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Ricchi, brutti e cattivi: il capitalismo, il Nobel, il “pensiero unico”
di Carlo Clericetti
L'economista Emiliano Brancaccio scrive un libro sul Nobel che va (quasi) sempre ai liberisti e in Svezia, di tutta risposta, decidono quest’anno di far vincere tre studiosi della povertà: “L'avevamo previsto”, replica. Di economia e potere – ma anche di Italia e di Europa – hanno discusso all'università Roma Tre con l’autore un Mario Monti in versione progressista e un Giorgio La Malfa keynesiano di ferro: un dibattito frizzante tra due liberali e un marxista.
Qualche ora dopo che la Banca di Svezia aveva comunicato i nomi dei vincitori del Nobel per l’economia di quest’anno, il 14 settembre, ad Economia di Roma 3 si è svolto un dibattito di alto livello sul libro di Emiliano Brancaccio e Giacomo Bracci “Il discorso del potere. Il premio Nobel per l’economia tra scienza, ideologia e politica”. Il libro esamina a chi e perché sia stato conferito il riconoscimento: ne emerge che sono stati scelti quasi soltanto studiosi di orientamento neoclassico, quelli comunemente definiti neoliberisti. Persino Jo Stiglitz e Paul Krugman, che oggi avversano quelle dottrine, sono stati premiati per studi precedenti assai più allineati alle teorie dominanti. L’economia, dice Brancaccio, crea “il discorso del potere”, quello che serve per giustificare determinate decisioni, e dunque spesso dal potere è influenzata.
Quest’anno però sono stati premiati studiosi che si occupano di come combattere la povertà, che non sembrerebbero allineati con le posizioni dei potenti. Ma forse la spiegazione è nelle parole di Mario Monti, che ha detto di aver saputo di “un certo nervosismo” a Stoccolma quando si è saputo del libro in preparazione: la scelta può essere stata una risposta indiretta alla critica di Brancaccio e Bracci, un tentativo di dimostrare che non è vero che per vincere il Nobel bisogna essere seguaci del “pensiero unico”.
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Il potere delle piattaforme digitali tra economia e politica
di Guido Stazi
Robert Nozick, il grande filosofo americano teorico dello stato minimo, in “Anarchia Stato e Utopia” (1974) scriveva che “il problema della regolamentazione è che lo Stato proibisce azioni capitalistiche tra adulti consenzienti”.
Cosa avrebbe detto però delle grandi piattaforme digitali che si comportano da veri e propri stati paralleli, che fatturano e capitalizzano ai livelli dei PIL degli stati nazionali, ma senza debiti, che si preparano a battere moneta digitale e che, per un lungo periodo, sono cresciute senza regole, se non quelle che stabilivano loro? E che adesso stanno investendo enormi risorse nella costruzione di loro, private, reti globali per emanciparsi da internet e privatizzare il transito dei big data.
Alla fine dell’Ottocento negli Stati Uniti fu varata la prima legge antitrust, lo Sherman Act, per impedire che imprese troppo grandi monopolizzassero i mercati e, tramite l’accumulo di enormi ricchezze, accrescessero le diseguaglianze e condizionassero la democrazia americana.
Allora le imprese che monopolizzavano l’economia statunitense erano le grandi compagnie petrolifere e ferroviarie; adesso ai tempi della rivoluzione dei big data, sono le piattaforme digitali, dinamiche e innovative, in grado di operare in modo globale e flessibile su molti mercati, unite dalla capacità di massimizzare e utilizzare al meglio i dati. Negli USA vengono definite in un acronimo: FAANG cioè Facebook, Apple, Amazon, Netflix e Google.
I dati di bilancio di queste cinque imprese, messi insieme danno la dimensione di un agglomerato economico e finanziario impressionante: gli straordinari fondamentali economici di FAANG derivano innanzitutto dalle grandi capacità di visione e innovazione dei fondatori, che hanno inventato nuovi modelli di business o trasformato con l’utilizzo della tecnologia business tradizionali, travolgendoli.
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Il suicidio come forma negativa del conflitto sociale
di Carmelo Buscema
[Pubblichiamo un estratto dal cap. 9 del saggio di Carmelo Buscema, Contro il suicidio. Contro il terrore. Saggio sul neoliberalismo letale, recentemente uscito per Mimesis]
Le parole che hanno
un senso e un contenuto
non sono parole assassine.
[Simone Weil, Non ricominciamo la guerra di Troia].
[…] il successo e l’insuccesso non sono che due impostori.
Occorre smettere di scontrarsi con essi,
non hanno alcuna importanza:
nessuno fallisce per davvero
e nessuno ha così tanto successo.
[Jorge Luis Borges, Non c’è nessuno allo specchio].
Ho cercato di essere una brava persona, ho commesso molti errori, ho fatto molti tentativi,
ho cercato di darmi un senso e uno scopo usando le mie risorse, di fare del malessere un’arte.
[…] Sono stufo di fare sforzi senza ottenere risultati, stufo di critiche,
stufo di colloqui di lavoro come grafico inutili, stufo di sprecare sentimenti e desideri […], stufo di invidiare,
stufo di chiedermi cosa si prova a vincere, di dover giustificare la mia esistenza senza averla determinata,
stufo di dover rispondere alle aspettative di tutti senza aver mai visto soddisfatte le mie,
stufo di fare buon viso a pessima sorte, di fingere interesse, di illudermi, di essere preso in giro,
di essere messo da parte e di sentirmi dire che la sensibilità è una grande qualità.
Tutte balle […] Da questa realtà non si può pretendere niente. Non si può pretendere un lavoro,
non si può pretendere di essere amati, non si possono pretendere riconoscimenti,
non si può pretendere di pretendere la sicurezza, non si può pretendere un ambiente stabile. […]
È un incubo di problemi, privo di identità, privo di garanzie,
privo di punti di riferimento, e privo ormai anche di prospettive.
Non ci sono le condizioni per impormi, e io non ho i poteri o i mezzi per crearle. […]
Non posso passare la vita a combattere solo per sopravvivere,
per avere lo spazio che sarebbe dovuto, o quello che spetta di diritto,
cercando di cavare il meglio dal peggio che si sia mai visto per avere il minimo possibile.
Io non me ne faccio niente del minimo, volevo il massimo, ma il massimo non è a mia disposizione.
Di no come risposta non si vive, di no si muore.
[Michele (2017)].
Nel saggio intitolato “Non ricominciamo la guerra di Troia” – scritto negli anni tra i due conflitti mondiali, e con sullo sfondo il tragico clamore della guerra civile spagnola –, Simone Weil si faceva beffe del modo in cui il campo progressista pretendeva spiegare quel copioso tributo di vita che intere generazioni hanno ostinatamente continuato a offrire alla morte attraverso la loro partecipazione in massa alle guerre.
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Bolla finanziaria. È in arrivo la (seconda) tempesta perfetta?
di Giovanna Cracco
L’estate più pazza del mondo, così è stata definita la stagione da poco conclusa. E lo è stata, indubbiamente. Ma non per il Papeete, la caduta del governo giallo-verde, la nascita di quello giallo-rosso ecc. Non per le vicende italiane, insomma. La follia si è manifestata nei mercati finanziari europei e statunitensi: da una parte, alcuni dati non si sono storicamente mai registrati prima, dall’altra ce ne sono di già visti nel 2007, prima dell’esplosione della bolla dei subprime. A mettere insieme le tesserine del puzzle, l’immagine che si viene formando è molto più che preoccupante.
Parliamo di finanza, materia tecnica complicata, cercheremo di semplificarla.
Nel mercato dei titoli di Stato si registrano tassi negativi. La quotazione cambia di giorno in giorno, ma il quadro generale da agosto è che i bond sovrani a dieci anni di Germania, Francia, Svizzera, Olanda, Finlandia, Danimarca, Austria, Svezia e Giappone hanno rendimenti sotto lo zero, e quelli di Spagna e Portogallo sono a un passo dall’averli. Per la prima volta nella storia, il 21 agosto la Germania ha emesso un Bund a 30 anni a tasso negativo (-0,11%), collocando 824 milioni su 2 miliardi, arrivando così ad avere rendimenti negativi su tutte le durate dei titoli, a breve e a lunga scadenza.
Anche le obbligazioni corporate (emesse da società private) a tripla A iniziano ad andare sotto lo zero. L’indice Bloomberg Barclays Euro Corporate Bond registra il 27 agosto rendimenti negativi per il 46% dei titoli, in una crescita vertiginosa dato che erano appena il 3% a dicembre 2018 (vedi grafico 1, pag. 8).
La logica è la medesima in entrambi i comparti: è la domanda crescente da parte degli investitori che porta i rendimenti in territori negativi. Semplificando all’estremo, significa che pago per investire il mio capitale invece di guadagnarci, un controsenso in termini.
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Verità, ontologia umana e capitalismo
di Lorenzo Dorato
Introduzione
Tra gli ostacoli più forti alla formazione di un fronte di opposizione al sistema di relazioni sociali dominante (il capitalismo) ed in particolare alle sue dinamiche più distruttive (che si esprimono in una crescente ed inesorabile manipolazione e degradazione antropologica) vi è l’idea pervasiva che la verità non esista. Può sembrare un’asserzione provocatoria ed esagerata, ma è proprio quello che penso e che proverò in queste pagine ad argomentare passo dopo passo. L’accettazione attiva o passiva del capitalismo e della filosofia sociale e politica che lo sostiene (il liberalismo) è compatibile, naturalmente, anche con la fede nell’esistenza della verità. Basti pensare alle numerose religioni che fanno della verità il loro perno contenutistico e che si pongono nella realtà sociale in una posizione di totale compatibilità con le relazioni economiche e sociali capitalistiche di mercato. Tuttavia, se questo è vero, e non si può negare che lo sia, vi sono due elementi fondamentali che devono corredare questa evidenza.
1 – Il fatto stesso di riconoscere l’esistenza della verità, intesa come conoscibilità certa e condivisa dell’essenza della natura umana e dei bisogni dell’uomo, permette un dialogo alla pari con l’assertore della verità, dialogo la cui base e premessa condivisa è il fatto stesso che una verità sull’Uomo, per quanto difficile e apparentemente imperscrutabile, esiste ed è innegabile che esista. Questo elemento comune consente quindi un dialogo alla pari tra dialoganti veritativi. Anche se si proclamano due verità diverse si è, quindi, consapevoli del fatto che, in virtù dell’esistenza della verità (che per definizione è unica), le divergenze possono essere attribuite soltanto a due ipotesi: la prima ipotesi è che almeno uno dei due interlocutori si sbaglia; la secondo ipotesi è che la forma esteriore assunta dalle verità proclamate ne occulta la comune sostanza. In ogni caso si crederà possibile il raggiungimento di una meta conoscitiva comune attraverso il dialogo e la conoscenza.
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Il dollaro è in crisi?
di Giacomo Gabellini
Con piacere vi presentiamo questo interessante articolo dell’analista Giacomo Gabellini su un tema molto spesso sottovalutato: la crisi del dollaro
In appena un anno, la Banca Centrale russa si è liberata dei circa 90 miliardi di dollari di Treasury Bond (T-Bond) statunitensi di cui era in possesso per incrementare le riserve in yuan da 0 a qualcosa come il 15% del totale. Percentuale sbalorditiva, che supera di molto la media – prossima al 5% – delle riserve in yuan di cui dispongono i 55 Paesi interessati dal mega-progetto della Belt and Road Initiative (Bri), ma che potrebbe essere eguagliata da un numero ben più consistente di Paesi in un futuro non troppo remoto. Lo suggeriscono i dati relativi alla composizione delle riserve valutarie detenute dalle Banche Centrali di tutto il mondo pubblicati dal Fondo Monetario Internazionale (Fmi), da cui emerge che nel quarto trimestre del 2018 lo yuan è arrivato a rappresentare l’1,89% del totale, pari a 202,79 miliardi di dollari. Di per sé, la quota può apparire insignificante, se raffrontata a quella del dollaro (61,69%, pari a 6.617,84 miliardi di dollari), dell’euro (20,69%, pari a 2.219,34 miliardi di dollari), dello yen (5,20%, pari a 558,36 miliardi di dollari) e della sterlina (4,43%,pari a 475,45 miliardi di dollari). Il discorso cambia però radicalmente se si considera che la moneta cinese ha registrato aumenti della propria quota in cinque degli ultimi sei trimestri e che, nel quarto trimestre del 2016, le Banche Centrali di tutto il mondo detenevano yuan per appena 84,51 miliardi di dollari: un incremento di 2,5 volte nell’arco di un biennio. Il tutto a spese del dollaro, che pur mantenendo saldamente il primato, nel quarto trimestre del 2018 ha conosciuto un calo di ben 14,31 miliardi di dollari. E lo stesso fatto di rappresentare il 61,69% delle riserve valutarie globali assume un significato assai meno rassicurante se raffrontato alla situazione del 2000, quando qualcosa come il 72% delle scorte monetarie in possesso delle Banche Centrali era costituito da dollari.
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Mondi della differenza
di Figure
1. Nel mondo anglosassone sono conosciute come identity politics e i gruppi cui sono rivolte sono detti identity groups. In Italia non c’è un vero e proprio corrispettivo: a volte si usa “politiche dell’identità”, altre volte “politiche della differenza”. Esse identificano tutti quei discorsi politici che ragionano attorno alla disuguaglianza degli individui o di alcuni gruppi, nel momento in cui questa disuguaglianza deriva da una loro differenza propria. Le due differenze che storicamente hanno fornito il modello apripista per le altre, e per le rispettive politiche, sono quella di genere e di razza.
La necessità di un fronte politico che faccia perno sulle questioni della differenza è figlia delle lotte di liberazione delle colonie, delle lotte per i diritti dei neri e delle lotte femministe degli anni Sessanta e Settanta. Attraverso questa nuova conflittualità sono andati in frantumi i modelli e le norme che si volevano universalistici nella modernità. Diventa palese come l’Uomo, la Libertà, l’Uguaglianza e tutti i valori cardine della migliore cultura occidentale fossero costruiti anche sull’esclusione. A destra come a sinistra, tutti hanno dovuto fare i conti con le questioni che sono state poste da soggetti storicamente esclusi e discriminati nell’esercizio del potere non solamente per una differenza strettamente socio-economica – come vuole la vulgata comunista – ma per elementi che si posizionano su piani diversi.
Fra i due valori cardine di liberté ed égalité, le politiche della differenza aprono alcune contraddizioni: è davvero possibile coniugare l’uguaglianza dei soggetti alla rivendicazione della libertà di essere differenti? Se è possibile, come lo si realizza nella pratica? La complessa portata dei soggetti in campo e dei loro rapporti con la società pone infatti le politiche della differenza in perenne oscillazione tra due alternative: la volontà di essere ricondotti alla norma combattendo per politiche di non discriminazione e di pari opportunità, e un rifiuto della norma escludente unito alla rivendicazione di uno spazio altro e di un diritto differenziale.
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Ricchezza della forza lavoro
Salario, prezzo e profitto di Karl Marx
di Adelino Zanini
Anticipiamo qui l’introduzione di Adelino Zanini alla nuova edizione di Salario, prezzo e profitto di Karl Marx, in uscita in questi giorni per ombre corte. Ringraziamo l’editore e l’autore per la disponibilità
Ci sono molte ragioni per riproporre alla lettura un testo breve e molto noto quale Salario, prezzo e profitto. E ci sono, anche, molte possibili letture del testo medesimo. Ricordiamo, anzitutto, come si tratti di un lavoro da Marx scritto nel 1865, per una situazione particolare e uno scopo specifico: rispondere, durante le assise del Consiglio generale dell’Associazione internazionale dei lavoratori, alle tesi propugnate dall’owenista John Weston, secondo il quale qualsiasi aumento dei salari monetari ottenuto dagli operai sarebbe stato annullato da un equivalente aumento dei prezzi. La risposta di Marx fu molto ampia e articolata, al punto da valutarne, in una lettera a Engels del 24 giugno 1865, la possibile pubblicazione, poi scartata per non anticipare inadeguatamente l’uscita del Libro I de Il capitale, che avvenne due anni dopo. Questa è la ragione per la quale il breve testo sarà pubblicato postumo nel 1898, dopo che Eleanor Marx ne rinvenne il manoscritto, redatto in lingua inglese. Molte possibili letture, dicevamo. Quella più ovvia non può che muovere da quanto lo stesso autore afferma nella lettera ora citata, ove è detto che il testo conterrebbe “parecchio di nuovo”, tolto dal manoscritto de Il capitale. Sul punto, si è molto insistito, cogliendo la possibilità di intendere Salario, prezzo e profitto non solo come un’anticipazione, ma anche come uno scritto divulgativo in sé compiuto e capace di sintetizzare, con efficacia, le prime tre sezioni de Il capitale.
Di qui due complementari linee interpretative, per nulla contrapposte, l’una più attenta alla tautologia da Marx discussa e insita nella formulazione classica della teoria del valore-lavoro, l’altra intesa a spingersi oltre, sino a cogliere la funzione svolta nel testo marxiano dalla domanda aggregata.
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L’attesa di tempi migliori
di Guglielmo Forges Davanzati
Il documento di Economia e Finanza e l’assenza di misure per la crescita
Sembra di trovarsi in una condizione macroeconomica per molti aspetti simile a quella che Hegel definiva “la notte delle vacche nere”. Sebbene l’insediamento del Governo Conte 2 abbia coinciso con la riduzione dello spread e, dunque, con minori interessi monetari da pagare ai creditori dello Stato italiano, non si rilevano apprezzabili cambiamenti soprattutto per quanto attiene alla prosecuzione delle misure di moderazione salariale e della conseguente deflazione. Sia chiaro che la deflazione (ovvero il rallentamento del tasso di inflazione) comporta riduzioni del tasso di crescita, dal momento che, da un lato, induce i consumatori a posticipare gli acquisti, attendendosi ulteriori riduzioni dei prezzi, e, dall’altro, spinge le imprese a posticipare i loro investimenti, in considerazione del fatto che i costi sostenuti sono minori dei profitti attesi.
La nota di aggiornamento al documento di Economia e Finanza (NADef) recentemente pubblicata si muove nella direzione corretta, soprattutto mediante la pressoché obbligata sterilizzazione dell’aumento dell’IVA. Ma non va oltre, affidandosi a un recupero dell’evasione fiscale verosimilmente sovrastimato, come osservato da molti commentatori. Ciò è probabilmente dovuto all’urgenza con la quale questo esecutivo intende procedere e, ancor più, al tentativo (a quanto pare al momento di successo) di ripristinare rapporti ‘di buon vicinato’ con le Istituzioni europee.
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Mrs. Brexit, I suppose
di Militant
Salviamo il compagno Boris! Massima solidarietà, nonostante le evidenti differenze politiche, al bizzarro Johnson, che si trova impossibilitato a dar seguito al preciso mandato popolare: l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. È difficile rintracciare, volgendo gli occhi al passato, una simile ostinazione, da parte delle élites economiche e culturali, nel negare la soluzione scelta dalla cittadinanza. In effetti un altro esempio esiste, peraltro recente: quello catalano, dove pure una importante riconfigurazione della polity di una comunità, avvenuta attraverso metodi liberal-democratici (referendum, pure lì), viene rifiutata perché… sbagliata! Il popolo ha votato in modo contrario agli interessi dell’alta borghesia… cambiamo il popolo! Questa battuta girava tanto quando il target – Brecht adiuvante – era il Comitato centrale, viene taciuta adesso, quando troverebbe una concretizzazione clamorosa e ripetuta.
In Catalogna Puigdemont e i suoi fedeli sono finiti in prigione, in Inghilterra non siamo (ancora) arrivati a tanto, ma la Brexit ha già fatto cadere due premier (corrispondenti ad altrettanti leader del Partito conservatore) e si appresta farne cadere un terzo. Inoltre ha soffiato tra le ceneri del Partito laburista e ha sfasciato il campo politico di Scozia e Irlanda. Non male per un referendum il cui esito deve ancora essere implementato…
Più ancora del caso catalano (forse perché rimane un abisso, in termini di legalità democratico-rappresentativa, tra Regno Unito e Spagna), a Londra si può toccare con mano la disperazione alto-borghese per la decisione popolare. Abbiamo sentito con le nostre orecchie un docente inglese fare questo limpido ragionamento: “Dobbiamo votare un’altra volta perché, a tre anni dal primo voto, l’esito può cambiare: in questi tre anni saranno morte alcune persone anziane che avevano votato per la Brexit e saranno diventati maggiorenni molti giovani che sono a favore dell’Unione Europea.
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Post-democrazia e Gamification ai tempi del “Dataismo”
Alcune considerazioni a partire dal caso Cambridge Analytica
di Lorenzo De Stefano
Una premessa
Il 17 marzo 2018 il Guardian, il New York Times e Channel Four hanno reso pubblici gli esiti di un’inchiesta durata circa un anno che ha scosso le fondamenta e la percezione comune del sistema politico statunitense e di quelli che sono ad oggi le principali tecnologie di informazione e di comunicazione: gli OSN1, segnatamente Facebook. Il caso riguardava Cambridge Analytica2, la società finita alla ribalta delle cronache mondiali perché rea di aver influenzato, attraverso un’opera di profiling e screening capillare su 50 milioni di utenti, le elezioni americane, il referendum sulla Brexit e non solo.
Sebbene per i ricercatori che studiano le dinamiche social e per le grosse aziende che detengono le chiavi di accesso e la capacità di gestione di quel meta-spazio, luogo-non luogo che è l’infosfera3, i meccanismi emersi non sono affatto qualcosa di nuovo, ma l’esito di un disegno di controllo biopolitico che ha coinvolto la società americana prima, e globale poi, sin dalla metà degli anni Ottanta4, il ‘caso Cambridge Analytica’ ha esplicitato i rischi e la vulnerabilità del nostro sistema democratico nell’epoca dei big data. La Datacrazia5 e la cultura algoritmica a essa sottesa, epifenomeno di quella che Colin Crouch ha definito Postdemocrazia6 inaugura una nuova frontiera per l’analisi filosofica, politica e sociologica. L’avvento delle nuove tecnologie digitali della comunicazione (ICT) ha posto fine al verticalismo ontologico dei mass media di seconda e terza ondata del secolo scorso, la radio e la televisione, per inaugurare una nuova forma di diffusione disintermediata della notizia in cui ciascun utente è un prosumer7, a un tempo fruitore e produttore di informazione sotto forma di dati e metadati. Tale complesso è comunemente identificato dal termine Big data.
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Fuga dal realismo capitalista
di Daniele Garritano
Mark Fisher è stato più volte accusato di nichilismo distopico. Al contrario, il motore della metodologia innovativa, aperta all’analisi di linguaggi estetici come la musica elettronica, il punk e l’hip hop e il cinema è il future shock
La categoria di «impotenza riflessiva» è stata coniata da Mark Fisher nel saggio Realismo capitalista. Uscito nel 2009, nel momento in cui il crack dei mercati finanziari trascinava il mondo occidentale in una spirale di ansia, disoccupazione e impoverimento di senso del futuro e poi diventato nel corso di dieci anni un testo di riferimento per la comprensione degli effetti socio-culturali e psico-cognitivi del capitalismo postfordista, Realismo capitalista pone la questione del rapporto tra immaginazione e principio di realtà nella «logica culturale del tardo capitalismo».
Il riferimento al testo di Fredric Jameson sul postmodernismo, che risale nella prima stesura al 1984, richiama un’insieme di intenzioni assunte coscientemente nell’impianto teorico di Fisher: la coscienza di riprendere una discussione teorica sull’esaurimento del processo di modernizzazione e sulle sue conseguenze nella vita quotidiana delle società occidentali, l’interesse sintomatologico per i consumi culturali mainstream (film, musica, pubblicità) come indicatori di modi di vivere e strutture di pensiero, l’interrogazione sul sistema delle macchine e su quella che Jameson definiva la «produzione di persone […] capaci di adattarsi ad un preciso e peculiare mondo socioeconomico». Rispetto alla lettura jamesoniana del postmodernismo, il teorico inglese accoglie la questione del «fallimento del futuro», il ruolo dell’utopia come categoria necessaria del pensiero politico, e soprattutto la necessità di interpretare la «logica culturale» del capitalismo sul piano dello stile e dei modi di vivere per decifrarne il senso comune.
Il richiamo all’autorità di Postmodernism di Jameson si basa anche su motivi generazionali: al momento dell’uscita del saggio a partire da cui si svilupperà il progetto jamesoniano (1984), Fisher aveva appena sedici anni e il socialismo sovietico – che si definiva «reale» – si apprestava a vivere il suo ultimo lustro di storia.
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Althusser e Poulantzas: egemonia e stato
di Bollettino culturale
Althusser incontra Gramsci
L'incontro di Althusser con il lavoro di Gramsci nei primi anni '60 fu un evento importante nel suo sviluppo teorico. Althusser scoprì Gramsci insieme a Machiavelli ed era inizialmente entusiasta di queste scoperte. Dalla sua corrispondenza con Franca Madonia sappiamo che ha letto Gramsci durante l'estate del 1961 e che è tornato a Gramsci durante la preparazione del suo corso su Machiavelli del 1962. Nel gennaio del 1962, durante la preparazione del corso su Machiavelli, la "scrittura forzata" come la descrive, ricorda di nuovo "quella facilità che avevo trovato in Gramsci". Questo primo corso su Machiavelli è stato intenso per lui, sia a livello filosofico che personale, Althusser insisteva sul fatto che «era su di me che avevo parlato: la volontà del realismo (volontà di essere qualcuno di reale, di avere qualcosa da fare con la vita reale) e una situazione "de-realizzante" [déréralisante] (esattamente il mio attuale delirio) ». Althusser mantenne questo rispetto per la lettura di Gramsci su Machiavelli, facendo riferimenti positivi a Gramsci in Machiavelli e Noi, il suo manoscritto degli anni '70 su Machiavelli, in cui accetta sostanzialmente la posizione di Gramsci secondo cui la sfida teorica e politica che Machiavelli affrontava era quella della formazione di uno stato nazionale in Italia. L'importanza di questo incontro iniziale con Gramsci è evidente in "Contraddizione e surdeterminazione".
«La teoria dell'efficacia specifica delle sovrastrutture e di altre "circostanze" resta in gran parte da elaborare; e prima della teoria della loro efficacia o simultaneamente (poiché è formulando la loro efficacia che la loro essenza può essere raggiunta) ci deve essere elaborazione della teoria dell'essenza particolare degli elementi specifici della sovrastruttura. Come la mappa dell'Africa prima delle grandi esplorazioni, questa teoria rimane un regno abbozzato in contorni, con le sue grandi catene montuose e fiumi, ma spesso sconosciuto nei dettagli al di là di alcune regioni ben note. Chi ha davvero tentato di seguire le esplorazioni di Marx ed Engels? Posso solo pensare a Gramsci ».
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Novità su Marx, novità da Marx
di Antonino Morreale
Nostalgie?
Se mai qualcuno della generazione che ha avuto i suoi primi contatti con Marx negli anni ’60 e ‘70, ritornasse oggi a rileggerlo, avrebbe di che meravigliarsi, scoprendo che tutto è cambiato.
I 35 anni che ci separano dal centenario della morte di Marx nel 1983 al bicentenario della sua nascita nel 2018 (che abbiamo festeggiato in allegria qui al Gramsci con una banda musicale al suono dell’Internazionale), hanno consumato molte illusioni.
Abbattuti muri che andavano abbattuti, altri ne sono stati costruiti che non andavano costruiti. E il mondo non si presenta più oggi come una marcia trionfale nel regno della libertà capitalistica finalmente realizzata; così come l’URSS allora e tutte le guerre di liberazione, dall’Algeria, al Vietnam, dall’Angola a Cuba, e il maggio francese, non erano una marcia trionfale verso il socialismo.
Il mondo è cambiato, noi con lui, e anche Marx è cambiato nel frattempo, ma diversamente da molti di noi è cambiato in meglio, e può aiutarci a decifrare il nostro diverso presente.
Certo, non basta tirar giù dagli scaffali più alti le vecchie edizioni Rinascita o Editori Riuniti, perché, ed è questa la novità, oggi il Marx che può aiutarci è molto diverso dal Marx che ci aiutò e guidò allora.
A questa premessa, diciamo così, generazionale, devo aggiungerne una più personale.
È per me una occasione singolare e fortunata parlare di questo libro di Musto K. Marx. Una biografia intellettuale e politica (1857-1883)”, perché è con un suo precedente lavoro Ripensare Marx del 2011 che mi è capitato di tornare a questo tipo di studi dopo molti anni dedicati ad altro.
Bisognava tornare a leggere Marx, ed è a questo punto che ho incontrato i lavori di Musto.
Anche per questo il libro che discutiamo non è per me uno dei tanti buoni libri che si possono leggere sull’argomento.
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Populismo pedagogico e scuola senza concetto
Cancellare il volto della scuola
di Salvatore Bravo
La scuola facile non libera, ipostatizza il presente, necrotizza la prassi e la trasformazione. La scuola difficile educa alla domanda. La scuola facile non permette al pensiero di configurarsi, ma lo destruttura in chiacchiera. La scuola dell’impegno è la scuola che forma alla costanza, ai tempi del concetto. Non vi è sapere critico se non nella gradualità dell’apprendimento dei contenuti. Il sapere critico deve conoscere la temporalità distesa e densa di contenuti Nell’antiumanesimo programmato il fine è cancellare ogni disponibilità all’umana comprensione
Populismo pedagogico
Il populismo pedagogico è il volto operativo della cattiva politica. Per populismo pedagogico si intende l’esemplificazione fine a se stessa: il semplicismo privo di concetto. In nome dell’esemplificazione si educa alla formazione del suddito, si forgiano le catene dorate dell’ignoranza con la pedagogia del disimpegno, della promozione sociale con contenuti minimi. Ma ciò che maggiormente rende nefasta tale struttura operativa è la formazione di caratteri dalla fragile resistenza alla frustrazione, pronti a rinunciare, a demordere, a svicolare dalle difficoltà. Si rafforza solo l’atomismo narcisistico da cui il mercato attingerà per promuovere i consumi. La comunità è dissolta nell’individualismo. Le azioni pedagogiche personalizzate – in nome della cosiddetta inclusione – sono finalizzate ad assottigliare, fino a divenire programmi e contenuti inconsistenti. In tal modo si ottiene il successo formativo da utilizzare nella campagna acquisti alunni della scuola azienda: la deprivazione culturale è presentata come un’eccellenza della didattica. Tutto dev’essere liscio quanto il desktop di uno smartphone:
«La vera contrapposizione è oggi tra “saperi difficili” e “saperi facili” o, meglio, saperi apparenti, fatti di scorciatoie, semplificazioni, impoverimenti linguistici ed argomentativi, saperi di superficie, saperi di formule. Questa è la vera alternativa per una scuola del futuro, una scuola che insegni a padroneggiare realmente Internet, non solo a saper battere i tasti e a essere schiavi di tutto ciò che passa per questa via».[1]
Il sapere apparente diventa parte fondante dell’industria del falso e del dominio globale. Il populismo pedagogico ha inventato «il docente facilitatore dell’apprendimento». Ovvero, il docente deve essere il regista silenzioso dell’apprendimento, non più educatore, non più punto di riferimento per i contenuti, ma solo un mediatore del lavoro dei discenti, i quali indirettamente stabiliscono contenuti, obiettivi, competenze che naturalmente sono minimi, semplici.
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La “guerra dei dazi” è solo all’inizio
di Claudio Conti
Di seguito l'articolo di Guido Salerno Aletta
L’emersione di una certa classe politica è sempre l’indice di una “necessità storica”, non uno scherzo del destino cinico e baro. Anche e forse soprattutto quando questa classe politica è “impresentabile” secondo i canoni politically correct della fase che si è chiusa.
Vale per i Salvini e le Meloni, vale a maggior ragione per Donald Trump o Boris Johnson. Se Stati Uniti (l’imperialismo in crisi) e Gran Bretagna (l’imperialismo dominante fino a metà Novecento) si sono ridotti a far salire sul trono temporaneo personaggi del genere è perché questi pagliacci – in modo sicuramente miope e contorto – rappresentano un’esigenza neanche tanto confusa di “cambiamento” rispetto al tran tran precedente.
Il modello economico fin qui realizzato, in altri termini, è diventato insostenibile e si va a tentoni in cerca di una drastica “rettifica” in piena corsa. Con il rischio – o la certezza – di far deragliare il treno.
Ancora peggio sta chi fa finta che si possa continuare come prima, chiamando ad improbabili “fronti” che dovrebbero impedire l’avanzata dei nuovi barbari senza però modificare di una virgola la governance delle cose, fin qui andata a loro esclusivo vantaggio.
Se avete pensato a Repubblica-Corriere e Pd siete sulla buona strada, ma troppo chiusi nel teatrino italico. Se invece avere pensato all’Unione Europea e all’establishment continentale, a partire da quello tedesco, avete fatto centro pieno.
Uno dei problemi strategici dei rapporti Usa-Europa è costituito dallo squilibrio struttura dei rapporti commerciali, con le importazioni Usa sistematicamente al di sotto delle esportazioni verso la UE. La “colpa” di questo squilibrio è nella scelta Usa, fin dai tempi della rottura della parità oro-dollaro (1971), di concentrarsi su servizi e finanza affidando al dollaro il ruolo di “ripianatore” di tutti gli squilibri.
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Disperate speranze
di Mario Tronti
Il saggio di Mario Tronti per l’undicesimo numero della rivista bimestrale Infiniti Mondi, dedicato al concetto di utopia alla luce del pensiero di Ernst Bloch
Non è tempo di utopie. Per questo è necessario tornare a parlare di Utopia. Siamo in catene tra le sbarre di un eterno presente, una condizione che ci toglie la libertà sia di guardare indietro sia di mirare avanti: perché, secondo l’opinione corrente e dominante, il passato ha il dovere di morire e l’avvenire non ha il diritto di vivere. Per reazione, a cercare luce dalla caverna, sovversive diventano allora due facoltà grandemente umane, la memoria e l’immaginazione. Esse vanno coltivate insieme e non l’una contro l’altra: è questo quanto voglio tentare di dire. Aggiungendo: il riferimento non deve essere a ieri, ma all’altro ieri; non al domani, ma al dopodomani. L’immediato passato è ciò che ha prodotto questo presente: va messo sotto critica. L’immediato futuro è tutto nelle mani di chi comanda oggi: occorre strapparglielo. Mai dimenticare che quando si pensano concetti politici, bisogna legarli a filo doppio con le lotte. Nel viaggio per raggiungere le coste dell’isola di Utopia, si arriva attraversando un mare in tempesta, non certo cullandosi nella grande bonaccia delle Antille.
Questo è tempo di distopie. C’è il rullo compressore di un processo storico che va avanti per conto suo, senza che nessuno lo guidi, perché non ha bisogno di guida, ha una logica autonoma di sviluppo e di crisi, secondo leggi di movimento vetero-e-neocapitalistiche perfettamente tra loro intercambiabili. Il Leviatano della tecnica non è soggetto, è strumento, dopo il Novecento, come il Leviathan della politica lo fu nel Seicento. Allora servì all’accumulazione originaria della ricchezza delle nazioni, cioè del capitale-mondo, oggi serve alla dissipazione finale delle risorse della terra. E non è in vista il Behemoth delle guerre civili. I conflitti esistono. E non possono non esistere in società profondamente divise, come le nostre. Ma sono conflitti falsi nell’azione dei soggetti, come le false notizie nella comunicazione delle parole.
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Il Clima e la via dei soldi
di F. William Engdahl*
Clima. Ora cosa dovremmo pensare? Le mega-multinazionali e i megamiliardari dietro la globalizzazione dell'economia mondiale negli ultimi decenni, la cui ricerca del valore azionario e della riduzione dei costi ha arrecato così tanti danni al nostro ambiente sia nel mondo industriale che nelle economie sottosviluppate dell'Africa, dell'Asia e dell'America Latina, sono i principali sostenitori della movimento di decarbonizzazione dalla Svezia alla Germania agli Stati Uniti e oltre. È una crisi di coscienza, o potrebbe essere un'agenda più nascosta per la finanziarizzazione dell'aria che respiriamo e oltre?
Qualunque cosa si possa credere circa i pericoli della CO2 e circa i rischi di riscaldamento globale che sta creando una catastrofe globale con un aumento della temperatura media da 1,5 a 2 gradi Celsius nei prossimi 12 anni, vale comunque la pena di verificare chi sta promuovendo l'attuale ondata di propaganda e attivismo climatico. La finanza cosiddetta "green".
La finanza "green"
Diversi anni fa, quando Al Gore e altri hanno deciso di utilizzare una giovane studentessa svedese come bambina-immagine testimonial di un'azione di urgenza a favore del clima, o in Usa, per l'appello di Alexandria Ocasio Cortez volto ad una completa riorganizzazione dell'economia intorno a un New Deal verde, i giganti della finanza hanno iniziato a concepire schemi per guidare centinaia di miliardi di fondi futuri verso investimenti in aziende climate-fiendly prive di valore.
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Il Nobel a Peter Handke
Vivere imparando a vivere
di Luigi Grazioli
Il Nobel a Peter Handke è una sorpresa. Sembra un Nobel di recupero, specie perché assegnato in coppia insieme a Olga Tokarczuk. Un Nobel di doppia riparazione: a una donna, senza voler minimamente sminuire il suo valore, dopo lo scandalo per molestie relativo al marito di una giurata che aveva causato la mancata assegnazione dello scorso anno; e a un autore che avrebbe dovuto vincerlo molto prima, non fosse stato per un altro scandalo, quello delle sue prese di posizione in difesa della Serbia in occasione delle guerre della ex-Jugoslavia. Il ritorno sulla scena di Handke, che in verità non era mai sparito perché ha continuato a pubblicare libri splendidi anche negli ultimi 20 anni; o meglio: il ritorno dell’accettazione pubblica, era stato annunciato dall’assegnazione degli importanti premi “Thomas Mann” e “Kafka” nel 2008 e ribadito dal premio “Ibsen” nel 2014, dopo che nel 1999 egli aveva restituito il premio “Georg Büchner” a causa dei bombardamenti della NATO contro i serbi.
Per uno che aveva iniziato con il libretto teatrale Insulti al pubblico (1966) e opere narrative e poetiche provocatorie e al limite dell’illeggibilità (su questo primo periodo vedi il mio articolo qui) arrivare all’ufficialità planetaria del Nobel, che pure ha trascurato nomi fondamentali a volte per ragioni discutibili e preso abbagli che non depongono a favore della sua infallibilità, potrebbe sembrare un’ironia del destino. Ma per i lettori che lo seguono da 50’anni è solo un atto dovuto.
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Un'alternativa euromediterranea alla gabbia dell'UE
di Eurostop
Il presente documento presenta la proposta di Eurostop, una piattaforma politico-sociale composta da organizzazioni politiche, sindacali e singoli militanti, che ha come obiettivo fondante la rottura di Unione Europea, l’uscita dall’Eurozona e dalla NATO. Con questo documento si vuole presentare ad organizzazioni di altri paesi il progetto strategico della costituzione di un’unione di paesi alternativa a quelle esistenti, fondata su principi radicalmente diversi e che comprenda le due sponde del Mediterraneo
Unione Europea. Una gabbia da rompere necessariamente
Riteniamo necessario mettere in campo una alternativa all’Unione Europea in quanto blocco imperialista in costruzione e strumento di cui la borghesia europea si sta dotando per competere contro gli altri blocchi nell’arena globale.
Il ruolo dell’Unione Europea è quello definito dall’ortodossia ordoliberale. Non è nata come luogo dei popoli o per assicurargli una maggiore democrazia.
La struttura che possiamo definire come gabbia europea, è fondata sui trattati che ne rappresentano l’architrave e l’essenza stessa, a partire da quelli di Roma del ’57, passando per Maastricht e Lisbona, fino ad arrivare al famigerato “Fiscal Compact”.
I trattati sono una struttura che ha prodotto un sistema di governo post-democratico negli stati membri con il relativo svuotamento della sovranità democratica e popolare, la distruzione dello stato sociale, la privatizzazione dei servizi pubblici, la precarizzazione e flessibilizzazione del lavoro, distruggendo da un lato quel diritto al lavoro che crea una “vita degna per sé e per la propria famiglia” e dall’altro scaricando sulle fasce popolari i costi di una crisi sistemica, attraverso sia l’abbassamento delle condizioni di vita che l’aumento del lavoro non pagato. Una situazione che ha visto i paesi PIGS (Portogallo, Italia, Grecia, Spagna) particolarmente penalizzati.
I paesi PIGS sono stati massacrati attraverso la logica del credito-debito che rafforza la sudditanza dei paesi periferici nei confronti dei paesi del centro. La vicenda greca in tal senso è paradigmatica.
Allo stesso tempo la struttura della UE permette ai suoi paesi, congiuntamente ma anche separatamente, di portare avanti le proprie politiche neo-coloniali nei confronti dei paesi dall’altra sponda del mediterraneo.
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Il popolo curdo: un continuo saltare dalla padella alla brace
di Michele Castaldo
Ci sono strani “misteri” nella storia dei popoli. Uno di questi, dopo quello palestinese, è certamente quello del popolo curdo. Una popolazione di circa 50 milioni distribuiti in 4 stati: Turchia, Iran, Iraq e Siria. Un popolo che rincorre la creazione di un proprio Stato, a lungo promesso dalle potenze occidentali dalla fine della prima guerra mondiale, e che a tutt’oggi ne è ancora privo. Quali le cause passate e innanzitutto quelle di questi anni?
Verrebbe da dire: maledetta l’invenzione del motore a scoppio e con esso del petrolio che sta nel sottosuolo del Medio Oriente; perché è in questo rapporto che si nascondono tutte le tragedie di decine di milioni di persone che vivono su quel vasto territorio. Perché il popolo del Kurdistan, oltre ai palestinesi, rappresenta l’anello debole dell’area, l’anello sul quale si sono accanite le mire rapinatrici degli occidentali, per un verso, e le fameliche borghesie dei paesi concorrenti dell’area che hanno puntato a subordinare i curdi negando loro non solo la costituzione di uno proprio, per l’altro verso.
La storia antica e moderna di questo popolo è un susseguirsi di guerre e di conquiste. Per comodità espositiva va segnata la data del 1920 come svolta dell’epoca moderna e della formazione degli stati nazionali, quando in occasione del Trattato di Sèvres, firmato tra le potenze alleate della grande guerra e l’Impero ottomano, ai curdi venne promessa la concessione di uno stato autonomo. Ma si trattava di una promessa da marinai, perché Regno Unito, Francia e Usa non mantennero la promessa e diedero il via libera alla creazione di altri Stati nella zona. Da quel momento la Turchia – dove viveva circa il 50% dei curdi - incominciò una dura repressione nei confronti dei curdi proprio per evitare che si costituissero in Stato autonomo.
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Note a margine del dibattito tra Blanchard e Brancaccio
Con lo sguardo rivolto al contesto italiano
di Roberto Torrini*
Crisi e rivoluzioni della teoria e della politica economica: un simposio
Abstract: Vengono analizzati gli elementi di contatto e di distinzione tra i punti di vista di Blanchard e Brancaccio, cercando di trarre considerazioni più generali sulle differenze tra approcci mainstream e alcuni approcci eterodossi. Si sostiene che negli approcci mainstream viene mantenuta una distinzione concettuale tra domanda e offerta in cui, con maggior nettezza rispetto agli approcci eterodossi, si individuano problemi economici che non possono essere affrontati con la gestione della domanda aggregata, anche qualora se ne ritenga utile o necessaria una gestione attiva. Condividendo questo approccio, si discute brevemente della situazione economica italiana, in cui le debolezze di offerta di lungo periodo si intrecciano con i problemi di domanda, e in cui il livello del debito pone seri vincoli alla possibilità di far ricorso alla spesa per sostenere la domanda interna. Si sottolinea infine l’utilità del dibattito accademico, anche tra scuole di pensiero diverse, che si è aperto dopo la crisi.
* * * *
La crisi finanziaria del 2008-2009 è stata un evento drammatico, con ripercussioni profonde e dolorose per milioni di persone, nonostante alcuni insegnamenti tratti dalla crisi del 1929 abbiano permesso di evitare il peggio in gran parte delle economie avanzate coinvolte. In Europa la crisi ha avuto sviluppi del tutto peculiari con il divampare della crisi dei debiti sovrani, che ha messo in luce l’inadeguatezza dei suoi assetti istituzionali, soprattutto per quanto riguarda il funzionamento dell’unione monetaria. La risposta lenta dell’Unione Europea, segnata dalla contrapposizione degli interessi nazionali di breve periodo, ha prolungato ed esacerbato gli effetti della crisi finanziaria, soprattutto per le economie più deboli, incrinando le relazioni tra paesi e popoli europei.
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Sad by design. Il nichilismo digitale e il lato oscuro delle piattaforme
di Marco Dotti intervista Geert Lovink
Distrazioni, meme culture, fake news, narcisismo e violenza. La “cultura della rete” sembra aver imboccato una strada senza uscita. E se prima di sognare alternative o altri mondi possibili provassimo a capire il qui e ora in cui ci troviamo? Se ci armassimo di un’analisi lucida, prima che di giudizio?
La cultura di internet mostra chiari segni di crisi. Come ha scritto Julia Kristeva, «non c’è nulla di più triste di un dio morto». Il senso di novità è svanito e ha lasciato il vuoto dietro e davanti a sé. A differenza della nostalgia degli anni Novanta, spiega Geert Lovink, teorico dei media e della rete, fondatore dell’Institute of Network Cultures, «qui gli anni felici della gioventù non ci sono mai stati: siamo passati direttamente dall’infanzia al matrimonio, con tutte le limitazioni che ciò comporta». Chi ha più il coraggio di parlare di “nuovi” media? Quest’espressione, un tempo tanto promettente, ormai viene usata solo da qualche ingenuo neofita». Eppure c’è ancora tutto da capire.
Geert Lovink parte proprio da questo nodo irrisolto nel suo ultimo libro, Nichilismo digitale (Egea, 2019), per rilanciare la sfida di nuove alternative. Lo abbiamo incontrato.
* * * *
Il titolo inglese del suo ultimo libro è Sad by design e ci rimanda a una dimensione “ingegneristica” della tristezza.
Non vendo tristezza. Se sei felice, tanto meglio. Come sapete, i telefoni sono una parte intima della nostra vita. Ci accompagnano 24 ore su 24, 7 giorni su 7. L’uso a lungo termine dei social media, specialmente da parte dei “nativi digitali” che si identificano con la tecnologia, richiede un investimento emotivo che può essere estenuante. Diventa difficile, se non impossibile, dimenticare il telefono.
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Sanità, la privatizzazione strisciante
di Carmine Tomeo
Far decadere le strutture pubbliche è un modo per lasciare alle spietate logiche del mercato il diritto alla salute. E non è detto che la riforma del ticket proposta dal governo rappresenti un'inversione di tendenza
L’uomo più ricco del mondo, Jeff Bezos, ha deciso di tagliare l’assicurazione sanitaria a 1900 dipendenti di una controllata da Amazon, la Whole Foods. Quei lavoratori dovranno rinunciare alle cure in caso di necessità in un paese, come gli Stati uniti, dove anche una semplice visita medica può costare diverse centinaia di dollari. Pensate un po’ lo stato d’animo di quelle persone, alle quali viene imposta una pesantissima limitazione al diritto alla salute da parte di una società che fa capo ad un uomo che in un’ora (in un’ora!) guadagna grosso modo l’equivalente di due mesi di salario di tutti quei dipendenti messi insieme. Farebbe rabbia già questo dato da solo.
Intanto, già da quasi un anno Amazon, insieme a Berkshire Hathaway di Warren Buffet e alla banca d’affari JP Morgan, è protagonista di un’operazione per entrare nel business delle coperture sanitarie e proporsi come concorrente nel mercato della salute Usa. Considerate che da soli i tre colossi del business contano più di un milione di dipendenti. Una platea già enorme a cui proporre prestazioni e servizi sanitari. Un’operazione che nasce – dicono – dall’apprensione per i costi della sanità statunitense.
Considerazione che suona immediatamente ipocrita, anche se ammantata di una veste di utilità sociale, come se i colossi americani, con una mano sul cuore (sic!), avessero deciso di dare il loro contributo al benessere dei cittadini, dando vita a una società indipendente che avrà la missione dichiarata di ridurre gli oneri assistenziali a carico dei dipendenti e migliorare i servizi. Ovviamente, anche per dare una veste umanitaria all’operazione, la società che i colossi Usa stanno creando sarà una no-profit. Ma è proprio il sistema privatistico statunitense a produrre contemporaneamente una spesa sanitaria statale tra le più alte al mondo e un’aspettativa di vita così bassa da piazzare il modello sanitario statunitense tra quelli peggiori al mondo.
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Legge di bilancio povera e inefficace
di Enrico Grazzini
“Mancano i soldi” come dice il Governo? Falso! I soldi sono solo bit
La manovra del governo Conte 2 – al di là delle buone intenzioni di Roberto Gualtieri, il ministro europeista dell'economia – non è credibile, è povera e illusoria, e soprattutto non è espansiva: l'economia italiana non crescerà. La retorica governativa punta a parole sull'espansione dell'economia, sugli investimenti sostenibili, sul calo delle tasse e sulla riduzione del costo del lavoro: ma è destino che sindacati e Confindustria protesteranno per le mancate promesse di un piano programmatico fondato su aspettative iper-ottimistiche, insufficiente e fragile, che non può alimentare l'economia reale.
Il problema è che il debito pubblico è elevato e il “conto del Papeete” è salato: mancano le risorse monetarie – si giustifica il governo – per finanziare tutti gli investimenti pubblici realmente necessari per lanciare il New Deal verde annunciato dal premier Giuseppe Conte. L'importante – dice ancora il governo Conte 2 – è avere bloccato la Flat Tax proposta dal leader della Lega Matteo Salvini, e lo scontro con l'Unione Europea e con i mercati. Invece questo non basta. Il popolo italiano è logorato da anni di stagnazione, di austerità e di crisi e non può accontentarsi del “meno peggio”. Se il nuovo governo non riuscirà a colpire il bersaglio della crescita e dell'occupazione, la destra estrema di Salvini e soci potrà vincere facilmente le prossime elezioni.
È l'economia, stupido!!! Per questi motivi il governo Conte dovrebbe lanciare progetti non convenzionali ma più efficaci per svoltare effettivamente, e non solo retoricamente. Il governo potrebbe e dovrebbe creare legittimamente nuove risorse monetarie per finanziare lo sviluppo verde, pur rispettando le regole di Maastricht.
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