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Pesce grande mangia pesce piccolo e Greta li mangia tutti
Green new deal: la nuova accumulazione capitalista
di Fulvio Grimaldi
Squali e sardine
Esemplifichiamo. Il PD, in Umbria (e non solo), viene scoperto a galleggiare in un oceano di fango sanitario? A Roma la sindaca Raggi, per la quale particolare affetto nutre la Procura, viene collegata a un malaffare AMA che lei cercava di impedire? La società liquida innalza la Raggi su cavalloni giganti e fa sparire l’Umbria PD in una dolce risacca. In Sicilia gli intimissimi del trombone in felpa che amministra il paese vengono scoperti a banchettare con coloro che un tempo pasteggiavano con Andreotti e Berlusconi? Il GIP romano indaga Raggi. Il reato più evanescente di tutti: abuso d’ufficio. “Per come ha dato visibilità al progetto dello stadio” (sic). La Raggi, cento volte indagata (altro che Alemanno) e cento volte assolta (altro che Alemanno), annaspa nell’ennesimo maremoto comunale, l’inciampo tangentizio-mafioso del sottosegretario più importante di tutti, scompare, spiaggiato dietro a una duna. La sardina finisce in padella, gli squali se la battono, anzi se la mangiano.
FNSI e gli altri: ma quale Assange, Bordin!
E’ una costante di sistema. A Londra, Assange, un giornalista che, con Wikileaks, ha connesso i crimini del potere alla coscienza dell’umanità, da 7 anni in isolamento nell’ambasciata ecuadoriana, viene trascinato fuori da sette energumeni in divisa e arrestato in vista di estradizione a chi lo vuole bruciare vivo. Il nulla osta l’ha concesso un presidente ecuadoriano ladrone che da Wikileaks era stato scoperto imboscare denari pubblici in paradisi fiscali e che per i suoi meriti di traditore viene compensato con un prestito miliardario Usa che eviti la sua bancarotta. Vendetta farabutta di un potere che, insieme a quella contro Chelsea Manning, universalizza il suo assassinio della libertà d’espressione, informazione, stampa.
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Prefazione a "Il discorso del potere"
di Ernesto Screpanti
Giacomo Bracci - Emiliano Brancaccio: Il discorso del potere. Il premio Nobel per l’Economia tra scienza, ideologia e politica, Il Saggiatore, Milano 2019
Nel 1974 l’Accademia delle scienze di Svezia assegnò il premio Nobel per l’Economia a Friedrich von Hayek, per aver scoperto che i fenomeni economici, sociali e istituzionali sono interdipendenti. Nel 1976 il premio fu assegnato a Milton Friedman, il cui principale merito scientifico starebbe nell’aver compreso che, se si fa l’ipotesi eroica che un’economia di mercato si trovi in uno stato di piena occupazione permanente, si può dimostrare che una politica di espansione monetaria non può fare aumentare l’occupazione in modo permanente. Da Lucas a Sargent, passando per Prescott, negli anni successivi altri padri di analoghe scoperte hanno raggiunto la vetta del Nobel.
«Viene da chiedersi se la strada seguita dai più recenti sviluppi degli studi sociali, e avvalorata dall’orientamento dell’Accademia delle scienze, sia quella più adeguata alla comprensione del mondo in cui viviamo» scrivono Emiliano Brancaccio e Giacomo Bracci. Da qui la loro domanda: bisognerebbe abolire il premio Nobel per l’Economia? La risposta contenuta in questo libro è motivata, rigorosa, e niente affatto scontata.
Nonostante tutto, il più prestigioso premio per l’Economia non andrebbe abolito semplicemente perché è stato spesso attribuito a influenti consiglieri del principe che hanno prodotto fake science, cioè teoremi smentiti dalla ricerca empirica. Questo libro ne smaschera diversi: Friedman, Lucas, Sargent, Kydland, Prescott e altri. Ma al tempo stesso ci ricorda che il premio l’hanno ricevuto anche scienziati come Arrow, Samuelson, Sen, Stiglitz, Krugman, Romer, Ostrom, che hanno indubbiamente fatto avanzare la conoscenza in campo economico.
Neanche lo si dovrebbe abolire perché l’economia è una scienza «molle», cioè impregnata di valori e preferenze politiche. Brancaccio e Bracci argomentano che queste caratteristiche sono condivise in maggiore o minore misura anche dalle scienze relativamente «dure»: la fisica, la chimica, la medicina. Basti notare che ci sono fisici che interpretano il big bang come una prova dell’esistenza di Dio. Dunque, se fosse questo il criterio, si finirebbe per abolire tutti i premi Nobel.
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Grandezza, limiti e attualità della Resistenza
di Eros Barone
1. Da dove viene il termine “Resistenza”?
Un quesito interessante, da cui può prendere avvìo il presente discorso, è quello riguardante la genesi storica del termine “Resistenza”. Ebbene, con questo termine si intende indicare un’azione armata condotta da formazioni partigiane per frenare l’avanzata dell’invasore nazista, laddove è palese che l’origine del significato della parola “Resistenza” è strettamente collegata con l’aggressione all’Unione Sovietica da parte delle forze armate hitleriane (22 giugno 1941) e con la Grande Guerra Patriottica che fu la risposta data dal popolo e dallo Stato socialista a tale aggressione. L’attacco della Germania nazista all’Unione Sovietica fu infatti la più vasta operazione militare terrestre di tutti i tempi e il fronte orientale fu il più grande e importante teatro bellico della seconda guerra mondiale, ove si svolsero alcune tra le più grandi e sanguinose battaglie di tale guerra.
Nei quattro anni che seguirono (1941-1945) decine di milioni di militari e civili morirono o patirono terribili sofferenze. La Germania schierò 2 milioni e mezzo di uomini, l’Unione Sovietica 4 milioni e 700 mila soldati, di cui 2 milioni e mezzo sul fronte occidentale. Può essere allora opportuno ricordare che durante la seconda guerra mondiale sono state complessivamente soppresse attorno ai 50 milioni di vite umane.
Dal punto di vista meramente comparativo, l’ordine di grandezza dei caduti italiani fra il settembre del 1943 e l’aprile del 1945 è invece piuttosto esiguo: 44.720 partigiani caduti e 9.980 uccisi per rappresaglia, ai quali vanno sommati 21.168 partigiani e 412 civili mutilati e invalidi. In totale dopo l’armistizio si ebbero 187.522 caduti (dei quali 120.060 civili) e 210.149 dispersi (dei quali 122.668 civili). Fra il 10 giugno 1940 e l’8 settembre 1943 le forze armate italiane avevano avuto 92.767 caduti (cui vanno aggiunti 25.499 civili), mentre i dispersi erano stati 106.228. Complessivamente le perdite italiane nel secondo conflitto hanno dunque raggiunto (morti e dispersi, militari e civili, maschi e femmine) le 444.523 unità.
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La nuova via della seta
Un progetto per molti obiettivi
di Vladimiro Giacché
Il progetto di una Nuova Via della Seta, lanciato negli ultimi anni dalla dirigenza cinese, comprende due diverse rotte, una terrestre e l’altra marittima. La prima è indicata nei documenti ufficiali come Silk Road Economic Belt, la seconda come Maritime Silk Road. L’intero progetto è espresso in forma abbreviata come One belt, one road. Esso è stato annun-ciato per la prima volta dal presidente cinese Xi Jinping in un discorso ad Astana (Kazakhstan) nel 2013, ribadito a Giacarta (Indonesia) nel novembre dello stesso anno e di nuovo ad Astana nel giugno 20141
I precedenti
L’idea non è del tutto nuova: da alcuni è stata posta in continuità con i tentativi di Jiang Zemin di superare le tradizionali dispute sui confini della Cina (1996), nonché con la politica Go West di Hu Jintao2. Ovviamente il precedente storico cui si richiama è molto più illustre e lontano nel tempo: si tratta dell’antica Via della Seta, rotta commerciale che partendo dalla Cina legava Asia, Africa ed Europa. Essa risale al periodo dell’espansione verso Ovest della dinastia Han (206 a.C.-220 d.C.), che costruì reti commerciali attraverso gli attuali Paesi dell’Asia Centrale (Kyr-gyzstan, Tajikistan, Kazakhstan, Uzbekistan, Turkmenistan e Afghanistan), come pure, in direzione sud, attraverso gli attuali Stati di Pakistan e India. Tali rotte si estesero sino al-l’Europa, facendo dell’Asia centrale l’epicentro di una delle prime ondate di ‘globalizza-zione’, connettendo mercati, creando ricchezza e contaminazioni culturali e religiose. L’importanza massima di questa rotta di traffico si ebbe nel primo millennio dopo Cristo, ai tempi degli imperi romano, poi bizantino e della dinastia Tang in Cina (618-907). Fu-rono le Crociate e l’avanzata dei mongoli in Asia centrale a determinare la fine di questo percorso e la sua sostituzione con le rotte marittime, più rapide e a buon mercato3
L’antica Via della Seta evoca tuttora l’idea di uno sviluppo pacifico, di un interscambio commerciale e culturale in grado di determinare progresso per tutte le parti coinvolte. In quanto tale, il riferimento a essa è consapevolmente adoperato dall’attuale dirigenza cinese, anche in termini propagandistici e polemici. Lo dimostra il passo tratto da un opuscolo del governo cinese del 2014: «Come una sorta di miracolo nella storia umana, l’antica Via della Seta potenziò il commercio e gli interscambi culturali nella regione eurasiatica. In epoche antiche, differenti nazionalità, differenti culture e differenti reli-gioni a poco a poco entrarono in comunicazione tra loro e si diffusero lungo la Via della Seta al tintinnio dei campanacci dei cammelli.
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Trump, la Cina e la globalizzazione
di Lorenzo Battisti*
Trump viene accusato da tempo di aver posto fine alla “magica” globalizzazione. In realtà le sue politiche sono il risultato dei nuovi equilibri mondiali generati dall’emersione dei Brics e in particolare dallo sviluppo economico e politico della Cina.
La globalizzazione e il neoliberismo: la fase unipolare dell’imperialismo
Molto si è scritto in questi anni sulla globalizzazione, spesso in modo fumoso. Le caratteristiche per descriverla hanno fatto riferimento ad elementi diversi e tutti parziali. Alcuni hanno preso a riferimento l’apertura agli scambi commerciali. Altri la libertà dei capitali di muoversi da un paese all’altro. Altri ancora la diffusione dell’informazione dovuta alle nuove tecnologie digitali che permettono di essere informati su fatti lontani in maniera istantanea e di creare quindi un “villaggio globale”. Tutti questi elementi, pur facendo parte della globalizzazione, non colgono la radice del fenomeno.
Penso che la globalizzazione si possa definire come l’imperialismo nella sua fase unipolare. Se prima della Seconda Guerra Mondiale l’imperialismo aveva dovuto fare fronte a divisioni interne dovute all’emersione della Germania nazista e del Giappone, dopo il ‘45 ci si è trovati in un mondo bipolare, in cui le potenze imperialiste, allineate dietro l’egemonia americana, hanno dovuto affrontare la minaccia comune proveniente dall’Unione Sovietica e dagli stati del blocco socialista. Una minaccia che, dopo il successo contro i nazisti, diventava sempre più pericolosa a causa dei successi dell’avanzata comunista: la Cina, Cuba, il Vietnam, le lotte anticoloniali etc…
Con il 1989 termina il mondo bipolare e non vi sono più limiti all’espansione economica e politica delle potenze capitaliste, Usa in testa. D’improvviso una metà di mondo, una prateria vergine, si apre all’invasione dei capitali stranieri.
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Rita Di Leo: la vittoria del "sacro esperimento" sull'"esperimento profano"
di Epimeteo
Era qualche tempo che non si leggevano i libri della Di Leo; ci si diceva: “È finita l’Urss, cos’avrà da dire di nuovo la Di Leo?” Poi l’anno scorso è uscito L’età della moneta. I suoi uomini, il suo spazio, il suo tempo, per i tipi del Mulino, ed è stato davvero una sorpresa: ne veniva fuori una grande capacità di delineare i tratti fondamentali del capitalismo nella sua ultima fase, quella successiva al crollo dell’Urss e corrispondente al pieno dispiegamento della globalizzazione e della finanziarizzazione, ma emergeva anche la profondità con la quale l’autrice sapeva scavare nei presupposti antropologici di quell’”universo degli algoritmi”. Allora abbiamo deciso di leggere anche due libri editi precedentemente, cioè Cento anni dopo: 1917-2017. Da Lenin a Zuckerberg, uscito nel 2017, e L’esperimento profano. Dal capitalismo al socialismo e viceversa del 2012, entrambi editi da Ediesse.
Da quella sorta di trilogia è emerso un quadro unitario in cui viene ricostruita l’intera storia del Novecento alla luce dello scontro globale tra il socialismo sovietico e il capitalismo europeo prima, quello americano poi, una analisi che si riassume in una interpretazione della contemporaneità appunto come “età della moneta”, come quell’arco temporale ormai trentennale in cui si è imposto quell’”equivalente generale” che consente l’universalizzazione dello scambio, in funzione della valorizzazione del capitale, come modalità imprescindibile delle relazioni infra-umane, una universalizzazione attorno alla quale si condensa l’identità antropologica dell’individuo post-economico del “fare per avere”, in cui lo scambio tra il più forte e il più debole non viene subìto dal secondo, ma accettato come un fenomeno naturale.
Tuttavia, prima di ricostruire come l’autrice illustra lo scontro tra “l’esperimento profano” del socialismo e il “sacro esperimento” del capitalismo americano, nella prima parte di questo tentativo di interpretazione unitaria dei tre testi della Di Leo cercheremo di delineare come l’ex “esperta dell’Urss” ha seguito il percorso attraverso il quale l’”uomo della moneta”, muovendo i suoi primi passi nell’Europa feudale, ha saputo acquisire cultura e potere e progressivamente intrecciare il suo destino con quello dell’aristocrazia guerriera e fondiaria, transitando attraverso quell’”epoca moderna” che Epimeteo interpreta come “messianesimo immanentizzato”, un’ipotesi ermeneutica che si è già cercato di argomentare in altri interventi su questo sito.
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Appunti sulla questione del partito: oltre il primo populismo
di Alessandro Visalli
In questo testo, forse troppo lungo (6.700 parole, 25 minuti di lettura), si compie un esercizio non facile, decisamente inattuale: quello di provare a ripensare le condizioni nelle quali si può tentare di oltrepassare l’impolitico neoliberale a partire dalla ricostruzione di un collettivo ed insieme di un umano. Questo tema è limitato alla ‘questione del partito’, ovvero dell’agente del politico concepito come trasformazione dell’esistente e levatore del nuovo, e non come mimesi e aspirazione al mero successo. Il discorso connette sistematicamente i mutamenti nel modo di produzione e della ‘piattaforma tecnologica’ del capitalismo, e quindi dell’antropologia dominante e delle forme di socializzazioni corrispondenti, con le forme-partito di volta in volta funzionali.
Dopo alcuni indispensabili cenni storici, per lo più in nota per non appesantire il testo, e l’esplicitazione delle condizioni abilitanti i ‘partiti leggeri’ che hanno molte applicazioni e travestimenti, viene sviluppata una critica del primo populismo, strutturalmente connesso alla ‘contro-democrazia’, a sua volta figlia della ‘accumulazione flessibile’. Anche qui le forme ed i travestimenti sono numerosi.
Viene quindi avanzata l’ipotesi che la crisi del primo populismo, in tutte le sue versioni, non sia episodica ma venga mossa nella profondità da una estremizzazione-mutamento della ‘piattaforma tecnologica’ post-moderna e resti quindi non più allineata con l’estrema polarizzazione, da un lato, e con l’interconnessione molecolare determinata dall’ambiente tecnologico, dall’altra. La tesi è che il nuovo ambiente non si presti più alla strategia “tutta testa e comunicazione” del populismo in stile sudamericano (per quanto questo sia largamente fondato su una socialità popolare vitale) e/o di prima generazione europeo (ben meno vitale), ma renda nuovamente necessaria la presenza di attivisti, influencer, reti di comunicazione diffuse, mobilitazioni politiche e quindi cultura comune e condivisa, ‘simpatia’, coesione, responsabilità e mutuo sostegno.
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Fine della sinistra italiana
di Norberto Natali
I fatti avvenuti nelle scorse settimana a Roma rappresentano un discrimine fondamentale per la sinistra. Ci sono nella storia dei momenti in cui, anche simbolicamente, si determina un cambiamento. Fu così, ad esempio, per la marcia dei 40 mila a Torino. Quello che è successo a Roma ci costringe ad aprire una riflessione. Ringraziamo il compagno Norberto Natali per questo suo contributo
Appunti sui fatti di Torre Maura e Casalbruciato. Proposte di discussione contro i “monatti” del movimento operaio in Italia
1. La verità mediatica
Le forze di sinistra e più conseguentemente antifasciste, la grande stampa e radio tv più democratica (come il gruppo “Repubblica-La Stampa” o “Corsera” o conduttori come Corrado Formigli) mercoledì scorso (10 aprile 2019) si sono scatenati: dure proteste, articoli infuocati e pieni di ardore, cortei e scioperi.
Tutto ciò era giustificato: un povero operaio di 25 anni -Gabriele Di Guida- era morto schiacciato, in una fabbrica della Brianza per colpa del padronato. Il macchinario al quale era addetto, infatti, era difettoso (quindi non è stata una disgrazia accidentale ed imprevedibile) e si può immaginare la paura e la solitudine di questo ragazzo, poiché il suo ultimo atto è stato un sms alla propria fidanzata: “questa macchina non funziona bene”.
Per questo il Presidente del Consiglio è andato a visitare quella ragazza rimasta sola prima di avere una propria famiglia (comprensibilmente si è commosso incontrando la mamma di Gabriele) e il ministro dell’Interno ha tuonato sui social: “gli infami che per guadagnare di più uccidono giovani come Di Guida non devono uscire più di galera”.
Lo sdegno e la mobilitazione della grande stampa e della sinistra -Luca Casarini in testa- per questo fatto sono stati tali che hanno messo in ombra un altro grave avvenimento di quel giorno: a Casalbruciato (Roma) alcune decine di persone, della stessa classe sociale del giovane morto in Brianza, hanno impedito a un rom di accedere ad una casa del comune, sobillati dai fascisti col motivo di voler attribuire quell’alloggio ad una ragazza, madre di un bambino di pochi mesi il cui padre è un operaio precario (forse candidato alla stessa fine orribile che ogni anno tocca a migliaia di lavoratrici e lavoratori).
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La NATO non è un’alleanza
di Alessandra Ciattini
Gli Stati Uniti hanno bisogno delle basi militari per mantenere il loro dominio imperialista sul mondo. L’occupazione dei paesi che ospitano le sue basi si fonda sulla Nato. Cosa sta alla base della smodata ambizione Usa?
“La NATO non è un’alleanza, costituisce piuttosto un’occupazione militare di quei paesi che furono ‘liberati’ dagli alleati nel corso della Seconda Guerra Mondiale” (di fatto vinta dallo sforzo immane dell’Unione Sovietica), il cui scopo è sempre stato quello di orientare in senso filostatunitense la politica europea e di impedire il sorgere nel nostro continente di governi ostili alla superpotenza oggi in seria crisi.
Questo concetto è ben spiegato da Manlio Dinucci, il conduttore della contro-celebrazione della NATO, il quale scrive sul Manifesto che la “Nato è un’organizzazione sotto il comando del Pentagono… è una macchina da guerra che opera per gli interessi degli Stati Uniti, con la complicità dei maggiori gruppi europei di potere”, la quale può esser giustamente accusata di essersi macchiata di crimini contro l’umanità.
Da qui ha preso le mosse il recente convegno internazionale sul 70° anniversario della NATO, tenutosi a Firenze lo scorso 7 aprile [1], a cui hanno partecipato circa 600 persone, venute da tutta Italia e mostrando che nel nostro paese non tutti si identificano con la politica supinamente allineata dei nostri governi (di vari colori) ai voleri statunitensi, che – dopo il dissolvimento dell’Unione Sovietica e dei suoi stretti alleati – hanno scatenato sanguinose guerre e conflitti ancora in atto.
Evidentemente, il movimento contro la guerra, che aveva dato vita a formidabili manifestazioni e lentamente spentosi nel 2003, ha ancora una qualche vitalità, che il convegno si augura di poter ravvivare, costruendo un fronte internazionale contro la NATO (NATO EXIT); la quale è in continua espansione non solo in Europa, ma anche negli altri continenti (si pensi all’avvicinamento della Colombia a questo camuffato trattato militare).
Gli interventi al convegno (filmati anche assai crudi, foto, tavole rotonde, interviste) non hanno fatto altro che dimostrare la tesi enunciata ed espressa dalle parole summenzionate, facendoci comprendere a fondo che la politica internazionale non è altro che lo svolgersi inevitabilmente brutale dei rapporti di forza tra le varie potenze che si fronteggiano nello scenario contemporaneo.
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Th.W.Adorno: Per la dottrina della storia
di Pietro Carlo Lauro
Il secondo capitolo della terza parte di Dialettica negativa ha per titolo Spirito universale e storia naturale. Con ciò sono già fissati gli autori di riferimento per la filosofia adorniana della storia: Hegel e Benjamin. Esiste un progresso, una tendenza storica, progressiva o regressiva che sia, ed esistono d’altra parte le vittime del progresso, che poi non sono altro che gli stessi agenti della grande trasformazione. Ecco perché Hegel e Benjamin. A partire dalla seconda guerra mondiale o, per essere più precisi, dopo le purghe staliniane contro gli oppositori, lo spirito del mondo ha svoltato. La rivoluzione non è più all’ordine del giorno e al suo posto è subentrata su scala mondiale la diffusione dell’economia capitalista, l’occidentalizzazione del mondo. Ancor prima del crollo del regime sovietico Heidegger diagnostica una obiettiva convergenza, al di là dei sistemi politici, tra Unione Sovietica e Stati Uniti d’America sotto il segno del dominio planetario della Tecnica. Horkheimer e Adorno, che nel frattempo hanno maturato una prospettiva da Oltreoceano, rispondono con il capovolgimento dell’illuminismo. Quindi critica della Tecnica in Heidegger e critica dell’illuminismo in Horkheimer e Adorno. Forse che convergono non solo i sistemi politici , ma anche le filosofie? Per niente. Che la critica dei francofortesi converga in ultima analisi con la critica di Heidegger è una mistificazione messa in giro da coloro che per decenni si sono rifiutati di prendere atto della grande trasformazione. Ma allora la differenza qual è? Mentre Heidegger chiude il discorso sulla tecnica, dicendo che l’essenza della tecnica non è nulla di tecnico1, quindi riproponendo ancora una volta la separazione tra essenza e fatto, Odisseo, che nella Dialettica dell’illuminismo è il prototipo del soggetto dell’autoconservazione, è insieme soggetto e oggetto del rischiaramento, perché è parte stessa di ciò che è da rischiarare. Questa è una differenza ums Ganze, che cambia tutto. Nella misura in cui Odisseo demistifica le potenze della natura o, che è lo stesso, del mito, si modifica anche la comprensione che egli ha di se stesso, perché lui stesso fa parte della natura. A differenza della metafisica classica il pensiero dialettico non teme la contaminazione dell’esperienza, perché sa di essere per costituzione compromesso con essa. La questione è soltanto, se e come sia possibile rendere l’esperienza fruttuosa per l’autocomprensione che l’io ha di se stesso.
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La pedagogia del coding
di Salvatore Bravo
Gli oratores sono al capezzale del capitalismo assoluto: la pedagogia ed i pedagogisti sono parte essenziale della sovrastruttura che contribuisce ad eternizzare il capitale. Il pensiero computazionale è l’ultima strategia per introdurre l’intelligenza di Stato attraverso una serie di pratiche metodologiche. Si vuole orientare l’intelligenza, che notoriamente è al plurale nelle sue forme, verso un modello organico al capitalismo. Il pensiero computazionale è molto più che una procedura di analisi, esso struttura, standardizza la personalità, la quale deve procedere e muoversi nel quotidiano secondo le procedure algoritmiche. L’introduzione-imposizione è organizzata con un artificio ideologico, ovvero si afferma di voler affinare la creatività, che il pensiero computazionale è imprescindibile per rivoluzionare in senso creativo la didattica e le personalità. Naturalmente è il cavallo di Troia, con cui riaffermare le pratiche del mercato all’interno della scuola e ridimensionare, fino a rendere complementare la formazione dell’essere umano, in sua vece vi è l’addestramento al mercato. Se fosse stato autentico l’intento di sollecitare la creatività, la scuola per tradizione ha innumerevoli potenzialità già in atto in tal senso: la lettura del classici, la traduzione, il dialogo quale buona pratica, le discipline artistiche.
Pensare come una macchina
Le macchine informatiche per risolvere problemi scompongono, analizzano le varie fasi, per individuare la soluzione finale. Si tratta di problemi empirici che presuppongono un orientamento lineare. L’azione della scomposizione, astrazione, generalizzazione sostanzializzano la logica del problem solving, per cui il soggetto macchina è interno alla realtà empirica, il suo l’orizzonte deve limitarsi ad una gittata limitata, deve agire all’interno di un cono poietico. L’essere e la macchina si avvicinano, la differenza qualitativa si assottiglia in favore della differenza quantitativa sempre più limitata.
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Crisi del dollaro?
di Giacomo Gabellini
Il Dollaro con gli aspetti che non vengono raccontati, la crisi attuale, la vicenda dello sganciamento dall’oro (e l’aggancio all’oro nero) e molto altro in un articolo di Giacomo Gabellini
In appena un anno, la Banca Centrale russa si è liberata dei circa 90 miliardi di dollari di Treasury Bond (T-Bond) statunitensi di cui era in possesso per incrementare le riserve in yuan da 0 a qualcosa come il 15% del totale. Percentuale sbalorditiva, che supera di molto la media – prossima al 5% – delle riserve in yuan di cui dispongono i 55 Paesi interessati dal mega-progetto della Belt and Road Initiative (Bri), ma che potrebbe essere eguagliata da un numero ben più consistente di Paesi in un futuro non troppo remoto. Lo suggeriscono i dati relativi alla composizione delle riserve valutarie detenute dalle Banche Centrali di tutto il mondo pubblicati dal Fondo Monetario Internazionale (Fmi), da cui emerge che nel quarto trimestre del 2018 lo yuan è arrivato a rappresentare l’1,89% del totale, pari a 202,79 miliardi di dollari. Di per sé, la quota può apparire insignificante, se raffrontata a quella del dollaro (61,69%, pari a 6.617,84 miliardi di dollari), dell’euro (20,69%, pari a 2.219,34 miliardi di dollari), dello yen (5,20%, pari a 558,36 miliardi di dollari) e della sterlina (4,43%,pari a 475,45 miliardi di dollari). Il discorso cambia però radicalmente se si considera che la moneta cinese ha registrato aumenti della propria quota in cinque degli ultimi sei trimestri e che, nel quarto trimestre del 2016, le Banche Centrali di tutto il mondo detenevano yuan per appena 84,51 miliardi di dollari: un incremento di 2,5 volte nell’arco di un biennio. Il tutto a spese del dollaro, che pur mantenendo saldamente il primato, nel quarto trimestre del 2018 ha conosciuto un calo di ben 14,31 miliardi di dollari. E lo stesso fatto di rappresentare il 61,69% delle riserve valutarie globali assume un significato assai meno rassicurante se raffrontato alla situazione del 2000, quando qualcosa come il 72% delle scorte monetarie in possesso delle Banche Centrali era costituito da dollari.
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Italia: come rovinare un paese in trent’anni
La crisi italiana causata dall’austerità è un campanello d’allarme per l’Eurozona
di Servaas Storm
Sul sito dell’Institute for New Economic Thinking appare un articolo di un certo rilievo sul lungo declino dell’economia italiana, che perdura da trent’anni ormai, e sulle cause che ci hanno portato a questo punto. Sono cose ben note da chi segue il dibattito sulla lunga notte italiana, e tuttavia l’articolo ci è parso di un certo impatto e di un certo valore didattico riassuntivo per chi si approccia ora a questi temi. Per quel che riguarda la valutazione delle mosse del nuovo governo italiano, stretto tra le richieste impossibili dei vincoli europei e la necessità di rilanciare il Paese, e le varie proposte di via d’uscita formulate dagli economisti, il dibattito è aperto. Ci ha solo sorpreso, senza nulla togliere agli economisti italiani citati, che l’economista olandese autore dell’articolo ignori completamente quelle che sono state le voci più significative e più seguite che hanno dato vita al dibattito italiano, in primo luogo quella di Alberto Bagnai, autore di due notissimi libri e di varie pubblicazioni su siti accademici, ma anche di altri, ben noti ai nostri lettori
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La terza recessione italiana in 10 anni
Mentre la Brexit e Trump guadagnavano gli onori della cronaca, l’economia italiana è scivolata in una recessione tecnica (un’altra). Sia l’OCSE che la Banca centrale europea (BCE) hanno abbassato le previsioni di crescita per l’Italia a numeri negativi e, con quella che gli analisti considerano una mossa precauzionale, la BCE sta rilanciando il suo programma di acquisto di titoli di Stato, abbandonato solo cinque mesi fa.
«Non sottovalutate l’impatto della recessione italiana», ha dichiarato il ministro dell’economia francese Bruno Le Maire a Bloomberg News (Horobin 2019). «Si parla molto della Brexit, ma non della recessione italiana, che avrà un impatto significativo sulla crescita in Europa e può avere un impatto sulla Francia, poiché si tratta di uno dei nostri più importanti partner commerciali». Più importante del fattore commerciale, tuttavia, cosa che Le Maire si guarda bene dal dire, è che le banche francesi detengono nei loro bilanci circa 385 miliardi di euro di debito italiano, derivati, impegni di credito e garanzie, mentre le banche tedesche detengono 126 miliardi di euro di debito italiano (al terzo trimestre del 2018, secondo la Bank for International Settlements).
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L’“Appello per l’Europa” di Sindacati e Confindustria è un clamoroso errore storico
di Enrico Grazzini
L' “Appello per l’Europa” firmato qualche giorno fa dai sindacati CGIL, CISL e UIL e da Confindustria conferma purtroppo la profonda debolezza di analisi e di capacità propositiva delle organizzazioni dei lavoratori e dell'associazione nazionale degli imprenditori nel campo decisivo delle politiche europee e delle politiche macroeconomiche. L'Appello, farcito di enfatica retorica europeista, dimostra che sindacati e Confindustria – organismi della società civile ovviamente fondamentali per l'evoluzione e il progresso della società italiana – sono purtroppo ancorati a una ideologia vetusta, del tutto irrealistica e acritica nei confronti delle politiche della Unione Europea.
Siamo nel mezzo di una crisi conclamata della UE e dell'eurozona; l'economia europea è nuovamente sull'orlo di una crisi recessiva. Ma il documento ignora tutto questo. Difende a spada tratta l'Europa, esorta (giustamente) tutti i cittadini ad andare a votare alle elezioni europee di maggio, ma non accenna minimamente ad una analisi critica sulle pesanti conseguenze negative delle politiche di austerità che hanno colpito l'Italia e i Paesi europei negli ultimi dieci anni. L'appello ripropone quelle riforme (eurobond, investimenti pubblici, ecc) già avanzate da almeno due lustri, ma mai accettate dalla UE, e quindi purtroppo velleitarie ed illusorie. Non c'è nessuna analisi critica sulla crisi dei bilanci pubblici causata dal predominio dei mercati finanziari. Nessun accenno al fatto che la UE si sta disintegrando per contraddizioni interne. Solo stupefacenti affermazione sui presunti grandi successi della UE e vaghe proposte consolatorie.
La povertà culturale nell'affrontare gli attuali problemi europei e nazionali è tanto più grave considerando che quasi certamente la crisi dell'eurozona – che è il cuore dell'Unione Europea – è destinata a peggiorare (o a precipitare) già nel prossimo futuro a causa delle crescenti tensioni commerciali tra Europa e Stati Uniti, e soprattutto a causa dei probabili prossimi sgonfiamenti dei mercati finanziari previsti ormai da quasi tutti gli economisti – i mercati finanziari sono infatti da troppi anni drogati dalle politiche monetarie espansive attuate delle banche centrali di tutto il mondo, ma l'”effetto droga” non può durare in eterno! -.
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INVALSI: adesso è il computer a giudicare gli studenti
Anche per i quesiti aperti!
di Anna Angelucci
Dal 2018, per effetto di un decreto delegato della Buona Scuola (62/2017), le prove, svolte dagli alunni di terza media al computer nelle scuole, sono corrette automaticamente, a livello centrale. Il computer dell’Invalsi riceve le prove appena svolte, poi corregge, misura e valuta, esprimendo un giudizio di merito in livelli che descrivono le prestazioni cognitive del singolo alunno, giudizio che viene restituito individualmente attraverso la Certificazione delle competenze di fine primo ciclo. Cosa significa in pratica? Per allontanare lo spettro della “copiatura” (cheating) gli alunni non rispondono alle stesse domande e l’equità del punteggio finale è affidata a un complesso modello statistico (i cui limiti e le cui falle sono note). Non solo, ma sulla base di questi punteggi il computer redige un esteso giudizio qualitativo sull’allievo che tocca valutazioni sulla sua capacità di comprendere il testo, cogliendone anche il tono, per esempio ironico o polemico. Che la correzione automatica sia estesa ai “Quesiti aperti a risposta articolata” non può che aumentare le perplessità. Ricordiampo che una analoga certificazione delle competenze è prevista pure per il secondo ciclo, come avevamo segnalato qui. Nel frattempo, Invalsi procede con la sperimentazione della misurazione delle soft skills delle creature piccole. Alla standardizzazione si stanno dunque accompagnando l’automazione e la profilazione. A quali principi educativi, a quale didattica, a quale pedagogia rispondono queste nuove, inaccettabili, misure?
Nelle pagine seguenti sono presentati i risultati campionari delle prove INVALSI condotte nella primavera di quest’anno. Mentre è consueta la modalità di presentazione e il periodo in cui questo avviene – il primo giovedì di luglio – quest’anno sono state introdotte e realizzate importanti novità così come previsto dal Decreto Legislativo 62/2017. Si tratta di innovazioni che hanno cambiato notevolmente la prassi delle prove e riguardano 4 aspetti:
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Intelligenza artificiale: dannazione o liberazione del lavoratore?
di Carlo Lozito
Si annuncia la rivoluzione dell'IA, peraltro già avviata da oltre 20 anni con lo sviluppo di Internet e del web. Sarà una rivoluzione che peggiorerà le già deteriorate condizioni di vita dei lavoratori aprendo scenari sociali di potenziali conflitti i cui esiti sono al momento imprevedibili. Essa fa intravedere, per la prima volta nella storia, la possibilità concreta di far lavorare le macchine al posto degli uomini e di liberarli dalla dipendenza dal lavoro coatto
Meno si è meno si esprime la propria vita;
più si ha e più è alienata la propria vita.
Karl Marx
Siamo alla quarta rivoluzione industriale. Il capitalismo, finora, è riuscito a dare un impulso senza precedenti allo sviluppo delle forze produttive che, in poco più di due secoli, ha trasformato profondamente la società. Se guardiamo oltre l'apparente progresso, tanto sbandierato dagli apologeti del capitalismo, constatiamo un disastro sociale ed ambientale senza precedenti storici. Oggi le più colpite sono le giovani generazioni addirittura private della possibilità di progettare il loro futuro tanto è precaria la loro condizione lavorativa ed esistenziale. I fenomeni di karoshi e ikikomori, presenti in Giappone e sempre più frequentemente in Occidente, sono un segno dei tempi che viviamo1.
Mentre si realizzano le strabilianti nuove macchine dell'intelligenza artificiale (in seguito IA), rese possibili dallo sviluppo sviluppo scientifico senza eguali, viviamo contraddizioni spaventose. Alcuni uomini, le ricerche ci dicono siano otto (!), possiedono una ricchezza pari a quella della metà della popolazione mondiale più povera mentre la maggior parte dell'umanità vive la condizione di un'esistenza minacciata quotidianamente dalla precarietà, dall'incertezza, dalla faticosa lotta per conquistare il minimo vitale.
Ora si annuncia la rivoluzione dell'IA, peraltro già anticipata da oltre 20 anni con lo sviluppo del mercato globale, di Internet e del web, destinata nel volgere di un paio di decenni a porre sfide decisive all'intera società.
IA: una breve panoramica.
Non possiamo fare un'estesa disamina delle nuove macchine dotate di IA. Diciamo solo che esse incorporano e svolgono molte delle funzioni umane, anche complesse. Ne accenneremo solo, indicando nelle note all'articolo i link ai video in rete che le mostrano.
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La storia della terza rivoluzione industriale
3 - L’abdicazione dello Stato
di Robert Kurz
Pubblichiamo il terzo capitolo della sezione VIII dello Schwarzbuch Kapitalismus (“Il libro nero del capitalismo”) di Robert Kurz
Se paragonato all’oggettività della «crisi della società del lavoro», delineatasi negli ultimi due decenni del XX secolo, il «consenso globale sull’economia di mercato», costituitosi con forza in quello stesso periodo, andrebbe giudicato solo come un sintomo della sempre più grave incapacità mentale delle istituzioni capitalistiche e dei relativi rappresentanti ideologici. Questa cecità di fronte alla realtà, un vero e proprio flagello collettivo, può essere spiegata in parte con la specifica costellazione della storia del dopoguerra.
Sul piano della teoria economica e su quello politico la dottrina keynesiana era riuscita ad imporsi con forza come reazione alla Grande depressione dell’epoca tra le due guerre; nella contrapposizione tra i sistemi con il blocco orientale essa caldeggiò la concessione di misure sociali. Inoltre perlomeno un settore delle élite funzionali capitalistiche era giunto alla conclusione, collegata più o meno saldamente al keynesismo, che il «consumo di massa di investimento» di beni di consumo durevoli fosse ormai un’architrave del sistema e dovesse quindi essere garantito dallo Stato. per questa via fu certamente possibile procrastinare il boom fordista oltre i suoi limiti interni. Ma come si intervenne allorché divenne chiaro che il sistema monetario iniziava nuovamente ad essere afflitto da un’inflazione drammatica e che quindi anche il keynesismo aveva fallito? Si ritornò al passato definendolo progresso.
Infatti il pensiero capitalistico, accanto al classico liberalismo economico – che risaliva ai fisiocratici, a Smith, Ricardo e Say – aveva prodotto solo la dottrina di Keynes (oltre che, in un ramo collaterale, il capitalismo di Stato integrale della «modernizzazione di recupero») come sintesi delle tendenze verso l’economia controllata dallo Stato a partire dal tardo XIX secolo, e in questo modo aveva esaurito ogni freccia al suo arco. Sul terreno del modo di produzione capitalistico non esiste una terza possibilità.
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Le Tesi agrarie di Lenin al II congresso del Komintern
di Enrico Galavotti
Premessa
Rivolte al II Congresso dell'Internazionale comunista, le Tesi agrarie1 furono scritte da Lenin nel giugno 1920, quando ormai gli restavano pochi anni di vita. I destinatari sono quindi i delegati dei partiti comunisti del mondo intero, i quali rappresentavano, in quel momento, gli interessi del proletariato urbano e industriale. La rivoluzione socialista, contro le sue aspettative, era risultata vincente solo in Russia, il Paese più debole di tutti quelli capitalistici.
Lenin non può più considerare il proletariato urbano come una classe che in sé è migliore dei contadini, altrimenti sarebbe difficile spiegare il motivo per cui in Europa occidentale, dopo l'Ottobre, non sono stati compiuti analoghi rivolgimenti contro il sistema dominante (i pochi realizzati furono facilmente travolti dalla reazione borghese). Ormai è in grado di vedere anche i forti limiti di questa classe (almeno di una sua parte) e soprattutto i limiti, ancora più grandi, di chi rappresenta il peggio di questa classe, i parlamentari e i sindacalisti socialdemocratici, politicamente riformisti. Sta cominciando a capire che per realizzare il socialismo non basta appartenere alla classe degli sfruttati: ci vuole anche una forte volontà emancipativa e una chiara consapevolezza dei veri problemi della società. E queste cose possono averle anche i contadini, gli impiegati, gli intellettuali, ecc., i quali, anche se oggettivamente sono piccolo-borghesi, possono elevarsi ideologicamente al di sopra dei limiti della loro classe d'appartenenza.
Sono sfruttati tutti coloro che non dispongono di proprietà privata, ma come distinguere, tra questi nullatenenti, quelli che hanno atteggiamenti davvero rivoluzionari? È sufficiente prendere in considerazione i livelli degli stipendi e dei salari? Più sono bassi, infimi, e più uno dovrebbe maturare uno spirito eversivo? Purtroppo non c'è un nesso logico, oggettivo, tra le due cose. Non è detto che le rivoluzioni socialiste vengano fatte da chi sta peggio economicamente.
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Le contraddizioni del governo giallo-verde e del suo blocco sociale
di Domenico Moro
Relazione al convegno Eurexit, Roma 13 aprile
La situazione politica europea risulta profondamente mutata rispetto soltanto a pochi anni fa. Anche se le modifiche sono particolarmente evidenti in Italia, in quasi tutti i Paesi dell’area euro si è assistito alla crisi del sistema bipolare/bipartitico, che ha caratterizzato l’assetto politico continentale per parecchi decenni.
I partiti europei afferenti alle due principali famiglie politiche continentali, quella dei popolari (Partito popolare europeo) e quella dei socialisti (Partito socialista europeo), hanno subito un declino più o meno grave. I voti sono andati in parte all’astensionismo, che è cresciuto a livelli quasi statunitensi, e in parte al cosiddetto populismo. Il termine di populismo, però, è a mio parere poco preciso e direi anche fuorviante, perché al suo interno sono comprese forze politicamente e ideologicamente in alcuni casi diverse tra loro, e con basi di massa e di classe anche diverse. Per questa ragione preferisco usare il termine di terze forze, ad indicare la loro terzietà rispetto al tradizionale bipolarismo/bipartitismo.
La crisi del bipartitismo è il risultato del combinato disposto della cosiddetta “stagnazione secolare” e dell’austerity imposta dall’Ue, che ha distrutto il compromesso tra capitale e classi subalterne che esisteva dal secondo dopoguerra. Va, però, sottolineato che non si tratta di effetti automatici dei rapporti di produzione, perché quella in atto è una riorganizzazione, soprattutto mediante l’integrazione europea, del sistema delle imprese (centralizzazioni proprietarie, riposizionamento su settori più profittevoli e internazionalizzazione della produzione), nonché della struttura sociale e del sistema politico. Queste trasformazioni vanno a colpire pesantemente, trasformandola, anche la composizione di classe della società italiana.
Classi e crisi
Ad essere colpito, si dice, è il cosiddetto ceto medio. Per la verità anche questo termine è ambiguo e portatore di confusione perché comprende al suo interno classi diverse che hanno una diversa collocazione all’interno della divisione del lavoro sociale – criterio cardine dell’appartenenza di classe.
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Sull'autonomia del politico di Tronti
di Toni Negri
Debbo confessare il mio imbarazzo nel discutere questo volume di scritti di Mario Tronti, complessivo della sua vita di studioso e militante. Quando ero giovane, non troppo tuttavia, attorno alla trentina, Mario m’insegnò a leggere Marx. Assunse molte responsabilità, facendolo – ed io gliene sono ancora grato. A partire da questa lettura, mi dedicai ad una vita militante. Ma nel 1966, sei o sette anni dopo quell’incipit, consegnandoci Operai e capitale, Mario ci lasciò – non dico “mi” ma “ci”, perché nel frattempo erano divenuti tanti gli “operaisti” presenti non solo nelle università quanto, soprattutto, nelle grandi fabbriche del nord Italia. Ci disse, nel 1966, che il decennio dei Sessanta era finito prima del suo termine e con esso il tempo dell’autonomia operaia, che bisognava trovare un livello più alto per le lotte che avevamo condotto e conducevamo, che bisognava portare la lotta nel Partito comunista italiano. Non era quello che già facevamo? Gli rispondemmo. Non fummo infatti, né allora né più tardi, insensibili al problema ed al compito di sviluppare politicamente le lotte operaie. Il fatto è che il Partito non lo gradiva affatto. Nel crescendo delle lotte operaia che doveva condurci al ‘68/‘69, non capimmo dunque perché lasciare a se stessa l’autonomia delle lotte. Mario disse allora che il ‘68 ci aveva definitivamente confuso. Secondo lui, avevamo preso per un’alba quello che invece era un tramonto. Ma quale tramonto? Certo, si annunciava la fine dell’egemonia dell’operaio-massa ma potevamo confonderla con quella della lotta di classe proletaria? Nel prolungarsi durante tutti gli anni ‘70 del lungo ‘68 italiano, quella conversione di Mario non poteva convincerci. Fu allora che smisi di leggere Tronti. Quando questo volume mi arrivò, mi accorsi che ne avevo già letto solo il primo terzo, due terzi mi restavano da leggere.
Certo, anche se non lo leggevo, Tronti non era assente dal mio quotidiano. In maniera stizzosa, ad esempio, lessi in quegli anni un saggio di storia del pensiero politico moderno che Mario pubblicò allora e che, ad uno spinozista quale stavo diventando, parve parziale e non certo grato nell’esaltazione senza riserve che ivi era fatta della teoria hobbesiana del potere.
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Divagazioni intorno al 25° capitolo del I Libro del Capitale
di Edoarda Masi (1927 – 2011)*
Abstract: This paper deals with Marx’s theory of colonization. It is argued that – in constrast with E.G. Wakefield’s view – Marx proposed a complete a consistent approach to the role of colonization in the dynamics of capital reproduction. In particular, he emphasized the transformation of free men in “underdeveloped” economies into wage workers.
1. Una lettura
Non riassumo il capitolo 25°, che è abbastanza breve e – mi sembra – di facile lettura. Marx è interessato a indagare come il capitale agisca sempre secondo la sua logica interna, e si propone qui di mostrare che nelle colonie si riproducono i suoi meccanismi fondamentali: specificamente, nella trasformazione di uomini liberi in salariati sfruttati. Per semplificare il discorso utilizza polemicamente un testo di E.G. Wakefield, un teorico della colonizzazione. Il discorso è chiaro e coerente, la sua logica incontestabile, una volta che si accettino i presupposti – per la verità non tutti accettabili (come quello che nelle terre da colonizzare il capitale trovi, all’inizio, liberi produttori).
Partire dal massimo livello di astrazione può valere contro la realtà storica? Al di là di questa logica, mi limiterò ad alcune osservazioni in certo senso fuori tema.
Quando Marx scrive queste righe, siamo in pieno Ottocento – il secolo nel corso del quale le terre emerse colonizzate degli europei passano dal 35% all’85%. È quanto meno singolare che un osservatore acuto (diciamo pure, un genio) come lui non si curi di questo evento macroscopico, una volta che abbia deciso di scrivere un capitolo sulla colonizzazione. Né si domandi per quali motivi tale fenomeno sia in corso, da dove parta e quali risultati produca nella madrepatria (cioè nel luogo centrale della sua indagine sul capitale).
Non solo. Come esempio di colonia sceglie gli Stati Uniti d’America, che da un pezzo hanno raggiunto l’indipendenza; anche se – come si precisa in nota – «economicamente parlando […] sono ancora terra coloniale dell’Europa».
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Quattro interventi sul fenomeno "Greta"
In direzione ostinata e contraria
di Pierluigi Fagan
Sulla questione ecologia-Greta, mi trovo in dissenso profondo con molti amici ed amiche con i quali, di solito, si hanno punti di vista comuni. Che fare? Lasciar perdere per non sfilacciare ulteriormente le già sparute file del pensiero critico, o far di questo dissenso un momento di dialettica interna al nostro stesso pensiero critico? La domanda è retorica in tutta evidenza, la scelta è già fatta. Perché?
Ho l’impressione, forse sbaglio e chiedo in sincerità di dibattere la questione tra noi con la ponderazione ed intelligenza tipica dei frequentatori di questa pagina, che noi si sia finiti in un setting di pensiero la cui matrice per altri versi siamo molto lucidi a criticare. Per ragioni che qui non possiamo affrontare, ad un certo punto del secolo scorso, già ai suoi inizi, si è andata manifestando nel pensiero, uno spostamento di asse. Tra la relazione soggetto – oggetto fatta dal pensiero, è emerso il problema dello strumento che ci fa comporre e scambiare il pensiero: il linguaggio.
Tralasciamo i riferimenti più o meno colti e passiamo al momento successivo, quando un filosofo francese minore, pone all’attenzione la natura narrativa di ogni discorso, narrazioni fatte di linguaggio. Il linguaggio è materia della forma discorsiva che influisce, limita, indirizza il discorso stesso ed in più, tutto è discorso. Penso nessuno possa sottovalutare l’importanza di queste osservazioni ormai patrimonio della nostra conoscenza. Per altro ci era già arrivato anche Eraclito, e non solo lui, qualche secolo fa.
Danno da pensare due cose. La prima è il venirsi a formare di una sorta di monopolio concettuale di questo fatto, tutti ormai parlano più o meno solo di questo, tutto è narrazione e contro-narrazione.
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Il sindacato complice
di coniarerivolta
Il poeta francese Charles Baudelaire affermava che “la più grande astuzia del diavolo è farci credere che non esiste”. I padroni hanno storicamente fatto tesoro di questa lezione, tanto da dotarsi di una teoria economica – il paradigma economico oggi dominante – che ha tra i suoi principali obiettivi quello di convincerci che, alla fine della fiera, non c’è alcuna contrapposizione e inconciliabilità tra gli interessi dei lavoratori e dei capitalisti. Ora, chiunque abbia lavorato anche solo una settimana in vita sua, chi è disoccupato o sottoccupato, sa benissimo che questa è una menzogna bella e buona, utile solamente a tenere al riparo proprio i capitalisti da noiose rivendicazioni. Una cosa apparentemente così banale e di buon senso deve essere sfuggita ai sindacati confederali i quali, dopo tanto parlare di partito del PIL ed armonia sociale, decidono finalmente di fare il grande passo e lanciano un ‘Appello per l’Europa’ insieme alla principale organizzazione padronale italiana, Confindustria.
Un quadro idilliaco si apre di fronte agli occhi del lettore dell’appello, un universo dove siamo tutti sulla stessa bella barca, padroni e lavoratori, tutti con la fortuna di risiedere in una Unione Europea che viene presentata come “il progetto […] cruciale per affrontare le sfide e progettare un futuro di benessere per l’Europa che è ancora uno dei posti migliori al mondo per vivere, lavorare e fare impresa”.
La premessa dice già tutto. L’architettura europea è un valore di per sé e non necessita di alcuna riflessione critica. Chi ha scritto l’appello, chiaramente, non ha vissuto e non vive come un problema i vincoli di finanza pubblica e le politiche di austerità, che hanno causato il ritorno della disoccupazione di massa e il peggioramento materiale delle condizioni di vita di milioni di lavoratori. In tutto il testo, è presente solo un vago e impersonale riferimento a generiche “politiche di rigore”, senza neanche menzionare chi queste politiche di rigore le ha congegnate e imposte agli Stati membri, in particolare quelli della periferia europea.
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La globalizzazione democratica di Rodrik
di Vincenzo Russo
Nel suo nuovo saggio l'economista sviluppa le idee elaborate in questi ultimi anni e formula una serie di proposte per tentare di conciliare il ruolo dello Stato nazionale, che considera tutt'altro che esaurito, con un'economia per cui i confini non hanno più significato
La tesi principale del libro è che gli Stati nazionali hanno ancora un ruolo da giocare specialmente in termini di giustizia sociale, riduzione delle diseguaglianze e protezione dei diritti dei lavoratori. Devo dire che prima di leggere il lavoro di Rodrik ero convinto del contrario specialmente con riguardo alla posizione dei paesi membri dell’Unione europea. Dopo attenta meditazione sulle sue argomentazioni, tendo a convergere con la sua posizione. Il motivo è presto detto: intanto la globalizzazione degli ultimi decenni non è stata ben governata e la finanza rapace ha fatto il bello e il cattivo tempo. La globalizzazione implica una verticalizzazione del processo decisionale che per funzionare bene comporterebbe una riforma delle istituzioni sovranazionali. In assenza di detta riforma non si può contare su di esse per garantire a livello globale il rispetto dei diritti fondamentali, un livello essenziale di giustizia sociale, la libertà di movimento dei cittadini in cerca non solo delle libertà che sono loro negate nei paesi dove sono nati ma anche il diritto a migliorare il loro benessere emigrando.
Si tratta quindi di una soluzione di second best che non va condannata come tale ma di prendere atto che allo stato non è disponibile quella di first best. E chi sa quanto tempo bisogna ancora attendere prima di riuscire a costruirla. Come sappiamo, a livello sovranazionale, non ci sono parlamenti regolarmente eletti. E se ci sono come nell’Unione europea, ciò non significa che hanno l’ultima parola in materia di politiche sociali e redistributive. Ci sono tecnocrazie nominate da alcuni governi che non esprimono necessariamente gli interessi delle fasce più deboli dei paesi membri. Per le istituzioni sovranazionali si parla di governance e non di organismi pienamente democratici. Nel massimo organo decisionale delle Nazioni Unite il potere è concentrato nel Consiglio di sicurezza composto da cinque membri permanenti e da dieci temporanei.
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Ernesto Laclau e i misteri del "politico"
A cinque anni dalla scomparsa del teorico argentino
di Damiano Palano
A cinque anni dalla morte di Ernesto Laclau, scomparso prematuramente il 13 aprile 2014 a Siviglia, Maelstrom ne ripropone questo ricordo, che allora venne pubblicato sul sito dell'Istituto di Politica
L’improvvisa scomparsa di Ernesto Laclau, avvenuta il 13 aprile scorso a causa di un attacco cardiaco, priva la teoria politica contemporanea di uno dei suoi più originali protagonisti. Anche se in Italia la riflessione di Laclau ha iniziato solo da pochi anni a essere conosciuta e discussa, le sollecitazioni che lo studioso argentino ha sottoposto alla discussione teorica hanno avuto un ruolo fondamentale nel riportare al centro il nodo del ‘politico’ e della sua autonomia. E anche se la proposta delineata da Laclau ha incontrato nel corso del tempo critiche spesso molto dure, la sua operazione di ‘decostruzione’ della categorie teoriche del marxismo rimane senza dubbio un punto essenziale per la riflessione contemporanea, così come la teoria del populismo, precisata nei suoi contorni nell’ultimo decennio, ma elaborata nel corso di un’intera carriera di studio.
La carriera accademica di Laclau si svolse quasi esclusivamente all’interno del mondo universitario britannico (e in special modo all’Università di Essex, dove insegnò Teoria politica dal 1973 e dove diresse il Center for Theoretical Studies in Humanities and Social Sciences dal 1990 al 1997), ma lo studioso argentino conservò sempre un legame molto stretto con il paese d’origine. La sua riflessione teorica può infatti essere considerata come un tentativo di comprendere un fenomeno – indecifrabile con le categorie politiche del Vecchio continente – come il «peronismo». Tanto che, per molti versi, tutta la sua ricerca intellettuale può essere considerata come un tentativo di rispondere a quei problemi – teorici e politici – in cui Laclau si era imbattuto negli anni della sua militanza giovanile nel movimento socialista argentino.
Nato nel 1935, Laclau aderì infatti già nel 1958 al Partido Socialista Argentino (Psa), assumendo anche un ruolo di leadership all’interno della componente di sinistra del movimento studentesco dell’Università di Buenos Aires. Nel 1963 entrò nel Partito Socialista de la Izquierda Nacional (Psin), un partito di orientamento trotzkista guidato da Jorge Abelardo Ramos, e proprio all’interno di questo gruppo Laclau assunse un ruolo politico di primo piano, anche perché gli venne affidata la direzione del settimanale «Lucha Obrera», oltre che della rivista teorica, «Izquierda Nacional».
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