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Neoliberalismo: che cosa c’è in un nome?
di Sandro Chignola e Sandro Mezzadra
Una rottura di fase e una secca discontinuità: da tempo le abbiamo registrate. La seconda Presidenza Trump aggiunge aspetti di non secondaria importanza (e tutt’altro che scontati) a un processo avviato da tempo – quantomeno dalle guerre statunitensi in Afghanistan e in Iraq, dalla crisi finanziaria del 2007/8 e poi dalla pandemia e dalla guerra in Ucraina. Il capitalismo, una volta di più nella sua storia secolare, sta cambiando pelle. Un diffuso autoritarismo agevola la riorganizzazione degli spazi politici (di cui profughi e migranti sono i primi a pagare il prezzo); l’articolazione tra gli spazi politici e gli spazi dell’accumulazione capitalistica è in discussione su scala mondiale, con il ritorno al centro della scena degli imperialismi e della guerra; processi di concentrazione del capitale e del potere trasformano il paesaggio sociale e politico in molte parti del mondo; la proliferazione di quelli che abbiamo chiamato “regimi di guerra” implica una riconversione della spesa e degli investimenti verso l’industria degli armamenti, mentre il “dual use” contribuisce a porre la logica di guerra al centro dello sviluppo di settori come le tecnologie digitali e l’intelligenza artificiale. Sono solo pochi cenni, sufficienti tuttavia a rendere conto della profondità della rottura in cui siamo immersi.
Ci sembra necessario domandare se queste trasformazioni non richiedano una verifica delle categorie consuete del pensiero critico, a partire da quella di neoliberalismo. La fase attuale presenta almeno tre caratteristiche che ci sembrano estremamente significative, in questo senso. La prima riguarda il contraddittorio e violento riassestarsi dei poteri e dei processi di valorizzazione in un quadro post-egemonico di multipolarismo centrifugo e conflittuale. La seconda riguarda l’inedito intreccio di poteri politici ed economici in assetti oligarchici di comando, all’interno dei quali salta il progetto di separare Stato e società, politica e mercato. La terza riguarda le tensioni che attraversano il sistema monetario e, in particolare, la posizione del dollaro come valuta di riserva e mezzo di pagamento negli scambi internazionali (nonché come garante di asset finanziari).
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Saif Gheddafi e i paradossi mortali per l‘intelligencija pro-pal
di Michelangelo Severgnini
Lontani sono i tempi in cui le manifestazioni in piazza nei Paesi arabi producevano in Occidente titoloni sui giornali, cortei per le strade, comunicati al vetriolo delle nostre cancellerie e minacce militari contro i dittatori.
Lo scorso venerdì a Tripoli e nelle maggiori città della Tripolitania sono andate in scena manifestazioni oceaniche ignorate di sana pianta dall’intero emisfero occidentale, a tutti i livelli e a tutte le latitudini politiche, gettando un’ombra pessima sullo stato di salute dell’informazione e del dibattito politico in Occidente.
Qualcuno si era limitato a commentare, ormai una settimana fa, quando erano le milizie a sparare: “La Libia nel caos”.
No, un momento. Anche questa volta ci sono mandanti, responsabili, attori sul campo e dietro le quinte, cause e conseguenze. Ad approfondire, scostando il velo della censura, la storia appare in tutta la sua semplicità: da una parte il popolo libico che dal dicembre 2021 (data della cancellazione delle elezioni) chiede di poter eleggere Saif Gheddafi presidente, mettendo fine allo strapotere delle milizie, dall’altra le milizie con il supporto e il silenzio-assenso del mondo intero.
Ma perché dunque la Libia questa volta non tira?
Perché nel 2011 vi abbiamo esportato la democrazia a suon di bombe e ora da anni gliela stiamo negando, impedendo quelle elezioni che eleggerebbero Saif Gheddafi? Sì, certo.
Perché lo smantellamento delle milizie libiche metterebbe fine a 14 anni di occupazione militare della Libia venduta come “caos”? Sì, certo.
Perché un potere legittimo a Tripoli rivelerebbe finalmente i contorni dello scandalo internazionale del saccheggio del petrolio libico attraverso milizie loro e mafie di casa nostra, coperto da tutti i governi italiani dal 2012 a oggi e benedetto da Napolitano prima e da Mattarella poi? Sì, certo.
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Circa la tecnica: per una fenomenologia politica della relazione
di Alessandro Visalli
Quattro tesi
Partirò con una tesi, enunciata in modo secco: l’essere umano non ha fondamento: si costituisce nella relazione. Ma la possibilità della relazione, in senso autentico ovvero non determinato interamente da istinti naturali, è pienamente sociale sin dalla sua radice. E’ questo il senso in cui “non ha fondamento”. La specie umana condivide, certamente, alcune caratteristiche abilitanti rese disponibili dalla sua conformazione biologica e genetica di base, - postura, il dimorfismo sessuale, encefalizzazione, lunga infanzia, cure parentali collettive, capacità vocale e grammaticale -, ma tutto ciò predispone e non limita. L’uomo ha una struttura istintuale molto meno stringente delle altre specie superiori (inclusi gli altri primati) l’uomo deve sempre farsi. Sia socialmente sia individualmente. E questo farsi si determina, con il decisivo contributo del linguaggio, nel lungo processo storico di apprendimento socio-culturale e dialogo sul quale non è questo il luogo per dilungarsi.
Per Marx l’uomo è “essere generico”, gattungswesen, e ha potenzialità universali, nel senso che è capace di scambiare con la natura, lavorando, socializzando e riconoscendosi nei frutti del proprio lavoro. Ad esempio, nella sezione sull’alienazione dei Manoscritti economico-filosofici[1], viene articolato un concetto dell’umano come intrinsecamente sociale e libero che si oggettiva nel mondo. Questo concetto, appena abbozzato nei manoscritti marxiani, è ripreso e sviluppato da Lukacs in Ontologia dell’essere sociale[2], quando inquadra la genericità come criterio ontologico determinante nel processo evolutivo della umanità (e fonte della sua universalità). Genericità, si noti, intesa non come astrazione logica, o del pensiero, quanto come farsi materiale nello scambio ‘organico’ con la natura. Un farsi mosso dalle posizioni teleologiche del lavoro (che si formano nella mente prima che nella materia), per poi oggettivarsi socialmente. Per Lukacs le potenzialità causali, rinvianti a concatenazioni di sistemi (che chiama complessi di complessi della realtà[3]), sono sempre attivate e concretate dal lavoro.
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Perché non socializzare i profitti?
di Carla Filosa
Questo nuovo testo di Francesco Schettino intende porre una domanda semplice – ma “difficile a farsi, nella risposta”, come avrebbe detto B.Brecht – a tutti coloro che vogliono capire di più sull’economia, sia dall’interno di questa disciplina sia da parte di chi ne è più o meno digiuno. Soprattutto dalla parte di questi ultimi poi, ricordiamo che ricerca più informazione proprio chi non è competente, ma in compenso è consapevole del proprio non sapere, da cui appunto scaturisce l’esigenza a fuoriuscirne.
La domanda è: come, dove capire l’economia? Per soddisfare una richiesta così importante che riguarda la vita di ognuno di noi, l’autore si prova a oggettivare la propria esperienza accademica (da circa 13 anni docente di Economia Politica, all’Università Vanvitelli di Santa Maria Capua Vetere) in un compendio di storia economica comprensiva di una riflessione critica non solo sui singoli approcci teorici, ma soprattutto sulla vulgata mainstream dell’economia politica in quanto “scienza oggettiva” e non prodotto ideologico la cui origine si innerva nei rapporti di forza sociali.
Nel1968 lo psichiatra Frantz Fanon, autore del libro “I dannati della terra”, coniò una frase divenuta celebre: “Per il colonizzato, l’obiettività è sempre diretta contro di lui”. Il concetto di colonizzato, qui riportato, era per Fanon anche estensivo di ogni forma di condizionamento forzato, proprio del complesso fenomeno dovuto alla colonizzazione europea in quanto vettore di una inferiorizzazione politica dei soggetti conquistati.
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Libano, la rivincita di Hezbollah
di Mario Lombardo
Le pressioni di Stati Uniti e Israele di questi mesi sul governo libanese e su Hezbollah per indebolire e isolare il partito-movimento sciita non sembrano avere ottenuto risultati significativi almeno sul piano politico. Infatti, nonostante una feroce campagna militare e ricatti più o meno espliciti rivolti al nuovo governo di Beirut, l’alleanza sciita tra Hezbollah e Amal ha fatto il pieno di seggi nella quarta e ultima tranche delle elezioni municipali in Libano, andata in scena nella giornata di sabato nelle province meridionali del paese mediorientale.
In uno scenario esplosivo, Hezbollah e la sua nuova leadership hanno evidenziato una tenuta notevole, confermando, al di là della retorica occidentale, la popolarità del movimento e il fortissimo radicamento nel territorio anche grazie alle proprie attività in ambito sociale a fronte di istituzioni statali a dir poco latitanti. L’illusione di assestare un colpo mortale alla “Resistenza” libanese da parte americana e israeliana semplicemente assassinando gli esponenti di vertice o cercando di attribuire a Hezbollah la situazione drammatica del Libano è rimasta appunto tale. La campagna anti-Hezbollah ha finito piuttosto per favorire il movimento sciita, identificato a ragione come l’unico baluardo contro l’occupazione, l’influenza e la violenza sioniste.
Complessivamente, l’affluenza alle amministrative libanesi è stata nettamente inferiore rispetto al 2016 (37% contro 48%). Il dato nel sud del paese è stato però contraddittorio, con alcune municipalità che hanno visto una quota superiore di elettori recarsi alle urne.
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A cosa serve una guerra: l’accordo finanziario Usa-Ucraina
di Gaetano Colonna
Si delinea sempre più chiaramente quale sia la prospettiva statunitense nei confronti del conflitto in Ucraina. Il crescente disinteresse dell’amministrazione Trump verso la sbandierata soluzione diplomatica della guerra ci sta facendo capire che gli Stati Uniti d’America in realtà reputano di aver già raggiunto i propri obiettivi prioritari.
Niente rivela più chiaramente quale sia l’orientamento nordamericano sulla questione ucraina dell’accordo economico, siglato lo scorso 30 aprile a Washington da Yuliia Svyrydenko, primo Vice-Ministro ucraino dell’Economia e da Scott K. H. Bessent Segretario del Tesoro USA, accordo tecnicamente denominato United States-Ukraine Reconstruction Investment Fund.
È una conferma del fatto che la politica nordamericana nei confronti dell’Ucraina, con la sua accelerazione a partire dalla cosiddetta rivoluzione arancione del 2004, ha tra le sue finalità principali quella di vincolare l’Ucraina al sistema economico-finanziario che ha il suo baricentro politico negli USA.
Intanto è il caso di premettere che il documento sottoscritto dai ministri dei due Paesi è per il momento una definizione dei principi generali che le due parti hanno accettato, in quanto ancora deve essere formalizzato un accordo di dettaglio, denominato LP Agreement, che dovrà essere approvato dal parlamento ucraino: tanto è vero che la stessa stampa ucraina è stata assai meno trionfalistica dei media nostrani nel valutarne il contenuto, consapevoli che, come ben sanno tutti i diplomatici, “il diavolo è nei dettagli”. E non è davvero difficile intendere chi sia qui il diavolo.
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Capitalismo delle infrastrutture e politica delle rovine
di Vando Borghi
È un abbaglio frequente quello di vedere rivoluzioni o fratture epocali a ogni passaggio trasformativo delle condizioni di integrazione tra economia e società. Il “basso continuo” dello spartito sul quale suona il capitalismo contemporaneo costituisce un registro musicale piuttosto costante, da qualche secolo a questa parte. Tuttavia è importante cogliere anche il modo in cui queste continuità si combinano con fattori di discontinuità, che incidono e modificano le nostre forme di vita. Il capitalismo delle infrastrutture è il modo in cui si caratterizza questa combinazione di continuità e discontinuità nel nostro presente.
“Con capitalismo delle infrastrutture – scrivono Kevin Lin e Pun Ngai – ci riferiamo a una forma di capitalismo che si basa sulla produzione e sull’espansione di infrastrutture fisiche e digitali intersecate tra loro”. E proseguono sottolineando come in questa specifica fase del capitalismo sia in gioco “la base materiale di tutte le altre forme di materialità del capitalismo, vale a dire il capitalismo estrattivo, il capitalismo monopolistico e il capitalismo digitale o delle piattaforme”. In effetti non è soltanto questione della “material base of all other forms of materiality of capitalism”, per riprendere i termini dell’efficace definizione di Lin e Ngai. Il capitalismo delle infrastrutture, infatti, ha che fare con una ridefinizione più complessiva: l’esperienza che facciamo del rapporto con il mondo e con gli altri esseri viventi dipende in modo sempre più rilevante e capillare dalle infrastrutture su cui sono incardinate le forme di vita contemporanee.
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Come la “sinistra” ha sposato la logica e i fondamenti del sistema capitalista
di Armando Ermini
Questa che pubblichiamo di seguito è la relazione di Armando Ermini al convegno svoltosi lo scorso 15 marzo a Roma promosso da L’interferenza dal titolo “Una lettura alternativa della questione di genere. Per una critica di classe del femminismo”
In questo mio intervento cercherò di mostrare come l’abbandono da parte della, fra virgolette, sinistra, di ogni critica del capitalismo dal punto di vista delle classi sociali e l’assunzione esplicita degli argomenti del femminismo contro gli uomini in quanto tali, e dunque lo spostamento del nucleo argomentativo dalle questioni sociali a quelle della dialettica fra i due, sottolineo due, sessi, nonché la sistematica svalutazione sul piano teorico e pratico, di tutto ciò che tradizionalmente erano attributi e funzioni paterne, coincidano con la piena accettazione dello spirito del Capitalismo, col suo “begriff” o dirsivoglia “concetto”, idea fondante, scopo supremo.
Credo basti ripercorrere brevemente la storia del capitalismo per rendersi conto dei cambiamenti, talvolta eclatanti, che lo hanno attraversato, ma senza che quei cambiamenti intaccassero minimamente il suo nucleo fondante che è nient’altro che la propria “Riproduzione Allargata”, alla quale tutto il resto viene subordinato, piegato ed anche, perché no, utilizzato quando serva allo scopo.
Occorre con ciò riconoscere che il capitalismo è un sistema estremamente duttile. Non avendo principi suoi propri di ordine filosofico e/o religioso a cui attenersi con coerenza, non avendo una propria etica o se si preferisce morale, esso può, di volta in volta e sempre e solo secondo convenienza, assumere le vesti e predicare le idee più contraddittorie. Patriarcale o matriarcale, maschilista o femminista, borghese o antiborghese e così via.
Sono convinto che se non si afferra questa verità si correrà sempre il rischio che la critica al capitalismo sia in perenne ritardo, riguardi le fasi che il capitalismo stesso ha superato sbarazzandosi di tutto ciò che nel tempo è divenuto non più funzionale, e quindi non centri mai il suo nucleo fondante.
Credo che Luc Boltanski e Ève Chiapello.[1] in Le nouvel ésprit du capitalisme, abbiano ragione quando suddividono la storia del capitalismo in tre fasi principali. Ogni stadio, affermano i due autori riprendendo una espressione classica della sociologia, è segnato da un corrispondente «spirito del capitalismo». Con questa locuzione i due sociologi intendono avanzare una ipotesi intrigante: il capitalismo sarebbe un sistema a “sovrastruttura variabile”, che si accompagna cioè nella storia a diverse forme di legittimazione ideologica.
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Ucraina: la pace impossibile?
di Roberto Iannuzzi
Alla luce delle posizioni inconciliabili di Kiev e Mosca, del massimalismo europeo, e della scarsa incisività di Trump, la prospettiva di una risoluzione della guerra ucraina sembra allontanarsi
I colloqui di Istanbul del 16 maggio, i primi fra Russia e Ucraina da tre anni a questa parte, hanno messo in evidenza tutti gli ostacoli al raggiungimento di un accordo di pace fra Mosca e Kiev.
Ostacoli confermati dalla telefonata fra il presidente americano Donald Trump e il suo omologo russo Vladimir Putin tre giorni dopo.
L’incontro di Istanbul ha pur sempre segnato un passo avanti, se si pensa che ancora tre mesi fa il governo ucraino rifiutava persino l’idea di un dialogo con il Cremlino, ritenendolo illegale, e chiedeva il ritiro russo da tutti i territori dell’Ucraina come precondizione per un negoziato.
Ma lo svolgimento dei colloqui è rimasto incerto fino all’ultimo, e teso nella sua breve durata (meno di due ore).
Come ha lamentato il diplomatico russo Rodion Miroshnik, la delegazione ucraina era composta in gran parte da membri degli apparati militari e dell’intelligence, a conferma del fatto che era giunta a Istanbul solo per negoziare i dettagli di un eventuale cessate il fuoco.
Pochissimi erano i diplomatici e le figure politiche, in grado di discutere gli elementi di una pace duratura. Ma fino all’ultimo il presidente ucraino Volodymyr Zelensky aveva chiesto l’implementazione di un cessate il fuoco di trenta giorni come precondizione per l’inizio di una trattativa.
Richiesta ribadita da Trump nel successivo colloquio telefonico con Putin, sebbene in questo caso egli si sia fatto essenzialmente portavoce di Kiev e dei suoi alleati europei.
Questo è però un presupposto che Mosca ha sempre rifiutato, considerandolo un pretesto di Kiev per riorganizzarsi militarmente, mobilitare nuovi uomini e riarmarsi.
D’altra parte, i paesi occidentali alleati dell’Ucraina a loro volta non hanno mai accettato la richiesta russa di una cessazione delle forniture militari a Kiev come condizione per un cessate il fuoco.
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Eurocentrismo de sinistra. Gaza (Non Solo): Quelli del si, ma
di Fulvio Grimaldi
Alla nutrita Assemblea Nazionale convocata sabato scorso al cinema Aquila di Roma dalla Rete dei Comunisti, si è discusso di Medioriente.
Incidentalmente e fuori dal contesto di questo articolo, mi permetto una considerazione. Nel dibattito ha avuto un ruolo anche l’evento nazionale contro guerra e Nato e per la Palestina previsto per il 21 giugno, con il nodo della presenza, nell’occasione, di due manifestazioni su piattaforme in parte divergenti. Si vedrà se si addiverrà a un’intesa. Alla discussione aggiungerei il dato che risultano riuscite e imponenti, per positiva risonanza pubblica, le manifestazioni romane per la Palestina che hanno visto in un unico corteo due componenti fortemente divise tra loro. Soluzione che potrebbe proporsi anche per il 21 giugno.
Nel corso delle quattro ore di assemblea e di una trentina di interventi, si è incessantemente parlato, in toni vuoi indignati, vuoi accorati e dolenti, fin nei più raccapriccianti dettagli, della tragedia di Gaza. Giustamente qualcuno ha rilevato l’esitazione, se non l’assoluto rifiuto, nella sfera politico-mediatica, a pronunciare la parola genocidio. A fronte della fondata osservazione, va tuttavia rilevato che un’analoga esitazione, se non un rifiuto, si sono verificati rispetto al termine “Resistenza”, praticamente scomparso. Siamo stati solo in due, un palestinese e io, a utilizzarlo. Di Hamas, poi, neanche a parlarne.
Si sarà trattato di accidente casuale, non causale per carità, ma tant’è. E fa riflettere. Su un fenomeno che è di vasta scala e di vasta portata.
Dico subito che, per alcuni, dietro al ritegno di evidenziare il ruolo di Hamas, che pure è la rappresentanza politica e militare della maggioranza dei palestinesi dalle elezioni del 2014, confermata dai sondaggi attuali, c’è l’idea che senza Hamas Gaza avrebbe la pace. Idea alimentata dalla propaganda sionista che proclama la sua guerra essere solo mirata all’eliminazione di Hamas.
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La via della seta arriva in America Latina
di David Insaidi
Pochi giorni fa si è tenuta a Pechino la quarta riunione ministeriale del Forum Cina-CELAC (CELAC: Comunità degli Stati dell’America Latina e dei Caraibi).
Hanno partecipato oltre 30 Stati Latinoamericani.
Non è una cosa da poco e testimonia come l’influenza della Cina in America Latina abbia raggiunto un livello assai elevato e sia in continua e inarrestabile crescita. Stiamo parlando di un continente che non solo si trova molto vicino agli Stati Uniti, ma che storicamente è sempre stato considerato da questi come il loro “cortile di casa” e quindi ha sempre subito una forte influenza da parte di Washington.
Alla riunione erano presenti tra gli altri il Presidente del Brasile, Lula Ignacio Da Silva e il Presidente della Colombia, Gustavo Petro, il quale ultimo ha ufficializzato l’entrata di Bogotà nella Via della Seta cinese, andandosi ad aggiungere ad una serie di altri paesi del continente già aderenti.
L’elemento principale della riunione è la decisione di Pechino di investire ingenti risorse per costruire infrastrutture strategiche nei vari paesi, i quali per lo più non hanno soldi sufficienti per farlo da soli. Tra porti, ferrovie, autostrade e altro, il programma è molto ambizioso. Peraltro di recente è stato inaugurato un gigantesco porto in Perù, a Chancay, costruito dalla cinese Cosco. Tale porto dovrebbe poi essere collegato con il Brasile, attraverso una ferrovia, che verrà costruita sempre da personale con gli occhi a mandorla.
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La scienza cieca: perché stiamo perdendo la capacità di vedere (e con essa, la comprensione)
di Katia Cortese
Nel mondo della ricerca scientifica contemporanea, produciamo più immagini e dati visivi di quanti siamo in grado di comprendere. Pubblicazioni che si moltiplicano, preprint ovunque, microscopi sempre più sofisticati, algoritmi che generano grafici e heatmap a velocità crescente. Eppure, diminuisce la capacità, e forse anche la volontà, di guardare davvero. Propongo una riflessione su una crisi che è insieme epistemologica, tecnica e culturale: la perdita della capacità di “vedere” in senso pieno, e con essa l’indebolimento della nostra facoltà di interpretare, contestualizzare, persino dubitare. Dalla marginalizzazione della morfologia alla sfida delle immagini sintetiche generate dall’intelligenza artificiale, passando per gli errori della pandemia, ci troviamo oggi davanti a una scienza che rischia di diventare cieca nella sua stessa accelerazione.
Ed è proprio per questo che, paradossalmente, serve tornare a guardare: con occhi umani, lenti e consapevoli.
Una crisi globale della visione scientifica
La scienza moderna deve gran parte dei suoi trionfi alla capacità di vedere oltre i limiti naturali dei nostri sensi. Dalla lente di Galileo che rivelò nuovi astri al microscopio di Hooke che svelò l’esistenza delle cellule, l’osservazione diretta ha illuminato territori sconosciuti, ampliando la comprensione del mondo [1].
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Il Medio Oriente «centro del mondo», secondo la meta-analisi di “Trump d’Arabia” e la sua santa alleanza con il CCG
di Alfredo Jalife-Rahme
Alfredo Jalife, uno dei maggiori geopolitici del nostro tempo, afferma ne La Jornada che il presidente Donald Trump ha appena ribaltato la politica e i rapporti di forza del Medio Oriente. Dissociando gli Stati Uniti da Israele, ha dichiarato che il Medio Oriente è ora il «centro del mondo». A suo avviso, Trump sta assicurando la sopravvivenza economica degli Stati Uniti alleando il Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) e le transnazionali statunitensi. D’ora in poi Washington si posizionerà attorno a queste monarchie del petrolio, non più attorno allo Stato ebraico.
* * * *
Il petroliere Trump d’Arabia [1], che desidera emulare Lawrence d’Arabia [2], ha esposto due rappresentazioni cosmogoniche trascendentali, ricche di chiaroscuri, che meritano una meta-analisi: al Forum sugli investimenti di Riyad, capitale dell’Arabia Saudita [3], e davanti alle sei monarchie del petrolio arabe del CCG (Consiglio di Cooperazione del Golfo) [4]. In queste allocuzioni Trump attacca gli alleati dell’Iran, a Gaza e in Libano, e si pronuncia contro la costruzione della bomba nucleare iraniana, ma sostiene i controversi Accordi di Abramo [5] tra Israele e quattro Paesi: Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Marocco e Sudan (o meglio, ciò che resta del Paese dopo la guerra civile telecomandata).
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Chi sono io per giudicare un gay?
di Geminello Preterossi
Questa frase famosa di papa Francesco non indica una rinuncia a esercitare l’autorità papale, a esprimere una posizione. Anzi, al contrario, è precisamente una presa di posizione intelligente di un’auctoritas che non ha paura di deporre se stessa nel popolo, per riacquisire una verticalità dopo averne allargato la base, per tentare di rilanciare al tempo della secolarizzazione compiuta una trascendenza immanente più autentica (secondo i dettami della “teologia del popolo”). Il senso di quella frase è: quale agape è quella che rifiuta aprioristicamente, stigmatizza o addirittura demonizza? Certo non quella del Figlio dell’Uomo. Vogliamo tornare al tempo dei roghi, seppur in forma simbolica? Degli esorcismi? Delle “cure” coatte? Non crediate siano tutte cose di altri tempi: conosco personalmente studenti universitari che, ancora venti anni fa, hanno patito ripudi, violenze morali e ricatti familiari, e ancora ne soffrono. Oggi la situazione è in gran parte diversa, per fortuna. Ma la realtà era quella, e può sempre tornare. Purtroppo, il mainstream gay attuale è improponibile: conformista, vacuo, superficiale, nichilista. Nulla a che fare con Pasolini, Testori o Visconti. In buona compagnia, peraltro, con il femminismo egemonico, che mima i peggiori modelli maschili, e con l’occidentalismo bellicista. Tutto sempre in nome del mercato globale, della reductio ad pecuniam di tutto, di un individualismo esasperato che travia la libertà, di una teologia economica e scientista che fanatizza e ottunde le menti, di una decadenza culturale ed estetica all’insegna dell’omologazione.
Leggere l’omosessualità, e il desiderio dei corpi in generale, come “peccato” è del tutto fuorviante. L’omosessualità è un fatto. È sempre esistita, è stata variamente considerata nella storia, ma non è né una deviazione né una moda passeggera. Altra cosa è una certa mentalità gay occidentalista e globalista, che si è totalmente saldata al neoliberalismo in chiave presuntamente “progressista”: qui vigono tanto la moda quanto il conformismo. Così come semplificazioni mercificatorie (ad esempio, su temi delicati come la gestazione per altri, che dovrebbero perlomeno suscitare dubbi).
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La babele ambientale, la trappola climatica e l'inganno del Capitale
di Piero Campanile*
1) L’oblio dell’ambiente e l’unica questione ricorrente
Nell’attuale frangente storico, funestato dai molteplici scenari di guerra che ormai strutturalmente accompagnano le contraddizioni e le convulsioni del sistema capitalistico-imperiale a guida USA -la cui centralità e leadership è più che mai messa in discussione nelle regioni del mondo non coincidenti con l’occidente collettivo- l’interesse per lo stato dell’ambiente e per le molteplici crisi ecologiche è di fatto marginalizzato, se non addirittura rimosso. Ma fino a ieri (e nulla ci lascia presagire un cambio di passo nell’immediato futuro) il dibattito ecologico è stato soggetto a un processo di semplificazione e allo stesso tempo di comprensibile proliferazione di discorsi, tale da rappresentare in maniera esemplare una assoluta babele comunicativa. La semplificazione, evidente a chiunque si sia anche in misura minima interessato a questioni ambientali, sta nella riduzione della complessità e della portata di queste ultime al solo tema dell’alterazione climatica, unico problema onnipresente nella comunicazione mediatica degli ultimi decenni. In questo modo sono aggirate e di fatto rimosse questioni annose e rilevantissime come l’avvelenamento di migliaia di corsi d’acqua, l’inquinamento dei mari, la diffusione incontrollata di plastiche (generalmente in forma di microparticelle) nelle acque e nei suoli, l’inquinamento dell’aria dovuto a tutte le tipologie di emissione di gas e polveri sottili provenienti dagli apparati industriali, dagli impianti di riscaldamento e dalla mobilità globale, la congestione delle metropoli, la distruzione delle foreste, la contaminazione dei sottosuoli imbottiti di ogni sorta di rifiuti tossici, la riduzione della fertilità dei terreni, l’assottigliamento dello strato di permafrost, la progressiva e drammatica riduzione della biodiversità.
E non è affatto un caso che di questi spinosissimi temi, la cui dimensione emergenziale è facilmente constatabile e dunque innegabile, non vi sia quasi traccia nella comunicazione pubblica, la quale è stata interamente monopolizzata dalla questione climatica.
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FBK: per la guerra e l’incarcerazione tecnologica della società
di ***
Pubblichiamo il testo di un intervento fatto da un compagno davanti al centro di ricerca FBK (Trento) in occasione del corteo dello scorso 10 maggio, al fianco della resistenza palestinese e contro le collaborazioni con lo Stato di Israele
FBK per l’incarcerazione tecnologica e la guerra
Viviamo un presente che ci obbliga ogni giorno di più a fare scelte che possono cambiare le nostre vite. Più la Società-macchina si struttura e si rende concreta, maggiormente si palesa il bisogno vitale di osservare con attenzione la quotidianità che ci sovrasta. La caratteristica della macchina non è solo la sua efficacia, ma soprattutto la sua programmazione, l’incapacità di cambiare rotta, l’obbedienza automatica. Ecco perché l’apparato tecnico ha bisogno di corpi-macchina. Se gli inferni di Gaza e della Cisgiordania ci stanno lentamente abituando a un mondo disumano, è perché anche le nostre vite possono diventare quelle di esseri simili a macchine obbedienti.
È in questo tipo di mondo che lo Stato, con la sua guerra interna, ci vorrebbe muti e incoscienti di fronte alla catastrofe. È in questo tipo di mondo che laboratori, università, aziende divengono le retrovie dei conflitti globali. E questo è il mondo che si sta apparecchiando esattamente qui, anche all’interno delle Università e delle aziende trentine e del nucleo che fa da capofila: FBK.
La storia della Fondazione Bruno Kessler è una storia di sangue. Sono innumerevoli i progetti di ricerca a uso duale o strettamente militari che la vedono coinvolta.
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I veri vincitori (e vinti) nella guerra India-Pakistan
di Pepe Escobar – The Cradle
L'hardware militare cinese ha rubato la scena, quello francese ha perso le sue scorte, il peso dell'India ha subito dei colpi e i pakistani hanno esultato. Tuttavia, in ultima analisi, la breve e calda guerra tra India e Pakistan è stata una vittoria solo per il progetto Divide-et-Impera del Nord Globale nei confronti del Sud Global
Per tutta l'allarmante serietà di due potenze nucleari dell'Asia meridionale che si avvicinano al filo del rasoio di uno scambio letale, la guerra India-Pakistan del 2025 non poteva non contenere elementi di una stravaganza di Bollywood.
Una danza frenetica che ha rischiato di sfuggire al controllo assai rapidamente. Lasciamo perdere la mediazione delle Nazioni Unite, che si è rivelata poco trasparente e poco rigorosa, o qualsiasi indagine seria sull'attacco sospetto e improvviso a turisti nel Kashmir controllato dall'India.
Subito dopo, il 7 maggio, il governo indiano di Modi ha lanciato "l'Operazione Sindoor" contro il Pakistan, un'offensiva missilistica definita “antiterrorismo”. Il Pakistan ha immediatamente lanciato un contrattacco con il nome in codice di “Operazione Bunyan al-Marsus” contro “l'invasione indiana”.
La cultura è fondamentale qui. Sindoor è un classico della cultura indù e si riferisce al segno vermiglio applicato sulla fronte delle donne sposate. Non c'è da stupirsi che i cinesi l'abbiano immediatamente tradotto come “Operazione vermiglio”.
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L’AI, i lavoratori e i rapporti di potere
di Carola Frediani
Dopo l’ondata di attenzione e infatuazione mediatica che ha accompagnato il lancio di ChatGPT e di molti altri strumenti di intelligenza artificiale generativa, dopo che per molti mesi si è parlato di vantaggi per la produttività, o di sostituzione del lavoro (soprattutto delle mansioni noiose e ripetitive) con l’AI, siamo arrivati a un punto dove si intravedono più che altro le prime sostituzioni di lavoratori. E ciò sebbene la promessa crescita di produttività lasci ancora molto a desiderare (non parliamo della sostituzione di ruoli).
Mentre gli stessi lavoratori del settore tech (un’élite che per anni ha viaggiato in prima classe anche nelle peggiori fluttuazioni del mercato del lavoro) si sono resi conto di trovarsi in una situazione piuttosto scomoda: più licenziabili, da un lato, e più esposti ai dilemmi etici di lavorare per aziende che hanno abbandonato precedenti remore per contratti di tipo militare, dall’altro.
Partiamo proprio dalla guerra
Una parte di dipendenti di Google DeepMind (l’unità di Alphabet che lavora sull’intelligenza artificiale e tra le altre cose ha rilasciato Gemini, la famiglia di modelli linguistici di grandi dimensioni) stanno cercando di sindacalizzarsi per contestare la decisione dell'azienda di vendere le sue tecnologie ai militari, e a gruppi legati al governo israeliano.
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Caro amico ti scrivo... (appunti per un manifesto della resistenza intellettuale)
di Il Chimico Scettico
Caro CS,
Ho letto quello che hai scritto Science Faith and Moralism, con molto interesse. Mi ha colpito il tono, il coraggio e soprattutto il punto di partenza: quel richiamo a Nietzsche e al rischio che anche la “conoscenza per amore della conoscenza” possa essere solo l’ennesima trappola morale. Hai usato un’immagine forte e l’hai portata dritta dentro il nostro presente, dove la scienza – o meglio, l’idea che ne ha il grande pubblico – è diventata quasi una nuova religione.
E qui non si può non darti ragione. Oggi “credere nella scienza” viene spesso usato come un badge identitario, più che come fiducia in un metodo. Un po’ come dire “io sto dalla parte giusta”. Ma la scienza vera non è questo. È dubbio, è fallibilità, è cambiare idea davanti a nuove prove. Lo sappiamo bene – e tu lo dici chiaramente – che chi fa davvero scienza non ha nessuna verità in tasca.
L’unico punto su cui forse andrei più cauto è questo: come facciamo a distinguere tra una critica sana e costruttiva, e quella sfiducia generalizzata che alimenta complottismi e disinformazione? È una linea sottile, e oggi molto facile da fraintendere. Ma proprio per questo credo che servano voci come la tua, che parlano da dentro, con cognizione di causa, e senza paura di mettere il dito nella piaga.
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Uscire dalle catacombe, contro l’apocalisse culturale
di Geminello Preterossi
Questo sasso nello stagno è una rivendicazione del sapere contro lo scientismo e l’ideologia tecnocratica (che si dissimula come neutrale e oggettiva), delle guglie della bellezza contro il suo appiattimento, della polis come luogo dell’anima contro le caricature impolitiche della soggettività, dell’accettazione consapevole e onerosa delle sfide aspre che ci pone la questione antropologica, tornata al centro del nostro tempo, contro il finto sorriso mostruosamente accomodante del Sistema dell’Iniquità, che produce solo distruzione dell’umano e totalizzazione dell’ostilità. A Gaza abbiamo una rappresentazione paradigmatica della banalizzazione del Male, reso quotidiano e normale dal governo di Netanyahu, che ha portato Israele ormai ben oltre la politica di potenza e la durezza repressiva del passato, quando pure aveva perpetrato orrori, come la strage di Sabra e Shatila, ma nascondendosi dietro la complicità con altri attori, velando le proprie responsabilità, per un residuo di pudore o per calcolo, perché assumerle apertamente avrebbe causato contraccolpi e reazioni in termini di consenso interno e credibilità internazionale. Oggi ogni maschera è caduta, e il Male sistematico (un vero e proprio disegno eliminazionista) viene compiuto direttamente, rivendicandolo.
Eppure, si sente dire, siamo entrati nell’epoca delle “magnifiche sorti e progressive” dell’Intelligenza Artificiale. Ammesso che lo sia (certo non “creativamente”), quello che manca è l’Intelligenza Collettiva (a dispetto di tutte le elucubrazioni sul General Intellect e sul capitalismo della conoscenza). È il tempo della “scienza” (non del sapere) come riduzione, efficace nel suo perimetro. Efficace esattamente come, dal punto di vista antropologico, lo era la magia nel suo ambito. Ma l’attuale uso della tecnoscienza è efficace anche antropologicamente? Il suo riduzionismo quali implicazioni ha per l’esperienza umana, quali prezzi fa pagare? Siamo sicuri che quella riduzione assicuri una comprensione profonda della complessità della realtà e della nostra stessa soggettività?
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Il corpo a singhiozzo
Femminismo e Smart City
di Elisabetta Teghil
[…] per costringere le persone a lavorare al servizio di altri, che si trattasse di lavoro pagato o meno, il capitalismo ha sempre dovuto ristrutturare l’intero processo della riproduzione sociale, rimodellando il nostro rapporto con il lavoro oltre al nostro senso d’identità, di spazio e tempo, e della nostra vita sociale e sessuale […] S. Federici, Oltre la periferia della pelle, D. Editore p.135
Ma quale Stato, ma quale Dio,Sul mio corpo decido io! (slogan gridato dal femminismo nelle piazze)
Il corpo è mio, dello Stato o del mercato? (striscione della coordinamenta, 25 novembre 2022)
<È tempo di passare dalla pianificazione urbanistica alla pianificazione della vita urbana.> Manifesto della Città dei 15 minuti di Carlos Moreno
La questione del corpo è sempre stata al centro delle teorizzazioni e delle pratiche femministe perché la nostra storia, la nostra memoria e la nostra esperienza ci hanno fatto comprendere l’importanza che la gestione dei corpi riveste per il potere.
Ogni volta che il capitalismo ha avuto la necessità di ristrutturare il processo produttivo ha messo le mani sui corpi direttamente e indirettamente. Ha chiuso i corpi fuori dai terreni comuni con le enclosures, ha bruciato direttamente i corpi refrattari con la caccia alle streghe, li ha marchiati come schiavi, li ha costretti ad accettare la ridefinizione del tempo e dello spazio, gli orari della fabbrica e della scuola ma anche quelli del tempo di lavoro e del tempo libero, ma anche quelli di quando è opportuno sposarsi e non sposarsi, fare figli o non farli…l’arco della giornata, l’arco dell’anno e l’arco della vita scanditi da tempi, modi, spazi definiti per noi dal capitale a seconda delle sue necessità. Ha diviso i corpi delle sante da quelli delle puttane a seconda degli obiettivi che voleva ottenere dalle donne messe al lavoro sessuale, riproduttivo e di cura. Le puttane le ha chiuse nei bordelli, le sante le ha chiuse in casa con leggi, norme, stigmi adeguati e sempre pronti all’uso.
E’ per questo che quando abbiamo letto nel Manifesto della Città dei 15 minuti di Carlos Moreno
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I referendum dell’8-9 giugno: strumenti di riscossa o boomerang?
di TIR
Da lunghi decenni, ormai, la classe operaia e i salariati in generale stanno arretrando fino a vedere messi in discussione anche i diritti più elementari. Sicché la necessità di invertire la tendenza, e cominciare a riconquistare posizioni anziché perderne ancora altre, è oggettiva. Tanto più perché incombe in modo sempre più minaccioso una corsa alla guerra e all’economia di guerra che comporterà un salto di quantità e di qualità nei sacrifici imposti a quanti/e vivono del proprio lavoro, e nella repressione statale. Ne sono stati due assaggi la decisione di portare subito al 2% del bilancio statale le spese per la guerra e il colpo di mano con cui è stato approvato il decreto-sicurezza (ex-DDL 1660).
In questo contesto che cosa rappresenta la prossima tornata referendaria dell’8-9 giugno: uno strumento utile per cominciare a risalire la china o un’iniziativa che agirà come un boomerang?
I suoi promotori – la CGIL e un ventaglio di forze politiche e sociali gravitanti nell’orbita del centrosinistra – chiamano alle urne il “popolo elettore” su 5 quesiti, che riguardano nell’ordine:
1) l’abolizione del dispositivo del Jobs Act di Renzi col quale è stata spazzata via la possibilità del reintegro in Tribunale per i lavoratori licenziati senza giusta causa nelle aziende con più di 15 dipendenti;
2) l’eliminazione dei limiti massimi del risarcimento economico per licenziamento illegittimo nelle aziende sotto i 16 dipendenti;
3) l’abolizione dei contratti a termine privi di causale;
4) il ripristino della responsabilità del committente nel caso di infortunio di un lavoratore dipendente di ditte in appalto;
5) il dimezzamento da 10 a 5 anni di residenza legale quale requisito per acquisire la cittadinanza italiana.
Sulla carta, visto il contenuto di tali quesiti, per chi come noi è da sempre schierato incondizionatamente al fianco dei lavoratori e delle loro lotte, non dovrebbe esserci alcun dubbio nel prendere posizione a sostegno del “sì” a questi referendum.
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Non perdetevi la prossima guerra tra Germania e Polonia
di comidad
Il filo-americanismo ha sempre avuto molti sportelli a cui rivolgersi. Se non sei soddisfatto degli USA in versione ufficiale, c’è sempre “un’altra America” alla quale andare a bussare per sperare di ricevere aiuto e protezione. Si è arrivati al punto che molti nostrani avversari dell’imperialismo americano rivolgessero le proprie aspettative di liberazione ad un presidente USA come Donald Trump. Dal canto suo l’Europetta sembra oggi contrapporsi a Trump, ma solo in nome della nostalgia della cara vecchia America dei neocon; i quali neocon sono tutt’altro che in ritirata, visto che ancora sono preponderanti nella CIA e sono presenti persino nell’amministrazione Trump.
Pare adesso che il filo-americanismo abbia aperto un nuovo sportello addirittura in Vaticano, con sede nel Palazzo Apostolico e vista panoramica su Piazza San Pietro. Purtroppo non ci si risparmia nessun dolore e nessuna privazione; infatti, da quando i papi non sono più italiani, ci si è guastato il gusto dell’anticlericalismo, dato che non si sa più se la merce sia autentica o contraffatta. In Italia la Chiesa Cattolica non ha mai appoggiato il nazionalismo italiano, semmai il contrario; infatti l’unità italiana è stata fatta contro il papato ed a spese dei suoi territori. E poi c’era la tradizione politologica machiavelliana, che ha sempre individuato nella Chiesa di Roma un avversario dell’indipendenza italiana. Quando invece si ha a che fare con cattolici e prelati di altri paesi, non si può essere mai certi che non stiano usando il cattolicesimo come strumento di grandeur nazionale.
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Digitale: abbondanza o sobrietà?
di Francesco Fullone
Ho appena terminato Inferno digitale. Perché internet, smartphone e social network stanno distruggendo il nostro pianeta (titolo originale The Dark Cloud: How the Digital World Is Costing the Earth) di Guillaume Pitron (Luiss 2022) con quel misto di curiosità intellettuale e preoccupazione che caratterizza la lettura di opere capaci di svelare meccanismi nascosti dei nostri sistemi. Pitron – già noto per La guerra dei metalli rari, Feltrinelli 2019 – compie un’operazione illuminante: rivelare l’insostenibile pesantezza di ciò che consideriamo immateriale. Il paradosso della nostra epoca digitale si manifesta proprio qui: abbiamo abbracciato il digitale come via di fuga dalla materialità solo per scoprire che stiamo costruendo la più grande infrastruttura materiale della storia umana.
La materialità nascosta: il peso invisibile del virtuale
Il concetto di MIPS (Material Input Per Service unit), come illustrato da Pitron, rappresenta un cambio radicale di prospettiva: anziché considerare solo il prodotto finale, abbraccia l’intero ecosistema materiale che lo ha generato. I numeri che emergono sono sbalorditivi: uno smartphone di 200 grammi incorpora un peso ecologico reale di 70 chilogrammi (rapporto 350:1), un microchip di 2 grammi nasconde 32 chilogrammi di materiali (rapporto 16.000:1) e un anello d’oro di 5 grammi porta con sé l’impressionante cifra di 3.000 chilogrammi di impronta materiale (rapporto 600.000:1).
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Draghi rilancia il manifesto per un imperialismo europeo
di Sergio Cararo
Mario Draghi ha messo in fila, uno dietro l’altro, i punti di crisi e i parametri fondamentali per un imperialismo europeo, inseguito da anni ma ancora rallentato dalle proprie contraddizioni interne.
Lo ha fatto intervenendo a Coimbra lo scorso 14 maggio alla conferenza del Cotec (una fondazione privata per la competitività creata da Confindustria, ndr), al suo fianco, emblematicamente per un evento privato, c’era anche il Presidente della Repubblica Mattarella. Di questo evento abbiamo già dato conto nei giorni scorsi sul nostro giornale. Riteniamo però utile tornarci sopra perché l’intervento di Draghi va ben compreso.
L’obiettivo principale dell’evento – stando a quanto riporta il sito dedicato – è stato quello di definire azioni concrete per rafforzare la posizione dell’Europa nello scenario globale, promuovendo una cooperazione più stretta tra Portogallo, Spagna e Italia come modello di integrazione. “Un’attenzione particolare è stata dedicata alla creazione di partnership industriali nei settori strategici di Aerospazio e Difesa, Scienze della Vita e Salute, Microelettronica, High Performance Computing (HPC) e Intelligenza Artificiale“.
“Si dice spesso che “l’Europa avanza solo in caso di crisi”. Ma a dire la verità la nostra crisi è iniziata quasi vent’anni fa”, ha affermato Draghi nel suo intervento a Coimbra.
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