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Soft Machine 2.0

L’operaio sociale e l’uso capitalistico delle macchine

di Franco Carlucci

rivoluzione industriale 61.

Viviamo in un mondo di macchine, interfacciati ad esse da quando apriamo gli occhi la mattina a quando li richiudiamo la sera. Tanto da non capire più bene se sia la macchina un prolungamento dell’agire umano o, viceversa, siano gli esseri umani appendici funzionali al libero dispiegamento della potenza macchinica. Il mondo delle macchine sembra diventato l’habitat naturale per l’homo tecnicus come la savana per il leone. La nostra nuova natura è quella di interagire con la macchina normalmente, al di fuori dell’eccezionalità e dello stupore che assaliva gli uomini alle prese con i primi marchingegni, poche generazioni fa.

È l’innovazione tecnologica che ci ha portato a questo, il tumultuoso progresso scientifico e la sua puntuale applicazione tecnica. Da quando James Watt perfezionò la macchina a vapore, agli albori della rivoluzione industriale, i capitalisti hanno sempre dato centralità all’investimento nell’innovazione tecnologica che permettesse di produrre di più, meglio, in maniera più veloce e diversificata. Quindi lo sviluppo capitalista è accompagnato dalla produzione di macchine sempre più sofisticate. Questo sviluppo tecnico si è sempre presentato come oggettivo e sinonimo di “bene comune” e la macchina è stata qualificata come neutrale, come frutto di un’evoluzione naturale della storia dell’umanità, come se la proprietà privata capitalistica di quella stessa macchina fosse elemento secondario e incidentale.

 

2.

All’inizio fu la manifattura. I singoli lavoratori che fino ad allora hanno prodotto merci nei propri laboratori artigiani vengono convogliati all’interno di un luogo di lavoro collettivo divenendo operai della manifattura alle dipendenze di un capitalista cui vendono la propria forza-lavoro. Il capitalista acquista la forza-lavoro dell’operaio per poi utilizzarla come valore d’uso per le proprie esigenze produttive. All’interno della manifattura il capitalista mette al lavoro la cooperazione sociale degli operai, la loro capacità cooperante. Quegli artigiani fanno lo stesso lavoro di prima ma, impiegando gli stessi mezzi di produzione in comune nel processo di lavoro, consentono al capitalista di abbassare i costi poiché, cooperando, si produce di più utilizzando una minore quantità di mezzi di produzione (lavoro, materie prime, strumenti di lavoro). E perché, nella manifattura, viene introdotta la divisione del lavoro, cioè ognuno fa un pezzo del prodotto finale, razionalizzando tempi e quantità della prestazione. L’appropriazione della cooperazione sociale diviene quindi fattore essenziale per lo sviluppo capitalistico stesso, elemento imprescindibile del suo dispiegarsi storico.

“Come persone indipendenti gli operai sono dei singoli i quali entrano in rapporto con lo stesso capitale ma non in rapporto reciproco tra loro. La loro cooperazione comincia soltanto nel processo lavorativo, ma nel processo lavorativo hanno già cessato d’appartenere a sé stessi. Entrandovi sono incorporati nel capitale. Come cooperanti, come membri d’un organismo operante, sono essi stessi soltanto un modo particolare d’esistenza del capitale. Dunque la forza produttiva sviluppata dall’operaio come operaio sociale è forza produttiva del capitale.”1

Il capitalista si appropria gratuitamente della cooperazione sociale: retribuisce singolarmente il valore d’uso della forza-lavoro ma usufruisce senza alcun corrispettivo della potenza esponenziale che si dispiega nell’utilizzo sincronico della forza-lavoro dei singoli operai. Quella stessa forza-lavoro la cui esistenza precede il suo acquisto da parte del capitalista, preesistendo come potenzialità.

Nella messa a valore della cooperazione sociale si evince il carattere dispotico del capitale: la direzione dell’attività produttiva cui soggiace il lavoratore si trova al di fuori di sé, si rappresenta come autorità estranea e contrapposta agli operai, “come potenza d’una volontà estranea che assoggetta al proprio fine la loro attività”2.

 

3.

Se la forza-lavoro è l’elemento su cui si basa la rivoluzione del modo di produzione nella manifattura, nella grande industria quest’elemento è costituito dal mezzo di produzione, in questo caso la macchina. Nella manifattura l’operaio è ancora sostanzialmente un artigiano che fabbrica il pezzo per mezzo di strumenti di lavoro più o meno sofisticati e specializzati manovrati dalle mani, il pezzo è un prodotto delle sue mani, messe in moto dalle sue capacità mentali e virtù artistiche. L’operaio ha un rapporto diretto col prodotto del proprio lavoro, ogni prodotto è un pezzo singolo e irripetibile anche se ormai prodotto in serie per essere venduto e usato da qualcun altro.

Con l’introduzione delle prime macchine tessili operatrici prende avvio la rivoluzione industriale propriamente detta, qualificata dalla nascita della grande industria. Mano a mano che si sviluppa l’innovazione tecnologica, con l’introduzione di macchinari sempre più potenti e sofisticati, si giunge alla fabbrica moderna organizzata in sistema automatico di macchine dove, azionato da un sistema propulsivo centralizzato, agisce un insieme di macchinari che svolgono il lavoro produttivo senza bisogno della manualità dell’operaio. Il lavoratore si trova ora a svolgere una funzione di mera manutenzione e di semplice controllo dell’attività della macchina, una funzione potremmo dire di contemplazione. Si rovescia la situazione: se precedentemente lo strumento di lavoro era un mezzo utilizzato dal lavoratore per produrre egli stesso il prodotto, ora, viceversa, l’operaio si configura egli stesso come mezzo di produzione della macchina, elemento intercambiabile e non più necessario di per sé per produrre la merce, elemento per certi versi superfluo, nel senso che può essere sostituito da un altro lavoratore, o da un'altra macchina, in qualsiasi momento. È il moto della macchina che regola l’attività dell’operaio, non più viceversa. Il sistema automatico di macchine, la fabbrica, è un immenso automa composto contemporaneamente da organi autocoscienti (gli operai) e organi meccanici, insieme subordinati ad uno scopo comune, che è quello della produzione.

“L’attività dell’operaio, ridotta a una semplice astrazione di attività, è determinata e regolata da tutte le parti del moto del macchinario, e non viceversa. La scienza che costringe le membra inanimate del macchinario - con la sua costruzione - ad agire in conformità allo scopo come un automa, non esiste nella coscienza dell’operaio, ma agisce su di lui, attraverso la macchina, come un potere estraneo, come potere della macchina stessa.”3

 

4.

Nella fabbrica convivono il capitale fisso e il capitale variabile. Il capitale fisso è composto da quegli elementi per cui sia necessario un dato investimento per la sua acquisizione, l’edificio stesso in cui si situa la fabbrica, le materie prime, le macchine: tutte cose che hanno un prezzo da pagare prima di metterle in produzione, un costo che si conosce. Nel nostro discorso per capitale fisso intendiamo le macchine cui sono applicati gli operai. La macchina si presenta quindi come capitale incorporato in esso (quanto è costata) e contemporaneamente come lavoro morto, cioè come lavoro vivo precedente oggettivato: la macchina è stata costruita tramite un tot ore di lavoro operaio. Ma la macchina oggettiva in sé anche la scienza, cioè tutte quelle conoscenze che ci sono volute per immaginarla, progettarla e costruirla e soprattutto l’enorme quantità di capacità cooperante della società stessa, tutto l’accumulo di capacità innovative, di linguaggio relazionale, di creatività, di sapere sociale, di general intellect.

“Nel macchinario il lavoro materializzato si contrappone al lavoro vivo, nel processo di lavoro stesso, come la potenza che lo domina e in cui il capitale stesso consiste, dal punto di vista della forma, in quanto appropriazione di lavoro vivo.”4

E ancora:

“Lo sviluppo del mezzo di lavoro in macchinario non è accidentale per il capitale, ma è la trasformazione storica del mezzo di lavoro recepito dalla tradizione, modificato in una forma adeguata al capitale. L’accumulazione del sapere e dell’abilità, delle forze produttive generali del cervello sociale, in tal modo è assorbita nel capitale in contrapposizione al lavoro, e si presenta quindi come qualità del capitale, e più precisamente del capitale fisso, nella misura in cui esso entra nel processo di produzione come mezzo di produzione vero e proprio.”5

L’economista ed ex-ministro del lavoro per l’amministrazione Clinton, Robert Reich ha spiegato le ragioni del suo sostegno al reddito di base: “Presto o tardi sarà una necessità, semplicemente perché non abbiamo alternative. Il progresso tecnico farà sparire i migliori posti di lavoro. John Maynard Keynes disse nel 1928 che, grazie al progresso tecnico, nel 2028 nessuno sarebbe stato più costretto a lavorare per garantirsi da vivere. Oggi abbiamo stampanti 3D, automobili senza conducente o droni senza pilota. Ma l'evoluzione del mercato del lavoro mi sta preoccupando. Sempre più persone dovranno accettare lavori mal pagati ed i robot non acquistano i prodotti che fabbricano ! Ecco perché abbiamo bisogno di un nuovo meccanismo per trasferire la prosperità dei super ricchi alla gente comune.’’

Il capitale variabile invece è costituito da quella quota di capitale utilizzato per riprodurre la forza lavoro, in soldoni il salario pagato ai lavoratori, in finale il lavoratore stesso. Questo capitale si dice variabile perché varia con l’utilizzo della forza-lavoro necessaria in quel dato momento produttivo. Nel rapporto tra capitale fisso e capitale variabile (cioè tra macchina e operaio) si situa l’estrazione del plusvalore che andrà a costituire la base per il profitto del capitalista. Infatti una quota del valore prodotta dal lavoro operaio sarà versata all’operaio stesso sotto forma di salario, la restante parte costituirà il plusvalore, da cui, tolte le spese, avanzerà la quota di profitto che costituirà la base del successivo investimento, ecc. Questo valore aggiuntivo sarà creato dal lavoro dell’operaio non dall’attività della macchina: il capitale fisso, infatti, operando cede semplicemente ad ogni pezzo prodotto una quota del capitale che ha incorporato in sé, quindi non produce valore aggiuntivo. Questo sarà creato dall’attività dell’operaio, dal lavoro vivo.

D’altro canto, la quota di lavoro che eccede quella necessaria al pagamento del salario, la parte di giornata lavorativa che l’operaio lavora gratis, si definisce pluslavoro.

La base tecnica rivoluzionaria del capitalismo fa continuamente aumentare la produttività del lavoro, il valore prodotto rispetto al lavoro impiegato. La produttività aumenta con la cooperazione, la divisione del lavoro nella fabbrica, l’introduzione delle macchine, l’impiego diretto della scienza, l’og-gettivazione del sapere sociale. Ma la produttività aumenta per tutti i capitalisti, poiché il meccanismo della concorrenza fa sì che all’innovazione tecnologica in un comparto segua l’innovazione tecnologica anche degli altri comparti produttivi, producendo quindi un minor costo del lavoro necessario alla riproduzione degli operai per tutti i capitalisti.

L’aumento della quota spettante alle macchine (capitale fisso) produce una diminuzione della quota spettante al capitale variabile così che diminuisce la base di lavoro vivo deputata all’estrazione del plusvalore (da cui il profitto, poiché il profitto è una percentuale del plusvalore che, come sappiamo è generato dal lavoro vivo). Si produce la caduta tendenziale del saggio di profitto, se il saggio del plusvalore non aumenta. L’aumento del lavoro morto (cristallizzato nelle macchine) fa diminuire il saggio di profitto.

 

5.

A questo punto il capitalista, per mantenere inalterato il profitto, deve aumentare il saggio del plusvalore. Ci sono due strade: la prima è l’aumento della giornata lavorativa, che porta ad un incremento delle ore lavorate in eccedenza rispetto a quelle necessarie per riprodurre la forza lavoro (pluslavoro) e quindi ad un aumento del plusvalore assoluto. Ma questa strategia si scontra con limiti oggettivi (fisici, mentali, legislativi, culturali: non si può costringere la gente a lavorare più di tanto, pena insubordinazioni e turbative gravi).

L’altra strada, quella che caratterizza il capitalismo industriale moderno, è l’ulteriore aumento della produttività del lavoro all’interno dello stesso orario di lavoro, ossia una diminuzione del tempo di lavoro necessario alla riproduzione, che determina un aumento del plusvalore relativo: si lavora lo stesso tempo ma si produce di più. Questo si può ottenere intensificando i ritmi di lavoro, ma si va incontro ai limiti fisici oggettivi di cui sopra: se si costringe l’operaio a lavorare troppo in fretta questi si ribella e oltretutto la sua attenzione cala, inficiando la strategia. La strada percorsa storicamente dai capitalisti per aumentare il saggio del plusvalore relativo è stata l’ulteriore introduzione di innovazione tecnologica, come necessità imprescindibile alla sopravvivenza del capitalismo stesso.

Nel contempo la conflittualità operaia concretizzatasi in una dura, esaltante e spesso tragica successione di lotte per “più salario e meno orario”, in vista della definitiva liberazione dal lavoro salariato tout-court, metteva ancor di più in difficoltà la capacità del padrone di estrarre profitto dalla produzione.

L’innovazione tecnologica si configura quindi come strettamente legata alla natura stessa del modo di produzione capitalistico, ne è in qualche modo la premessa e la condanna: senza innovazione tecnologica il capitalismo non esiste, per certi versi l’innovazione tecnologica è l’anima stessa dal capitalismo, ciò che lo caratterizza ontologicamente. In questo senso per esso innovare non è una scelta ma una necessità.

“L’introduzione di sempre nuove macchine, la spinta a sempre nuove scoperte e applicazioni di esse, uno sviluppo tecnologico impetuoso e ininterrotto sono, se è permesso usare questo termine metaforicamente, l’essenza del processo di accumulazione capitalistico.’’6

L’innovazione tecnologica quindi non è “neutrale” e la macchina si configura come macchina capitalistica. Il capitalismo innova per perpetuare il dominio sul corpo vivo della forza lavoro e la macchina ne è lo strumento. Non c’è nessuna presunta oggettività nello sviluppo tecnologico ma piuttosto il piano dispotico del capitale finalizzato al persistere dello sfruttamento, alla riproposizione di determinati rapporti sociali di produzione. Ciò che si nasconde dietro il mito del progresso, dietro la rutilante fantasmagoria macchinica della società dello spettacolo è la contrapposizione insanabile e la separatezza tra il corpo vivo della forza lavoro costretto a produrre valore per il capitalista durante il tempo di lavoro e l’apparato tecnologico che il capitalista stesso mette in campo nel processo di valorizzazione. Raniero Panzieri, sul primo numero dei “Quaderni Rossi” affermava che:

“Lo sviluppo capitalistico della tecnologia comporta, attraverso le diverse fasi della razionalizzazione, di forme sempre più raffinate di integrazione ecc, un aumento crescente del controllo capitalistico. Il fattore fondamentale di questo processo è il crescente aumento del capitale costante rispetto al capitale variabile. Nel capitalismo contemporaneo, come è noto, la pianificazione capitalistica si amplia smisuratamente con il passaggio a forme monopolistiche e oligopolistiche, che implicano il progressivo estendersi della pianificazione dalla fabbrica al mercato, all’area sociale esterna."7

E, di seguito, a proposito della presunta “oggettività” dello sviluppo tecnologico:

“Nessun “oggettivo” occulto fattore, insito negli aspetti di sviluppo tecnologico o di programmazione nella società capitalistica di oggi, esiste, tale da garantire l’”automatica” trasformazione o il “necessario”rovesciamento dei rapporti esistenti. Le nuove “basi tecniche” via via raggiunte nella produzione costituiscono per il capitalismo nuove possibilità di consolidamento del suo potere. Ciò non significa, naturalmente, che non si accrescano nel contempo le possibilità di rovesciamento del sistema. Ma queste possibilità coincidono con il valore totalmente eversivo che, di fronte all’”ossatura oggettiva” sempre più indipendente del meccanismo capitalistico, tende ad assumere “l’insubordinazione operaia’.’8

 

6.

Ma nuova tecnologia in fabbrica significa eliminazione della quota di capitale variabile, cioè espulsione di forza lavoro, di lavoro vivo, di operai, unica fonte della produzione di quel plusvalore sempre rincorso. E si ricomincia.

“Il capitale è esso stesso la contraddizione in processo [per il fatto] che esso interviene come elemento perturbatore nel processo di riduzione del tempo di lavoro a un minimo, mentre d’altro canto pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte della ricchezza. Esso diminuisce, quindi, il tempo di lavoro nella forma del tempo di lavoro necessario, solo per aumentarlo nella forma del tempo di lavoro superfluo; pone quindi in misura crescente il lavoro superfluo come condizione - questione di vita e di morte - di quello necessario”9.

La fabbrica diventa quindi troppo stretta per il capitale: lo sviluppo dell’innovazione tecnologica che ha determinato la predominanza del capitale fisso sul capitale variabile ha stretto i capitalisti in un angolo, quello dell’insufficiente creazione di plusvalore relativo. La fabbrica fordista entra in crisi perché non risponde più alle esigenze di accumulazione e perché luogo di conflittualità endemica (determinata dalle stesse condizioni di produzione).

Il lento sviluppo delle scienze informatiche dal dopoguerra in poi aveva creato le avvisaglie per un passaggio ulteriore verso livelli più alti di astrazione e aspettative diffuse in tal senso. Già nei primi anni sessanta all’Oli-vetti (un punto alto di sviluppo in quegli anni) si cominciava a parlare di terziarizzazione della produzione. La rivoluzione informatica non avviene all’improvviso, come un fulmine a ciel sereno, ma come evoluzione del sistema, previsto e cercato. È datata 1973 l’introduzione dei primi robot informatici alla Fiat, cioè il lavoro mentale costitutivo del software gestionale comincia a dirigere direttamente l’esecuzione lavorativa, la produzione. Parallelamente l’applicazione delle teorie toyotiste richiede al lavoratore non più solo un coinvolgimento manuale meramente esecutivo ma anche una adesione ideologica e una messa al lavoro delle capacità relazionali con gli altri lavoratori, condita con una spremitura della fantasia e della creatività: in soldoni le attitudini linguistico-relazionali diventano fattori di produzione.

Contemporaneamente la produzione, che fino a quel momento era accentrata nella fabbrica, viene interessata da fenomeni di esternalizzazione: una quantità sempre maggiore di componenti viene realizzata da aziende medie e piccole create ad hoc, spesso gestite da ex operai diventati piccoli imprenditori, formalmente autonomi ma in realtà legati mani e piedi al loro unico committente, la casa madre, che decide modalità e prezzi delle forniture. La fabbrica tracima nel territorio ed il territorio stesso diviene fabbrica reticolare, innervata e sostenuta da incessanti flussi comunicativi che ne diventano il sistema nervoso indispensabile al suo funzionamento. Gli attori della commedia devono possedere capacità relazionali, adattative, di autoformazione costante, di scambio incessante di informazioni, di linguaggio in evoluzione. Il capitalismo mette al lavoro valorizzante le capacità pubbliche della forza-lavoro: la società diviene luogo privilegiato della produzione, essendo il luogo privilegiato delle relazioni umane.

A questo punto diviene impossibile calcolare in modo formale la durata della giornata lavorativa, cessa la sua misurabilità, dilatandosi tendenzialmente verso la saturazione del tempo di vita, dilatandosi tendenzialmente verso le 24 ore. È la vita tutta che tendenzialmente viene biopoliticamente messa al lavoro, nella separazione tra tempo di lavoro formalmente riconosciuto e tempo di lavoro reale, nell’enorme allargamento quindi della forbice tra tempo di lavoro necessario alla riproduzione della forza lavoro e tempo di lavoro “superfluo”, cioè gratuito. La dilatazione infinita della giornata lavorativa genera un’altrettanto infinita produzione di pluslavoro con conseguente produzione infinita di plusvalore assoluto. Ma la capacità sempre più alta di astrazione della macchina informatica permette di accelerare la performance linguistico-relazionale dell’operaio sociale intensificando i “ritmi” e diminuendo ulteriormente il tempo di lavoro necessario alla sua riproduzione, generando quindi una “infinità” di plusvalore relativo.

“Quanto più pervasivo e totalizzante diventa il mondo della tecnica, quanto più, attraverso questo processo, diventa virtuale il mondo delle merci, tanto più la reificazione acquista soggettività sociale. I prodotti immateriali sono quelli che più cosificano l’attività lavorativa umana. L’uomo si fa subalterno alla tecnica, mosso, guidato, dominato dal mondo delle merci, a sua volta reso autonomo nella produzione e sul mercato. Qui il feticcio non è un oggetto di culto, ma un soggetto di potere.”10

È la macchina elettronica che sovrintende alla produzione sociale. La produzione della merce informazione assume centralità, la merce informazione diviene la merce per eccellenza, la produzione di merce informazione essendo propedeutica alla produzione e alla distribuzione di tutte le altre merci.

“Una volta che l’informazione può muoversi più rapidamente delle persone o delle cose, essa diviene il mezzo tramite cui le persone e le cose vengono messe in rete a vantaggio dell’attività produttiva, all’interno di gusci che si espandono sempre di più”11

È una merce immateriale, ma non per questo meno reale, prodotta da quella macchina immateriale che è l’universo linguistico-relazionale del lavoro vivo oggettivato nel software, nuovo livello di astrazione del capitale fisso. Quella macchina sociale che possiamo anche definire infosfera, società della comunicazione, soft machine, cui l’operaio sociale è interfacciato in quanto capitale variabile, da essa separato e da essa sussunto nel rapporto dispotico che caratterizza la relazione dialettica fra capitalista detentore della proprietà intellettuale e lavoratore. La macchina informatica non si materializza nell’hardware, mero involucro, ma nel software, che incorpora l’investimento di capitale primario, e che oggettiva in sé il lavoro vivo precedente, la ricerca scientifica, la conoscenza e il sapere sociale, il general intellect (la benzina della macchina). Quando l’operaio sociale si relaziona con l’hardware (il computer, la tv, la telecamera, il lettore di codice a barre, ecc) si relaziona in realtà con la conoscenza accumulata che attraverso di esso formalmente si esplica ma senza la quale nemmeno sarebbe in grado di funzionare, nemmeno si accenderebbe.

“La società sussunta nel capitale è oggi, di fatto, il capitale, una morbida macchina che ha sostituito allo sferragliante macchinismo industriale il ronzio ipnotico dei microchips, che ha atomizzato la giornata lavorativa in una galassia di mansioni soggettive disseminate nello spazio e nel tempo metropolitano. Mantenendo inalterato il regime dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. In questo nuovo meccanismo dell’accumulazione, dunque, il lavoro individuale non è distinguibile da quello sociale e nel lavoro sociale rientrano le infinite qualificazioni del lavoro stesso, fino alla sua assenza funzionale, o meglio, al suo occultamento.”12

La primazia della merce informazione prodotta e fatta circolare dai vettori informazionali segna il passaggio dal fordismo al postfordismo, dall’operaio massa all’operaio sociale, dalla città fabbrica alla fabbrica totale.

5 milioni di persone perderanno il posto di lavoro entro il 2020 perché sostituiti dai robot. E’la previsione di Future Jobs, uno studio del 2016, che ha analizzato i 15 Paesi dove vive il 65% della forza lavoro mondiale: Cina, Francia, Germania, Giappone, Messico, Stati Uniti e Regno Unito. Secondo lo studio presentato a Davos al World Economic Forum, ad essere particolarmente colpito dall’avanzare della robotica e dell’intelligenza artificiale sarà il settore amministrativo, ma l’impatto si vedrà anche su telemedicina, energia e servizi finanziari. “I principali beneficiari dell’innovazione tendono ad essere i fornitori di capitali fisici e intellettuali come innovatori, azionisti e investitori, il che spiega il divario crescente di ricchezza tra coloro che dipendono dal capitale e coloro che dipendono dal lavoro” spiega Klaus Schwab fondatore del World Economic Forum.

 

7.

In tutti questi anni abbiamo ripetuto con frequenza che siamo messi al lavoro costantemente, che questo lavoro non ci viene riconosciuto, che (anche) per questo motivo reclamiamo un reddito sganciato dal lavoro formalmente riconosciuto, in quanto solo per il fatto di agire nel mondo siamo produttivi per il capitale. Affermiamo quindi che l’attività lavorativa non si esaurisce nel tempo di lavoro formalmente riconosciuto e retribuito, bensì prosegue anche nelle ore della giornata in cui non viene corrisposto un salario, in quelle ore cioè in cui si agisce nell’universo linguistico-relazionale incrementando l’incessante produzione di flussi-merce informazione, a spasso tra gli ingranaggi della macchina capitalista. Un pluslavoro inenarrabile, poiché ancora mancano le parole per dirlo. Un pluslavoro alle prese con televisione, radio, computer, smartphone, bancomat, telecamere, codici a barre, l’hardware gestito dal software proprietario. Uno scenario in cui il valore d’uso della forza lavoro si esplica attraverso l’utilizzo delle mani, degli occhi, delle orecchie, dell’intuito, della fantasia, della creatività, dell’affettività, dell’estetica, tutti attributi dell’organismo corpo-mente dell’operaio sociale.

“La nuova struttura produttiva del capitale investe, a fondo, l’intero aspetto della vita umana, tentando di rendere produttivo di pluslavoro ogni semplice gesto del vivere.”13

Per esempio, che vuol dire che siamo messi al lavoro anche quando guardiamo la televisione, quale merce produciamo, qual è l’attività valorizzante, perché il capitalista estrae un profitto dal “lavoro” del telespettatore?

Le emittenti televisive traggono il loro profitto dalla vendita degli spazi pubblicitari, unica loro ragione di esistere in termini economici: il cliente acquista lo spazio pubblicitario, il prezzo del quale è determinato dall’audience, cioè dalla quantità attesa di spettatori di un determinato programma. Più spettatori sono previsti, più alto sarà il costo di quella merce chiamata spazio pubblicitario in cui inserire lo spot. Se un programma ha pochi spettatori il programma viene sospeso e sostituito con un altro: cioè, un programma con pochi spettatori contiene spazi pubblicitari il cui prezzo non ripaga l’investimento di capitale o non lo valorizza nei termini previsti. Il prezzo degli spazi pubblicitari viene determinato in base alla quantità di spettatori delle puntate precedenti o, in caso di prima puntata, in base alla quantità degli spettatori previsti. Ciò che determina il prezzo di quella merce è quindi la visione, l’atto del vedere, del telespettatore. Lo spettatore produce la merce-spazio pubblicitario assistendo al programma: se non guarda il programma, se non ci sono abbastanza persone che lavorano alla produzione di quella merce, quella merce non conterrà sufficiente lavoro vivo incorporato tale da determinare la valorizzazione del capitale investito. Nel lavoro degli occhi c’è quindi la creazione del valore, ed è un lavoro produttivo di plusvalore non formalmente riconosciuto e quindi non retribuito. Ogni volta che accendiamo la tv timbriamo il cartellino della fabbrica informazionale, accingendoci al nostro lavoro di operai sociali cognitivi, produciamo una merce che poi il capitalista venderà sul mercato, traendone un profitto, grazie al plusvalore generato da un pluslavoro non riconosciuto e non pagato. Qui il valore d’uso della forza-lavoro viene acquisito gratuitamente (anzi, ci fanno pagare il canone!): è una forza-lavoro che si esplica attraverso l’uso degli occhi, attraverso lo sguardo. L’operaio sociale usa tutte le sue facoltà fisiche e mentali nel rapporto con quel potere che lo domina che è la macchina informazionale capitalistica. Forza-lavoro nostro malgrado, lavoro vivo estorto.

Continuando in questo gioco potremmo fare ragionamenti simili in relazione ad Internet dove, per accedere alla fabbrica, ci fanno pure pagare la connessione (oltre all’hardware, all’elettricità, ecc.) e si lavora gratis implementando i big data. Ma in Rete oltre alla gratuità si palesa l'obbligatorietà della prestazione lavorativa. Un cittadino medio che ha una vita standard oggi è obbligato a essere connesso a meno che non decida di fare una scelta ultra radicale che pochi possono permettersi. Oggi senza connessione non si riceve la busta paga, non si pagano bollette, non si ha una vita sociale e affettiva "normale", non si accede all'informazione. Se si lavora nella sharing economy o nella gig economy senza connessione si è tagliati fuori, senza smartphone non si può fare nemmeno il fattorino delle pizze o il taxista. Quindi il lavoro gratuito in rete è obbligatorio, pena gravi sanzioni sociali. Ma il lavoro gratis e obbligato una volta si chiamava schiavitù: siamo forse in presenza di un neoschiavismo digitale?

 

8.

Con la 4° rivoluzione industriale (che è già pienamente in corso) si assiste alla sostituzione del lavoro umano con i robot. Sono macchine docili e instancabili, non scioperano, non si danno malate, sono programmabili e quindi prevedibili, non danno sorprese.

Il capitale fisso sembra occupare tutto lo spazio della produzione, paventando l'eliminazione tendenzialmente completa del capitale variabile. La Foxconn licenzia 60.000 operai e li sostituisce con i robot. Ecco che sembra palesarsi la famosa "fabbrica senza operai". Ma quella fabbrica fisicamente delimitata da mura e cancelli rappresenta solo una tessera del mosaico della fabbrica totale e all'interno di essa si situa e opera. Più che alla scomparsa del lavoro umano assisteremo ad una sua ridefinizione e posizionamento. Si prospetta un mondo del lavoro globale nell'epoca dei robot in cui avremo una fascia limitata di lavoratori indispensabili altamente specializzati, creativi e appositamente formati nella gestione delle macchine che, per quanto ben pagati(?), risulteranno essere iper-sfruttati, essendo incommensurabile la quota di plusvalore relativo da loro prodotta. Per il resto dell'umanità si aprono invece scenari di precarietà radicale in cui masse enormi di poveri-massa saranno costretti ad una incessante guerra fratricida per accaparrarsi lavori e lavoretti faticosi caratterizzati da bassi salari, orari infiniti e zero diritti. Compresi quei micro-lavori digitali che costituiscono il vero nucleo dell'intelligenza artificiale, il lavoro vivo quasi invisibile che rende possibile il fantasmagorico dispiegarsi delle meraviglie tecnologiche contemporanee.

Nella fabbrica totale si lavora tutti e tanto, sempre, per largo tempo gratuitamente, per il resto pagati poco e male.

Si può ovviare a questo disastro sociale redistribuendo equamente gli enormi profitti, un reddito garantito lavoro o non lavoro, oppure militarizzando la società e gestendo le contraddizioni sociali attraverso gli apparati repressivi. Tertium non datur.

“Il problema non è la fine del lavoro ma il lavoro senza fine”


Note:
1. K. Marx, Il Capitale, libro I, pag. 374, trad. it. D. Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1980.
2. Ivi, pag. 373.
3. K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica delfeconomia politica (“Grundrisse”), libro I, pag. 707, trad. it. G. Backhaus, Einaudi, Torino 1976.
4. Ivi, pag. 708.
5. Ivi, pag. 709.
6. R. Panzieri, Relazione sul neocapitalismo, in La ri presa del marxismo leninismo in Italia, pag. 171, Nuove Edizioni Operaie, Roma 1973.
7. R. Panzieri, Sull’uso capitalistico delle macchine, in Quaderni Rossi n°1, pag. 56, Nuove Edizioni Operaie, Roma 1978.
8. Ibidem.
9. K. Marx, Lineamenti fondamentali...pag. 718
10. M. Tronti, I “grilli” della merce, in Figure del feticismo, pag. 110, Einaudi, Torino 2001 (a cura di S. Mistura), citato in E. Livraghi, Da Marx a Matrix, pag. 131, Derive-Approdi, Roma 2006
11. W. McKenzie, Un manifesto hacker, pag. 132, Feltrinelli, Milano 2005.
12. U. Plinsky, Nel cuore del comando, ed altrove. Ipotesi di inchiesta metropolitana, in Notebook Quaderni di Autonomia n°2, pag. 26, supplemento a Autonomia n°43, Padova 1988.
13. S. Bellucci, E-work, pag. 129, DeriveApprodi, Roma 2005

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