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ilpungolorosso

I referendum dell’8-9 giugno: strumenti di riscossa o boomerang?

di TIR

Referendum 17 aprile trivelleDa lunghi decenni, ormai, la classe operaia e i salariati in generale stanno arretrando fino a vedere messi in discussione anche i diritti più elementari. Sicché la necessità di invertire la tendenza, e cominciare a riconquistare posizioni anziché perderne ancora altre, è oggettiva. Tanto più perché incombe in modo sempre più minaccioso una corsa alla guerra e all’economia di guerra che comporterà un salto di quantità e di qualità nei sacrifici imposti a quanti/e vivono del proprio lavoro, e nella repressione statale. Ne sono stati due assaggi la decisione di portare subito al 2% del bilancio statale le spese per la guerra e il colpo di mano con cui è stato approvato il decreto-sicurezza (ex-DDL 1660).

In questo contesto che cosa rappresenta la prossima tornata referendaria dell’8-9 giugno: uno strumento utile per cominciare a risalire la china o un’iniziativa che agirà come un boomerang?  

I suoi promotori – la CGIL e un ventaglio di forze politiche e sociali gravitanti nell’orbita del centrosinistra – chiamano alle urne il “popolo elettore” su 5 quesiti, che riguardano nell’ordine:

1) l’abolizione del dispositivo del Jobs Act di Renzi col quale è stata spazzata via la possibilità del reintegro in Tribunale per i lavoratori licenziati senza giusta causa nelle aziende con più di 15 dipendenti;

2) l’eliminazione dei limiti massimi del risarcimento economico per licenziamento illegittimo nelle aziende sotto i 16 dipendenti;

3) l’abolizione dei contratti a termine privi di causale;

4) il ripristino della responsabilità del committente nel caso di infortunio di un lavoratore dipendente di ditte in appalto;

5) il dimezzamento da 10 a 5 anni di residenza legale quale requisito per acquisire la cittadinanza italiana.

Sulla carta, visto il contenuto di tali quesiti, per chi come noi è da sempre schierato incondizionatamente al fianco dei lavoratori e delle loro lotte, non dovrebbe esserci alcun dubbio nel prendere posizione a sostegno del “sì” a questi referendum.

In realtà, le critiche da fare tanto sul metodo adottato quanto nel merito delle questioni sono molteplici e pesanti.

 

Sul metodo referendario, e le reali finalità dei promotori 

Quello che da tanti sinistri apologeti della “costituzione più bella del mondo” viene considerato il punto più alto della democrazia diretta, per i lavoratori si è in realtà già più volte rivelato un vero e proprio boomerang. Basterebbe ricordare l’esito disastroso del referendum contro l’abolizione della scala mobile del 9-10 giugno 1985, o la sconfitta nel referendum per la democrazia sindacale del 1995. Per non parlare del flop della consultazione promossa da Bertinotti nel 2003 per estendere l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori anche ai lavoratori delle imprese fino a 15 dipendenti.

Alla luce del fatto che tutti i precedenti referendum su leggi riguardanti le condizioni dei lavoratori sono usciti sconfitti, non si capisce in base a quale calcolo o valutazione politica i promotori dei 5 quesiti di giugno pensano che stavolta l’esito possa essere differente, quando è sotto gli occhi di tutti lo stato di estrema debolezza, frammentazione e, spesso, di apatia della classe lavoratrice.

Per parte nostra, da rivoluzionari internazionalisti, riteniamo da sempre che chiamare alle urne tutte le classi sociali per decidere le sorti della classe lavoratrice con l’ipocrita richiamo alla “democrazia (borghese) sovrana”, è la peggior premessa per la difesa e la riconquista dei diritti negati o sotto attacco.

Ciò vale tanto più oggi, in un contesto in cui CGIL e UIL, i due principali promotori del referendum, si sono dimostrate del tutto incapaci finanche di mettere in campo una battaglia seria e credibile contro le politiche antiproletarie del governo Meloni. Lo sciopero generale dello scorso 29 novembre contro la legge di bilancio e il peggioramento dei livelli salariali, che pure aveva mobilitato diverse centinaia di migliaia di lavoratori, è rimasto una parentesi a cui volutamente non è stato dato alcun seguito. Nel giro di poche settimane Landini è passato dalla “rivolta sociale” alle comparsate a sfondo elettorale e al sostegno a manifestazioni dal chiaro intento bellicista. Così che il governo ha potuto  proseguire indisturbato nell’attuazione della propria politica, ignorando completamente ogni istanza posta dallo sciopero.

Del resto, per CGIL e UIL evocare e mimare il conflitto senza mai praticarlo davvero è diventata ormai la regola – una regola che deriva dalla loro completa integrazione nello stato borghese. La stessa identica linea di condotta fu adottata proprio in occasione dell’approvazione del Jobs Act contro il quale oggi essi chiamano al voto referendario: nel 2014 convocarono una giornata di sciopero generale a cui non diedero però alcun seguito nonostante il governo (allora a guida PD) avesse ignorato le richieste sindacali in modo così sfacciato da approvare in fretta e furia quelle norme con cui venne posta la pietra tombale sul diritto al reintegro nel caso di licenziamento senza giusta causa.

Questo operato dei vertici sindacali confederali è stato negli anni la causa principale della sfiducia e della disaffezione dei lavoratori verso lo strumento dello sciopero, sentito non più come un indispensabile mezzo di lotta e di contrattazione, bensì come un’arma spuntata, utile non ai propri interessi materiali bensì agli interessi di bottega e al tatticismo manovriero delle burocrazie sindacali.

Dunque, alla critica sull’utilizzo in sé del referendum se ne aggiunge un’altra, ben più consistente, relativa alle reali finalità dell’operazione referendaria di giugno. Alla luce di quanto appena illustrato, e del più che probabile mancato raggiungimento del quorum, la chiamata alle urne dell’8-9 giugno appare più come uno spot pubblicitario a uso e consumo dei promotori (tra i quali figura una parte di quello stesso PD che solo 10 anni fa è stato in prima fila nell’affossare l’articolo 18) che un’autentica volontà di ripristinare tali tutele.

 

Sui cinque quesiti

Veniamo ora al merito dei quesiti. 

Come è stato evidenziato in un comunicato della Cub, il primo referendum, anche qualora si raggiungesse il quorum e vincessero i sì, non porterebbe al ripristino di quella “tutela reintegratoria forte” originariamente prevista dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Ci sarebbe soltanto il ritorno alla disciplina dei licenziamenti prevista dalla legge Fornero, quella riforma del governo Monti che nel 2012 fece da apripista al Jobs Act, attraverso una prima, significativa riduzione delle fattispecie di licenziamento per le quali era obbligatoriamente previsto il reintegro – ad esempio, prevedendo il solo risarcimento economico nei casi di licenziamento inefficace per vizio di forma (fatta eccezione per quello in forma orale), per i licenziamenti economici e quelli per “giustificato motivo oggettivo”, lasciando al giudice un ampio margine discrezionale anche in numerosi casi di licenziamenti disciplinari senza giusta causa.

Dunque, il quesito assurto a bandiera della tornata referendaria dell’8-9 giugno, nella migliore delle ipotesi, ripristinerebbe solo in parte l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.

Il secondo quesito, relativo all’indennità economica per i licenziamenti illegittimi nelle imprese fino a 15 dipendenti, lascia sostanzialmente intatta la libertà di licenziamento. Inoltre nel demandare totalmente al giudice la determinazione del quantum monetario del risarcimento, lascia aperta la porta ad arbitri e iniquità di cui sono piene zeppe le cronache dei tribunali del lavoro, dal momento che i giudici sono sempre più spesso schierati apertamente a difesa dei padroni e dei loro profitti. In sostanza questo quesito si pone su un terreno più arretrato rispetto al referendum del 2003, il quale almeno aveva il pregio di prevedere la totale abolizione della libertà di licenziamento nelle piccole imprese – cosa di grande importanza in un contesto quale quello italiano che (a differenza di Francia e Germania) è caratterizzato da una larghissima diffusione di imprese di piccole e piccolissime dimensioni.

Il terzo quesito, pur proponendosi di porre un argine alla proliferazione dei contratti a termine del tutto privi di causale, non mette minimamente in discussione la loro durata “biblica”, che anche in caso di vittoria del sì resterà ferma a 24 mesi con possibilità di 4 rinnovi.

Il quarto quesito interviene su un tema di enorme rilevanza: la responsabilità del committente per gli infortuni e la sicurezza dei lavoratori degli appalti. Come si fa a non essere d’accordo? Come mai, allora, i promotori del referendum, in primis la CGIL, hanno in questi anni sponsorizzato e alimentato all’inverosimile il sistema degli appalti e dei sub-appalti (soprattutto quando sono in gioco gli interessi delle cooperative “amiche”)? Come mai si sono sempre ben guardati dallo sviluppare una vera battaglia per prevenire gli incidenti sul lavoro attraverso un’efficace mobilitazione dei lavoratori, dal potenziare il ruolo degli RLS e degli ispettorati del lavoro, al fine di prevenire gli incidenti e gli infortuni, anziché limitarsi solo a indennizzarli?

Il quinto e ultimo quesito risponde effettivamente a una battaglia non solo di civiltà, ma anche e soprattutto di classe. Come più volte abbiamo sottolineato, consentire l’acquisizione della cittadinanza in tempi brevi costituisce per migliaia e migliaia di lavoratori immigrati un importante, anche se non risolutivo, mezzo di difesa dalle più brutali forme di sfruttamento rese possibili dal ricatto del permesso di soggiorno.

Anche in questo caso, tuttavia, c’è da chiedersi come questo obbiettivo si sposi con il sostegno all’impianto della legge Turco-Napolitano varata e attuata da quei partiti di centrosinistra che sono gli sponsor istituzionali dei due sindacati promotori dei referendum: una legge che, nell’istituire i CPR per gli immigrati, ha aperto la strada alle successive misure razziste dei governi di centrodestra.

 

La via obbligata per risalire la china è la ripresa delle lotte.

In conclusione: per la classe lavoratrice, la via maestra per riconquistare le posizioni e i diritti perduti è da sempre quella della lotta, e non quella del voto o dei referendum. Lo è tanto più nella congiuntura attuale di crisi storica del sistema sociale capitalistico, caratterizzata dalla corsa al riarmo e alla guerra inter-capitalistica. Non è uno slogan astratto: solo per fare un esempio recente, in questi anni in tanti magazzini della logistica, grazie alle lotte portate avanti dal SI Cobas, i lavoratori sono riusciti a strappare ai padroni accordi con i quali veniva disapplicata la disciplina del contratto a tutele crescenti previsto dal Jobs Act anche per tutti coloro che sono stati assunti dopo il 2015. A riprova del fatto che un rapporto di forze favorevole ai lavoratori conquistato con le lotte può consentire di imporre ai padroni anche la deroga delle leggi più ingiuste e precarizzanti.

Ma, appunto, lavorare sistematicamente a creare rapporti di forza più favorevoli ai proletari implica un’azione di tutt’altro tipo rispetto a quella messa in campo dai promotori e sostenitori dei referendum. Significa, innanzitutto, battagliare in ogni posto di lavoro per contrastare l’apatia, la rassegnazione, la tendenza ad accettare la crescita della precarietà, la perdita di diritti, l’aumento del dispotismo padronale, una tendenza che deriva dalla sfiducia nella possibilità di ogni cambiamento. E significa anche contrastare la frammentazione del tessuto di classe e la contrapposizione fra i diversi settori di proletari, una contrapposizione coltivata ad arte dalle classi dominanti e ormai data per scontata da tanti lavoratori. Basta pensare a quei settori (Fincantieri ne è da tempo un esempio di primo livello) in cui il lavoro è strutturato in un’infinita catena di appalti e subappalti, che generano una stratificazione di classe scientificamente organizzata, con lavoratori di serie A, B, C. I livelli più bassi sono quasi sempre occupati dai lavoratori immigrati e non di rado esiste, se non un’ostilità, certo un’indifferenza alle condizioni di supersfruttamento cui sono soggetti. Lavorare per risalire la china, gettando quanto meno le premesse per una maggiore unità del fronte di classe, è un’attività improba, ma assolutamente necessaria e possibile. E non ha nulla a che fare con le iniziative-spot, marcatamente elettoralistiche, di chi si illude, o vuole illudere, sulle proprietà salvifiche dei referendum.

Detto ciò, ci troviamo comunque di fronte al fatto compiuto di questi referendum. Pur con le profonde critiche di metodo e di merito qui esposte, pur senza nutrire alcuna illusione sullo strumento referendario (i cui esiti, oltretutto, sono stati non di rado completamente stravolti e disattesi dallo Stato, come nel caso del referendum sull’acqua pubblica del 2010), come organizzazione politica siamo oggettivamente costretti a prendere posizione rispetto al “che fare” l’8-9 giugno.

Se il votare SI non cambierà gran che le sorti dei proletari, è certo, invece, che un’affermazione combinata del NO e dell’astensione rafforzerebbe ulteriormente il fronte padronale, e darebbe ulteriore slancio ai piani di macelleria sociale del governo Meloni, che già si muove in una logica da economia di guerra. E che insieme alla Confindustria e alle altre organizzazioni padronali, sta operando accortamente per il fallimento dei referendum, cosciente che avrebbe un impatto di ulteriore demoralizzazione sulla massa dei proletari.

Alla luce di ciò, per i lavoratori/lavoratrici combattivi non vi è altra scelta che votare SI ai 5 quesiti. Per noi sarebbe veramente paradossale contribuire a un’ulteriore divisione in seno alla classe, laddove è il caso costruire un ponte con quei lavoratori che guardano ai referendum come a un tentativo di istituire un argine all’arroganza padronale.

Quale che sia l’esito delle urne l’8-9 giugno, però, un’inversione dei rapporti di forza tra l’asse composto da classe capitalistica / governo Meloni da un lato, la classe lavoratrice e i movimenti sociali con potenziale anti-capitalistico dall’altro, potrà aversi solo ed esclusivamente con il ritorno alla lotta e al protagonismo di classe. Tanto sul piano sindacale, quanto sul piano politico – sempre più decisivo – del contrasto alla corsa al riarmo, all’economia di guerra e alla intensificazione della repressione statale.

Dal 10 giugno – per noi, già oggi nelle discussioni sul referendum che abbiamo con molti lavoratori e lavoratrici – è questo l’ordine del giorno.

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