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La guerra d’accerchiamento alla Cina
di Pasquale Cicalese e Filippo Violi
“Il problema delle guerre imperialiste, di quella politica internazionale del capitale finanziario che oggi predomina in tutto il mondo, che fa nascere inevitabilmente nuove guerre imperialiste e che genera inevitabilmente una intensificazione inaudita dell'oppressione nazionale, del saccheggio, del brigantaggio, del soffocamento delle piccole nazioni deboli e arretrate ad opera di un pugno di potenze "più avanzate'', questo problema è stato, fin dal 1914, il problema fondamentale di tutta la politica di tutti i paesi del mondo. è questa una questione di vita o di morte per decine di milioni di uomini”. Lenin, "Per il Quarto Anniversario della Rivoluzione d'Ottobre'', 14 Ottobre 1921, Opere complete, vol. 33, p. 41, Editori Riuniti.
“Il filisteo non capisce che la guerra è "la continuazione della politica'' e quindi si limita a dire "il nemico attacca'', "il nemico invade il mio paese'', senza domandarsi per quale motivo si combatta la guerra, con quali classi, per quale fine politico”. Lenin, "Intorno a una caricatura del marxismo e all'`economismo imperialistico''', Agosto-Ottobre 1916, Opere complete, vol. 23, pag. 30, Editori Riuniti.
L’attacco americano alla base aerea di Shayrat, nel centro della Siria, rappresenta una svolta storica nelle relazioni internazionali tra massime potenze mondiali.
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Il rovescio della libertà
di Massimo De Carolis
Si può stabilire con l'attualità recente e con il neoliberalismo che sembra contrassegnarla in profondità un confronto speculativo, capace di farne balenare il senso? Ha provato a farlo Massimo De Carolis nell'appena uscito "Il rovescio della libertà. Tramonto del neoliberalismo e disagio della civiltà" (Quodlibet). Ringraziamo l'autore e l'editore per averci concesso di pubblicare l'introduzione
Nella storiografia economica si è diffuso da tempo il vezzo di designare i tre decenni successivi alla seconda guerra mondiale con l’espressione les trente glorieuses: una formula coniata in origine per il miracolo francese del secondo Dopoguerra, che col tempo è stata progressivamente estesa all’intero mondo occidentale. Per chi sia abituato a privilegiare, nella storia, la dimensione strettamente politica, l’attribuzione disinvolta di un titolo così onorifico può forse destare qualche perplessità, pensando alle tensioni generate in quegli anni dalla guerra fredda, dalla minaccia nucleare o dall’asprezza dei conflitti ideologici e sociali. Se ci si concentra però sui soli parametri economici, è difficile negare che l’economia di mercato abbia messo a segno, in quei decenni, un risultato a dir poco straordinario. La crescita è stata consistente e ininterrotta, il tenore di vita della stragrande maggioranza della popolazione occidentale è considerevolmente migliorato e le disuguaglianze sociali si sono ridotte in modo significativo.
Al confronto, la fase storica successiva offre, a uno sguardo retrospettivo, uno spettacolo decisamente meno incoraggiante. Quelli che si succedono, a partire dagli anni Ottanta, sono anni senza gloria, afflitti da crisi continue, da effimeri entusiasmi e grandi delusioni, destinati a sfociare in una crisi di lunga durata e nella drastica esplosione delle disuguaglianze. Per di più, in questo caso, il bilancio negativo non sembra affatto limitabile alla sola sfera dell’economia.
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Qualche appunto sulle Presidenziali Francesi: lo schema “crinale”
di Alessandro Visalli
Un classico modello della teoria dell’equilibrio contrappone una pallina in un fondo valle ad una sul crinale di una montagna. La prima tenderà a tornare sempre nello stesso punto, la seconda può andare a destra come a sinistra per minuscole variazioni, un soffio di vento, una vibrazione.
Le elezioni presidenziali francesi sono imminenti. Il 23 aprile si terrà il primo turno ed il 7 maggio si saprà chi avrà vinto il ballottaggio.
Si tratta delle più importanti elezioni di questa tornata, probabilmente del momento decisivo nella storia del processo di integrazione Europeo. Dopo la Brexit, ci troviamo in una “situazione crinale”: con il Presidente Americano che pone il ridisegno degli equilibri continentali, in chiave di indebolimento del dominio senza egemonia tedesco, al centro della sua azione, e nel mezzo di crisi multiple e senza fine (economica, sociale, politica, militare ed ambientale), la scelta si prefigura tra il neo-populismo moderno e sotto molti profili intelligente di Marine Le Pen, e uno tra Emmanuel Macron (che è dato testa a testa circa al 24%) e gli outsider, Jean-Luc Mélenchon (dato al 19%) o il candidato della destra gollista François Fillon (appena superato, dalle parti del 18%). Chi è già stato eliminato è, come prevedibile, il candidato del Partito Socialista del Presidente uscente Hollande, Benoit Hamon, che è all’8%.
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Ripartiamo da un populismo democratico, non dalla sinistra
di Stefano Bartolini, Paolo Gerbaudo e Samuele Mazzolini*
L’establishment utilizza il termine “populismo” per bollare qualsiasi protesta del basso contro l’alto. Ma oltre al significato reazionario in salsa lepenista, può essere uno strumento politico per unificare le istanze insoddisfatte provenienti da una società frammentata. E per dar vita a nuovo senso di comunità ed appartenenza. La soluzione non passa più quindi per quella sinistra che ha perso ormai contatto con gli strati sociali più deboli.
Nel settembre scorso The Guardian ha pubblicato un articolo di John Harris – tradotto da Internazionale nel N. 23/2016 – dove con molta chiarezza viene illustrata la spaccatura culturale che separa quella che oggi si definisce sinistra dalla gente comune. Per l’autore la sinistra è ormai un fenomeno metropolitano estraneo al mondo degli strati popolari, incapace di comprenderli, che si balocca nel suo cosmopolitismo e vede solo le opportunità della globalizzazione, arrivando a disprezzare quella che però al tempo stesso ancora considera la sua base elettorale perché non riesce a comprendere la fondatezza delle sue argomentazioni.
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La critica come resistenza militante
di Militant
E’ spesso faticoso ragionare su opere datate nel tempo. Troppo stratificata la mole di commenti di cui tenere conto, le interpretazioni date, l’universo del già detto. Se poi l’opera in questione non è solo un “classico”, ma dall’autore così importante e “ingombrante”, il rischio della superficialità diviene una quasi certezza. Eppure mai come oggi crediamo che questo rischio vada corso, visto il deperimento ormai definitivo della critica nel nostro paese. Tutto il già detto su opere del genere è oggi sepolto da strati di decadenza culturale che hanno disattivato completamente un messaggio, e un linguaggio, un tempo in grado di emancipare generazioni di militanti. Partiamo affermando allora questo: non è possibile predisporsi alla critica di un qualsiasi lavoro culturale – sia esso letterario, artistico, teatrale, cinematografico, eccetera – senza aver assimilato i concetti fondamentali presenti in questo Marxismo e la critica letteraria. Senza aver compreso, cioè, le basi del rapporto tra marxismo e cultura. Un rapporto che non è decisivo unicamente per una critica “di sinistra” (concetto d’altronde molto equivoco), ma per ogni genere di critica, perché la relazione tra la dialettica materialista e la cultura è una relazione universale e non ingabbiata nell’ideologia (marxista in questo caso). In altre parole: Marx ed Engels hanno svelato, pur in assenza di opere di sintesi sul tema, il rapporto tra essere umano ed espressione culturale mediato dalle relazioni capitalistiche entro cui questo specifico rapporto prende forma. Come si può procedere a una critica culturale senza possedere le basi di questa relazione, che è una relazione generale, ma che assume caratteri peculiari riguardo all’estetica?
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Siria, una guerra “made in USA”
di Thomas Fazi
L’attacco statunitense di venerdì è solo l’ultimo atto di una strategia di destabilizzazione che gli Stati Uniti portano avanti da anni
Quando si parla di Siria, ci sono due questioni che vengono surrettiziamente legate: la fine del conflitto e la rimozione di Assad. Secondo la narrazione dominante (anche a sinistra), il legame tra le due cose è ovvio: per porre fine al conflitto bisogna rimuovere Assad. Trattasi di una logica curiosa, però, per diversi motivi:
1. Assad, come il padre suo predecessore, è riuscito per diversi anni – anche ricorrendo a metodi brutali, è vero, ma lo stesso vale per tutti gli Stati mediorientali, inclusi quelli alleati dell’Occidente – a mantenere la pace (nonché un regime laico e multiconfessionale) in un paese che presenta un tessuto religioso estremamente complesso e frammentato.
2. Il conflitto attuale ha origine proprio nella strategia di “regime change” che da almeno quindici anni guida la politica statunitense nei confronti della Siria. Diversi cablogrammi classificati diffusi da WikiLeaks dimostrano che già nel 2006 – dunque ben cinque anni prima dell’insurrezione popolare del 2011 – gli Stati Uniti puntavano a destabilizzare «con ogni mezzo necessario» il regime di Bashar al-Assad.
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Commander in chief
di Pierluigi Fagan
Speak softly and carry a big stick; you will go far (“Parla gentilmente e portati un grosso bastone; andrai lontano”). Conosciuta come “politica del grosso bastone” o “diplomazia delle cannoniere”, la strategia allude alla più antica “Se vuoi la pace, prepara la guerra”, già presente (con altra formulazione) nelle Leggi di Platone e poi nella tradizione latina. La politica del grosso bastone, fu memorabilmente promossa da Theodore Roosevelt, 26° presidente degli Stati Uniti (1901-1909) che per altro, venne poi anche insignito del Nobel per la pace, diventando una delle quattro facce scolpite sul costone del monte Rushmore. Il senso è intuitivamente chiaro: poiché le parole rischiano di rimanere “flatus voci”, devi metterci sotto qualche atto conseguente di modo che prendano la consistenza dell’anticipo dell’atto. Insomma se domani ti siedi ad un tavolo per trattare qualcosa, è meglio che gli interlocutori sappiano che le chiacchiere non stanno a zero, le parole hanno conseguenze. Il momento topico dell’attacco missilistico “one off” coi 59 Tomahawk è stato quando Trump si è chinato a cena a sussurrare all’orecchio di Xi Jinping “…ah sai, sto bombardando la Siria”. Trump ha colto al volo l’occasione (o qualcuno ha “preparato l’occasione”, questo non lo sapremo mai) dell’infrazione chimica, per segnare alcuni punti che tornano utili per le sue molteplici trattative.
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Sulle elezioni in Francia: Candidati del Passato e Candidati del Futuro
di Jacques Sapir
Nel suo blog Russeurope l’economista Jacques Sapir esprime la sua visione sui candidati alle prossime elezioni presidenziali francesi. Nonostante qualche figura dignitosa e meritevole tra i candidati minori, il gioco sembra essere ridotto a quattro. Da un lato Fillon e Macron, i candidati del passato legati alle politiche europee già dimostratesi fallimentari, che hanno portato disoccupazione e deindustrializzazione, e alle quali non sanno opporre alcuna reale alternativa. Dall’altro Le Pen e Mélenchon, gli unici capaci di prefigurare un futuro diverso e quindi degni di essere votati. Secondo Sapir, in queste due settimane da qui al voto risulterà decisiva la loro capacità di chiarire i dubbi e contraddizioni che ancora circondano i loro programmi.
* * * *
La settimana prossima sarà una settimana decisiva. Domenica 9 aprile siamo esattamente a 14 giorni dal primo turno delle elezioni presidenziali. L’elettorato sembra ancora estremamente volatile nelle sue scelte, ma le tendenze che stanno emergendo sono abbastanza indicative delle situazioni che si realizzeranno in futuro.
I candidati della disoccupazione e del passato
Ci troviamo di fronte a un inatteso “gioco a quattro”. Ancora due mesi fa si pensava che lo scontro sarebbe stato tutto tra Marine Le Pen e François Fillon. Poi è arrivato Emmanuel Macron e la situazione è cambiata radicalmente.
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Ernesto Laclau, “La ragione populista”
di Alessandro Visalli
Il libro del 2005, del filosofo Ernesto Laclau, che insegnava Teoria Politica all’Università di Essex, è tra i testi al centro dell’attenzione da quando la crisi ha cominciato ad erodere l’egemonia neoliberale, aprendo lo spazio della ricerca di alternative. Lo studioso argentino ha alcuni riferimenti culturali che ci sono familiari: il marxismo (che però sceglie di superare, mettendo in questione la focalizzazione strategica sulla classe sociale come cosa in sé, attraverso una sorta di ‘svolta linguistica’, rifocalizzando il discorso in quanto generatore di politica sulla creazione di “popolo”), Antonio Gramsci (da cui preleva il concetto chiave di egemonia), Lacan (da cui prende parte della struttura concettuale) e Foucault (da cui il sospetto per le forme di disciplinamento e governo).
Il testo è difficile, un’opera matura, di un filosofo che all’epoca della pubblicazione aveva raggiunto i settanta anni, e collocata all’intersezione tra filosofia, psicologia e politica, gli autori più citati sono Freud, Gramsci, Hegel, Lacan, Marx, Gabriel Tarde, e i/le contemporanei/e Mouffe, Rancière, Zizek (ma per rispondere alle sue obiezioni). La sua posizione risente fortemente della “filosofia del sospetto” francese (anche se Foucault è poco citato e Derrida no), e della “svolta linguistica” (anche se praticamente viene citato solo Wittgenstein), e dunque fatica ad inserirsi completamente nello schema che del populismo viene disegnato, ad esempio, da Merker in “Filosofie del populismo” che leggeremo, o da Jan-Werner Muller in “Cosè il populismo?”.
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Il tradimento di Trump ha aperto il vaso di Pandora
di Federico Pieraccini
"Qualunque sia la verità nascosta di questi due eventi, è chiaro a tutti che da ora in avanti, nulla sarà più come prima."
Il 4 Aprile, nella città Siriana di Khan Shaykhun, dal 2014 sotto controllo dei terroristi sostenuti dalle forze politiche occidentale, avveniva un disastro chimico con oltre ottanta morti.
Immediatamente, fonti locali (White Helmets) e straniere (osservatorio Siriano basato a Londra) legate ai gruppi combattenti di al qaeda, incolparono l’Esercito Arabo Siriano, reo di aver bombardato con l’uso di agenti chimici la popolazione locale. Nelle successive quarantotto ore, i media mainstream inondarono l’etere e i giornali di presunte notizie certe che imputavano ad Assad l’uso di armi chimiche.
Come noto, non è la prima volta che al governo legittimo della Siria viene accusato di attaccare il suo stesso popolo con armi di distruzione di massa.
In tutti gli analoghi eventi degli anni passati, si è successivamente scoperto che ad aver impiegato agenti chimici furono i terroristi di Al Nusra e Al Qaeda.
Nel 2013, Obama respinse tacitamente la tesi secondo cui a Ghouta i Siriani usarono armi chimiche, decidendo di non cedere alle pressioni interne e bombardare la Siria in risposta.
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Un anno dopo
Lorène Lavocat
Un anno fa, l’occupazione di place de la République, a Parigi. Parlare oggi di fallimento del movimento Nuit debout significa restare ingabbiati nei codici del produttivismo. Il movimento, che non ha cercato fusioni o unità, ha visto fiorire collettivi e iniziative, alcune Commissioni nate in quella piazza (come quella di Educazione popolare) continuano a incontrarsi, ha perfino esercitato una certa influenza sulle campagne elettorali rendendo popolare il tema del reddito di cittadinanza. In realtà, ciò che #Nuitdebout ha apportato alla società non si può toccare con mano né misurare: il movimento ha risvegliato prima di tutto il poter agire delle persone comuni
Sulla Piazza della Repubblica, i ragazzi sugli skates e i perdigiorno hanno riaffermato il loro diritto sullo spazio, approfittando del ritorno della primavera. La statua della Marianna, sbarazzata da graffiti, candele, e altri messaggi di sostegno o di rivolta, si trova ormai circondata da un bacino d’acqua di protezione. Finiti gli slogan scarabocchiati con il gesso sulle pietre. Finiti i lenzuoli stesi tra gli alberi con tre pezzi di spago. Ogni cosa è ridiventata calma, docile, tranquilla. Ma soltanto in apparenza.
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Il rapporto OCSE, la scuola di classe e la società classista
di Girolamo De Michele
Di recente l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico ha reso pubblico un rapporto sul confronto dei dati relativi alle indagini del passato sulle competenze scolastiche e sulle competenze di base e di cittadinanza degli adulti di oggi. Il rapporto OCSE, di cui è disponibile anche una sintesi in inglese per la stampa, ha scatenato il solito sciocchezzaio.
La scorsa settimana è andato in onda un format (o forse era la sua replica?) cui la scuola italiana è ormai abituata, e che infatti, al di là del primo impatto, non ha registrato particolari picchi di audience. La trama, in effetti, era sin troppo consueta: un ente internazionale, l’OCSE, pubblica un rapporto; qualche giornalista lo commenta senza averlo letto, basandosi sulla sintesi predisposta per la stampa e facendosi aiutare da google traduttore (per cui “cohorts”, che in senso statistico significa “gruppo”, diventa “alcune coorti di studenti”, che ci si figura stretti – nelle classi-pollaio tuttora in vigore – e pronti alla morte laddove l’Italia chiamò), e alcuni politici a caso – Matteo Renzi, una signora dai capelli rossi casualmente di passaggio presso il ministero dell’istruzione, e la solita Francesca ma-che-te-lo-dico-a-fare? Puglisi – commentano entusiasti, come i loro predecessori dello scorso decennio, ovviamente senza aver letto il rapporto: commentano, dunque, un articolo di giornale, non i dati in questione, secondo il quale “l’OCSE ci promuove” (Renzi) come “scuola migliore d’Europa” (Intravaia) perché “i dati pubblicati dall’Ocse ci dicono che la scuola italiana è una scuola inclusiva, capace di supportare le studentesse e gli studenti che partono da condizioni più svantaggiate” (Fedeli), e dunque “l’Italia riesce ad offrire uguali opportunità a tutti recuperando gli svantaggi di partenza” (Puglisi).
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“Lo chiamano amore”
Note sulla gratuità del lavoro
di Anna Curcio
Da AA.VV, Salari rubati. Economia, politica e conflitto ai tempi del salario gratuito, Ombre Corte, 2017
“Lo chiamano amore, noi lo chiamiamo lavoro non pagato”. Questo l’esergo che Silvia Federici sceglie per un testo fondativo della campagna internazionale Salario al lavoro domestico1. Erano gli anni Settanta e il femminismo marxista era impegnato in un duro confronto critico con Marx, per portare in primo piano la produzione di valore del lavoro riproduttivo. Si intendeva in particolare denunciare la gratuità del lavoro domestico e della cura, svelando le forme intrinseche dello sfruttamento del lavoro delle donne2.
La suggestione di Federici, tutt’altro che datata, ritorna pressoché intatta nel presente, mentre il lavoro gratuito dilaga imponendosi quale nuova frontiera dell’accumulazione capitalistica. Stage, tirocini, esperienze di praticantato, straordinari non pagati, volontariato, le innumerevoli forme di gratuità del lavoro intellettuale e artistico e ogni altra sorta di lavoro non retribuito fino alla lavorizzazione del consumo (si pensi soprattutto alle attività che quotidianamente svolgiamo nel web 2.0) stanno ridisegnando la geografia del lavoro contemporaneo. E il lavoro in quanto tale, sganciato dal rapporto salariale, diventa un atto d’amore. È precisamente un atto d'amore quello che oggi il capitale domanda quando chiede di lavorare senza il compenso di un salario, proprio come ha storicamente chiesto alle donne di svolgere gratuitamente e per amore la cura e il lavoro domestico.
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Il compromesso socialdemocratico
Gianni Saporetti intervista Salvatore Biasco
La fine del compromesso fra capitalismo e democrazia, fra mercato e controllo pubblico, causata anche da fattori oggettivi, e l’affermazione di un’ideologia neoliberista che, nella soggezione culturale della sinistra, ha finito per diventare pensiero unico; politica dell’offerta, alleggerimento dello Stato, flessibilizzazione del mercato del lavoro, arretramento sui canoni di protezione sociale; il fallimento del partito leggero, della “democrazia del pubblico”. Intervista a Salvatore Biasco.
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Possiamo partire dal "compromesso socialdemocratico”? Che cos’è?
Il compromesso socialdemocratico è stato un connubio di principi democratici e partecipativi con il mercato, che lasciava alle imprese il compito di creare occupazione e innovazione, ma al contempo ne disciplinava il comportamento. Da questo punto di vista, le imprese erano concepite come una sorta di bene pubblico soggette a uno scrutinio pubblico nel quale lo Stato aveva una funzione di direzione, supplenza, ausilio. Quindi le imprese non sono le artefici incontrastate di decisioni che portano al benessere sociale.
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Restaurazione liberista e criminalizzazione della povertà
di Renato Caputo
La restaurazione liberista sta portando a una crisi sociale senza precedenti nel mondo a capitalismo avanzato, alla quale le classi dominanti rispondono con la criminalizzazione della povertà
L’Osservatorio pensioni dell’Inps il 30 marzo ha reso noto che il 76,5% delle donne percepisce meno di 750 euro al mese, collocandosi così al di sotto della soglia di povertà, in compagnia di oltre 11 milioni di pensionati, ovvero 6 su 10. Nel 26% dei casi, rimanendo sotto i 500 euro al mese, la pensione è al di sotto del livello di povertà assoluta. Sono i brillanti risultati della riforma Fornero, passati con un supporto bipartisan in parlamento e senza suscitare significative proteste da parte delle stesse forze sindacali. Tale riforma si accaniva, ancora una volta sui più deboli, le donne, la cui età pensionabile è stata elevata di ben 5 anni. L’attacco alle pensioni non è finito con il governo Monti, ma è stato portato avanti, anche se in forme meno aperte, dallo stesso governo Renzi.
Inoltre, con il blocco delle rivalutazioni degli assegni pensionistici medi e medio-bassi, come denuncia un’indagine dello Spi presentata il 4 aprile, l’abbassamento del livello delle pensioni porta gli anziani a dover risparmiare progressivamente persino sul cibo, sempre più razionato e di cattiva qualità, e sulle cure mediche e dentistiche, con inevitabili conseguenze sulle aspettative di vita. Così il 17.5% di anziani, al solito più donne che uomini, si vede costretto a saltare o il pranzo o la cena. Del resto si tratta di un problema che non colpisce i soli pensionati, considerato che, dovendo pagare i costi della crisi, Il 57% delle famiglie è stata costretta a diminuire quantità e qualità della spesa.
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Epoca, fasi storiche, Capitalismi*
di Roberto Fineschi
Relazione al Forum Nazionale della Rete dei Comunisti, Roma 17/18 dicembre 2016
Con questo intervento cercherò, sulla base dei miei studi1, di precisare che cosa significa per Marx "storia" e "fase storica" Quando in altre occasioni ho presentato questo stesso tema, ho spesso preso come punto di riferimento i miei studenti, ai quali chiedo che cosa intendano per storia; loro guardano l'orologio e dicono che, partendo da ieri e andando all'indietro, più o meno tutto è storia, non facendo molte distinzioni in questo lungo lasso di tempo, cioè non riuscendo sostanzialmente ad andare oltre una definizione generica e non strutturata di che cosa storia significhi.
Dialettica di continuità e discontinuità storica
Marx, l'autore del quale mi sono interessato e in base al quale cercherò di argomentare questa tesi, si è impegnato per tutta la vita nel tentativo di elaborare un'idea di storia molto più strutturata e complessa, che tenesse insieme non un generico "prima", rispetto ad un altrettanto generico "presente", ma che dimostrasse come questo "prima” e questo "presente" avessero delle leggi di funzionamento, potessero essere strutturati in periodi. Si trattava di tenere insieme due aspetti, che poi nel dibattito successivo avrebbero prodotto tendenze conflittuali: la continuità e la discontinuità storica.
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Cinque risposte su marxismo ed ecologia
di Saral Sarkar e John Bellamy Foster
Il marxismo può rafforzare la nostra comprensione della crisi ecologica? L’autore di Marx’s Ecology, John Bellamy Foster, replica alle critiche su temi quali frattura metabolica, sviluppo umano sostenibile, decrescita, crescita demografica e industrialismo.
Il sito indiano Ecologize ha recentemente pubblicato la prefazione scritta da John Bellamy Foster al libro di Ian Angus, Facing the Anthropocene. Nel commentare l’articolo di Foster, il giornalista ed attivista Saral Sarkar, il quale definisce il proprio punto di vista come eco-socialista, solleva alcuni interrogativi che sfidano l’utilità dell’analisi marxista ai fini della comprensione della crisi ecologica globale. La replica di Foster è stata pubblicata da Ecologize il 26 marzo.
Lo scambio, qui riproposto, affronta importanti questioni circa le prospettive marxiste sulla crisi ecologica globale.
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ALCUNE DOMANDE PER JOHN BELLAMY FOSTER
di Saral Sarkar
Il professor Bellamy Foster è un rinomato studioso.
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Jurgen Habermas, La risposta della sinistra al nazionalismo della destra
di Alessandro Visalli
Su Micromega n.2/2017, l’intervista a Jurgen Habermas, ha questo titolo: “La risposta democratica al populismo di destra”, ma non nomina mai il termine “populismo”, che probabilmente è stato scelto dalla rivista. Il titolo più appropriato, che abbiamo dunque usato, sarebbe “La risposta della sinistra al nazionalismo delle destra”. Come vedremo la cosa fa qualche differenza.
L’avvio è connesso al ricordo della profezia di Ralf Dahrendorf che nel 1995, in “Quadrare il cerchio”, come in altri interventi che pure abbiamo letto (ad esempio nel precedente “1989. Riflessioni sulla rivoluzione in Europa”, ma soprattutto nel successivo “Dopo la democrazia”) definiva la globalizzazione come un fenomeno capace di mettere a rischio la società civile e la libertà. Il segno dell’autoritarismo, a suo parere si allungava quindi dal “pericoloso concatenamento” che obbliga a sacrificare la coesione sociale in favore del rispetto di quelli che Habermas chiama “imperativi funzionali” dell’economia.
Nella sua visione di allora c’era una sorta di triangolo impossibile (da “quadrare” anche se è un cerchio) tra la creazione di ricchezza, la coesione sociale e la libertà politica. Se si compete, creando la ricchezza (per pochi, come lo stesso politologo vede), la coesione sociale si può mantenere solo se si sacrifica la libertà (cioè si garantisce in modo autoritario, pensa alla Cina).
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Machiavelli 2017 - Tra partito connettivo e partito strategico
di Mimmo Porcaro
Ho tenuto a lungo nel cassetto questo breve articolo, pensato per lettori non italiani – e già pubblicato in versione tedesca (in cooperazione con la rivista Jacobin) su LuXemburg (periodico della fondazione omonima), n. 2, 2016 – perché temevo che la concezione “stretta” di partito che qui propongo potesse influenzare negativamente il processo di costruzione di una vera forza socialista nel nostro paese. Se è infatti vero che abbiamo bisogno anche di un partito fatto di elementi molto selezionati, è altrettanto vero, però, che tale selezione deve avvenire su una platea molto più vasta di quella che abbiamo a disposizione oggi. Oggi servono organismi politici capaci di avviare la crescita di una prospettiva socialista attraendo forze di buona consistenza numerica e di diversa estrazione sociale e culturale: solo sulla base di questa prima crescita si potrà operare, o verrà operata dai fatti, una selezione che estragga gli elementi più consapevoli e determinati. Considerato che organismi del genere stanno per fortuna iniziando a nascere, e con il passo giusto (penso alle pur diverse esperienze di Eurostop e della Confederazione di Liberazione Nazionale), mi sembra adesso che questo scritto posa avere una qualche utilità anche per la discussione italiana. Per questo lo rendo pubblico, con minime modifiche rispetto alla precedente versione.
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Una cortina di gas per celare la capriola di Trump in Siria?
di Gianandrea Gaiani
Il gas nervino torna protagonista in Siria e ancora una volta più dei danni provocati sul campo di battaglia o tra i civili pesano gli effetti mediatici e politico-strategici. Da anni le armi chimiche sono diventate uno strumento più utile alle battaglie della propaganda che a quelle campali. Il presidente Barack Obama incautamente ne definì l’impiego da parte del regime di Bashar Assad il “filo rosso”, superato il quale gli Stati Uniti sarebbero intervenuti militarmente contro Damasco.
Dichiarazione che venne messa alla prova nell’agosto 2013 dalla strage di Ghouta, quartiere di Damasco in mano ai ribelli dove un attacco chimico compiuto con razzi provocò un numero di vittime variabile tra qualche centinaio e oltre 1.700, a seconda delle fonti. Basterebbe l’incertezza di questi numeri a evidenziare le difficoltà riscontrate da osservatori indipendenti non solo ad attribuire la paternità di quell’attacco ma anche a verificare il numero di vittime.
La crisi, che vide Usa, Francia e Gran Bretagna pronti a bombardare Damasco, venne risolta dall’intervento di Mosca che si fece garante dello smantellamento dell’arsenale chimico di Bashar Assad poi trasferito nel porto italiano di Gioia Tauro e distrutto a bordo di una nave speciale statunitense sotto l’egida dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opac).
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Neo-operaismo e decrescita. Aprire un percorso di riflessione
di Emanuele Leonardi
In un articolo di qualche tempo fa Bifo sosteneva che la sinistra avrebbe fatto bene a liberarsi di due feticci divenuti negli anni piuttosto ingombranti: il lavoro salariato e la crescita economica. Rispetto al primo, la comunità di Effimera – ma direi quella neo-operaista nel senso più ampio e inclusivo del termine – ha da tempo preso parola, con esiti molto significativi. Del secondo feticcio, invece, si è parlato poco. Certo, abbiamo preso di petto la questione ecologica, sottolineandone opportunamente la dimensione politica. Però il problema della crescita non è stato sollevato in quanto tale.
C’è chi ha percorso la strada opposta: critica approfondita della crescita economica e scarso interesse per il lavoro. Mi riferisco alla decrescita, etichetta che richiama un arcipelago di associazioni, movimenti e programmi di ricerca (accademici e non) che negli ultimi anni ha visto aumentare considerevolmente la propria sfera d’influenza, sia in termini numerici sia di riconoscimento. Per non fare che un esempio, la quarta Conferenza Internazionale della decrescita, tenutasi a Lipsia nel settembre 2014, ha visto la partecipazione di quasi quattromila persone (tra cui una fetta davvero rilevante dei movimenti “autonomi” tedeschi).
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Il nómos della modernità II
di Robert Kurz
Pubblichiamo la seconda parte del capitolo IX del libro Weltordnungskrieg1 di Robert Kurz, inedito in Italia, nella traduzione di Samuele Cerea (qui la prima ==> il nómos della modernità)
Parte seconda
La fine del diritto, lo stato di eccezione globale e il nuovo «homo sacer»
A questo punto è necessario sottoporre questo meccanismo, la sua logica e la sua origine storica ad un’analisi più dettagliata. Il concetto fondamentale a questo riguardo è quello di stato di eccezione. Come si sa che il luciferino Carl Schmitt, uno dei più lucidi ma, allo stesso tempo, più inquietanti teorici dell’«ideologia tedesca» nel XX secolo, ha tormentato per lungo tempo i predicatori della libertà democratica, collocando lo stato di eccezione, su cui ritornò insistentemente, al centro del dibattito sul diritto costituzionale. In un saggio dal titolo significativo, «Teologia politica», si trova la celebre (o famigerata) definizione di tutta la sovranità moderna, e quindi anche della democrazia: «Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione. Questa definizione può essere appropriata al concetto di sovranità, solo in quanto questo si assuma come concetto limite. Infatti concetto limite non significa un concetto confuso, come nella terminologia spuria della letteratura popolare, bensí un concetto relativo alla sfera piú esterna. A ciò corrisponde il fatto che la sua definizione non può applicarsi al caso normale, ma a un caso limite» (Schmitt 1922).
Schmitt individua qui due punti decisivi, utilizzabili nella polemica contro l’autocomprensione positivistica dello Stato di diritto liberale, il cui apostolo in quel periodo era il filosofo del diritto socialdemocratico Hans Kelsen, cui fanno riferimento significativamente, al presente, posizioni come quella di Hardt e Negri e che, in generale, ha fatto breccia nel senso comune di tutte le illusioni giuridiche.
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La notte dei morti viventi – Il giorno dell'orso dormiente
di Fulvio Grimaldi
Il farloccone ignorante e sbruffone eletto a presidente degli USA da un popolo dissanguato dai necrofili che lo hanno governato nell’ultimo quarto di secolo, lo sprovveduto agonizzante sotto i colpi revanscisti degli orchi spodestati, ha dato il suo colpo di coda. Colpo di un animale sfiancato che prova a sopravvivere superando in ferocia i suoi cacciatori e offrendogli in pasto la vita della Siria e, forse, dell’umanità. Coda subito sorretta, con indomito spirito di inservienti di forca, dal branco di botoli ringhianti europei, perdutamente devoti a chi li tiene alla catena da sempre e che, finalmente, possono tornare a riconoscersi in un padrone che li aveva disorientati sembrando disposto a privarli del piacere della frusta. In ogni caso, colpo di coda che parte da lontano, che il suo titolare lo sapesse o meno. Una roba come il sinistro-destro metro S.Pietroburgo-Tomahawk sulla Siria non la si improvvisa.
Torna in gola e ci strozza il sospiro di sollievo che il mondo aveva tirato all’idea che gli uni contro gli altri armati avrebbero messo insieme quella buona volontà che, dal 1945, gli Usa si erano impegnati a eliminare muovendo guerra dopo guerra, attuando colpo di Stato dopo colpo di Stato, promuovendo dittatore dopo dittatore, innescando destabilizzazione su destabilizzazione, lanciando contro tutto e tutti il maglio incontrastabile del terrorismo.
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Trump: questa non è soltanto l’America, questo è il mondo del Capitale
di Giorgio Paolucci
E si sta come quei viaggiatori ferroviari di Kafka
“…che hanno subito un sinistro in un tunnel, e precisamente in un punto da dove non si vede più la luce dell’ingresso, e quanto a quella dell’uscita, appare così minuscola che lo sguardo deve cercarla continuamente e continuamente la perde, e intanto non si è nemmeno sicuri se si tratti del principio o della fine del tunnel.”
Cento anni fa, per l’esattezza il 23 febbraio del 1917 secondo il calendario russo dell’epoca e il 10 marzo secondo quello in uso nel mondo occidentale, aveva inizio in Russia, nel pieno della prima guerra mondiale, quel processo rivoluzionario che si sarebbe concluso nell’ottobre successivo con l’insaturazione della Repubblica Federativa Socialista Sovietica Russa, il primo governo dichiaratamente ispirato ai principi del marxismo rivoluzionario e avente nel suo programma il definitivo superamento del modo di produzione capitalistico e la costruzione di una società socialista.
Finita la guerra, martoriati dalla disoccupazione, dalla fame e dalla miseria, nel 1919 insorsero anche i proletari ungheresi e tedeschi, mentre in Italia ebbe inizio una lunga serie di scioperi e di forti scontri sociali - il cosiddetto biennio rosso - che culminarono, nel settembre del 1920, con l’occupazione di quasi tutte le maggiori fabbriche dell’Italia del Nord.
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Un copione consolidato
Tommaso Di Francesco
Avvengono secondo un copione consolidato, gli attacchi ordinati da Trump nella notte scorsa sulla base aerea siriana di Khan Sheikhou. Come da modello balcanico – vedi la strage inventata di Racak per l’intervento «umanitario» Nato in Kosovo nel 1999 – e con lo «stile» del governo israeliano del quale ancora non abbiamo smesso di contare le vittime civili per i suoi attacchi aerei su Gaza nel 2009.
I 59 missili Tomawak lanciati sulla Siria rompono l’ equilibrio di una saga immaginifica. Perché è tornata l’America, anzi questa è l’America. A smentire il povero Alan Friedman che dovrà scrivere almeno un altro libro.
Perché la davano per persa, l’America. Con un Trump descritto come filo-Putin, quindi addirittura anti-Nato, naturalmente tenendo fissa la barra degli interessi strategici verso Israele e l’Arabia saudita; ma deciso nella lotta contro l’Isis.
Invece con un dietrofront repentino, a pochi giorni dalla dichiarazione rilasciata all’Onu dalla rappresentante Haley che «la fuoriuscita di Assad non è più la priorità», subito dopo la strage di Khan Sheikhou ha ripreso la rotta che già fu di Bush per l’Iraq del 2003: ha autorizzato il capo del Pentagono «cane pazzo» Mattis all’azione di guerra. Senza il parere dell’Onu e del Congresso Usa, con il veto russo alla condanna unilaterale di Assad, e di fronte alla richiesta di una indagine internazionale indipendente.
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