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maggiofil

Le cronache del nostro scontento

2016: Miseria e suicidio (politico) di un Matteo

di Giorgio Gattei

(Scrivo questo resoconto dopo l’estate del 2019, quando anche un altro Matteo si è politicamente suicidato. Evidentemente il nome non porta bene)

temporale1. In quella specie di rapporto di “fine mandato governativo” che è Avanti! Perché l’Italia non si ferma (Feltrinelli, Milano, 2017) Matteo Renzi ha così sbrigativamente vantato il successo della sua “riforma” del mercato del lavoro: «basta una norma di semplificazione, il Jobs Act, per ottenere 800.000 posti di lavoro in più… Basta poco. Basta dare fiducia. Basta scommettere insieme alle imprese e non contro. Questo aiuta davvero i lavoratori. Perché a creare i posti di lavoro non sono i convegni: sono le imprese». E chi lo può negare? Ma la qualità dei posti di lavoro non conta?

Il Jobs Act (d’ora in poi chiamato “Giobatta”, come dalla Cronaca precedente) è stata la riforma “che più strutturale non si può”, sollecitata dalle istituzioni economiche internazionali ed europee, che aveva di mira non soltanto l’introduzione di più flessibilità nelle assunzioni (perseguita fin dai tempi del governo Prodi ed ormai acquisita: cfr. G. Casadio, Da Prodi a Renzi: ecco come stanno veramente le cose su lavoro e flessibilità, “Il diario del lavoro”, 5.11. 2014), ma pure una equivalente flessibilità in uscita, ossia sui licenziamenti, superando l’ostacolo di quell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori che imponeva il reintegro al posto di lavoro del dipendente licenziato “senza giusta causa”. E siccome quell’obbligo valeva soltanto per le aziende con più di 15 dipendenti, ad esso s’imputava la bassa dimensione delle imprese nazionali le quali, per sottrarsene, si mantenevano al di sotto di quella dimensione di manodopera.

Ora doveva spettare proprio al premier Renzi, che era anche segretario di quel Partito Democratico nato dalla confluenza politica dei fu-comunisti con gli ex-cattolici di sinistra, cancellare quell’articolo con il Giobatta votato dalle Camere sul finire del 2014 e poi reso operativo con i decreti legislativi approvati nel 2015.

Con esso era introdotta la doppia misura di una decontribuzione fiscale di 8000 euro, valida per tre anni, per ogni nuovo assunto a tempo indeterminato, mentre nel caso di licenziamento immotivato era previsto soltanto un indennizzo pecuniario “a tutela crescente” perché in aumento con l’anzianità di servizio. La motivazione di fondo era che, giusta la teoria economica dominante, a lasciar liberi i “datori di lavoro” nell’assumere e licenziare, i “prenditori di lavoro”, pungolati dalla precarietà dell’impiego, si sarebbero dati da fare in più e di più. Formalmente, se la quantità del lavoro erogato L è pari al prodotto del numero dei dipendenti N per la lunghezza dell’orario lavorativo h:

L = N . h

siccome quella quantità di lavoro è in funzione inversa del salario W (da considerarsi comprensivo sia di quello monetario presente e differito, ossia la pensione, che delle condizioni di sicurezza dell’impiego:

L = f (-W)

Allora, per una quantità di merci Q producibile con una data quantità di lavoro L:

Q = f ( L)

a “flessibilizzare” le condizioni d’impiego della manodopera si sarebbero aumentate le merci prodotte (da vendere poi più sul mercato estero che su quello interno compresso dalla moderazione salariale, essendo il modello di crescita economica previsto per l’Italia quello export-led, ossia “guidato” dalle esportazioni).

E sul momento il Giobatta ha avuto successo: potendo assumere a tempo indeterminato con lo sconto fiscale, alla fine del 2015 ci sono stati 776.922 nuovi contratti di quel tipo che, sommati ai 189.341 a tempo determinato, hanno dato un totale di 966.263 assunzioni, addirittura superiori alle 800.000 vantate da Renzi nel suo Avanti! Ma siccome una valutazione significativa poteva essere fatta solo al termine del periodo di vantaggio fiscale (peraltro ridotto al 40% già nel 2016 per l’eccessivo onere per lo Stato: 15,9 miliardi di euro per il triennio 2015-2018), ecco che, a conti fatti, il giudizio sul Giobatta si mostra deludente perché la convenienza economica ad assumere in pianta stabile è stata contraddetta dal costo crescente del licenziamento col passare degli anni. E qui valgano le cifre: quegli imprenditori, che nel 2015 avevano assunto a tempo indeterminato, poi hanno licenziato pagando l’indennizzo ma riassumendoe a tempo determinato, così che i contratti stabili nel 2016 sono scesi di 12.359 unità a fronte dei + 643.305 degli altri e peggio è successo nel 2017 con il tempo indeterminato a -62.029 ed il tempo determinato a +722.780 (F. Barbieri, Il bilancio di tre anni di Jobs Act: più contratti a termine e meno licenziamenti, “Il sole-24 ore”, 13.3.2018). E quale è stato il commento di un giuslavorista come Michele Tiraboschi? «Una cosa si può dire sin da ora: il fatto che le imprese abbiano smesso di usare il tempo indeterminato dimostra che l’art. 18 non era il vero ostacolo alle assunzioni. Piuttosto lo è l’economia, fatta di cicli molto brevi che inducono a cautela. Il Jobs Act è una riforma sbagliata, pensata sul modello d’industria del ‘900. Oggi quello che conta non sono i contratti, ma la professionalità» (Stretta sui contratti a termine, il governo prova a tornare indietro, “La Repubblica”, d’ora in poi come al solito: R., 19.7.2017).

Ma professionalità significa produttività, che è poi il “male oscuro” che da tempo ha colpito l’economia nazionale. Infatti, risolto il quantum delle assunzioni a colpi d’incentivo fiscale e di flessibilità contrattuale, resta scoperta la qualità di quel lavoro e proprio su questa mancanza altrettanto strutturale avevano preso a lamentarsi i quotidiani: Produttività del lavoro: non basta la flessibilità (R., 6.6.2015), Addio al bonus assunzioni, ora si punta sulla produttività (R., 1.9.2016).

 

2. Ma che ci vuole per rilanciare la produttività? Come nella circolazione monetaria è la moneta cattiva che scaccia la buona, anche nell’attività produttiva è il lavoro cattivo che scaccia quello buono, intendendosi per “lavoro buono” quello più efficiente, ossia capace di dare una maggior produzione Q per una unità di lavoro L, essendo del tutto evidente che si lavorerà peggio, anche se si lavora di più e in più, quando prevalgono i contratti precari su quelli stabili. Eppure non sarebbe bastata nemmeno la stabilità del posto di lavoro, dovendoci essere anche dell’altro. E che altro? Ritorniamo alla “funzione di produzione” che è incompleta, dato che non si è mai prodotto con solo lavoro, bensì utilizzando pure i beni-capitali K. Ma per:

Q = f (K, L)

dividendo per l’ammontare del lavoro impiegato si ricava:

Q / L = g (K / L)

π = g (v)

dove è la produttività del lavoro e v la composizione della tecnica, ossia la disponibilità di beni-capitali per unità di lavoro. E siccome la relazione tra le due variabili è diretta, si vede come ci vogliano investimenti in maggiori beni-capitali, nonché nell’addestramento della manodopera necessaria al loro utilizzo, per far crescere la produttività. Ora come si sono mosse quelle due variabili sotto il regime del Giobatta?

Ce lo mostra una ricerca dell’Istat per il periodo 1995-2017, da cui traiamo il sotto-periodo 2009-2015 e gli anni 2016 e 2017 (cfr. Istat, Anni 1995-2017. Misure di produttività, Statistiche Report, 6 novembre 2018). A far da cerniera tra le due variabili si pone statisticamente un terzo elemento, detto “produttività totale dei fattori”, che misura il prodotto a fronte dell’impiego sia di capitale che di lavoro:

m = Q / (K + L)

Lasciando agli econometrici la determinazione della definizione e della misura, raccogliamo il risultato per cui in termini di variazioni percentuali (che indicheremo con Δ) quella della produttività del lavoro si scompone nella somma di quelle della “produttività totale dei fattori” e della “composizione della tecnica” (che va intesa come la «variazione del capitale per ora lavorata, ovvero intensità di capitale o capital deepening»), sicché:

Δπ = Δm + Δv

Empiricamente ne risulta la tabella seguente:

Anni Δπ Δm Δv

2009-2015 + 0.8 + 0.7 + 0,1

2016 – 0,1 + 0,5 – 0,5

2017 + 0,8 + 1,0 – 0,2

e la spiegazione si legge in Previsioni Istat (22 maggio 2018): se il Giobatta ha ridotto il tasso di disoccupazione dall’11,9% del 2015 all’11,2% del 2017 ed aumentato gli investimenti fissi (dal 2,1% del 2015 al 3,8% del 2017), questi investimenti non sono però finiti in incrementi della “composizione della tecnica” che è diminuita sia nel 2016 (azzerando il contributo positivo della “produttività totale dei fattori”) che nel 2017 quando «la variazione della produttività del lavoro è tornata positiva guidata prevalentemente dalla produttività totale dei fattori», ma con «una riduzione del capitale per ora lavorata associata a un significativo ritardo nella sostituzione di capitale tangibile a favore di capitale innovativo, in particolare ricerca e sviluppo, che costituisce uno degli elementi fondamentali del nuovo modello di sviluppo delle economie avanzate». Ne ha risentito pure il mercato del lavoro che ha mostrato «una ridotta capacità di assorbimento di capitale umano a elevato titolo di studio da parte del sistema produttivo».

È come se che qui avesse operato all’incontrario quell’“effetto Ricardo” (da David Ricardo, l’economista d’inizio Ottocento che per primo l’ha riconosciuto) che Paolo Sylos Labini ha inserito nella sua “equazione di produttività del lavoro” ossessivamente riproposta nei suoi scritti (ma con scarso successo) fino a Torniamo ai classici. Produttività del lavoro, progresso tecnico e sviluppo economico (Laterza, Roma-Bari, 2004). In quella equazione gli investimenti in una migliore tecnologia sono incentivati da una variazione del salario Δw superiore a quella del costo della “macchina” Δpm (“macchina” da intendersi come qualsiasi potenziamento della attrezzatura produttiva), per cui:

Δπ = f (Δw / Δpm)

Ne segue che i salari più alti, che sono un maggior costo d’impresa, sono anche uno stimolo a quel capital deepening che nel processo produttivo rende il lavoro più efficiente e perciò migliore. Ricardo l’aveva spiegato così: «spesso le macchine non possono essere impiegate fino a quando il lavoro non diviene più caro» e Sylos Labini aveva precisato che «i salari aumentano ad un tasso particolarmente sostenuto quando è limitata la facoltà di licenziare». Invece proprio il contrario era successo col Giobatta, sicché non può sorprendere che, sostituendo la precarietà alla stabilità dell’impiego, sia risultato più conveniente agli imprenditori aumentare l’utilizzo quantitativo di manodopera “a più basso costo” piuttosto che guadagnare produttività del lavoro incrementando l’investimento qualitativo in un rapporto più alto di “composizione della tecnica”.

 

3. Ma nella “equazione di produttività del lavoro” Sylos Labini aveva introdotto anche un “effetto Smith” (da Adam Smith, il “padre” della economia politica come scienza) che tratta del reddito spendibile Y, essendo evidente che ci vuole anche un incremento del potere d’acquisto delle famiglie per indurre le imprese ad investire in quelle “macchine” che migliorano la produttività:

Δπ = f (ΔY + Δw / Δpm)

La cosa è nota agli economisti ma non tanto al grande pubblico, così che Marco Ruffolo ha dovuto segnalare che «il quesito che si pone un imprenditore non è “quanto posso risparmiare se investo”, ma “chi comprerà i beni che produrrò se investo”» (Senza domanda la produttività resta al palo, R., 3.11.2016). E’ come se si dovesse rovesciare il rapporto di causa-effetto tra produttività e reddito, essendo l’aumento del reddito la premessa di una maggiore produttività. Ma siccome le imprese ben difficilmente vedono la convenienza a pagare di più i propri dipendenti, a chi rivolgersi per una maggiore domanda delle famiglie se non ad uno Stato generoso di riduzioni fiscali e di elargizioni di sussidi?

Del secondo strumento, come ricordato nella Cronaca precedente, Renzi si era già avvalso nel 2015 con i bonus in busta paga che avevano trascinare il PIL dal disastroso -1,9% del governo Letta e dallo striminzito +0,1% del 2014 ad un tondo +1%, dove un +1,5% di domanda interna, comprensiva della variazione delle scorte, che aveva compensato un –0,5% di domanda estera (Previsioni Istat, 22.5.2018). E anche per il 2016, mancando comunque l’“effetto Ricardo” di cui sopra, egli intendeva ripetere la manovra espansiva sui consumi, da cui riduzione delle tasse (abolizione della TASI sulla prima casa, dell’IMU sui terreni agricoli e sulle macchine “imbullonate” e riduzione sia l’IRES per le imprese che del canone Rai, comunque inserito, a scanso d’evasione, nella bolletta della luce) e ripetizione del bonus “80 euro” esteso alle forze armate e ai docenti, e poi “bonus cultura” di 500 euro ai diciottenni da spendere per «cinema, concerti, eventi culturali, libri, musei, monumenti e parchi, teatro e danza», “bonus bebè” di 960 euro all’anno per tre anni (poi ridotti ad uno solo) per i nati o adottati tra gennaio 2015 e dicembre 2017 e anche “bonus baby-sitter” (600 euro al mese per sei mesi) alle neo-mamme lavoratrici dipendenti che, dopo il congedo di maternità obbligatorio, rinunciavano a quello parentale successivo e tornavano a lavorare.

C’era però da “sterilizzare” quella clausola di salvaguardia (non si sa bene da chi introdotta, ma ne parleremo nella prossima Cronaca) per cui, a sforare la percentuale di disavanzo pubblico concordato con Bruxelles, doveva scattare automaticamente, cioè senza bisogno di discussione parlamentare, l’equivalenza di un aumento dell’IVA. Era la prova della fermezza del governo nell’ubbidire ai diktat europei e nel 2013 Enrico Letta aveva in effetti aumentato l’IVA (e si era giocato il governo). Nel 2015 veniva inopinatamente resuscitata (Clausole di salvaguardia, la “finanza creativa” del governo Renzi, “Linkiesta”, 2.11.2015) e se per il 2016 sarebbe stata, come si dice, “sterilizzata”, ossia compensata da altre entrate statali, «dal 2017 l’aliquota tornerà ad aumentare: l’Iva al 10% crescerà di tre punti percentuali, mentre quella al 22 passerà al 24%. Dal primo gennaio 2018 scatterà inoltre un ulteriore passaggio dal 24 al 25%» con un aggravio stimato a «15,1 miliardi di Iva in più nel 2017 e 19,5 miliardi sia nel 2018 e nel 2019» (Tagli alle spese per 7 miliardi, ma la spending review è flop, R., 25.10.2015). Nella fenesia di garantirsi il plauso di Bruxelles, Renzi pregiudicava così pesantemente il futuro dei bilanci pubblici degli anni a venire: Rispunta la “salvaguardia” per garantire la manovra. Il governo: “Non la useremo” (R., 27.10.2016). E come si faceva a non “usarla”? Tagliando le spese pubbliche e/o aumentando le tasse, giusto il convincimento mainstream che a far calare il disavanzo dello Stato aumenterebbero i consumi e gli investimenti dei privati. Era però una manovra ad alto rischio se il PIL non fosse cresciuto e per questo Renzi, che non se ne fidava, pensò bene di cercare uno “sterilizzo” altrove, ossia a Bruxelles, contrattando una “flessibilità di bilancio” che consentisse un maggior disavanzo pubblico (e ciò proprio quando, per quanto previsto nel Fiscal Compact, quel disavanzo avrebbe dovuto andare a zero nel 2015).

Per questo Renzi si è impegnato in un braccio di ferro con le autorità europee per strappare una clausola di flessibilità che compensasse la “clausola di salvaguardia”. E ci è riuscito sia nel 2015 (per il 2016) che nel 2016 (per il 2017), vantandosene nel suo Avanti!: «quando Mario Monti o Enrico Letta dicono “Renzi ha avuto più flessibilità di noi”, dicono il giusto. Perché noi la flessibilità ce la siamo presa, conquistata con sudore, fatica e voti… Monti approva il Fiscal Compact, il Patto di bilancio europeo, nel 2012. Solo che, sorpresa!, quelle regole draconiane non valgono per lui, ma solo per i suoi successori, perché le norme entreranno in vigore dal 2015, non subito. Nei fatti, sono un regalino affettuoso ai posteri… e se quella flessibilità per cui ci siamo battuti non ci fosse stata concessa, avremmo dovuto scendere verso l’1% prima e il pareggio di bilancio poi. Con quali effetti depressivi sull’economia reale e la tasche degli italiani, vi lascio immaginare». Insomma, se «i governi precedenti si sono fatti imporre il Fiscal compact, noi ci siamo presi la flessibilità. I governi precedenti hanno messo la clausola di salvaguardia, noi abbiamo abbassato le tasse».

Sono quindi due gli obiettivi che vanno conquistati. Il primo è lo spostamento in avanti del pareggio di bilancio al 2017, poi al 2018 e infine: Il pareggio di bilancio nel Def slitta al 2019 (R., 10.4.2016). Il secondo è quello di farsi concedere più disavanzo per il 2016 (Il deficit vola al 2,4%, R., 14.12.2015) e per il 2017: Dal governo via al Def. Crescita prevista fino all’1%, il deficit fino al 2,4% (R., 28.9.2016). Però questa volta: Deficit, Moscovici frena l’Italia: “2,4% non è cifra che pensiamo” (R., 9.10.2016), eppure alla fine è ciò che viene concesso. E perché mai? Perché Renzi dapprima si fa dare un premio per il Giobatta che fatto approvare nel 2015 (8,4 mld di euro in più per la “riforma strutturale” e 3,5 miliardi per gli investimenti) e poi perché accetta di fare un “servizio” che sarebbe stato svelato da Emma Bonino in una intervisita a Radio radicale nel luglio 2017: era esplosa nel Mediterraneo l’emergenza dei migranti che cercavano di raggiungere l’Europa ed in esecuzione della missione “Triton”, che autorizzava le navi di 15 stati europei al recupero dei naufraghi, «nel 2014-2016, durante il governo Renzi, si decise che gli sbarchi avvenissero tutti quanti in Italia, l’abbiamo chiesto noi, violando di fatto il Trattato di Dublino» che impegnava le imbarcazioni di soccorso ad inviare i naufraghi raccolti nei paesi di propria nazionalità (Così il governo Renzi ha dato il via libera alla grande invasione, “Il giornale”, 6.7.2017). Il “salto di quantità” si è visto nel numero degli sbarchi, trapassati da 42.925 del 2013 a 170.100 del 2014 e poi a 153.842 del 2015 e a 181.436 del 2016 (Gli sbarchi in Italia negli ultimi 10 anni, “Openpolis”, 5.2.2018). E in cambio di tanto maggior sforzo di accoglienza? «In cambio l’Italia otteneva una garanzia di maggiore flessibilità sui conti pubblici» (Aquarius, Bonino: Renzi barattò i soccorsi per la flessibilità, “Il Fatto quotidiano”, 11.6.2018; C’è un nesso tra gli sbarchi di migranti in Italia e gli 80 euro?, “Il Post”, 12.6.2018). Era questo un «accordo scellerato» (così ancora Emma Bonino) che giustificherebbe la flessibilità di bilancio concessa al governo italiano dall’Europa, come dalla tabella seguente (R., 28.6.2018):

TOTALE (in mld e % PIL)/xRiforma/xInvestimenti/xMigranti e Sicurezza/xTerremoti

2015 : 4,6 (0,28%) 4,1 (0,25%) 0,5 (0,03%)

2016 : 13,9 (0,83%) 8,4 (0,50%) 3,5 (0,21%) 2,0 (0,12%)

2017 : 5,8 (0,34%) 2,7 (0,16%) 3,1 (0,18%)

dove si nota che per il 2017, sparito lo sforamento per “Riforma” e “Investimenti”, a “Migranti e Sicurezza” si aggiunge quello straordinario per il doppio terremoto (agosto e ottobre 2016) nell’Italia centrale. Con tanto disastro ambientale Bruxelles starebbe ad elemosinare? Manovra, Roma replica: “Bruxelles non contesti le spese straordinarie per sisma e migranti” (R., 28.10.2016).

 

4. Ma il 2016 è stato segnato anche da due referendum popolari: il 17 aprile contro il Decreto trivelle ed il 4 dicembre contro la legge di riforma costituzionale, detta “Renzi-Boschi” dai nomi dei due proponenti. E qui ci assiste la narrazione malevola svolta da Chiara Geloni in Titanic. Come Renzi ha affondato la sinistra (PaperFIRST, Milano, 2019).

Il primo referendum contro le trivelle a Renzi va via liscio. Dieci Regioni, di cui otto governate da giunte di centro-sinistra, chiedono «l’abrogazione della norma che estende la durata delle concessioni per estrarre idrocarburi in zone di mare entro le 12 miglia nautiche dalla costa». Per far fallire il referendum che intralcia la politica energetica governativa, Renzi invita a non andare a votare (così da far mancare il quorum elettorale) essendo quel referendum «un errore politico» e comunque il non andare a votare è un altro «modo di dire no». Il giorno del referendum gli elettori ubbidiscono (i votanti saranno soltanto il 31%) e scatterà la derisione dei vincitori sui vinti. Non appena i primi dati sull’affluenza parlano chiaro, «su Twitter compare il #ciaone: il deputato Ernesto Carbone, membro della segreteria e vicinissimo a Renzi (sebbene con un passato prodian-lettiano) cinguetta: “Prima dicevano quorum. Poi il 40%. Poi il 35%. Adesso, per loro, l’importante è partecipare: #ciaone”» (per la storia: quando alle elezioni politiche del 2018 Carbone non sarà rieletto, la rete lo saluterà con un festoso “#ciaoneErnesto”). Così il decreto trivelle è salvo, ma non può portar bene l’aver deriso i perdenti, come subito avverte Makkox in una vignetta di Gazebo: «mai dire #ciaone agli elettori prima delle amministrative». Infatti ci sono delle elezioni amministrative a ridosso ed il 5 e 19 giugno il PD finisce per perdere, a pro’ del MoVimento5stelle, due municipi significativi come Roma e Torino. Per Geloni «è la sconfessione più evidente possibile delle teorizzazioni renziane in materia di “patto del Nazareno” e di “partito della Nazione”, cioè dello schema politico per cui sarebbe bastato collocare il PD sempre più al centro per intercettare comodamente lo smottamento elettorale causato dalla fine di Forza Italia senza perdere gli scontati consensi a Sinistra che, a prescindere dalla vecchia rottamabile classe dirigente post-comunista, avrebbero comunque seguito il segretario; ed è esattamente questa la “mucca nel corridoio” della cui presenza invano Bersani tenta, in questi mesi del 2016, più che mai, di avvertire il gruppo dirigente del PD» (a novembre, dopo la vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti, Bersani affinerà la metafora: «per dirla in bersanese: la mucca nel corridoio sta bussando alla porta»).

Ma Renzi non se ne dà per inteso, immaginandosi che il secondo referendum sulla riforma costituzionale «col suo meccanismo binario, Sì/No, possa essere il terreno perfetto per la sua definitiva consacrazione». Ma risaliamo all’origine. Sicuro del risultato elettorale (il 40,6%) guadagnato dal PD alle elezioni europee del 25 maggio 2014 che riteneva acquisito per sempre, Renzi aveva proceduto a modificare radicalmente la struttura parlamentare del paese e sul momento ce l’aveva fatta con l’Italicum, la riforma elettorale (che sostituiva l’indecente “Porcellum” ideato dal leghista Roberto Calderoli) approvata il 4 maggio 2015 sia pure col mal di pancia della dissidenza interna del partito e a colpi di voti di fiducia sugli articoli più controversi (Italicum, la riforma elettorale è legge: 334 sì, 61 no. Opposizioni escono. Renzi: “Impegno mantenuto”, “Il Fatto quotidiano”, 4.5.2015). Con questa nuova legge elettorale, la cui applicazione restava però vincolata alla riforma costituzionale ancora in itinere, si disciplinava l’elezione della Camera dei Deputati con un premio di maggioranza (il 55% dei seggi parlamentari) alla lista con più del 40% dei votanti (i sondaggi davano il PD al 42%), mentre, se ciò non fosse successo, ci sarebbe stato il ballottaggio tra le prime due liste che, nell’ipotesi renziana, sarebbero state soltanto PD e Forza Italia, non prevedendosi alcuna “mucca nel corridoio” né grillina né leghista. Le liste elettorali avevano poi i “capilista bloccati”: selezionati dalle segreterie del partiti e presentati fino in 10 collegi, così da non perderne nemmeno uno, sarebbero stati imposti dalle segreterie dei partiti a chi votava per quella lista. E la dissidenza interna “gufava” contro, non arrivando a capire che con l’Italicum il PD vittorioso, con 340 deputati su 630, si sarebbe assicurata la maggioranza assoluta alla Camera per tutta la legislatura? Ma come poteva accettarlo se di quell’eventuale PdR (Partito di Renzi) essa non avrebbe più fatto parte?

Intanto nel 2015 era proseguito l’iter parlamentare della legge di riforma costituzionale che, superate tutte le votazioni del caso, veniva approvata in seconda deliberazione il 20 gennaio 2016 dal Senato ed il 12 aprile dalla Camera dei Deputati. Come dalla sua intitolazione, essa prevedeva «il superamento del bicameralismo paritario e la riduzione del numero dei parlamentari» mediante l’attribuzione alla sola Camera, già riformata dall’Italicum nella propria composizione interna, della fiducia o meno il Governo, mentre un rimasuglio di Senato di soli 100 componenti, non più di nomina popolare diretta e nemmeno remunerati, era ridotto ad appendice ornamentale. Sull’approvazione di questa riforma si sono consumate furibonde lacerazioni all’interno del PD, tutte narrate nel libro della Geloni, ma la conclusione è stata che Renzi si è portato a casa anche questa manomissione monocamerale e quasi presidenziale del sistema parlamentare: tutto nella Camera, nient’altro che la Camera e con i deputati nominati in gran parte dai capi-partito. Il rischio era grosso perché le due riforme (sia elettorale che costituzionale) erano già leggi dello Stato e solo un rigurgito di resipiscenza in extremis ha fatto ammettere ad Eugenio Scalfari (che pure allora si era dichiarato favorevole) che «l’abolizione del Senato, così come Renzi (e forse Berlusconi d’accordo con lui) aveva disposto avrebbe dato il potere legislativo non già alla Camera dei deputati, bensì al governo. Era il governo, cioè il potere esecutivo, a concentrare in sé anche il potere legislativo. Esecutivo e legislativo: di fatto una sorta di dittatura» (R., 8.8.2019).

C’era però ancora uno scoglio da superare perché la riforma costituzionale, approvata con meno dei due terzi dei componenti delle due Camere, avrebbe dovuto passare il “referendum popolare confermativo”, dato che le leggi costituzionali le decidono i cittadini e non i parlamenti. Si raccolgono le firme, che risultano a sufficienza, ed il testo del quesito viene scritto correttamente (“Approvate sì o no?”), così che il referendum è dichiarato legittimo dalla Consulta ed indetto per il 4 dicembre. Ne segue una campagna elettorale nella quale prendono posizione tutte le sigle della “società civile”: CISL, Confindustria e Coldiretti per il Sì (e perfino Barak Obama: Obama vota Sì al referendum, “La Stampa”, 18.10.2016); per il No si schierano invece CGIL, FIOM, ARCI, sindacati di base e fin da subito (il 22 gennaio) l’Associazione Partigiani d’Italia (ANPI) che giudica «la riforma del Senato e la legge elettorale, così come approvate dal Parlamento, un vulnus al sistema democratico di rappresentanza e ai diritti dei cittadini, in sostanza una riduzione degli spazi di democrazia». S’indigna Maria Elena Boschi, co-firmatrice della riforma, che denuncia come falsi partigiani «quelli venuti poi» che stanno per il no (Boschi allAnpi: “Partigiani veri, quelli che hanno combattuto, voteranno sì alla riforma”, R., 22.5.2016). E’ la spaccatura “a sinistra” che condurrà Renzi alla sconfitta referendari perché l’ANPI non è la CGIL e il suo presidente Carlo Smuraglia, un vero partigiano che ha fatto la Resistenza e voterà No, lo sfida a pubblico dibattito a Bologna (Referendum, confronto Renzi-Smuraglia: la platea fischia il premier per il Jobs Act. E tra il pubblico si sfiora la rissa, “Il Fatto quotidiano”, 16.9.2016).

Renzi avverte la crepa nei consensi del “popolo piddino” e tenta il tutto per tutto: «se non passa la riforma, me ne vado» (“O cambia l’Italia o cambio mestiere”, “Il Foglio”, 2.6.2016) e a lui s’accoda la Boschi: «Anch’io lascio se Renzi se ne va». Sarà una minaccia ripetuta ossessivamente a sostegno dello slogan governativo che “Basta un Sì” per farli rimanere, subito rovesciato dagli oppositori in un “Basta un No” per mandarli via! Il risultato è che al referendum i No sono il 59,12 % dei votanti e all’indomani Renzi si dimette da Presidente del consiglio: «Ho perso, il mio governo finisce qui». L’addio strappalacrime lo racconterà poi nella sua memoria post-governativa: «aver perso il 41% in beata solitudine consegna però un dato curioso: se si sovrappone il risultato del voto referendario a quello delle ultime elezioni europee si scopre che sostanzialmente c’è una perfetta corrispondenza tra chi ha votato sì e chi nel 2014 aveva votato per noi» (ma è una bugia o almeno una imprecisione, perché all’analisi dei flussi elettorali l’equivalenza percentuale maschera una composizione interna differente: i votanti PD del 2014 hanno scelto il Sì soltanto per il 75%, essendo il restante 25% affluito da Forza Italia, Lega e perfino da M5S, così che il consenso “piddino” è stato conservato solo al 30%: cfr. Istituto Demopolis, Le ragioni del No nell’analisi post-elettorale, 6.12.2016). Dopo di che gli scatta la mozione degli affetti: «gli Italiani hanno deciso. Viva l’Italia. Io mi sono dimesso. Sul serio. Non per finta… Torno semplice cittadino. Non ho paracadute. Non ho uno stipendio, non ho un vitalizio, non ho l’immunità» (sebbene poi sappiamo quanto poco sia restato senza lavoro e povero in canna…). E comunque al momento a chi dire #ciaone se non #ciaone a lui?


Di seguito le puntate precedenti: 
Giorgio Gattei: Le cronache del nostro scontento
Giorgio Gattei: Le cronache del nostro scontento II
Giorgio Gattei: Le cronache del nostro scontento III
Giorgio Gattei: Le cronache del nostro scontento IV

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