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Il comune e il valore, ovvero il valore del comune: un nodo irrisolto
di Andrea Fumagalli
Proponiamo qui il saggio di Andrea Fumagalli pubblicato nel volume «Il senso (del) comune. La radicalità del presente e il suo concetto», a cura Pietro Maltese e Danilo Mariscalco, appena pubblicato dalla Palermo University Press nella collana Studi culturali, diretta da Michele Cometa (con interventi di: Danilo Mariscalco, Pietro Maltese, Andrea Fumagalli, Alice Pugliese, Yuri Di Liberto, Luca Cinquemani, Ubaldo Fadini, Nicolas Martino, Claire Fontaine, Laura Strack). Il volume e questo saggio prendono spunto dal convegno organizzato dal Laboratorio «Studi culturali. Vita, politica, rappresentazione» all’Università degli Studi di Palermo il 21 e 22 maggio del 2018.
Il volume verrà presentato domani, sabato 18 settembre alle 12.00 a Palermo (Villa Filippina), nell’ambito del Festival Una marina di libri. Nel ringraziare i curatori e l’editore, l’autore ricorda anche l’indispensabile supporto psichedelico dei The Grateful Dead, The Phish, Jimi Hendrix.
Introduzione
In questo saggio cercheremo di approfondire il nesso tra valore e comune. Quando parliamo di valore, intendiamo il processo di creazione di valore di scambio all’interno di un’economia capitalistica. La creazione di valore – come ci ha insegnato Marx – non si presenta di per sé come valore di scambio: è in primo luogo valore d’uso. È necessario che una certa modalità di organizzazione economica si renda effettiva, grazie all’operare (tra gli altri) di due elementi decisivi: l’esistenza della proprietà privata e un rapporto di separazione tra il lavoro e la macchina, che definisce in continua metamorfosi il rapporto sociale capitale-lavoro. Il connubio tra questi due aspetti origina il sistema capitalistico di produzione, in grado di trasformare la produzione di valore d’uso (che è intrinseco nell’attività umana per soddisfare i propri sogni/bisogni) in valore di scambio. Da un sistema M-D-M si passa così a un sistema D-M-D’.
Se la problematica del valore, quindi dell’accumulazione, è uno dei temi che è stato al centro della critica dell’economia politica mainstream e del capitalismo, non altrettanto si può dire per la tematica del comune, che, solo recentemente, ha attirato l’interesse degli studiosi. In primis, crediamo che sia necessario specificare sin da subito che stiamo parlando del comune al singolare1: un concetto che non ha nulla a che fare con i beni comuni.
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Gli utili idioti neofascisti e il futuro delle lotte contro il «green pass»
di Niccolò Bertuzzi*
[Riceviamo e pubblichiamo una riflessione a caldo sui fatti di Roma scritta dal sociologo Niccolò Bertuzzi, di cui abbiamo già segnalato alcuni articoli. Di nostro aggiungiamo: ci sono mobilitazioni cittadine contro il lasciapassare in cui i fascisti sono stati emarginati nelle piazze e cacciati dalle assemblee, come è giusto, come vuole il minimo della decenza. È un dato di fatto, questa mobilitazione è molto differenziata e decentrata. Questo è al tempo stesso il suo limite e la sua forza. Ci sono situazioni arretrate in cui i discorsi sono confusi e ambigui, dai cortei partono slogan e canti a nostro avviso ripugnanti e i legami col mondo del lavoro sono labili, e ce ne sono altre più avanzate e interessanti, come quella di Trieste, dove sono attivi collettivi di compagne e compagni, il deprecandissimo ex-leghista ed ex-forzanovista Fabio Tuiach è stato allontanato dall’assemblea cittadina e, soprattutto, la lotta contro il lasciapassare si fa forte del protagonismo dei lavoratori del porto. Sicuramente nemmeno lì è tutto rose e fiori, ma il conflitto, almeno per ora, sembra dispiegato lungo la giusta linea di frattura. Vale la pena tenere d’occhio quel che succede nella città ex-asburgica. Ora: non è detto che Trieste debba essere per forza l’eccezione, la “stranezza”, e Roma la regola, la “normalità”. Forse la situazione romana – che pure, come nota Bertuzzi, non corrisponde in toto alla narrazione mainstream di queste ore – è meno rappresentativa e più peculiare di quanto sembri. Una delle varie malattie dello sguardo da cui dobbiamo curarci è un certo “romacentrismo” propugnato dai media. Come abbiamo detto più volte, ogni problema o questione si capisce meglio dai confini, dalle estremità, e peggio dal “centro”. Quando la realtà viene osservata solo dal “centro” e riportata a forza alla logica del “centro”, il suo resoconto diventa narrazione tossica. In questo caso, la narrazione tossica «chi è contro il green pass è fascista» serve a ostacolare l’evoluzione della lotta, serve a ostacolare chi i fascisti vuole allontanarli. Detto questo, buona lettura. WM].
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L’animale pandemico. COVID-19, crisi della razionalità ed ecosocialismo
di Marco Maurizi
Abbiamo il piacere di ospitare questo importante contributo del filosofo italiano Marco Maurizi, pensatore di punta dell’antispecismo italiano ed europeo e autore, tra le altre cose, di testi come Al di là della natura. Gli animali, il capitale e la libertà e Cos’è l’antispecismo politico.
Qui, Maurizi tenta di tracciare un filo rosso che parta dalle derive complottiste che certa “sinistra” ha acriticamente accolto nella lettura dell’attuale crisi pandemica e arrivi alla debolezza – e, oseremmo dire, quasi inesistenza – di un fronte valido capace di rileggere il rapporto tra umano e non umano alla luce della diffusione del Sars-Cov-2.
Prima parte. Pandemia e ideologia
Un’occasione mancata e un sorprendente riposizionamento politico
La pandemia del Covid-19 avrebbe potuto costituire un’occasione di ripensamento globale sia per quanto riguarda l’organizzazione sociale nel suo complesso che i nostri rapporti con la natura non-umana. Così non è stato. E ciò ha avuto conseguenze impressionanti dal punto di vista politico. La debolezza teorica e organizzativa del fronte socialista e la mancata introduzione di misure solidali a livello planetario è stata, infatti, assieme all’esplosione della pandemia, una delle cause della frammentazione e del radicale riposizionamento del quadro politico cui assistiamo oggi. La mancata risposta socialista alla crisi, infatti, va introdotta come variabile che avrebbe potuto, almeno in parte, evitare l’infiammarsi dello scontro politico nella modalità irrazionale e polarizzata che conosciamo, ovvero di una polarizzazione in gran parte irrazionale.
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Il caos e la necessità
di Lanfranco Binni
Un caos apparente (ma non è solo una questione di limitata visione antropocentrica) sta sconvolgendo il mondo. Cause, processi in corso e conseguenze di devastanti cambiamenti climatici, crisi economiche strutturali, strategie sanitarie e militari, malthusiane diseguaglianze sociali, sistemi politici corrotti a difesa di vecchie sporche società, si intrecciano e confliggono in un caleidoscopio impazzito, sbarrato il futuro, negate sorti “magnifiche” e regredite. Saltano le dimensioni temporali e le “progressive” categorie politico-economiche-culturali di “modernità”, “sviluppo”, “crescita”, “speranza” in un futuro migliore. Geopolitica e vita quotidiana dei “soggetti della Storia” (sudditi e ribelli) si intrecciano e si confondono in paesaggi drammatici e instabili, dominati dalla paura e dai condizionamenti di una lugubre sopravvivenza, in attesa di nuovi bombardamenti economici, di nuove catastrofi ambientali, di nuove pandemie. Su questi temi, oggi brutalmente centrali, intervengono numerosi autori di questo numero, tutti accomunati da una profonda e necessaria cognizione del tragico: analisi puntuali e urgenti, senza concessioni a illusori inganni, tenacemente tese a trasformare la comprensione dei dati di realtà (in orizzontale nel mondo globale e in verticale nelle dinamiche biopolitiche) nella necessità di elaborare e sviluppare strategie di radicali “rivolgimenti” e di processi teorico-pratici di liberazione. Nuovi processi in corso, per un altro mondo necessario. Come insegnò Brecht in Me-ti. Libro delle svolte, «Mi-en-leh indicava molte condizioni necessarie per il rivolgimento. Ma non conosceva momenti in cui non vi fosse da lavorare per esso». Brecht scrisse il suo «libretto in stile cinese, di regole di comportamento», durante l’esilio danese tra 1934 e 1937, negli anni di propagazione dell’infezione fascista e della peste nazista in Europa e di preparazione dei grandi massacri della Seconda guerra mondiale. «Me-ti insegnava: I rivolgimenti avvengono nei vicoli ciechi».
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La lotta contro l'ortodossia
di Giorgio Parisi
Questo scritto di Giorgio Parisi (caro amico, come del resto Ciccotti e De Maria, oggi Presidente dell’Accademia dei Lincei) compare, come nuovo contributo, su la riedizione de L’Ape e l’Archi tetto. Giorgio Parisi mostra, come sempre, la sua acutezza di analisi che unisce alla capacità di farsi capire. Credo sia molto utile una lettura di questo scritto che dovrebbe accompagnare l’altro, quello di Ciccotti e De Maria. Vi sono molte cose da capire e ripensare dopo tanti anni e tutti gli autori di questi scritti ci aiutano[Roberto Renzetti].
Quando mi fu chiesto di scrivere una presentazione per la ristampa, da tempo attesa, di L’Ape e l’architetto, pensai tra me e me: “Facile: è un libro che conosco perfettamente e che ho letto molte volte. Basta che gli dia uno sguardo veloce, trovo qualche citazione e so già che cosa dire”. Detto fatto: abbastanza velocemente scrissi una prima stesura che cominciava con: “Ricordo quando ho letto questo libro la prima volta: era il 1973 e mi trovavo nel mio ufficio a New York alla Columbia University…”. Tuttavia in un successivo sprazzo di lucidità mi venne lo scrupolo di controllare la data di pubblicazione e con mio grande stupore scoprii che L’Ape e l’architetto era stato stampato per la prima volta nel 1976. Mi domando ancora che cosa avessi letto a New York nel 1973: forse uno dei saggi degli autori che a quel tempo circolava come preprint in forma separata. In ogni caso buttai via quello che avevo scritto e rilessi il libro molto attentamente (come se fosse la prima volta), cercando di non sovrapporre i miei ricordi a quello che leggevo, cercando di capire quale fosse adesso il suo messaggio e quale impressione potesse lasciare al lettore.
Forse la prima sensazione che si ha adesso è di spaesamento. Quando un libro viene scritto – e questo è vero in particolar modo per una serie di saggi – gli autori hanno molto bene in mente il pubblico con cui cercano di comunicare. Una delle preoccupazioni che risultano molto chiare, specialmente nella prima parte di alcuni dei saggi che compongono L’Ape e l’architetto, è dimostrare che le tesi degli autori sono completamente in linea con i testi originali marxiani e ne sono la naturale conseguenza, e che se mostri sacri del marxismo (in un caso anche Lenin) affermano tesi contrarie, sono questi ultimi a uscire dalla corretta strada.
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Antonio Gramsci e le scienze sperimentali
di Camilla Sclocco
1. Introduzione
Le note dei Quaderni del carcere sulle scienze sperimentali coinvolgono un ampio ventaglio di discussioni particolari. Dalla polemica verso il causalismo meccanicistico alla critica del concetto di previsione come atto conoscitivo, dal rifiuto di elevare il metodo sperimentale a metodologia universale alla polemica con il riduzionismo della scienza agli strumenti materiali, fino alla questione epistemologica dell’esistenza della realtà esterna. Il fil rouge è la critica a Teoria del materialismo storico di Bucharin1, che aveva assunto acriticamente i concetti di causa, legge e previsione delle scienze sperimentali, intese nella loro formulazione positivistica, e le aveva applicate allo studio di una storia come materia autosvolgentesi. Come il recluso sintetizzerà tra il luglio e l’agosto 19322, la conseguenza era la scissione della filosofia della prassi in “una teoria della storia e della politica concepita come sociologia” “da costruirsi secondo il metodo delle scienze naturali (sperimentale nel senso grettamente positivistico)” e in una “filosofia propriamente detta, che poi sarebbe il materialismo filosofico o metafisico”3.
Gramsci affronta le tematiche sulla scienza dal maggio 1930 alla fine del 1932. Inizia a enucleare le questioni nelle prime due serie degli Appunti di filosofia4, per poi ritornavi nella terza e in due note del Quaderno 6. Tra il luglio e il dicembre 1932 rielabora le riflessioni nel Quaderno 11, dove su trenta testi di prima stesura ventitré sono rielaborati nella sezione seconda del quaderno, “Osservazioni e note critiche su un tentativo di ‘Saggio popolare di sociologia’”, cinque nella terza, “La scienza e le ideologie scientifiche” e uno nella quarta, “Gli strumenti logici del pensiero”5.
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Qui per restare. Sul green pass e sul suo mondo
di Bergteufel
Tratto da: https://bergteufelbz.noblogs.org/post/2021/10/04/qui-per-restare-sul-green-pass-e-il-suo-mondo/
Il testo che segue è la trascrizione di un intervento tenuto domenica 3 ottobre a San Giorio di Susa (TO) nell’ambito di un’iniziativa contro il lasciapassare (vedi locandina). Funzionando come riassunto dei contenuti dell’opuscolo Il mondo a distanza e come rapida ricognizione del mondo di cui il green pass è espressione, abbiamo pensato che potesse essere di qualche utilità e quindi di pubblicarla.
Il green pass non rappresenta “solamente” un modo particolarmente infame per costringere a sottoporsi alla sperimentazione dei cosiddetti vaccini. Io mi concentrerò, a partire dai contenuti dell’opuscolo Il mondo a distanza, su questo lasciapassare come dispositivo tecnologico di controllo, sul mondo di cui è espressione e sugli scenari che apre. D’altronde il ministro Speranza ne ha parlato come della “più grande opera di digitalizzazione mai fatta”.
Nei pochi mesi trascorsi da quando è uscito l’opuscolo siamo passati dalla farsa dell’app Immuni e dal guardare con inquietudine alla realtà cinese – dove era rapidamente diventato di fatto impossibile circolare senza mostrare continuamente, smartphone alla mano, di essere “puliti”, sulla base del tracciamento dei propri spostamenti e dei possibili contatti con positivi – al trovarci quella realtà materializzata di fronte. La cosa da sottolineare è che il green pass come tipo di dispositivo, lungi dall’essere costitutivamente legato alla fase di emergenza – già ormai permanente – sanitaria, è qui per restare, al di là delle forme specifiche che potrà assumere.
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Linee di tendenza
Di patriarcato e capitalismo nella società neoliberista
di Elisabetta Teghil
Dedicato alle compagne della coordinamenta
femminista e lesbica e ai nostri dieci anni insieme.
Dicono che l’occhio umano sia fatto per guardare orizzonti lontani. Dicono. E dicono anche che se l’occhio umano guarda sempre per terra o la parete del palazzo di fronte la capacità visiva si atrofizzi notevolmente.
La lotta di classe e di genere è una guerra, lo sapevamo già, ma ora il potere lo ha dichiarato esplicitamente e usa metodi, linguaggi, sistemi e pratiche conseguenti non solo contro tutte/i quelle/i che non si adeguano subito ed esplicitamente ai suoi desiderata ma costruendo per tutti un immaginario sociale in guerra costante.
Per poter agire e rispondere adeguatamente in una guerra bisogna conoscere e analizzare la situazione sul campo ma bisogna anche capire che cosa si propone il nemico. Le linee di tendenza del suo operare. Bisogna guardare lontano.
La società è stata trasformata dalle fondamenta in pochi anni e questo processo ha subito un’accelerazione molto forte negli ultimi tempi, sia con la scusa dell’emergenza Covid-19 sia perchè il cambiamento tecnologico si attua con una velocità fino a poco tempo fa impensabile.
Ci sono alcune scelte-cardine del capitalismo neoliberista per la ristrutturazione della società che ci permettono di capire più di altre le linee di tendenza della costruzione di un sociale funzionale agli obiettivi che il potere si pone.Questi obiettivi non sono poi così nascosti, il capitalismo ha raggiunto un livello di arroganza e di onnipotenza senza pari ma ricordiamoci che per quanta immaginazione possiamo avere il capitale è già più avanti perché da molto tempo la maggior parte della sinistra di classe sembra aver perso le coordinate per analizzare il presente.
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Note sul Rapporto IPCC
di Redazione di Monthly Review
Il 9 agosto 2021, il Gruppo intergovernativo di esperti scientifici sui cambiamenti climatici (IPCC) delle Nazioni Unite ha pubblicato “Cambiamenti climatici 2021: la base della scienza fisica”.
Questa è la Parte I del suo Sesto Rapporto di Valutazione (AR6), redatto dal 1° Gruppo di Lavoro , il quale descrive in dettaglio lo stato attuale del cambiamento climatico. La Parte I del Rapporto generale AR6 sarà seguita da altre due parti aggiuntive. L’uscita della Parte II, redatta dal 2° Gruppo di Lavoro, sul tema "impatti", è prevista per il febbraio del 2022. La Parte III, redatta dal 3° Gruppo di Lavoro, sul tema "attenuazione", dovrebbe uscire nel marzo del 2022.
Il segno di quanto siano diventate serie le questioni - con i colloqui COP26 delle Nazioni Unite sul clima a Glasgow il prossimo novembre, considerati da molti come un ultimo tentativo di raggiungere una soluzione globale a favore dell’umanità - è il fatto che già durante l'estate sono trapelate le prime bozze dei Rapporti Parte II e Parte III. Alla fine di giugno, la parte II di AR6 era pervenuta all'agenzia di stampa francese AFP (Agence-France Presse), che ha in seguito pubblicato un articolo sul Rapporto trapelato (“Crushing Climate Impacts to Hit Sooner than Feared - Impatti climatici schiaccianti colpiranno prima del temuto”.
Giorni prima della pubblicazione della Parte I, la sezione chiave della Parte III, un “Riepilogo per i responsabili politici”, è trapelato da scienziati associati a Scientist Rebellion and Extinction Rebellion Spain. Un articolo che annuncia la fuga di notizie, intitolato “IPCC Sees Degrowth as Key to Mitigating Climate Change” (L'IPCC vede la decrescita come la chiave per mitigare il cambiamento climatico), è stato pubblicato il 7 agosto dal giornalista Juan Bordera e dall'ecologo Fernando Prieto sulla rivista online spagnola Contexto y Acción (CTXT).
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“L’essenza, per le fondamenta”
Intervista a Carla Filosa
Si sta come/ d’autunno/ sugli alberi/ le foglie
D. Lo sviluppo di una società socialista presuppone condizioni oggettive e soggettive ben precise. A tuo avviso, queste condizioni sono presenti oggi o sono ancora molto al di là da venire?
R. Ponendo attenzione alle contraddizioni immanenti al processo di accumulazione, si entra nel cuore della crisi attuale, di massa di plusvalore prodotta che non può essere realizzata, cioè trasformata in profitto. Per questo si licenzia senza grossi intralci normativi, riducendo il più possibile i costi relativi al capitale variabile, cercando contemporaneamente di stabilire accordi vantaggiosi per l’acquisto di materie prime a prezzi minori, e se non è possibile mediante la diplomazia, lo spionaggio o i servizi segreti, si destabilizzano paesi con guerre a bassa intensità o per interposta persona a scopo di rapina delle risorse, come possibile. In altri termini lo sfruttamento lavorativo, mai sufficiente per l’accumulazione di plusvalore, dev’essere integrato con la ricerca delle priorità immediate sulla concorrenza internazionale, nella corsa infinita alla supremazia pena la distruzione o vendita necessitata della propria attività produttiva, o in forma mediata, finanziaria. Il ricorrente fenomeno delle controverse dislocazioni produttive mostra inoltre non solo l’attivazione continua del dumping salariale, ma soprattutto la concorrenza tramite l’uso degli stati nell’ottenimento di facilitazioni fiscali, legislazioni depenalizzanti, fruizione di infrastrutture gratuite, appalti per investimenti a basso rischio, ecc.
Questo per quanto concerne la produzione. Per quanto invece riguarda la distribuzione del valore e plusvalore prodotto, a sfruttamento compiuto, i problemi delle proporzioni tra diversi rami produttivi e delle capacità di consumo delle società cui ci si rivolge (nazionali o estere) consistono nella distribuzione antagonistica, propria del capitale, per cui questa avviene in modo sperequato tra una grande massa di persone e una più ristretta di ceti abbienti.
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Stato, complotto e giostra finanziaria
di Ludovico Lamar
La faccia sua era faccia d’uom giusto,
tanto benigna avea di fuor la pelle,
e d’un serpente tutto l’altro fusto.
(Dante, Inferno, XVI, vv. 7/12)
1. I “poteri forti” e il comitato d’affari
Essere critico verso le politiche governative oggi significa essere complottista. La parola complottista viene lanciata contro tutti coloro che pongono a critica le politiche governative “sanitarie" dell’ultimo anno e mezzo, tanto che lo facciano in modo sconclusionato, quanto che lo facciano con una critica seria e motivata sul piano della scienza, del diritto, dell’economia, ecc.
La schiera dei critici alla narrazione pandemica si può identificare in generale con coloro che ritengono che dietro le politiche dei singoli Stati vi siano dei “poteri forti”, in genere economici, mentre la schiera di coloro che appoggiano (integralmente o parzialmente) le politiche dei governi la potremmo identificare in coloro che ritengono che invece lo Stato sia un istituto al di sopra delle classi e autonomo dai poteri economici.
Marx ed Engels, nel 1848, scrissero che “il potere politico dello Stato moderno non è che un comitato, il quale amministra gli affari comuni di tutta quanta la classe borghese”.1 Ancor peggio la sparava Lenin: “La potenza del capitale è tutto, la borsa è tutto, mentre il parlamento, le elezioni, sono un giuoco di marionette, di pupazzi…”.2 Non c’è dubbio che tali tesi oggi verrebbero tacciate di complottismo proprio perché in sostanza affermano che dietro lo Stato contemporaneo vi sono proprio dei “poteri forti”.
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Mimmo Lucano: parliamone per favore
di Michele Castaldo
Sui media italiani ha fatto un certo “clamore” la sentenza di primo grado nei confronti di Mimmo Lucano da parte del tribunale di Locri che ha addirittura raddoppiato le richieste dell’accusa. Poi però la questione è stata subito accantonata per trattare d’altro. È invece il caso di una riflessione appropriata, perché ricca di spunti su una questione molto importante come quella sull’immigrazione e il rapporto con essa da parte dei militanti di sinistra e di estrema sinistra che per essa si spendono.
Diciamo subito che c’è da più parti molta ipocrisia sulla questione e sbrogliare la matassa è abbastanza complicato proprio perché dietro una cortina fumogena molto spessa si nasconde la vera questione che è rappresentata dalla nuova tratta dei lavoratori di colore che arrivano e vengono da più parti fatti arrivare in Europa e – nello specifico - in Italia, che servono come
l’aria per respirare al nostro capitalismo in crisi per la produzione di merci nei confronti della concorrenza asiatica, oltre che per tentare di risalire la china di un pauroso calo demografico; altro che italianità e stupidaggini simili.
La sentenza che condanna Mimmo Lucano a 13 anni e 2 mesi di reclusione, oltre alla restituzione di centinaia di migliaia di euro alle casse dello Stato, è stata commentata, dunque giudicata, in “due” modi, pur trattandosi di un’unica sentenza. Il che la dice lunga sull’uso della legge che “è uguale per tutti”. Ribadiamo ancora una volta, anche in queste note, che i giudici non sono di destra o di sinistra, ma sono degli asserviti a un sistema imperniato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Sicché è un non senso parlare di equità e menare scandalo per una addirittura superiore a quella di certi delitti per mafia. La mafia è funzionale al processo dell’accumulazione, tanto è vero che c’è stata una trattativa con essa da parte dello Stato, che “non costituisce reato”.
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Un conflitto politico-ideologico del 1957
Le allegorie marinare di Italo Calvino, di Maurizio Ferrara e di Giorgio Galli
di Eros Barone
Le fiabe sono vere.
I. Calvino
La gran bonaccia delle Antille
di Italo Calvino 1
Dovevate sentire mio zio Donald [Palmiro Togliatti], che aveva navigato con l’ammiraglio Drake [Stalin], quando attaccava a narrare una delle sue avventure.
– Zio Donald, zio Donald! – gli gridavamo nelle orecchie, quando vedevamo il guizzo di uno sguardo affacciarsi tra le sue palpebre perennemente socchiuse, – raccontateci come andò quella volta della gran bonaccia delle Antille!
– Eh? Ah, bonaccia, sì, sì, la gran bonaccia… – cominciava lui, con voce fioca. – Eravamo al largo delle Antille, procedevamo a passo di lumaca, sul mare liscio come l’olio con tutte le vele spiegate per acchiappare qualche raro filo di vento. Ed ecco che ci troviamo a tiro di cannone da un galeone spagnolo [la Democrazia Cristiana]. Il galeone stava fermo, noi ci fermiamo pure, e lì, in mezzo alla gran bonaccia, prendiamo a fronteggiarci. Non potevamo passare noi, non potevano passare loro. Ma loro, a dire il vero, non avevano nessuna intenzione di andare avanti: erano lì apposta per non lasciar passare noi. Noialtri invece, flotta di Drake, [il Partito comunista italiano] avevamo fatto tanta strada non per altro che per non dar tregua alla flotta spagnola e togliere da quelle mani di papisti il tesoro della Grande Armada e consegnarlo in quelle di Sua Graziosa Maestà Britannica la Regina Elisabetta [l’Unione Sovietica]. Però ora, di fronte ai cannoni di quel galeone, con le nostre poche colubrine non potevamo reggere e così ci guardavamo bene dal far partire un colpo. Eh, sì, ragazzi, tali erano i rapporti di forza, voi capite.
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Il dialogo rivoluzionario tra i molti mondi che insorgono
di Fabio Ciabatti
Massimiliano Tomba, Insurgent Universality: An Alternative Legacy of Modernity, Oxford University Press, New York, 2019, p. 304, € 24,21
Anche di fronte a una delle sue peggiori débâcle, la precipitosa fuga dall’Afghanistan degli Stati Uniti, l’Occidente non ha rinunciato a propagandare l’idea della sua superiorità. A tal fine i media mainstream di mezzo mondo hanno aperto all’unisono i rubinetti delle lacrime, mostrando improvvisa e soverchiante preoccupazione per la sorte dei poveri afghani e, soprattutto, delle indifese afghane vittime della barbarie fondamentalista, surrettiziamente presentata come unica reale alternativa al dominio occidentale. Peccato che, in quelle terre, la malapianta del fondamentalismo, ben lungi dall’essere il frutto autoctono di un preteso sottosviluppo, fu coltivata proprio dagli Stati Uniti, con l’aiuto dei loro alleati sauditi e pakistani, per infestare il cortile di casa del fu impero sovietico. La realtà dei fatti, però, deve essere rimossa dall’ideologia dominante che deve trasformare una prova contraria in una sorta di prova per assurdo per confermare l’idea di una “storia universale” destinata a viaggiare in un’unica direzione possibile, la modernità capitalistica. Come dimostra il caso afghano, infatti, l’unica alternativa possibile a questo percorso è un’assurda catastrofe.
L’idea di una storia universale, come ci spiega Massimiliano Tomba nel suo libro Insurgent universality. An alternative legacy of modernity (testo che ha avuto una nuova pubblicazione nel 2021 in formato paperback), ha una connotazione eminentemente eurocentrica dal momento che finisce per svalutare ogni possibile traiettoria storica qualitativamente differente da quella percorsa dalla modernità occidentale. Ogni forma sociale non statuale o non capitalistica diventa semplicemente pre-statuale e pre-capitalistica, destinata perciò a scomparire in quanto forma arretrata rispetto alla modernità occidentale.
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Sette tesi sul mutamento climatico e il regime ecologico di accumulazione del capitale
di ∫connessioni Precarie
Con questo contributo interveniamo per la prima volta direttamente nel dibattito politico ampio e articolato sugli effetti sociali del mutamento climatico. Da molti anni i movimenti ambientalisti hanno fatto di questa problematica una questione politica fondamentale, ma probabilmente solo oggi è indiscutibile la presenza transnazionale di una generazione in rivolta che in questi giorni si sta organizzando in vista della Cop26 che si terrà a Glasgow nel mese di novembre. Non è un caso che il movimento che in questi anni ha dato vita allo sciopero globale per il clima sia composto prevalentemente da giovani: nella formula ‘giustizia climatica’ c’è la pretesa collettiva di non vedersi rubare il futuro e l’indisponibilità a piegarsi alle promesse di istituzioni scientifiche e politiche nazionali e internazionali ‒ alle quali pure gli stessi giovani si rivolgono ‒ che su quel futuro propongono e pianificano compromessi al ribasso. È d’altra parte evidente che non saranno quelle istituzioni a offrire una soluzione ai cambiamenti in atto, perché stanno già ricostruendo la propria legittimazione proprio in nome di una “transizione ecologica” orientata al profitto. La transizione verde si presenta allora come un campo di battaglia che non può essere praticato da una sola generazione, che ridefinisce i limiti e le possibilità dei movimenti sociali, che reclama in maniera inequivocabile una presa di posizione. Pensare che l’ecologia configuri un nuovo regime di accumulazione del capitale, e con esso una nuova governance ecologica, significa per noi cercare di determinare tanto le forme in cui si stanno riarticolando la produzione e riproduzione sociale di fronte al cambiamento climatico, quanto le linee di frattura lungo le quali è possibile praticare l’iniziativa politica. La difesa della natura non offre immediatamente una possibilità di ricomposizione delle molteplici figure che subiscono in modo diversi gli effetti del cambiamento climatico; al contrario, il modo di accumulazione ecologico produce e riproduce differenze e gerarchie che solcano lo spazio transnazionale che la generazione in rivolta chiama Terra. È in questo spazio e all’interno della transizione verde del capitale che si possono cogliere alcune indicazioni che il nostro ecologismo deve continuare a praticare collettivamente, per affermare con forza il rifiuto di sottostare alle condizioni poste dalle trasformazioni in corso.
* * * *
1. Viviamo in un regime ecologico di accumulazione del capitale, un campo di tensione in cui si producono lotte parziali, non una ricomposizione dell’universale umano
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De Virus Illustribus, un anno e mezzo dopo
di Sandrine Aumercier
«Non è la "regolamentazione" dell'economia, a dover essere valutata, ma la sua fine»
Il libro "De virus illustribus" è stato scritto a caldo nel corso del lockdown del marzo-aprile 2020 da quattro persone che partecipano alla corrente teorica conosciuta come la «critica del valore». Penso che siano molti ad essere d'accordo sul fatto che il primo lockdown sia stato qualcosa di eccezionale, di inaudito, di storico. Soggettivamente, molte persone l'hanno vissuto come un momento di stupore: si sono trovati da un giorno all'altro apparentemente liberati dalla pressione di dover lavorare, di correre dappertutto, di essere ovunque contemporaneamente, di moltiplicarsi per stare dietro agli impegni, di consumare, di ottimizzare il proprio rendimento tanto a scuola quanto al lavoro, di occuparsi della propria reputazione, e così via. All'improvviso, le strade erano vuote e si poteva quasi percepire come mezzo mondo fosse stato appena fermato. Assomigliava tutto a un film di fantascienza. Ovviamente, coloro che hanno perso tutto, e la cui vita è diventata ancora più precaria non hanno certo apprezzato allo stesso modo un tale momento. Ma anche per quei privilegiati, cui era stata concessa una sorta di pausa dalla loro frenetica vita (ivi compresa l'introduzione di misure di lavoro a orario ridotto), anche per loro, la sensazione dopo non fu più la stessa, e quella che si è instaurò fu una lunga depressione. Gli episodi successivi non meritano più effettivamente il nome di lockdown, nel senso in cui era stato chiamato la prima volta. Piuttosto, si trattava di semi-confinamenti, di coprifuoco parziali, di proibizioni di uscire che significavano obblighi di lavoro, chiusure che erano allo stesso tempo anche aperture, negoziazioni con la realtà pandemica, inversioni politiche incomprensibili, la maschera da indossare e la maschera da non indossare, una cacofonia europea, ecc. Non sorprende che questa storia, vissuta essenzialmente sugli schermi, abbia finito per colpire il sistema nervoso di tutti e alimentare così un'esplosione di teorie della cospirazione.
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Sraffa dopo Graziani
di Emiliano Brancaccio
L’interpretazione del sistema sraffiano suggerita da Augusto Graziani può essere intesa non come un’alternativa ma come un possibile complemento delle analisi tradizionali di tipo classico-keynesiano. La chiave di lettura grazianea sembra particolarmente adatta a descrivere la dura realtà del comando capitalistico contemporaneo e pare suggerire una interpretazione dello schema di Sraffa in chiave “rivoluzionaria”, critica verso le concrete possibilità del riformismo politico
1. Vorrei accogliere questo affettuoso invito a ricordare Augusto Graziani soffermandomi su un suo contributo all’alta teoria, in verità poco noto, contenente una peculiare chiave di lettura dell’opera di Sraffa. Il recupero di tale piccolo cimelio teoretico non è motivato da una mera istanza commemorativa. L’ambizione, piuttosto, è di incuriosire i ricercatori più giovani. Ficcati nelle angustie antiscientifiche della valutazione bibliometrica e delle sue fanatiche vestali, c’è ragione di sospettare che ben pochi siano gli studiosi in erba capaci oggi di trovare il tempo di leggere Sraffa, o Graziani. Nell’epoca dell’imperativo di pubblicare il trito pur di non perire, bisogna ammettere che tornare alle innovazioni di quei grandi critici renderebbe la vita accademica oltremodo sofferta. Tuttavia, chi tra i più giovani sia afflitto da una sensazione generale di vacuità delle attuali mode di pensiero, proprio nella riscoperta di quelle sconvolgenti eresie italiane del Novecento potrebbe forse trovare nuove energie per cimentarsi nella competizione scientifica. Nel senso di Lakatos, che è l’unica competizione degna di rispetto.
2. Nella prefazione alla sua opera principale, Sraffa precisa che in larga parte di essa non viene considerato alcun cambiamento nel volume della produzione o nelle proporzioni in cui i diversi mezzi di produzione sono usati in ciascuna industria. La scala e la composizione della produzione sono cioè date, dal momento che l’indagine «riguarda esclusivamente quelle proprietà di un sistema economico che sono indipendenti da variazioni nel volume della produzione o nelle proporzioni tra i “fattori” impiegati» (Sraffa 1960). Su tale delimitazione del campo d’indagine ci sono stati alcuni fraintendimenti, soprattutto a opera di economisti neoclassici.
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Per un’estetica materialistica
Galvano Della Volpe, Banfi, Anceschi e altri
di Alberto Sgalla
L’Estetica (dal gr. aisthesis, “sentire, percepire”, aisthetikòs, “sensibile”) indica a partire dal XVIII secolo l’indagine filosofica del bello, si occupa di arte, ma in generale di percezione, può essere considerata una teoria della sensibilità, del piacere del sentire, cioè il piacere provocato dal presentarsi sensibile di oggetti, corpi, eventi, paesaggi. Diciamo che un vestito ci piace, un brano musicale o un film ci commuovono, decidiamo di disporre i mobili in un certo modo, ecc., cioè i nostri comportamenti sono spesso determinati da giudizi estetici, preferenze di gusto, con cui esprimiamo il sentimento di piacere o dispiacere che proviamo per qualcosa che ci entra dentro, ci emoziona, ci fa pensare. Il giudizio estetico è un’esperienza di piacere, che sboccia dall’incontro con qualcosa di bello, senza alcun interesse (ad es. d’utilità per la salute).
La bellezza, che è una proprietà connessa a cose, persone, “è una promessa di felicità”, diceva Stendhal. Bello è ciò che si distacca dall’indistinto del mondo circostante, perché esprime una promessa di renderci felici, è un bene (magari solo per un momento). L’arte può redimere anche il male, le deformità, le sofferenze, facendoli uscire dalla loro bruttezza, può ricercare disarmonie, asimmetrie, eccessi, scendere a profondità non immediatamente visibili, che però non coincidono con l’abisso o il caos.
L’artista è un professionista della bellezza e l’esteta è chi, grazie ad una marcata sensibilità, alla capacità di percepire, di cogliere le sensazioni e i valori, è in grado di valutare la bellezza, in particolare quella artistica. Dunque le arti mettono in mostra (ad es. la complessità spesso dolorosa dei rapporti familiari) e il fruitore dell’opera avverte che l’esperienza estetica è qualcosa d’importante, in quanto lo turba, lo dota di nuove energie, gli dà una visione più profonda di un dato di realtà, lo fa pensare, avverte che I giudizi estetici sono positivi, consistono nell’affermare un valore. Il mondo estetico, scriveva De Sanctis, non è parvenza, ma anzi è esso la sostanza, il vivente.
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Per le strade della disumanizzazione*
Introduzione
di Elena Cuomo
Inedite forme di offesa alla dignità umana e di erosione dello sviluppo della vita sfidano la politica: l’umanità è quasi al tracollo.
La contemporaneità declina in diversi non-luoghi la perfetta coesistenza della società del benessere e del disfarsi della pienezza del senso dell’umano. Anche se non di rado si rinvengono diverse tracce nel dibattito contemporaneo a indicare una volontà di ripresa dalla vertigine disumanizzante, che la storia odierna sta incarnando, non è possibile porsi nella condizione dell’attesa e rifiutare la responsabilità di discutere per contribuire, sia pur in minima parte, da uomini e donne di questo tempo a una presa di coscienza collettiva1.
Il progressivo modificarsi del rapporto con se stesso e con gli altri, dalla burocratizzazione che da tempo trasforma gli uomini in funzionari2, fino alla violenza sistematica nei confronti di milioni di esseri umani, appena considerati come corpi, si va consolidando un processo di disumanizzazione che assume il volto della fabbricazione di morte.
Tutto ciò incide con forza sul vissuto quotidiano e riapre la discussione filosofica ed etica proprio sulla specificità dell’umano. Gli esiti della ricerca scientifica e tecnologica e le trasformazioni politiche ed economiche in atto suscitano forti perplessità e richiedono un ripensamento che coinvolga anche la sfera giuridica.
Proprio in ordine alle spinte di adeguamento e armonizzazione delle norme ai mutamenti in atto nei fenomeni sociali con rilievo politico, un gruppo di esperte ed esperti, filosofi della politica, sociologi e giuristi, sta di recente sollecitando in Italia la riapertura della discussione nelle sedi appropriate, circa l’intersezione dello sfruttamento e della tratta di esseri umani, coltivando la consapevolezza che la democrazia non consiste solo nelle procedure che legittimano i poteri pubblici, ma anche nella realizzazione dei valori costituzionali di dignità, libertà e uguaglianza3.
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Il capitalismo sta crollando, ma c'è poco da stare allegri
Il pessimismo radicale di Wolfgang Streek
di Carlo Formenti
E se il capitalismo dovesse crollare prima che (e senza che ciò avvenga per molto tempo) maturino le condizioni perché un nuovo ordine sociale possa prenderne il posto? A porre la domanda è Wolfgang Streeck, sociologo ed economista tedesco erede della Scuola di Francoforte, studioso di spessore, conosciuto soprattutto grazie al saggio Tempo guadagnato (1), un personaggio, insomma, che non sembrerebbe incline a formulare alla leggera ipotesi catastrofiste. Eppure, se gli si chiedesse di commentare l’ironica battuta “il capitalismo ha i secoli contati”, con cui un autorevole economista italiano liquidò le tesi dei teorici del crollo (2), Streeck obietterebbe che “Il fatto che il capitalismo sia finora riuscito a sopravvivere a tutte le previsioni di morte imminente non significa necessariamente che sarà in grado di farlo per sempre”(3).
La citazione è tratta da un libro appena uscito per i tipi di Meltemi (Come finirà il capitalismo. Anatomia di un sistema in crisi) che raccoglie una serie di saggi e articoli accompagnati da una lunga Introduzione. Un’opera in cui l’autore affronta anche alcune questioni di metodo relative alla sua disciplina, sostenendo, in particolare: 1) che il capitalismo non va studiato come un’economia, bensì come una società (dopo che i sociologi hanno a lungo subito l’imperialismo disciplinare degli economisti, argomenta, è giunto il momento di rovesciare il rapporto, perché il capitalismo di oggi non si può capire senza analizzarne le strette relazioni con la totalità delle relazioni sociali di tipo extraeconomico); 2) che il metodo da seguire per imboccare questa via è quello lasciatoci in eredità da Karl Polanyi (4), il quale sosteneva che la minaccia più grave del capitalismo nei confronti delle stesse condizioni di esistenza della società umana consiste nel rischio che “i rapporti sociali che governano la sua economia penetrino e si impossessino di rapporti sociali precedentemente non capitalistici”.
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Questa recensione contiene spoiler: La vittima muore
di Erica Fontana
Recensione di Una donna promettente, Due estranei e I May Destroy You
Quando film che pretendono di criticare lo status quo vincono agli Oscar, significa che c'è qualcosa sotto. Significa anche che dovremmo vederli.
Il frustrante lavoro di guardare questi film ci dirà poco o niente sulle lotte che pretendono di rappresentare, ma ci darà molti indizi sul modo in cui quelle stesse lotte vengono riassorbite e risignificate. Se non avete ancora visto Una donna promettente e Due estranei non preoccupatevi, ho fatto il duro lavoro per voi per mostrarvi che, nonostante tutti i discorsi emotivi degli Oscar, questi film rafforzino esattamente ciò che pretendono di criticare.
C'è qualcosa di particolarmente insoddisfacente in Una donna promettente. Sarà il fallimento della donna già suggerito nel "promettente" del titolo, o il fatto che le pretese del film di essere un "thriller di vendetta" che "chiede conto alla società" cadano nel vuoto. Ma forse questo doppio fallimento racconta involontariamente una verità; la ripetuta e inappagante affermazione del trauma da parte della protagonista e la totale incapacità del film di essere “thrilling” riflettono il discorso politico dominante, che non fa altro che affermare ripetutamente il nostro essere vittime.
Se non l'avete visto, il film va più o meno così: la protagonista, Cassandra, vendica lo stupro e la successiva morte della sua amica andando ripetutamente nei club, fingendo di essere molto ubriaca, e poi, quando qualche "bravo ragazzo" la porta a casa e comincia a fare sesso con lei, lo affronta. Solitamente questo comporta uno scambio di battute in cui lei fa notare agli uomini che stavano per violentarla. Si fa anche allusione (un segno rosso in un quaderno) al fatto che lei potrebbe essersi impegnata in qualche atto di violenza contro alcuni di loro, anche se non viene mai mostrato.
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La crisi climatica e la religione dell’economia della crescita
di Luca Pardi
La crisi climatica e ambientale nasce dal resistente consenso per una crescita economica indifferenziata e senza fine. L'inganno delle vie di uscita meramente tecniche. Un articolo di Luca Pardi, co-fondatore di ASPO Italia (Association for the Study of Peak Oil) e primo ricercatore presso il CNR
L’estate appena trascorsa ha avuto il tema dell’ambiente come sottofondo costante.
Le inondazioni, gli incendi, i record di temperatura, una quantità di eventi minori e, alla fine, l’ultimo rapporto dell’ONU sul cambiamento climatico.1
Rapporto che ha fatto notizia, forse, per due giorni. Ma, a parte l’inguaribile tendenza alla superficialità dei media, tendenza che in pochi giorni fa scomparire temi che dovrebbero restare nel dibattito pubblico a favore di notizie “vendibili”, non mi è sembrato di notare fra gli ambientalisti un cambio di marcia oltre le solite lamentele, speranze, “soluzioni”.
La crisi ambientale attuale è determinata, a mio parere, dal raggiungimento dei limiti fisici e cognitivi dell’espansione umana.
I limiti fisici si presentano come un progressivo aumento della viscosità nel flusso di risorse che dall’ecosfera vengono convogliate nell’antroposfera e come progressiva (ed evidente) saturazione degli ecosistemi terrestri e marini con i rifiuti delle nostre attività economiche e sociali. Sul tema delle risorse ho già scritto in passato. 2–5
I limiti cognitivi riguardano principalmente l’incapacità collettiva di vedere i limiti fisici da parte di una maggioranza schiacciante della popolazione umana e dei suoi leader politici. Una combinazione di inganno deliberato e autoinganno giocano un ruolo essenziale in questo contesto perché fanno parte, probabilmente, del nostro bagaglio etologico.
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Ancora sulla maledizione pandemica che ha colpito la sinistra di classe (II)
di Nicola Casale
Agli Appunti (https://sinistrainrete.info/societa/21035-nicola-casale-appunti-e-spunti-di-riflessione-sulla-maledizione-pandemica.html) è seguito un articolo sulla contraddizione capitale/natura (https://sinistrainrete.info/societa/21185-nicola-casale-ancora-sulla-maledizione-pandemica-che-ha-colpito-la-sinistra-di-classe-i.html). Nel presente (terzo e ultimo) si esamina un’altra questione che ha avuto diffusione nell’ambito della sinistra di classe (la composita galassia di tendenze antagoniste e/o rivoluzionarie) dinanzi all’evenienza della pandemia, della sua gestione politico-sanitaria e delle proteste di piazza contro lasciapassare e obbligo vaccinale. Entrambi questi articoli sono il frutto di sollecitazioni e osservazioni ricevute da lettori dei primi appunti e di un confronto e suggerimenti da parte di altri compagni che ne hanno discusso prima della pubblicazione. I temi affrontati in questa sede sono particolarmente complessi, e saranno trattati, inevitabilmente, solo per quel che riguarda i loro aspetti essenziali, rinviando, per il resto, a necessari ulteriori approfondimenti che coinvolgano, si spera, una crescente pluralità di militanti anti-capitalisti determinati a non farsi trascinare nella deriva dell’attuale sinistra di classe.
Crisi del capitale e totalitarismo
I governi occidentali hanno affrontato l’emergere della pandemia con confusione e approssimazione. Ciò è interpretato nella sinistra di classe come prova che il capitale stia precipitando in crescenti difficoltà, e chi, invece, vi vede la realizzazione di un progetto unitario non coglierebbe la profondità della crisi del capitale, ma che esso si stia addirittura “totalitariamente” rafforzando, mettendo in atto un proprio piano lucidamente perseguito oppure iscritto in un suo moto materialisticamente determinato.
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Tra delegittimazione e ristrutturazione
Una nuova tappa della crisi dello Stato borghese e della società italiana
di Eros Barone
1.“Motus in fine velocior” 1
La recente tornata delle elezioni amministrative segna, per tutte le aree politiche, un vero e proprio salto di qualità nella crisi organica che attanaglia da tempo lo Stato borghese e la stessa società italiana. Così è, a tutti gli effetti, e i risultati elettorali, per chi abbia seguìto le tappe successive di tale crisi, solo in apparenza sono sorprendenti.
Con il dato dei votanti alle Comunali che si attesta al 54,69% questo primo turno delle amministrative costituisce un record per la bassa partecipazione al voto: in pratica un elettore su due non si è recato alle urne. Dal 2010 ad oggi la minore affluenza si era registrata in precedenza solo nel 2017 con il 60,07%, mentre nella tornata di cinque anni fa aveva votato il 61,52% degli aventi diritto e lo scorso anno l'affluenza era stata del 65,62%. Il crollo della partecipazione è spettacolare soprattutto nelle grandi città italiane. Nella capitale la partecipazione dei cittadini al voto è stata del 48, 83, laddove cinque anni fa l'affluenza era stata del 57,03%. Parimenti, è in calo l'affluenza alle elezioni comunali di Milano, dove meno di un elettore su due è andato alle urne, un dato mai verificatosi in città: alla chiusura dei seggi ha votato infatti il 47,6% contro il 54,6% del 2016 quando si votò in un solo giorno. Così pure a Napoli, dove le elezioni fanno segnare un tracollo dell’affluenza alle urne, che si attesta sul 47,19% degli aventi diritto, nel mentre, cinque anni fa, al primo turno aveva partecipato al voto il 54,12% degli elettori. Anche a Torino l’affluenza è rimasta abbondantemente sotto il 50%, facendo così registrare il peggior risultato della storia nel capoluogo piemontese. Un’affluenza del 51,87% segna il dato più basso nella storia delle elezioni comunali di Bologna. Basti pensare che nelle elezioni di cinque anni fa votò il 59,66% degli aventi diritto al primo turno e il 53,17% al ballottaggio. Infine, è risultata del 35,93 l'affluenza alle elezioni suppletive per un collegio parlamentare della Toscana.
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Il cattivo debito dell’Italia
di Alberto Rocchi
Vorrei dare una prospettiva, probabilmente falsata e limitata di quello che vedo io quotidianamente, oltre a darvi conto di alcune letture fatte. In particolare vorrei partire da una parola attorno alla quale gira tutto il futuro dei prossimi quattro-cinque anni. Questa parola è debito. In realtà essa già in passato aveva un significato preponderante perché noi stiamo vivendo quella che tanti economisti chiamano la “fase del debito” o anche “l’economia del debito”: è un’analisi che va molto di moda. Entriamo nel dettaglio e chiediamoci perché questa parola, debito, debba avere una connotazione negativa, o per meglio dire quando essa ha una connotazione negativa e quando ne ha una positiva. Evito le discussioni sul rapporto tra economia e religione, anche queste molto di moda (su cui rimando all’intervista a Luigino Bruni, sul numero 85, marzo 2021). Il debito ha una connotazione positiva quando dietro al debito c’è un progetto, un programma di sviluppo. Dal punto di vista economico un debito è una leva, un leverage, serve per portarci da un punto a un altro. Se io faccio debiti per raggiungere un obiettivo sto facendo una cosa buona, non necessariamente cattiva.
Quando si deteriora questa parola? Quando faccio i debiti per coprire i debiti, ma soprattutto quando un debito non è il frutto di uno scambio negoziale equo. Dietro il debito c’è un contratto di finanziamento, tra due soggetti; uno scambio contrattuale che unisce una persona disponibile a prestare denaro a una bisognosa di riceverne. In una visione perfetta del sistema economico questi due soggetti si trovano su una posizione di simmetria, cioè hanno lo stesso potere negoziale. Può succedere che questa simmetria si sposti fisiologicamente a favore di uno o dell’altro: se un debitore è già particolarmente indebitato, avrà difficoltà a contrattare un nuovo prestito; al contrario, se è molto solvibile, sarà lui a poter imporre delle condizioni al suo finanziatore.
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