre pagine, fino all'undicesima, dello stesso giornale, alla vana ricerca di qualcosa che non somigli troppo alle pure e semplici veline lanciate da Bruxelles per convincere i lettori della malvagità di un “regime autocratico”, assetato di guerra contro le immacolate democrazie europee spinte, come ricordato meno di una settimana fa dal presidente della Repubblica italiana, da quelli che sono i “fondamentali” del liberal-europeismo: «percorso di pace, affermazione dei diritti, standard di vita», ecc.
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L’instabilità mondiale si sposta verso l’emisfero occidentale
di Roberto Iannuzzi
La Cina è inarrivabile. L’Occidente frana dall’interno. L’ex superpotenza USA dispiega la propria residua forza militare, e quella dei suoi alleati in crisi, in America Latina, Europa e Medio Oriente
Mentre al vertice della Shanghai Cooperation Organization (SCO) di Tianjin il gigante cinese si è posto nettamente alla guida del mondo non occidentale, Stati Uniti e paesi europei sono alle prese con crescenti crisi politiche, economiche e sociali al proprio interno.
Militarmente, Washington si sta concentrando in primo luogo sul continente americano, scaricando sugli europei i costi di un conflitto ucraino sempre più fallimentare, e lasciandosi trainare dal disastroso avventurismo israeliano in un Medio Oriente sempre più in fiamme.
Arroccamento americano
Questa realtà potrebbe presto trovare conferma nella nuova Strategia di Difesa Nazionale del Pentagono. Una bozza del documento è attualmente allo studio del Segretario alla Difesa Pete Hegseth.
Secondo indiscrezioni, essa antepone per la prima volta la protezione del suolo nazionale e del continente americano all’esigenza di contrastare avversari come Russia e Cina.
Sebbene il documento possa ancora subire modifiche, si tratta per molti versi di una tendenza già in atto.
Il Dipartimento della Difesa ha inviato navi da guerra ed aerei F-35 nei Caraibi, ed ha mobilitato migliaia di uomini della Guardia Nazionale per mantenere l’ordine a Washington e Los Angeles, in un paese sempre più frammentato e diviso (come conferma il recente assassinio dell’attivista conservatore Charlie Kirk).
Se questa realtà trovasse riscontro nel nuovo documento del Pentagono, si tratterebbe di uno stravolgimento rispetto alla Strategia di Difesa Nazionale del 2018, sotto la prima amministrazione Trump, la quale poneva al primo posto il contenimento della Cina.
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“Siate meccanici, siate luddisti”: così si resiste al tecnocapitalismo
Giuditta Mosca intervista Jathan Sadowski
Vivere le tecnologie come se fossero qualcosa che cade dall’alto ci rende passivi e ci limita a considerare “cosa fanno” senza concentrarci sul “perché lo fanno”. È il tema centrale del libro The Mechanic and the Luddite – A Ruthless Criticism of Technology and Capitalism, scritto dal ricercatore americano Jathan Sadowski, i cui studi si concentrano sulle dinamiche di potere e profitto connesse all’innovazione tecnologica.
Chi è Jathan Sadowski
Senior lecturer presso la Monash University di Melbourne (Australia), è esperto di economia politica e teoria sociale della tecnologia. Oltre al libro The Mechanic and the Luddite – A Ruthless Criticism of Technology and Capitalism, nel 2020 Sadowski ha pubblicato il libro Too Smart – How Digital Capitalism is Extracting Data, Controlling Our Lives, and Taking Over the World. Inoltre conduce il podcast This Machine Kills insieme a Edward Ongweso Jr. È anche autore e co-autore di diversi studi che indagano le conseguenze della tecnologia e della datificazione.
L’era del capitalismo tecnologico
Jathan Sadowski parte da alcuni presupposti. Il primo vuole che tecnologia e capitalismo non siano forze separate ma che si rafforzino in modo reciproco, con le persone relegate al ruolo di osservatori passivi, senza valutarne le ricadute politiche, economiche e sociali.
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Global Sumud Flotilla: eterotopie di contestazione nello spazio liscio
di Paolo Lago
Michel Foucault, in una conferenza tenuta a Tunisi nel 1967 e pubblicata postuma nel 1984 col titolo Des espaces autres, al fianco di “utopia” introduce il termine di “eterotopia”. Se l’utopia si configura come un “non luogo”, l’eterotopia si presenta come un luogo reale separato dal normale contesto quotidiano, “una specie di contestazione al tempo stesso mitica e reale dello spazio in cui viviamo”1. Sono svariate le eterotopie secondo l’analisi dello studioso francese: i giardini, i teatri, le prigioni, le colonie, le fiere, le biblioteche. Alla fine della conferenza, Foucault definisce però la nave come “eterotopia per eccellenza”: la nave è un “frammento di spazio fluttuante, un luogo senza luogo, che vive per sé, che è chiuso su se stesso e che, nello stesso tempo, è abbandonato all’infinito del mare”2; è “anche la più grande riserva di immaginazione. La nave è l’eterotopia per eccellenza. Nelle civiltà senza barche i sogni si inaridiscono, lo spionaggio prende il posto dell’avventura e la polizia quello dei corsari”3.
L’immagine della nave come “contestazione al tempo stesso mitica e reale dello spazio in cui viviamo”, come “riserva di immaginazione”, come una specie di scrigno di sogni scaturiti da un immaginario libero e liberato prende corpo in questi giorni nella Global Sumud Flotilla, partita carica di aiuti umanitari pochi giorni fa alla volta della Striscia di Gaza con l’intento di rompere il blocco israeliano. Sono tante imbarcazioni a vela che assumono una dimensione quasi mitica nel loro movimento sulla superficie del mare alla volta della Striscia.
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L'”incidente polacco”, un Tonchino in salsa europea
di Francesco Piccioni
A 24 ore di distanza, con qualche elemento concreto in più (le dichiarazioni e la propaganda li lasciamo agli arruolati), possiamo provare a sintetizzare l’analisi dell’”incidente polacco” – i droni, forse russi, che hanno sconfinato sul confine orientale di Varsavia – e ipotizzare cosa è effettivamente accaduto.
Dal che, come sempre, discende un briciolo di valutazione politica.
Gli “elementi concreti” vengono forniti da fonti militari (alcune della Nato, altre bielorusse) e da analisti militari sperimentati, tipo Analisi Difesa per quanto riguarda l’Italia.
Partiamo dalle cose relativamente certe.
I droni erano di tipo “Gerbera”, che un sito molto “europeista-militarista” descrive così: “I droni Gerbera appartengono alla categoria degli UAV tattici, progettati per missioni di ricognizione, sorveglianza e potenzialmente anche attacco. Sebbene la documentazione ufficiale sia limitata, analisti militari occidentali hanno identificato questo modello come parte della nuova generazione di droni russi, sviluppata con l’obiettivo di contrastare le difese aeree convenzionali e di operare in scenari di conflitto ibrido.”
In pratica sono droni senza carica esplosiva (anche se in qualche misura potrebbero portarla), utili sia per acquisire informazioni sulla disposizione del nemico, sia come “esca” per attirare i missili anti-missile delle difese avversarie.
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La flottiglia, spettacolo che assolve
di Pasquale Liguori
La coerenza politica passa spesso per la minoranza. Se n’ebbe prova all’indomani del 7 ottobre, quando affermare il carattere resistente di quell’atto significava esporsi all’isolamento e al disprezzo di una massa compatta che ne decretava la demonizzazione come “terrorismo”. Si era in pochi, quasi invisibili. Lo si constata di nuovo oggi, dopo due anni di genocidio reso possibile dall’indifferenza occidentale e dalla complicità diretta con il sionismo: proprio mentre si coagula un consenso di massa che condanna tardivamente i massacri, si può scegliere di restare altrove. Non per masochismo né per culto delle passioni tristi, ma per coerenza. È fondamentale la forza dei movimenti di massa, ma non va confuso il clamore con la lotta: quando degenerano in rituali di autoassoluzione, è doveroso starne fuori. Molti compagni di allora, che condividevano la solitudine della prima minoranza, oggi si sono riversati anima e corpo in questa ondata solidale che qui si critica. Li si può rispettare, ma sarebbe disastroso lasciarsi trascinare: resta dunque salutare permanere nella minoranza che non si lascia sedurre dalle illusioni.
Potremmo scorgere, infatti, nel clamore di questi giorni, il tempo della negazione spettacolare della resistenza. La Global Sumud Flotilla non sostiene la lotta, non rafforza la resistenza: è messa in scena.
Guy Debord, esordendo ne La società dello spettacolo, avvertiva: «Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione». Ed è proprio ciò che accade.
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Progetto economico alternativo
di Emiliano Brancaccio
Scandita bene, agitata come un’arma dialettica, quella parola è in primo luogo contro le politiche di privilegio di Macron
«A causa di una rivolta sociale il Museo d’Orsay è chiuso» e i turisti non potranno ammirare le opere di Courbet. Per questa ironica serrata, il grande pittore rivoluzionario avrebbe guardato con simpatia il movimento che ieri ha paralizzato Parigi al grido «blocchiamo tutto».
Alcuni distruttori senza criterio, certo. Ma soprattutto giovani, tantissime donne, molti immigrati, e drappi rossi a volontà.
Si dice che il movimento sia nato dalle file della destra sovranista attiva sui social. Sarà, ma ieri si è vista poco. I «bloccanti», li chiameremo così, sono portatori di un linguaggio sovversivo in cui il termine «nazione», in senso repubblicano e molto francese, di certo non manca. Ma la parola chiave dei rivoltosi è un’altra: «Uguaglianza». Scandita bene, agitata come un’arma dialettica, in primo luogo contro le politiche di privilegio di Macron, alle quali i post-fascisti che siedono all’Assemblea nazionale vorrebbero dare sostegno più apertamente di quanto possano oggi ammettere.
La protesta è rivolta in primo luogo contro il programma anti-sociale che Macron sta cercando di imporre al paese. Oltre una quarantina di miliardi di tagli, da selezionare alla solita maniera: blocco delle pensioni e delle prestazioni sociali, stop alle assunzioni statali, scasso della sanità pubblica e, guarda caso, abolizione della festa dell’8 maggio per la vittoria contro il nazifascismo.
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Critica dell’economia politica e strategia della rivoluzione socialista nel pensiero di Lenin
di Eros Barone
Quando trionferemo su scala mondiale utilizzeremo l’oro per edificare pubbliche latrine nelle vie di alcune delle più grandi città del mondo. Questo sarebbe l’impiego più «giusto» e più evidentemente edificante che si possa fare dell’oro per le generazioni che non hanno scordato come per l’oro furono massacrati dieci milioni di uomini e altri trenta furono storpiati nella «grande» guerra «liberatrice» del 1914-1918… Chi vive tra i lupi impara a ululare. E in quanto a sterminare tutti i lupi, come converrebbe in una società umana ragionevole, ci atterremo al saggio proverbio russo: «Non vantarti quando parti per la guerra ma quando ne ritorni»…
V. I. Lenin, L’importanza dell’oro oggi e dopo la vittoria completa del socialismo, 6-7 novembre 1921.
1. La specificità del capitalismo russo
Parlare della teoria economica di Lenin può apparire un po’ singolare se si considera la sterminata letteratura concernente il grande rivoluzionario russo. Lenin è infatti assai più noto come politico e come filosofo, che non come economista, e i motivi di questa differenza non sono certamente addebitabili al fatto che la produzione di scritti economici sia di minor valore, ma nascono dal segno più marcato che egli impresse in certi settori, anziché in altri: è il caso per Lenin, ovviamente, della politica. Eppure Lenin aveva esordito proprio come economista e nella sua produzione pubblicistica i primi dieci anni di lavoro intellettuale furono largamente dominati dagli studi economici. Sennonché la ragione del tardivo riconoscimento tributato agli scritti economici sembra quanto mai significativa: si è scambiata l’analisi dell’economia russa, che occupa un posto centrale in quegli scritti, per una indagine di storia locale con scarsi addentellati teorici generali. È vero, invece, proprio il contrario: quell’analisi costituisce la parte scientificamente più robusta dell’intera opera di Lenin, quella in cui, soprattutto, opera con gran forza una metodologia scientifica.
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La "Critica del Programma Gotha": un manifesto 2.0 !!
di Gabriel Teles
Nel 1875, Karl Marx scrisse un documento unico. Non si trattava di un trattato filosofico o di un saggio giornalistico,bensì di una critica approfondita, chirurgica, schietta e, ancora oggi, rimasta spesso trascurata. Mi riferisco alla "Critica del programma di Gotha", scritta come fosse una lettera-commento al progetto di unificazione, dei socialisti tedeschi, attorno a un programma comune. A prima vista, potrebbe sembrare quasi un episodio minore nella traiettoria del pensiero marxiano. Tuttavia, come sostiene il marxista indiano Paresh Chattopadhyay, si tratta di un vero e proprio «secondo Manifesto del Partito Comunista»: più maturo, meno pamphlet, ma non per questo meno rivoluzionario. Per comprendere la portata di questa formulazione, è necessario tornare al contesto. Nel 1875, i seguaci di Marx e i seguaci di Ferdinand Lassalle - una figura centrale dello Stato tedesco e del socialismo riformista - cercarono di fondere le loro organizzazioni nel neonato Partito Socialista Operaio di Germania (in seguito SPD, acronimo di Partito Socialdemocratico di Germania). Il programma che avrebbe sintetizzato questa fusione, era stato scritto per lo più da dei lassalliani, e recava in sé profondi segni di un socialismo statalista, legalista e conciliante. Marx, dopo aver letto il testo, rispose con la "Critica del programma di Gotha", inviato tramite una lettera a Wilhelm Bracke, ma che non venne mai pubblicato integralmente per tutto il corso della sua vita, e venne reso noto pubblicamente soltanto nel 1891. Ciò che Marx offriva in quel testo, non era solo una critica congiunturale.
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Alla ricerca della verità nascosta: il Pil di Usa e Cina
di Vincenzo Comito
Con il summit di Tianjin dei primi di settembre l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai a guida cinese è apparsa come il primo passo di un nuovo ordine mondiale. Ma resta il rebus della valutazione del Pil della Cina e anche di altri Paesi, su cui le stime divergono
Premessa
Con le sue continue mosse destabilizzanti, Donald Trump sembra alla fine privilegiare, tra i tanti punti di conflitto, quello con la Cina, seguendo in questo, e sviluppando, i lasciti in proposito di Joe Biden e della sua stessa prima presidenza, nonché le mosse di Obama.
Il punto di partenza delle ostilità può essere fatto risalire al 2015, quando la Cina lanciava la Belt and Road Initiative e contemporaneamente il piano 2015-2025 per l’avanzamento tecnologico del Paese (cf. Jeffrey Sachs). Questi due progetti hanno cominciato ad allarmare seriamente i gruppi dirigenti degli Stati Uniti e l’allora presidente Barack Obama arrivò a lanciare il suo slogan “Pivot to Asia” (peraltro, gli statunitensi impararono presto a sostituire la parola “Asia” nella frase con “Indo-Pacifico”, per sottolineare che l’America c’entrava a pieno titolo con l’intera regione).
Ora la postura di lotta di Trump appare certamente motivata dal fatto che il Paese asiatico minaccia di raggiungere e anche di superare gli Stati Uniti, quando non lo abbia già fatto, sul fronte commerciale, economico, tecnologico, finanziario, militare – cosa impensabile sino a poco tempo fa in un Paese che si ritiene guidato da Dio, almeno secondo i suoi gruppi dirigenti, ma anche secondo una larga parte dell’opinione pubblica.
Probabilmente l’ostinazione di Trump appare anche guidata da valutazioni e informazioni a noi non note sui temi citati. In ogni caso il Paese asiatico appare un osso molto duro anche per gli Stati Uniti.
Sul piano economico in particolare normalmente, quando si parla della Cina, si aggiunge di solito l’espressione “la seconda economia del mondo”. Ora, questa definizione, vera o falsa che sia, sembra andar bene ad ambedue i protagonisti presenti sulla scena: agli Stati Uniti, che si sentono così confermati e confortati nel loro supposto primato mondiale, ma anche alla Cina, che tende in generale a mantenere, secondo la tradizione, un profilo basso e preferisce essere ancora considerata un Paese in via di sviluppo, appartenente al Sud del mondo.
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Il genocidio a Gaza e il falso mito della potenza israeliana
di comidad
Bettino Craxi definiva Ernesto Galli della Loggia “intellettuale dei miei stivali”. In effetti il noto opinionista del “Corriere della Sera” basa i suoi interventi su uno schema ripetitivo e prevedibile che consiste in un mero richiamo alle vigenti gerarchie imperialistiche e antropologiche. Ormai il mainstream ha ammesso che il comportamento di Israele a Gaza ha oltrepassato il cosiddetto “diritto di difesa” e forse sta avvenendo qualche criminuccio di troppo. Qualche giorno fa Galli della Loggia ha appuntato la sua polemica sulla scelta delle parole per ciò che sta avvenendo a Gaza, chiedendosi perché non ci si limiti a usare espressioni forti come “eccidio” o “massacro”, invece del termine “genocidio”, che implica riscrivere la Storia negando l’unicità del genocidio nazista nei confronti del popolo ebraico. Per Gaza si parla di sessantamila morti, un numero non paragonabile con le proporzioni dell’Olocausto.
Certo, la macchina logistica del regime nazista, nella quale sono stati macinati ebrei, zingari, slavi, disabili e altri reietti, rimane sinora un unicum nella Storia e, probabilmente, è irripetibile. Ma il fatto che il governo israeliano non dimostri una capacità logistica al livello del regime nazista, non toglie nulla all’evidenza di un genocidio in atto a Gaza. Israele non è neanche lontanamente una potenza comparabile con la Germania nazista, infatti dipende in tutto e per tutto dalle armi e dai soldi che arrivano dagli Stati Uniti, dall’Unione Europea e dal Regno Unito.
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L’attacco israeliano a Doha: la fine dei rifugi sicuri in un Medio Oriente multipolare
di Peiman Salehi, orientalreview.su
L’attacco aereo israeliano contro i leader di Hamas a Doha nel settembre 2025 è stato più di un’operazione militare. È stata una rottura simbolica nell’architettura stessa della diplomazia mediorientale. Per decenni, il Qatar si è costruito l’immagine di “mediatore neutrale” ospitando negoziati tra i talebani e Washington o fungendo da piattaforma per colloqui indiretti tra Iran e Stati Uniti. L’attacco israeliano ha infranto questa percezione: l’era dei “rifugi sicuri” per la diplomazia nell’Asia occidentale è finita.
La capitale del Qatar, Doha, è stata a lungo descritta come un polo paradossale. Da un lato, ospita la base aerea di Al-Udeid, la più grande installazione militare statunitense nella regione. Dall’altro, ha ospitato gli uffici di Hamas e ha svolto il ruolo di piattaforma per i negoziati tra attori considerati ostili da Washington e Tel Aviv. Doha ha prosperato in questo spazio contraddittorio, ritagliandosi un ruolo di mediatore globale. La decisione israeliana di lanciare un attacco aereo a Doha ha infranto questo paradosso. Ha segnalato che persino un alleato degli Stati Uniti, un presunto mediatore “protetto”, non è immune dalla logica dell’espansione dei campi di battaglia. Colpendo i leader di Hamas mentre erano presumibilmente impegnati in colloqui con funzionari del Qatar, Israele non solo ha minato la sovranità del Qatar, ma ha anche inviato un messaggio agghiacciante agli altri attori del Sud del mondo: la neutralità è un’illusione nei conflitti odierni.
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Macron e Zelensky danno i numeri….ma non i nomi
di Gianandrea Gaiani
Quante sono le nazioni europee disposte a inviare proprie truppe in Ucraina per garantire la sicurezza di Kiev? Valutazioni contrastanti e contraddittorie rendono arduo fornire una risposta precisa a questa domanda.
Ci sono 26 Paesi dei circa 30 aderenti alla Coalizione dei Volenterosi “che formalmente si sono impegnati a dispiegare una ‘forza di rassicurazione’ in Ucraina e ad essere presenti sul territorio, nei cieli e nei mari” ha detto Macron durante la conferenza stampa all’Eliseo al fianco di Volodymyr Zelensky. “Questa forza non ha per volontà o per obiettivo condurre qualche guerra ma è una forza che deve garantire la pace“, ha affermato il presidente francese Emmanuel Macron all’ultimo vertice dei “volenterosi”.
Il 5 settembre il presidente ucraino Zelensky ha aggiunto che nell’ambito delle “garanzie di sicurezza”, i Paesi stranieri saranno disposti a inviare migliaia di militari in Ucraina. In un incontro con il presidente del Consiglio europeo, Antonio Costa, il leader ucraino ha detto che è ancora presto per parlare dei dettagli delle garanzie di sicurezza, ma il piano esiste già.
“La questione riguarderà il coordinamento dei Paesi per la protezione del cielo. E questo sta già procedendo con una valutazione delle quantità di aerei e della quantità di reparti. E anche il coordinamento in mare, e comprendiamo anche quali Paesi e cosa sono disposti a schierare”, ha detto Zelensky.
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Della gentilezza, del coraggio e della stupidità
di Alba Vastano
Volto sorridente, voce soft, comunicazione coinvolgente che ben dispone all’ascolto. È, a detta di chi lo ascolta, una persona gradevole, gentile. Non sempre corrisponde al vero. Se la gentilezza è una qualità intima che apporta benefici e che si esprime attraverso varie esperienze e relazioni, poche persone possono essere riconosciute gentili. E’ lo stesso divario che intercorre fra forma e sostanza. ‘Sotto il vestito niente’, citando il titolo di un famoso film. Nella frequentazione la forma prende corpo nella sostanza e la gentilezza dei modi, talvolta, svanisce.
In realtà la gentilezza per antonomasia ben poco ha a che vedere con ciò che appare d’emblée. Per avere un’idea su una delle accezioni dell’intrinseco significato si pensi alla celebrazione dantesca di Beatrice ‘Tanto gentile e tanto onesta pare’ declamava il Maestro nel XXVI della Vita Nova. Nel sonetto ‘quella che sul numer delle trenta’ viene descritta dal Sommo poeta come creatura dotata di gentilezza intesa come portatrice di grazia e promotrice di serenità. La gentilezza per il poeta del dolce stilnovo è il simbolo più elevato della nobiltà d’animo.
Accantonando i cieli danteschi e la spiritualità della donna angelicata, torniamo alla gentilezza come qualità terrena. Si può affermare che chi è realmente gentile non è mai oppositivo, né perentorio. Chi è dotato di gentilezza d’animo sa come far scivolare il conflitto prima che degeneri e si trasformi in una inarrestabile escalation verso la spirale dell’aggressività.
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Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet
di Paolo Selmi
Sedicesima parte. “Ammettere i propri difetti è privilegio dei forti”: l’intervento di Tomskij al XIV Congresso del Partito Comunista di tutta l’Unione (bolscevico) PARTE VI
f. Ancora una volta sui compiti delle conferenze di produzione
Ritorniamo all’intervento di Tomskij e al punto successivo, in cui esamina circa compiti e mansioni delle Conferenze di produzione. Dopo tutto quanto esaminato abbiamo ben chiaro come Tomskij non agisca per pedanteria o eccessiva preoccupazione. Ribadire punti non ancora scontati, anzi, per niente scontati in gran parte dei casi, era necessità concreta. Lasciarne, infatti, l’interpretazione alla libera e totale discrezione di ciascun collettivo, altro non avrebbe che amplificato arbitrarietà, disordine e, in ultima analisi, non solo inefficacia ma anche dannosità di tali conferenze.
Così, pertanto, prosegue, passando alle Conferenze di produzione:
La conferenza di produzione non decide alcunché: non è per questo che è stata concepita; ribadiamolo, in primo luogo, e a chiare lettere. Le risoluzioni delle conferenze di produzione non sono cogenti, obbligatorie per gli organismi economici, e questo è il secondo punto. Si tratta di una premessa doverosa, perché poi sull’onda di un’enfasi esagerata, di gente che invoca a ogni piè sospinto: “Conferenza di produzione, conferenza di produzione!”, poi c’è chi ci rimane male perché le proposte da essa votate non vengono adottate.
Parliamo ora di composizione dei partecipanti alle conferenze di produzione. Quelle che vi porto sono le cifre in nostre mani delle cifre di Leningrado e di Tula. E cosa ci dicono queste cifre? Che le conferenze di produzione constano per oltre il 50% di operai in forza alle linee di produzione, mentre la restante parte è composta da membri del comitato di fabbrica, dell’amministrazione, piuttosto che impiegati, tecnici, personale in distacco sindacale, eccetera.
Quando invece passiamo alla loro appartenenza politica, vediamo che i comunisti sono soltanto poco più della metà, mediamente dal 52% al 56%, più un 3-4% di iscritti al komsomol e il resto, circa il 42%, di non iscritti. Occorre aggiungere a questo anche il fatto che, persino nelle realtà più partecipate, come per esempio a Leningrado, a presenziare alle conferenze di produzione è il 19% dei lavoratori. Meno di un lavoratore su cinque non è un grande indicatore di adesione.
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Costanzo Preve e la progettualità
di Salvatore Bravo
Il presente si connota come un tempo d’asfissia politica, in quanto i rilevi critici e le analiso geo-politiche descrivono con esattezza dialettica le atroci contraddizioni del sistema capitalistico. La pratica della critica cade nella trappola dell’impotenza astratta, nel caso alla critica non segua il difficile compito della complessità. Il capitalismo ha il suo alfabeto emotivo, è un modello di consumo e morte, il sentimento che lo connota e che rinsalda il suo dominio è l’impotenza disperata. La logica padronale diffusa capillarmente insegna in modo consapevole e inconsapevole la sudditanza senza speranza, per cui si può solo sopravvivere mediante la “resilienza senza resistenza”. Ci si adatta e ci si aliena e in tale movimento l’impotenza si radica nei pensieri, nel linguaggio e nei comportamenti. In tale cornice a capitalismo integrale le dialettiche progettuali sono scomparse e al loro posto regna solo la quieta e plumbea palude del capitale nel cui grigiore i sudditi si fondono fino a pensare che l’alternativa è impossibile, per cui è necessario accettare la sudditanza padronale all’economicismo e alle oligarchie afferenti. La sola critica è in tal modo, nel migliore dei casi, il sintomo doloroso e muto del disagio senza speranza. Dopo il 1991 con la caduta dell’Unione Sovietica gli orizzonti progettuali si sono liquefatti con l’oblio della dialettica politica e con la scomparsa dei partiti comunisti. La disperazione e l’impotenza sono spesso mascherate da forme di parossismo consumistico e narcisistico che vorrebbero rimuovere il “non senso”. Costanzo Preve descrive con maestria il nostro presente senza via d’uscita; e questo è il problema/dramma principale della nostra epoca:
“Il fatto è che oggi, insieme alla prospettiva della rivoluzione nel vecchio (e unico) senso del termine, è venuta meno anche la vecchia dicotomia Riforme/Rivoluzione, per cui per un secolo e mezzo si è detto che era meglio affidarsi a una lenta evoluzione positiva senza strappi per ottenere risultati simili senza lo scorrimento del sangue e i cicli di violenza che ne susseguono. In realtà non si vede oggi neppure quali forze siano seriamente in grado di ipotizzare una riforma di questo modello di capitalismo globalizzato a prevalenza finanziaria.
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Mediobanca e i tentacoli della piovra finanziaria Usa
di Alessio Mannino
Il cosiddetto “risiko” della finanza italiana si è concluso con la vittoria dei Caltameloni (con contorno a stelle e strisce). Il costruttore ed editore Franco Caltagirone e la Delfin, holding degli eredi Del Vecchio (Luxottica), sono infatti i nuovi padroni di Mediobanca tramite Monte dei Paschi (Mps), l’istituto senese di cui il Tesoro, cioè il governo, è il primo degli azionisti, fra i quali fa capolino anche BlackRock, il fondo americano al vertice mondiale della gestione patrimoni. La vicinanza dei due potentati nostrani al centrodestra di Giorgia Meloni è cosa nota. Meno nota, anche se nient’affatto nuova, è la solita, eterna regola che guida le operazioni in cui è coinvolto lo Stato e che ha avuto conferma anche stavolta: la socializzazione delle perdite e la privatizzazione dei guadagni. I gruppi Delfin e Caltagirone, assommando in totale il 30% delle quote, sono anche i principali soci di Mediobanca, che ora hanno comprato. Il salvataggio di Mps è costato al bilancio pubblico 5,4 miliardi di euro. Da gennaio di quest’anno quando è stata lanciato l’assalto, Delfin ha guadagnato 850 milioni di euro e Caltagirone quasi 430 (mentre BlackRock ne ha macinati 172). Acquistando in pratica sé stessi in una banca rimasta in piedi solo grazie all’intervento statale, lorsignori fanno vertiginose montagne profitti grazie al contribuente. E si preparano al colpo grosso che è stato il loro obbiettivo fin dall’inizio: tramite il 13% in mano a Mediobanca in Generali, mettere le mani sulla compagnia assicurativa che ha in pancia 800 miliardi di investimenti.
Del resto questo governo, in modo non dissimile da quel che farebbe uno di centrosinistra, sa farsi apprezzare dalla finanza predona. L’anno scorso KKR (Kohlberg Kravis Roberts & Co), uno dei maggiori fondi pensione degli Stati Uniti, ha acquisito la quota di controllo della NetCo di Tim, la rete di telefonia fissa, dopo aver già messo un piede nel gruppo con la partecipazione in FiberCop. A nulla è valsa l’inefficace opposizione dell’Antitrust. Il quadretto rende bene quella che viene chiamata finanziarizzazione: non solo dell’economia, ma anche della politica.
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Ursula Von Der Leyen promette più guerra, censura e centralizzazione
di Thomas Fazi, thomasfazi.com
Nel suo discorso sullo stato dell’Unione del 2025, la von der Leyen ha segnalato la sua intenzione di raddoppiare gli sforzi sulle stesse politiche che hanno indebolito l’Europa
Il discorso sullo stato dell’Unione di Ursula von der Leyen del 2025 non ha riservato grandi sorprese. È stato il solito mix di promesse vuote, gergo tecnocratico e atteggiamenti morali ipocriti che sono il suo marchio di fabbrica. In altre parole, sempre la stessa cosa.
Pronunciato nel consueto registro orwelliano, il discorso era pieno di parole come libertà, pace, prosperità e indipendenza, anche se l’UE continua a perseguire politiche che minano tutti questi valori, spingendo per la guerra e la militarizzazione, reprimendo la libertà di parola, sabotando le economie europee con politiche energetiche e commerciali controproducenti e subordinando ulteriormente il continente all’agenda strategica di Washington.
Come previsto, la von der Leyen ha iniziato con la Russia, la principale ossessione di Bruxelles. “L’Europa è in lotta. Una lotta per un continente unito e in pace… una lotta per il nostro futuro”, ha dichiarato, annunciando un nuovo “Semestre europeo della difesa” e una “tabella di marcia chiara” per la preparazione alla difesa entro il 2030, sottolineando al contempo l’impegno incrollabile dell’Unione nei confronti della NATO.
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Macron re dei supponenti e la cecità totale dell’Eliseo
di Barbara Spinelli
È passato un anno dalle elezioni legislative anticipate volute da Emmanuel Macron, due primi ministri da lui nominati sono nel frattempo caduti – Michel Barnier con una mozione di censura il 4 dicembre, François Bayrou con un voto di sfiducia lunedì – e ancora il Presidente non ha capito che il grande perdente è lui, nonostante le incapacità negoziali di ambedue i Premier falliti. Ieri ha nominato primo ministro un suo fedelissimo, il ministro della difesa Sébastien Lecornu. Probabilmente Macron pensa che facendo sempre la stessa cosa, e avendola fallita due volte, il risultato possa essere diverso.
Il debito che appesantisce il paese è aggravato dalle sue politiche, e da anni è lui il bersaglio della collera dei francesi. La Francia è bloccata da lui e non – come sostengono centro-destra e media mainstream – dai movimenti popolari o sindacali che manifesteranno oggi e il 18 settembre. Quello di oggi, annunciato da tempo, ha come motto: “Blocchiamo Tutto”. Non cade dal cielo ma prosegue un movimento di protesta quasi ininterrotto che ha accompagnato la presidenza sin dagli inizi: Gilets Gialli nel 2018-2019; lunga mobilitazione nel 2023 contro la legge sulle pensioni, imposta da un capo di Stato senza più maggioranza assoluta; e adesso il Blocco. Ogni volta sono le dimissioni presidenziali che vengono invocate.
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USA, una nazione di narcisisti
di Patrick Lawrence* - ScheerPost
Tutti quei maligni autoritari, più di 20, che si sono riuniti a Tianjin alla fine di agosto per un vertice della Shanghai Cooperation Organization: questo è stato un festival dell'antiamericanismo, dovete saperlo.
Non c'è altro modo di capirlo. A peggiorare ulteriormente la situazione, Xi Jinping ha poi invitato più di due dozzine di capi di Stato a Pechino per celebrare l'80° anniversario della vittoria del 1945.
Come osa il presidente cinese organizzare una sontuosa parata militare per celebrare il ruolo della Cina nella storica sconfitta dell'esercito imperiale giapponese? Come osa suscitare orgoglio nella determinazione della Repubblica Popolare a difendere la propria sovranità, confutando al contempo il revisionismo – insensato ma diffuso – che cancella il Partito Comunista Cinese dalla storia della Seconda Guerra Mondiale?
La temerarietà di quest'uomo nel suggerire che non furono gli americani e i loro corrotti clienti, i nazionalisti cinesi, a combattere e vincere la guerra. Per l'amor del cielo, non facciamo menzione dei 12-20 milioni di cinesi – non esiste una cifra precisa – che morirono a causa delle aggressioni del Giappone imperiale.
No, non c'è niente da onorare in tutto questo. Tra la SCO e i festeggiamenti a Pechino, tutto era vagamente demoniaco, una sfida appena velata a quello che gli Stati Uniti e il resto dell'Occidente insistono nel definire un "ordine basato sulle regole".
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"Il Venezuela è il grande laboratorio politico della nostra epoca"
Geraldina Colotti* intervista Ignacio Ramonet
Ignacio Ramonet, giornalista e saggista, analista internazionale, è stato a lungo direttore di Le Monde diplomatique. Nel suo libro La era del conspiracionismo ha analizzato i meccanismi del “trumpismo” che oggi vediamo estendersi ad altre latitudini, dall'America latina all'Europa. Con lui abbiamo parlato della crisi politica dell'Unione europea, e delle rinnovate tensioni fra gli Usa e i paesi socialisti latinoamericani.
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Viviamo un momento di profonde e drammatiche trasformazioni che investono tutti i piani di un modello – il capitalismo dominante – in crisi sistemica, ma con la chiara intenzione di far vivere a tutta l'umanità la sua agonia. Dal suo punto di vista, quello di un raffinato analista politico di lunga data, come interpreta questa crisi?
Non siamo di fronte a una crisi puntuale del capitalismo, ma a una sua crisi di civiltà. Il sistema, nella sua versione neoliberista e finanziarizzata, ha raggiunto un punto in cui non riesce più a riprodursi senza distruggere le sue stesse fondamenta: il lavoro, la natura, i legami sociali e persino l'idea di comunità politica. Il capitale trasforma il collasso in strategia, fa della precarietà la norma e gestisce la catastrofe come se fosse uno stato naturale delle cose.
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Un capitalismo con caratteristiche cinesi
di Ernesto Screpanti
Recentemente mi è capitato di leggere e ascoltare diverse favole sulla natura sociale e politica della Cina, ad esempio che si tratta di un sistema socialista. In questo articolo vorrei tentare di smontarle. Ovviamente lo farò come si può fare in un articolo di dieci pagine. Per approfondire scientificamente lo studio del sistema cinese ci sarebbe bisogno di scrivere almeno due libri, uno sugli aspetti politici e uno sugli aspetti economici. Ma credo che le cose essenziali si possano dire anche in modo semplice e sintetico.
Visto che tratterò di capitalismo, imperialismo e socialismo, devo fare una breve premessa teorica. Il capitalismo lo definisco come un sistema economico in cui il lavoro è mobilitato con il contratto di lavoro subordinato e il controllo dei mezzi di produzione è assegnato al capitale, il quale usa il lavoro salariato per estrarre plusvalore e impiega il plusvalore per valorizzare e accumulare il capitale stesso. L’imperialismo lo definisco come un sistema di potere internazionale in cui il capitale di un paese sfrutta risorse umane e naturali di un altro paese e usa il plusvalore e la ricchezza così estratti per valorizzare e accumulare il capitale su scala mondiale.
Più difficile è definire il socialismo, se non altro per la varietà di teorie cui si può attingere. Per essere più ecumenico possibile, lo definirò facendo riferimento a due posizioni molto diverse, quasi polarmente opposte. In tal modo chiunque può scegliere quella che preferisce, tra la gamma di definizioni collocabili tra i due poli, e ognuno può valutare come vuole il grado di socialismo di un sistema reale. La prima definizione la definirò “marxista”, pur sapendo che qualche marxista non la condividerà. Secondo questo punto di vista, il socialismo è un sistema in cui il reddito è distribuito in modo da dare a ognuno secondo le sue capacità, il potere economico in modo da assegnare ai produttori il controllo della produzione e il potere politico in modo da attribuire al popolo il controllo democratico dello stato. La seconda definizione la definirò “bellamista”.
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Cento anni con Fidel
di Gianmarco Pisa
È stato inaugurato lo scorso 13 agosto 2025 il Programma commemorativo per il centenario del comandante in capo e leader storico della rivoluzione a Cuba, Fidel Castro (Birán, 13 agosto 1926 - L'Avana, 25 novembre 2016), sulla base delle decisioni assunte dalla X Sessione plenaria del Partito Comunista di Cuba. Gli obiettivi del programma si traducono in un percorso, lungo un anno, di ricerca e di studio, ma, soprattutto, di comunicazione e di iniziativa.
Si tratta di promuovere gli ideali di Fidel; sostenere la ricerca e lo studio del suo pensiero e della sua opera; celebrare il centenario facendo “memoria attiva”, traendo ispirazione dalla sua opera, attualizzando il suo lascito storico, politico e intellettuale, approfondendo i contenuti fondamentali del pluridecennale processo di costruzione del socialismo a Cuba, all’insegna dei principi di uguaglianza, giustizia sociale, pace, internazionalismo, solidarietà e amicizia tra i popoli. È l’intera direzione politica e sociale di Cuba socialista, nel corso dei decenni, dal 1959 in avanti, ad avere reso Cuba ciò che è: un autentico faro di solidarietà e di giustizia, un punto di riferimento per i popoli del mondo nella lotta per l’emancipazione, l’autodeterminazione e la giustizia. Il Programma commemorativo, di conseguenza, include progetti e iniziative in tutti gli ambiti della vita del Paese e si svolgerà dal 13 agosto 2025 al 4 dicembre 2026, portando ogni centro e ogni comunità, ogni luogo di studio e di lavoro a diventare uno spazio di memoria e di iniziativa significativo e importante.
Facendo riferimento al programma, in occasione della X Sessione plenaria, Alberto Alvariño Atienzar, Direttore della conservazione del patrimonio documentale della Presidenza della Repubblica di Cuba, ha evidenziato la particolare profondità del programma di lavoro, sottolineando che la sua impostazione è stata il risultato di un ampio processo partecipativo popolare. Il programma stesso è un quadro di attivazione e mobilitazione per tutti i cubani e le cubane, soprattutto nell'attuale momento di crescente aggressione imperialista volta a colpire la Rivoluzione e le sue conquiste.
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Che cosa vuole la Cina?
di David C. Kang, Jackie S. H. Wong e Zenobia T. Chan
L’analisi controcorrente della rivista americana «International Security», che ha riaperto il dibattito sugli obiettivi di Pechino
Krisis presenta l’abstract del saggio comparso ad agosto su International Security, rivista statunitense pubblicata da MIT Press e considerata la più autorevole nel campo delle Relazioni internazionali. I tre autori, che insegnano in università americane, hanno analizzato 12.000 articoli e centinaia di discorsi del presidente Xi Jinping per capire le effettive intenzioni di Pechino. I dati emersi mostrano una Cina a difesa dello status quo, concentrata sulla stabilità interna e su obiettivi regionali chiari e limitati. Pur non lesinando critiche a Pechino, gli studiosi concludono dicendo che la minaccia militare cinese è sovrastimata: «La Cina non vuole invadere e conquistare altri Paesi».
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L’opinione corrente sostiene che la Cina è una potenza egemonica emergente, desiderosa di rimpiazzare gli Stati Uniti, dominare le istituzioni internazionali e ricreare l’ordine internazionale liberale a propria immagine. Basandoci su dati tratti da 12.000 articoli e da centinaia di discorsi di Xi Jinping, per discernere le intenzioni della Cina abbiamo analizzato tre termini o espressioni della retorica cinese: «lotta» (斗争), «l’ascesa dell’Oriente, il declino dell’Occidente» (东升西降) e «nessuna intenzione di sostituire gli Stati Uniti» (无意取代美国).
I risultati della nostra indagine indicano che la Cina è una potenza a difesa dello status quo, preoccupata della stabilità del regime e più rivolta verso l’interno che verso l’esterno. Gli obiettivi della Cina sono inequivocabili, durevoli e limitati: si preoccupa dei propri confini, della sovranità e delle relazioni economiche estere. Le principali preoccupazioni della Cina sono quasi tutte regionali e collegate a parti della Cina che il resto della regione riconosce come cinesi – Hong Kong, Taiwan, Tibet e Xinjiang.
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