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«Marcuse décrit la Société du Spectacle». Guy Debord lettore di “Eros e Civiltà”
di Afshin Kaveh
In questo senso ogni pensatore è responsabile di fronte alla storia del contenuto obbiettivo del suo filosofare.
G. Lukács, La distruzione della ragione
Quel libro tra gli scaffali
Nel 1955, presso la Beacon Press di Boston, trovava per la prima volta pubblicazione Eros and Civilization: A Philosophical Inquiry into Freud del filosofo tedesco Herbert Marcuse, all’epoca insegnante presso l’Università di Harvard. Poco meno di dieci anni dopo, nel 1963, Kostas Axelos, già direttore della rivista Arguments chiusa l’anno precedente e che per le Éditions de Minuit curava una collana omonima, metteva alle stampe la traduzione del libro – resa da Jean-Guy Nény e Boris Fraenkel – consegnata al pubblico francese col titolo di Eros et Civilisation: Contribution a Freud. Daniel Cohn-Bendit, ricordando l’opera, affermava in un primo momento che dall’anno di uscita sino a poco prima degli avvenimenti ruotanti attorno al Maggio del 1968 avesse venduto quaranta esemplari in tutto[1], per poi darne una versione differente diversi anni dopo parlando di «sì e no milleseicento copie» prima del Maggio e più di «centomila esemplari» subito dopo[2]. Quaranta o più di mille copie che fossero, una di queste è presente tra gli scaffali della biblioteca personale di Guy Debord, deposta, dal 2010, presso la Bibliothèque Nationale de France. A tal proposito ci ritorna utile il contributo di Emmanuel Guy e Laurence Le Bras[3], secondo cui, seppur «composta da circa duemila libri», l’archivio dei testi del parigino «corrisponde a una biblioteca tutto sommato piuttosto piccola per uno scrittore di questa portata» e che, per di più, non può essere illustrativa rispetto alle intense letture che hanno accompagnato Debord per tutta una vita, anche perché «il rapido sfogliare i libri al disimballaggio dalle scatole» ha dimostrato, salvo «due eccezioni», che tra le centinaia di migliaia di pagine non era presente «nessuna annotazione a margine dei testi»[4].
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L’università e il genocidio
di Rete universitaria per la Palestina
La guerra finirà con la loro distruzione. Netanyahu non cambia idea. È stato chiaro, mentre ordinava l’avanzata su Rafah, l’ultima città della Striscia di Gaza, quella in cui si sono rifugiate un milione e mezzo di persone alla fame, quella da cui non possono più fuggire. La danza macabra sui negoziati per una “tregua” è un vecchio gioco di prestigio che i leader israeliani mettono in scena, con maestria impareggiabile, da decenni, chiedete a chi ne ha memoria. Oggi serve soprattutto a tentare di frenare la rabbia e la disperazione dei familiari dei 130 ostaggi di Hamas e a fornire argomenti a Biden che ha firmato sanzioni economiche contro 4 (quattro!) coloni israeliani responsabili di violenze in Cisgiordania. E allora? Non resta che assistere impotenti a uno sterminio che non ha precedenti in 75 anni di guerra coloniale? Non resta che rassegnarsi a sentirci rivolgere – fra due, cinque dieci anni – quella tremenda domanda dai nostri bambini: voi dove eravate? Cosa avete fatto per fermare l’orrore di quei settemila corpi sepolti sotto le macerie di Gaza che non entrano nelle statistiche? “Se dovessimo partecipare ogni giorno al funerale di una bambina o un bambino assassinati in questi quattro mesi dal sionismo a Gaza, passeremmo i prossimi 27 anni a farlo. Ogni giorno per ventisette anni… La retorica dominante e le nostre lealtà istituzionali rimangono intatte…”, scrive la Rete universitaria per la Palestina in un testo scritto “non per ripetere frasi vuote sui mali della violenza né recitare proclami umanitari…”, ma per “invitare alla comunicazione tra quelli di noi che hanno bisogno di fare qualcosa in modo collettivo…”[Il sommario e l’editing di questo articolo sono di Marco Calabria, scomparso improvvisamente l’8 febbraio 2024]
* * * *
Alcuni parlano, altri discutono, altri piangono, c’è anche chi si rallegra per il genocidio in corso. In ogni caso, solo chi promuove la Nakba fa qualcosa. Ed è così che si cancella una città davanti ai nostri occhi che, però, non vedono più nulla (Rodrigo Karmy Bolton).
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C’era una volta… oppure c’è ancora Marx?
di Sandro Moiso
Marcello Musto, Alfonso Maurizio Iacono (a cura di), Ricostruire l’alternativa con Marx. Economia, ecologia, migrazione, Carocci editore, Roma 2023, pp. 350, 32 euro
Si adopera l’espressione «marxismo» non nel senso di una dottrina scoperta o introdotta da Carlo Marx in persona, ma per riferirsi alla dottrina che sorge col moderno proletariato industriale e lo «accompagna» in tutto il corso di una rivoluzione sociale e conserviamo il termine «marxismo» malgrado il vasto campo di speculazioni e di sfruttamento di esso da parte di una serie di movimenti antirivoluzionari. (Amadeo Bordiga – Riunione di Milano, 7 settembre 1952)
Occorre iniziare dalla perentoria e sintetica frase pronunciata da Amadeo Bordiga più di settant’anni fa per cogliere lo smarrimento che al giorno d’oggi può cogliere un certo numero di militanti antagonisti ogni qualvolta sentono usare il nome del filosofo di Treviri oppure il termine che ne indica l’opera e la sua interpretazione da parte di terzi.
Condizione che, spesso, trasmette un’idea di inutile deja vù o, ancor peggio, di opportunistica rivendicazione di una dottrina ridotta a fantasma di se stessa proprio a opera di coloro che un tempo, ora sempre meno, a Marx ed Engels si richiamavano, magari insieme al nome di Lenin o di altri appartenenti al periodo dello stalinismo trionfante e dell’opposizione allo stesso.
Per far uscire l’opera di Marx da questa sorta di terra di nessuno in cui è stata relegata, grazie anche all’assenza di una significativa ripresa della lotta di classe, può risultare utile la lettura del volume collettivo appena pubblicato da Carocci editore che raccoglie i contributi di quattordici studiosi di fama mondiale, appartenenti a diversi ambiti disciplinari e provenienti da vari paesi, nei quali si prova a offrire uno sguardo più moderno e attualizzato sulle idee del filosofo tedesco riguardo all’ecologia, ai processi migratori, alle questioni di genere, al modo di produzione e riproduzione capitalistico, alla composizione del movimento operaio, alla globalizzazione e alle possibili caratteristiche di un’alternativa allo stato di cose presente.
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L’Euro, il Lavoro, la Sinistra
di Massimo D'Antoni
L’euro è stato lo strumento per contenere le richieste sindacali e attrarre capitali per il finanziamento del commercio estero. Perché la sinistra ha aderito in modo acritico a una scelta che indeboliva la sua base sociale? L’odierna illusione che sia sufficiente una vera unione fiscale.
Nel 1992, sollecitato sul tema della costituenda unione monetaria dal giornalista Mario Pirani, in un’intervista per la Repubblica, il prof. Frank Hahn, autorevole economista di Cambridge, affermava che «l’unione monetaria va contro tutto quello che sappiamo di economia».
Il vero obiettivo dell’euro, il controllo della classe lavoratrice
Si riferiva chiaramente all’analisi delle aree valutarie ottimali. È noto infatti che la condivisione di una valuta – ma il discorso vale anche per forme più limitate di coordinamento valutario, quale l’adozione un regime di cambi fissi – richiede per ben funzionare una serie di condizioni, tra le quali particolarmente rilevante è la mobilità dei fattori produttivi. Hahn spiegava che, in una situazione come quella europea, di limitata mobilità dei fattori, una volta bloccata la valvola di sfogo rappresentata dal tasso di cambio, il ruolo di stabilizzatore rispetto agli squilibri della bilancia dei pagamenti sarebbe toccato al mercato del lavoro. Data la rigidità dei salari, il riequilibrio richiesto avrebbe determinato fluttuazioni nel livello di disoccupazione: «I cambi fissi sostituiscono le fluttuazioni del cambio con quelle dell’occupazione». A giudizio di Hahn, queste conclusioni, benché note agli economisti, erano ignorate dai decisori politici a causa di un’eccessiva preoccupazione per la stabilità dei prezzi.
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Questione meridionale: una questione di sviluppo?*
di Augusto Graziani
Pubblichiamo un inedito di Augusto Graziani nel decimo anniversario della sua morte sulla cd. “questione meridionale” Il testo viene accompagnata da una prefazione di Francesco Maria Pezzulli, che ha scoperto la registrazione dell’intervento, e da una breve postfazione di Andrea Fumagalli
Prefazione di Francesco Maria Pezzulli
Questo testo inedito di Augusto Graziani è particolarmente utile perché vi è riassunto il suo punto di vista, in modo semplice e dialogico, su una delle tematiche che lo ha accompagnato per tutta la vita: la questione meridionale. Oserei dire che in queste poche pagine, oltre alla competenza scientifica del grande economista, emerge anche una sua positiva “classicità”. Graziani comincia la sua discussione con gli studenti ricordando loro, fatemela passare, che lui è un economista di sinistra, che ha abbracciato cioè quel principio secondo il quale, con Marx, sono le condizioni d’esistenza delle classi sociali che condizionano le loro dimensioni culturali e che dunque queste due cose vanno tenute insieme se si vogliono intendere per davvero le dinamiche di cambiamento. Ma parlando agli studenti, in modo sornione e divertito, si rivolgeva anche ai sociologi ed agli economisti del Mezzogiorno presenti, ai quali, prendendoli un pò in giro, gli rimproverava di aver dimenticato questo dato scientifico e politico essenziale. Con le sue parole: «gli economisti, e qui torno al mio peccato originale, non solo si muovono terra-terra ma sono anche colpevoli di un peccato di ambizione e cioè ritengono che il progresso della ricchezza materiale (della produzione, dei consumi individuali e collettivi) sia alla base, e che tutto il resto (lo sviluppo della cultura, della civiltà, dello spirito di convivenza e di tutte le altre virtù sociali che potete elencare) sia una conseguenza. Si potrebbe riassumere dicendo che per un economista la povertà è una cattiva consigliera, mentre la ricchezza apre la strada al progresso anche culturale e sociale».
Per Augusto Graziani la questione meridionale è stata sempre e soprattutto un problema concreto di rottura con il passato, con ciò che un tempo venivano definiti “residui feudali” delle società sottosviluppate. Ed è innegabile che tali residui fossero presenti nel Mezzogiorno e che, sotto certi aspetti, lo sono ancora oggi.
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Se il “mondo libero” ha paura di una intervista
di Gianandrea Gaiani
Con l’intervista fiume a Vladimir Putin il giornalista televisivo Tucker Carlson ha fatto arrabbiare tutti al di qua della “Cortina di Ferro”, cioè in quello che ai tempi della prima guerra fredda potevamo definire orgogliosamente il “mondo libero”.
Ha fatto arrabbiare i colleghi, anchorman e star dei grandi media mainstream statunitensi perché ha ottenuto un incontro e una intervista con Putin che ad altri è stata negata, Non pago, giusto per aumentare la dose di bile dei colleghi che non gli perdonano né di venire dalla “reazionaria” Fox News né di essere vicino a Donald Trump, Carlson ha ottenuto da Mosca anche di poter incontrare e intervistare Edward Snowden.
Un’intervista non meno importante di quella a Putin (anche se avrà forse minor impatto mediatico) tenuto conto che la fuga di Snowden, prima in Cina poi a Mosca, scatenò nel 2013 quel Datagate che raccontò al mondo intero di come gli Stati Uniti (e i britannici) spiano amici e alleati fino a controllare i cellulari di leader, capi di stato e di governo europei, i quali hanno peraltro reagito con limitate proteste formali, di fatto accettando come un fatto ineluttabile il loro status di sudditi ( status che, dieci anni dopo, appare oggi ancora più marcato).
Giova ricordare che i fatti svelati da Snowden riguardavano operazioni di spionaggio sviluppatesi negli anni dell’amministrazione Obama in cui Joe Biden ricopriva il ruolo di vice presidente. Per questo i contenuti dell’intervista a Snowden potrebbero forse avere un impatto sulle imminenti elezioni presidenziali statunitensi di novembre.
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Maccartismo. Su un angosciante documento del Parlamento europeo
di Andrea Zhok
Mentre tutte le principali testate giornalistiche europee sono in caduta libera di lettori; mentre Tucker Carlson, dopo aver svolto l'intervista più virale della storia a Vladimir Putin, viene indiziato di "spionaggio" in Europa; il Parlamento Europeo produce un documento come il seguente, che riproduco integralmente qui sotto, dove si chiede la condanna di un'eurodeputata lettone.
Al di là del caso particolare, la batteria argomentativa di questo atto, con valore legale, è agghiacciante. Rubando le parole dell'amico Pino Cabras, stiamo assistendo a un ritorno del maccartismo in grande stile.
Mettiamoci in testa che la cornice di libertà di pensiero e parola in cui siamo cresciuti è morta e sepolta. Lo avevamo già capito durante la pandemia, ma ora stiamo assistendo ai primi atti giuridicamente vincolanti.
Da qui, a cascata, questi principi entreranno sistematicamente nelle nostre scuole e università, nei nostri media, nella nostra quotidianità.
C'è chi dirà: "E dov'è la differenza con quello che già accade?"
La differenza sta nel fatto che finora le eccezioni marginali venivano tollerate, mentre questo impianto culturale predispone la trasformazione in reato di ogni parola critica verso i capisaldi neoliberali UE-NATO.
Come l'asino che dà del cornuto al bue, questo documento è mirabile per la sua capacità di affermare una sequela incredibile di falsità o di schiette inversioni dei ruoli e poi di accusare la controparte di "disinformazione".
Documento molto lungo, molto angosciante, ma da leggere.
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Guerre culturali e neoliberismo di Mimmo Cangiano
Recensione di Rachele Cinerari
Le prime righe di Guerre culturali e neoliberismo, scritto da Mimmo Cangiano e in uscita per Nottetempo, chiariscono cosa il libro vuole, ma soprattutto non vuole, fare.
Questo non è un libro sulla cancel culture (anche se ogni tanto si parla di cancel culture), e neanche un libro sul politicamente corretto (anche se qualche volta si parla di politicamente corretto); è invece un volume che tenta da un lato di ricostruire il dibattito – e la sua genealogia – su tutta una serie di temi che sono diventati il centro delle attuali culture wars (questioni identitarie, di classe, anti-razzismo, anti-sessismo, prospettive liberal, postmodernismo, ruolo della Theory), dall’altro di proporre alcune soluzioni interpretative in un quadro di analisi che, fortemente propenso a prestare orecchio alle nuove questioni emerse, resta ancorato al materialismo storico. Questo libro non è scritto per criticare la cosiddetta woke (…), ma per provare a superare quel non piccolo quid di liberalismo e di culturalismo che le culture wars mi paiono portare con sé; è dunque un libro che mira a sottrarre la woke a sospette derive liberal materializzando i suoi temi attraverso la loro dialettica con i processi socio-materiali (produzione, mercato, lavoro, consumo) in atto.
I nove capitoli del libro si muovono attraverso numerosi esempi, attraversando teorie almeno degli ultimi vent’anni, statunitensi ma anche italiane, per ripercorrere ciò che è accaduto nelle università statunitensi e di come certi processi siano stati inglobati, già masticati e digeriti, da quelle italiane. Partendo dall’esperienza che Cangiano ha fatto lavorando dieci anni nelle università statunitensi ed elaborandole, il libro ricostruisce infatti in modo conciso la culturalizzazione accademica statunitense e il progressivo spostamento delle lotte su un piano esclusivamente simbolico e sovrastrutturale, l’analisi erroneamente a-storica e la naturalizzazione del capitalismo, l’inglobamento (e fraintendimento?) della cosiddetta French Theory.
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Ampliare il conflitto dal Mar Rosso? Le strategie imperialistiche per il controllo del Medioriente
di Maurizio Brignoli
Ansarallah e l’attacco a Israele nel Mar Rosso
Nello Yemen nel 2011 scoppiava la rivolta degli al-Huthiyyun, meglio noti come huthi (per quanto il termine non sia gradito agli stessi), sciiti raggruppati nella formazione di Ansarallah (Partigiani di Dio), il movimento prende il nome da Hussein Badr al-Din al-Huthi un capo politico e religioso dello sciismo zaydita ucciso dalle forze governative nel corso di un’insurrezione nel 2004, che portava alla caduta del regime filosaudita artefice dell’inserimento dello Yemen nel mercato mondiale in stretta relazione con il capitale anglo-statunitense interessato allo sfruttamento delle risorse delle regioni centromeridionali e a una politica di privatizzazioni delle imprese statali a beneficio di Usa e petromonarchie. Per fronteggiare l’insurrezione – alla quale, a conferma che le contrapposizioni religiose fungono da paravento, partecipano anche sunniti, socialisti e formazioni del nazionalismo arabo – Usa e sauditi utilizzano prima l’infiltrazione jihadista con al-Qaida nella Penisola arabica (Aqpa), cui si aggiungeranno uomini dell’Isis per tramite degli Eau[1], e poi dal 2015 l’intervento militare diretto, giustificato con l’accusa ad Ansarallah di essere una quinta colonna iraniana (Ansarallah in realtà è riuscita a resistere grazie al sostegno popolare di cui gode nel paese)[2], con una coalizione composta da Arabia Saudita, Kuwait, Qatar, Bahrein, Eau, Giordania, Egitto, Marocco, Oman e Sudan con supervisione militare e interventi diretti di Usa, Regno Unito e Francia. Un’altra buona occasione per l’apparato militare-industriale statunitense che, dall’inizio del conflitto fino al 2020, ha venduto ai sauditi armi per oltre 60 miliardi di dollari.
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Il messia collettivo: Antonio Negri e la teologia
di Gabriele Fadini
All’interno dell’ampio spettro dei temi trattati dalla riflessione di Antonio Negri, poco è lo spazio riservato alla questione legata al paradigma teologico-politico. Gabriele Fadini sostiene che ciò non comporti che i temi legati al rapporto tra teologia e politica non abbiano una portata significativa nel suo pensiero. Perciò, in questo articolo l’autore si interroga su come, nella teoria politica di Negri, certamente inscritta nella tradizione del materialismo, la liberazione possa passare anche attraverso la religione. Domanda non certo nuova, a cui tuttavia Negri dà delle risposte peculiari, radicate innanzitutto nel pensiero spinoziano dell’immanenza.
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All’interno dell’ampio spettro dei temi trattati dalla riflessione di Antonio Negri, poco è lo spazio riservato alla questione legata al paradigma teologico-politico. Ciò, tuttavia, non comporta a nostro avviso che i temi che andremo sottolineando non abbiano una portata significativa a proposito di questo argomento. In Goodbye Mr. Socialism è presente una tesi che crediamo riassumere per interno il rapporto che Negri intrattiene con il pensiero teologico-religioso:
La religione è un grande imbroglio in sé, ma può essere anche un grande strumento di liberazione per sé[1].
Ci troviamo di fronte a una ambiguità? A una contraddizione in termini? In che modo va intesa questa affermazione?La questione che ci si pone di fronte, in altri termini, consiste nel domandarci come la liberazione possa passare anche attraverso la religione per un autore che inscrive il proprio percorso di pensiero all’interno della grande tradizione del materialismo più o meno ortodosso. La domanda da cui partiamo non è tuttavia nuova per la riflessione filosofica e teologica.
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Partiti politici e cicli economici. Spunti di riflessione rispetto all’oggi
di Gerardo Lisco
Questo mio intervento vuole essere una riflessione sul capitolo dedicato ai partiti o meglio un ragionamento sul III “racconto” del saggio dal titolo “Fare la guerra con altri mezzi. Sociologia storica del governo parlamentare” del sociologo della politica Alfio Mastropaolo. I partiti politici, seguendo la narrazione del prof. Mastropaolo, traggono origine dal conflitto politico che dall’Inghilterra del XVII secolo attraversò l’Oceano Atlantico per radicarsi, a seguito della Guerra d’Indipendenza, in quelli che sarebbero diventati gli Stati Uniti d’America. In Inghilterra la differenza tra Wighs e Tories è strettamente legata al conflitto tra prerogative del Parlamento da una parte e prerogative del Re dall’altra. Conflitto questo che si accentuò, e molto, nella seconda metà del XVIII secolo durante il Regno di Giorgio III. La figura di John Wilkes è fondamentale ai fini del quadro politico britannico del tempo e per comprendere come le profonde trasformazioni allora in atto determinarono la tradizionale divisione tra i Wighs e i Tories. Forzando, se volessimo utilizzare categorie post moderne, dovremmo dire che in quell’epoca si verificò il primo superamento delle differenze di destra e sinistra. Il mescolamento dei due schieramenti, finalizzato al mantenimento del potere da parte di gruppi di interesse, portò all’emergere di nuovi soggetti politici come la Society of Supporters of the Bill of Right (SSBR). L’organizzazione, nata a Londra nel 1769, adottò un programma in tre punti: riduzione della durata della legislatura a tre o addirittura a un anno; richiesta di una maggiore rappresentanza del popolo; eliminazione del placement dalla Camera dei Comuni. Si potrebbe dire di essere in presenza di istanze di tipo democratico e di maggiore partecipazione. Le rivendicazioni delle classi popolari rappresentate dalle classi urbane e commerciali sono il sintomo delle trasformazioni in atto nella struttura sociale ed economica dell’Inghilterra dell’epoca.
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“La lobby israeliana è potente come sempre”
di John Mearsheimer
Lo studioso americano di relazioni internazionali parla delle guerre a Gaza e in Ucraina e della competizione per il potere in Medio Oriente, i9ntervistato da Gavin Jacobson
10 Febbraio 2024. Da The New Statesman. Traduzione di Antonio Gisoldi.
Gavin Jacobson: Iniziamo con l'Ucraina. Cosa ne pensi del pacchetto di aiuti dell'Unione Europea di 50 miliardi di euro a Kiev? Farà una differenza sostanziale nella guerra contro la Russia?
John Mearsheimer: No, penso che quei soldi siano essenzialmente destinati a mantenere a galla il governo ucraino. Ciò di cui gli ucraini hanno bisogno sono armi, e quei soldi dall'UE non sono destinati ad aiutarli a comprare armi. Il denaro non è davvero il problema per quanto riguarda ciò che sta accadendo sul campo di battaglia. Quello di cui gli ucraini hanno bisogno sono un sacco di armi - artiglieria, carri armati, munizioni - e l'Occidente semplicemente non ha abbastanza armamenti da dare agli ucraini per consentire loro di stare al passo con tutto il materiale che i russi stanno costruendo e fornendo alle loro truppe. C'è sempre stato uno squilibrio nelle armi tra Ucraina e Russia, e soprattutto uno squilibrio nell'artiglieria, che conta molto in una guerra d’attrito. Ma tale squilibrio sta crescendo col passare del tempo. La radice del problema non è il denaro, ma il fatto che l'Occidente non abbia le armi disponibili da dare agli ucraini ora, o in un futuro prossimo, o nei prossimi anni.
GJ: Puoi commentare sulle divisioni ai vertici del governo ucraino? Visto da lontano, pensi che Volodymyr Zelensky sarà in grado di mantenere le cose sotto controllo?
JM: Non c'è dubbio che Zelensky sia stato gravemente indebolito. E ai fini del proseguimento della lotta al fronte, non può che essere dannoso avere questa lotta titanica in corso tra il leader politico e il comandante in capo Valery Zaluzhny. Come ciò sarà risolto è difficile da dire.
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Nuovi rigurgiti dell’imperialismo straccione
di Giuseppe Amata
1. La definizione di “imperialismo straccione”, come è sin troppo noto, è stata di Lenin, in riferimento alle mire espansionistiche del capitalismo italiano verso la mitteleuropa e i balcani partecipando alla Grande guerra. Straccione, perché il suo sviluppo era iniziato con ritardo rispetto a quello degli altri Stati imperialistici (Inghilterra, Francia, Stati Uniti, Giappone, Germania, Austria e anche Turchia) e avvenuto con eccessivo protezionismo e soprattutto sfruttando in modo selvaggio, dopo l’Unità, il Mezzogiorno, del quale analizzarono superficialmente alcune cause prima Gaetano Salvemini e Guido Dorso e dopo, con un’analisi storica ed economica molto approfondita, Gramsci, il quale ha messo in risalto la questione contadina, quella vaticana e la grande disgregazione del tessuto sociale che ne è scaturita con il drenaggio e il trasferimento di forza-lavoro (migrazione interna da Sud a Nord ed estera verso le Americhe e l’Australia) a basso costo, con la crisi delle piccole attività imprenditoriali nel settore zolfifero in seguito alla scoperta negli Stati Uniti di procedimenti estrattivi più economici, attività che a loro volta si basavano, oltre che su salari di fame, impiegando migliaia di ragazzini (i carusi) al di sotto dei quattordici anni nel trasporto del materiale estrattivo in superficie e nelle attività collaterali, quando in molti Paesi europei il lavoro minorile era espressamente vietato dalle rispettive legislazioni; nonché soppiantando l’industria artigianale nel settore della lavorazione della seta e delle costruzioni legnose (piccoli cantieri navali per barconi da pesca e da trasporto, mobilifici e arredi, sviluppatisi nel tempo per la bravura e abilità di chi vi lavorava) per favorire la grande industria tessile del Piemonte e le industrie del Nord in generale; infine raccattando i risparmi della piccola borghesia urbana e rurale a favore delle grandi banche.
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Un programma per il programma
di Lanfranco Binni
Il crollo della globalizzazione finanziaria occidentale, statunitense ed europea, annunciato dalla crisi economica del 2008 e accelerato dalla crisi pandemica del 2019-2020, si sta oggi trasformando in una conclamata crisi politica mondiale; e, sullo sfondo, una crisi climatica inarrestabile, non contrastata per non rinunciare alle antiche predazioni di un capitalismo estrattivo e colonialista, in armi contro il mondo. I vecchi e nuovi strumenti di guerra, dalle cannoniere alle piattaforme digitali, con tutti i loro corollari di propaganda mediatica e di esercizio autoritario dei poteri, stanno registrando arresti e sconfitte in ogni scenario. L’estensione di una guerra globale occidentale contro il “sud” del mondo in una visione di resa dei conti militare con la Russia e la Cina per il dominio dei mercati e delle materie prime del pianeta sta mettendo a nudo una realtà profondamente diversa dalle fantasiose narrazioni dell’unipolarismo statunitense e dei suoi gregari europei, mentre si rafforza una tendenza al multipolarismo orientata dal cartello dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) a cui si sono aggregati nell’ultimo anno sempre più numerosi Stati del pianeta, e le adesioni si vanno moltiplicando. La crisi è occidentale, e il cuore della crisi è costituito dalla situazione interna agli Stati Uniti, alla vigilia di una drammatica guerra civile e interetnica che già sta determinando conseguenze prevedibili nell’intera area di influenza atlantica.
La guerra statunitense ed europea in Ucraina, per spezzare le reni alla Russia, è perduta; il taglio dei finanziamenti statunitensi al governo vassallo di Kiev e la conseguente riduzione degli aiuti militari europei costringeranno a una soluzione negoziale sulla base degli accordi di Minsk del 2015, in un paese desertificato da nove anni di guerra del tutto inutili nel cuore dell’Europa.
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La giungla contro il giardino. A proposito di “La guerra capitalista”
di Giorgio Gattei
1) Mi sembra doveroso partire dalla preoccupata constatazione di Papa Bergoglio, espressa il 10.3.2023 in occasione del decimo anniversario del suo pontificato, che «in poco più di cent’anni ci sono state tre guerre mondali: 1914-1918, 1939-1945, e la nostra; che è anch’essa una guerra mondiale. È cominciata a pezzetti ma adesso nessuno può dire che non è mondiale. Le grandi potenze vi sono tutte invischiate. Il campo di battaglia è l’Ucraina, ma lì lottano tutti».
E bravo il nostro Papa nel riconoscere che la guerra russo-ucraina non è affatto “locale”, come quelle precedenti in Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Siria o Libia, bensì planetaria!
Però bisognerebbe sforzarsi di indicare anche in maniera esplicita quali sono le effettive parti in lotta, che solo superficialmente sono la Russia e l’Ucraina. Infatti, tutti sappiamo che dietro l’Ucraina c’è la NATO a guida americana con l’Unione Europea al traino e che la Russia di Putin, nell’immaginario occidentale, altro non è se non la prosecuzione di quella Unione Sovietica che aveva dato del filo da torcere agli Stati Uniti lungo tutto il periodo della c.d. “guerra fredda”.
Per questo il conflitto in corso è “mondiale”, potendosi anche considerare come quel “finale caldo di partita” che finora era stato scansato per la minaccia di Mutua Distruzione Atomica Assicurata, ma che adesso potrebbe anche non essere più evitabile.
Proprio questo gli Stati Uniti ci vanno dentro con mano leggera senza inviare “scarponi sul terreno” (come hanno fatto in Vietnam, Afghanistan e Iraq) e senza applicare la “no fly zone” (come nel caso della Serbia e della Libia) per il pericolo che Putin finisca per utilizzare (come ha minacciato), se aggredito sul territorio nazionale, anche armi atomiche “tattiche”, dove però non si sa bene dove il “tattico” finisca.
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La guerra mondiale e l’Europa
di Ascanio Bernardeschi e Alessandra Ciattini
Le varie parti della “guerra mondiale a pezzi” hanno una logica comune e l’Europa, contro i propri stessi interessi, tollera questa logica. I comunisti devono invece appoggiare lo sforzo dei popoli che vogliono liberarsi dalla violenta supremazia occidentale.
Se alcuni mesi fa papa Bergoglio aveva parlato, con riferimento ai troppi conflitti in corso, di “guerra mondiale a pezzi”, ci pare che questi pezzi si stiano pericolosamente fondendo nell’ambito di un orientamento sistemico alla guerra da parte delle maggiori potenze occidentali e della Nato.
Il motivo fondamentale è che stanno crollando i vecchi equilibri di fronte all’emergere impetuoso di nuovi protagonisti, fino a poco tempo fa dominati dalla violenza, più che dall’egemonia, del cartello di nazioni “evolute” dominato dagli Usa.
È proprio la potenza americana che, nel disperato tentativo di salvaguardare il suo predominio – e il predominio della propria valuta che le consente di vivere ben al di sopra delle proprie capacità produttive –, ha scelto il terreno militare dello scontro, consapevole che su quello economico la sua supremazia sta vacillando. La logica della maggior parte delle guerre in atto si può spiegare solo tenendo presente questa premessa.
Ucraina
Sta fallendo il tentativo della Nato di sconfiggere la Russia in Ucraina.
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Cattivo per natura. L'antropologia del realismo politico
di Damiano Palano
Estratto da L'uomo non è buono. Per la critica del progresso
In occasione dell'uscita di L'uomo non è buono. Per la critica del progresso, curato da Veronica Marchio e uscito per il nuovo marchio editoriale MachinaLibro - legato al lavoro della rivista e di DeriveApprodi -, pubblichiamo un estratto dal saggio di Damiano Palano che s'interroga sulla tradizione filosofica del realismo politico.
Il libro, ripercorrendo le fondamenta e i principali autori di quella che viene definita «antropologia negativa», formula un'importante ipotesi di ricerca teorico-politica: bisogna spezzare l'alternativa tra progresso e conservazione, tra fede nella bontà umana e inevitabilità dell'autodistruzione, usando anche il grande pensiero conservatore e reazionario piegandolo contro i propri fini.
Gli altri autori del libro sono Dario Gentili, Ubaldo Fadini, Maria Russo, Miguel Mellino, Franco Piperno, Marco Spagnuolo e Mario Tronti.
È possibile acquistarlo qui.
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In un famoso passaggio del Concetto del «politico», Carl Schmitt scrive che tutte le dottrine politiche potrebbero essere classificate in base alla loro antropologia e suddivise «a seconda che esse presuppongano, consapevolmente o inconsapevolmente, un uomo "cattivo per natura" o "buono per natura"» (Schmitt 1972, p. 143). Benché non sia facile rinvenire nei suoi testi una nitida esplicitazione dei presupposti antropologici della sua visione del ‘politico’, le simpatie di Schmitt vanno naturalmente alla prima di queste due prospettive, ossia a quella che propone l’immagine sinistra di un essere umano «cattivo per natura».
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Sull’insegnamento della filosofia nella scuola e nell’università*
Una risposta a Massimo Mugnai
di Giovanni Bonacina (Università di Bologna)
Grazie per questo invito e grazie all’autore per avermi mandato le bozze del suo libro, senza le quali – da storico della filosofia aggrappato al materiale cartaceo come àncora di salvezza – non avrei saputo che cosa dire... È vero – ha perfettamente ragione il collega Enzo Fano – si tratta di un libro vivace e frizzante; di conseguenza ho preparato anch’io un intervento che almeno in parte abbia questo taglio, come di solito i miei colleghi storici della filosofia non praticano. Perciò incomincerò con un apologo.
Immaginate di starvi recando a prendere il treno la mattina presto e di aver molta fretta e di non sapere che ore siano, poiché avete dimenticato a casa l’orologio e il vostro telefono cellulare è maledettamente scarico. Finché non sarete seduti in treno, non potrete collegarlo alla corrente. Per vostra fortuna vedete venirvi incontro leggendo il giornale un signore molto distinto, al quale subito pensate di rivolgervi.
Prima possibilità: il signore che avete di fronte è Massimo Mugnai. La risposta suonerà: «Sono le ore 6 e 14 minuti primi, 56 secondi». Avrebbe potuto dire: «Le sei e un quarto» obietterete! Ma poiché la filosofia deve il più possibile assomigliare a una scienza esatta, dotata di un linguaggio incontrovertibile e aderente all’esperienza, è così che il nostro collega vi avrà dato la risposta. Riuscirete a prendere il treno.
Seconda possibilità: siete un po’ più sfortunati, il signore molto distinto che vi viene incontro è chi vi parla, è Giovanni Bonacina. Gli domandate l’ora. Estrae dal taschino il suo orologio e vi legge: «Vacheron et Constantin, Genève». E aggiunge: «Genève... la città di Jean-Jacques Rousseau! Ma Lei sa che quando Jean-Jacques faceva Rousseau, o quando Rousseau faceva Jean-Jacques… perché Lei sa che fu autore di un’opera dal titolo Rousseau juge de Jean-Jacques, nevvero? anno di pubblicazione? 1780!
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Proteste, agricoltura e ambientalismo: una finestra per l’agroecologia (e per il possibile)
di Barbara Bernardini
Riprendiamo un articolo uscito nell’ultimo numero della newsletter Braccia Rubate
Queste settimane di proteste hanno come primo merito l’aver portato all’attenzione un aspetto messo costantemente ai margini nei discorsi sulla transizione ecologica: tutta la filiera agroalimentare è sempre sembrata solo uno dei tanti fronti della sfida posta dalla crisi ambientale e, anzi, dal peso che le viene dato nelle varie COP, nell’informazione e, spesso, anche dai movimenti ambientalisti, uno dei fronti secondari.
Come abbiamo fatto a relegare il cibo a questione marginale? Quanto dovrebbe invece essere più importante evitare che gli effetti della crisi climatica rendano sempre più elitario l’accesso a un’alimentazione sana? Quanto è più importante assicurarsi che una, necessaria, transizione ecologica nel settore agroalimentare non ricada per intero né sulle spalle degli agricoltori né su quelle dei consumatori, ma venga condivisa in modo equo e giusto?
Anche nel mezzo della confusione e dei tentativi della politica di appropriarsi dei temi e mistificare le proteste – un nuovo, sempre più feroce, attacco all’ambientalismo che come al solito sfrutta rabbia, ansia e paura delle persone –, e al netto della prevalenza di un certo mondo che viene dritto dai forconi e dall’estrema destra, non si possono ignorare i punti critici che stanno mettendo in luce i trattori scesi in strada. Non possiamo prendere tutto e metterlo nel calderone del populismo, perché fare di questa la protesta univoca e compatta contro le misure ecologiche, come ci viene raccontato e come fa molto comodo e chi è sempre stato contro quelle misure, è pericoloso.
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Nessuna de-escalation a Gaza e in Medio Oriente
di Roberto Iannuzzi
La guerra nella Striscia prosegue senza sosta, mentre l’inconcludente diplomazia USA nella regione consente di fatto a Israele di andare avanti con le operazioni militari
Le ultime settimane sono state caratterizzate da una specie di sanguinoso limbo in Medio Oriente.
Le operazioni militari israeliane sono proseguite in tutta la loro violenza, provocando fra i 100 e i 200 morti al giorno a Gaza (sebbene il verdetto della Corte Internazionale di Giustizia avesse ordinato a Tel Aviv di adottare tutte le misure necessarie per prevenire un genocidio contro i palestinesi nella Striscia).
Ma un laborioso negoziato era sembrato decollare, sotto la spinta di Stati Uniti, Qatar ed Egitto, per giungere a un cessate il fuoco che portasse alla liberazione degli ostaggi israeliani nelle mani di Hamas, e che potesse eventualmente trasformarsi in una tregua permanente.
L’iniziale decisione americana di rispondere in maniera relativamente contenuta a un attacco con droni, che il 28 gennaio aveva portato all’uccisione di tre soldati statunitensi in una base al confine tra Giordania e Siria, aveva spinto alcuni a ipotizzare che Washington intendesse non esacerbare le tensioni regionali, sperando nel successo di un negoziato che potenzialmente avrebbe aperto la strada alla fase successiva del suo aleatorio piano per la Palestina.
Quest’ultimo, in tutta la sua problematicità, era così articolato: riabilitare una delegittimata Autorità Nazionale Palestinese (ANP), imporre una nuova amministrazione palestinese da essa guidata a Gaza, eventualmente sotto il controllo di una missione araba capeggiata dai sauditi, i quali avrebbero accettato una riconciliazione con Israele in cambio di un accordo di sicurezza con gli USA e della creazione, in prospettiva, di uno Stato palestinese demilitarizzato, e sotto ogni aspetto fittizio.
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Guerra e pace. Intervista a Carlo Rovelli
Luca Busca intervista Carlo Rovelli
Carlo Rovelli è un fisico, un professore, un instancabile ricercatore e un fine pensatore. È divenuto famoso nel mondo come divulgatore scientifico grazie ad una serie di libri, tradotti in quarantadue lingue, in grado di spiegare gli arcani della meccanica quantistica anche a tutti coloro che, come il sottoscritto, non sanno neanche di non sapere.
Il suo ultimo libro, “Lo sapevo, qui, sopra il fiume Hao” edito da Solferino, è invece una raccolta di articoli in cui vengono riassunti i grandi temi che caratterizzano il suo pensiero: la Pace, con le sue implicazioni sociali e politiche, e la Scienza, o meglio la Scienza pura, il suo settore di ricerca e di studio con le relative connessioni filosofiche, e le scienze applicate.
Questa intervista si concentra in particolar modo sul pensiero politico di Rovelli e sulle inevitabili riflessioni sul difficile momento che l’essere umano sta attraversando. Perso come è tra guerre, crisi ambientale e disuguaglianze mai raggiunte prima.
* * * *
In un'intervista rilasciata a Piazza Pulita il 9 marzo scorso parlando della guerra in Ucraina, lei ha affermato che la Comunità Internazionale Occidentale racconta una storia in cui il resto del mondo, che costituisce la stragrande maggioranza, non crede più. Quello che vede il resto del mondo è l’Occidente che prevarica per mezzo del dominio militare e non più con quello economico. In quest’ottica come valuta il nuovo conflitto israelo-palestinese?
C.R.: Il conflitto fra Israele e Palestina mette bene in luce la disparità di vedute in corso. Una vasta maggioranza globale giudica criminale e immorale l’attuale comportamento dello stato israeliano, anche quando condanna passate azioni di Hamas. Basta leggere la stampa non occidentale, o contare i voti all’assemblea delle Nazioni Uniti, dove le condanne per Israele sono continue, e non diventano politica ufficiale dell’ONU solo perché gli Stati Uniti, in barba alla democrazia, pongono continuamente il veto.
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La deriva dell’Occidente nell’intervista di Tucker Carlson a Vladimir Putin
di Giacomo Gabellini
Oggi, a mezzanotte (ora italiana; 18.00 a Washington, 2.00 di notte a Mosca), verrà diffusa l’intervista rilasciata nei giorni scorsi dal presidente russo Vladimir Putin a Tucker Carlson, popolarissimo giornalista licenziato mesi addietro da «Fox News» per via della sua incontrollabilità. La conversazione andrà in onda simultaneamente sul sito di Carlson e su Twitter/X, in seguito alla promessa strappata dal noto conduttore a Elon Musk, proprietario del social network, di non interrompere né censurare in alcun modo la trasmissione.
Che il noto conduttore si trovasse in Russia per questioni di lavoro era evidente, vista l’imponenza della squadra di tecnici e dell’equipaggiamento che aveva portato con sé, ma che si fosse recato a Mosca per intervistare un personaggio del calibro di Putin era tutt’altro che scontato, sia in virtù dell’elevatissima conflittualità internazionale tra Occidente e Russia, sia per le potenziali ripercussioni su Carlson stesso. Il quale è stato puntualmente bollato come “traditore” dall’ex deputato repubblicano Adam Kinzinger, e bersagliato dagli strali più o meno sarcastici di Bill Kristol, redattore della pubblicazione «The Bulwark» secondo cui «avremmo forse bisogno di un blocco totale e completo del rientro di Tucker Carlson negli Stati Uniti finché i dirigenti del nostro Paese non capiranno cosa sta succedendo».
Guy Verhofstadt, già primo ministro belga, ex presidente del Consiglio Europeo e attuale capogruppo dei Liberali al Parlamento Europeo, ha addirittura invocato l’intervento dell’Unione Europea, esortandola a valutare l’imposizione di restrizioni sui viaggi nel “vecchio continente” nei confronti di Carlson, definito come «un portavoce di Donald Trump e di Putin», sulla base della seguente argomentazione:
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Il Sud Africa e il dovere di prevenire il genocidio
di Stefano Bellucci*
Se le parole hanno un senso, gli stati non sono i governi e le nazioni non sono gli stati. Israele è uno stato ma la nazione israeliana non è il governo che guida il suo stato. Le accuse del Sud Africa al governo israeliano non sono un atto contro gli ebrei o contro lo stato di Israele, che anch’essi non sono la stessa cosa. La richiesta del governo del Sud Africa alla Corte internazionale di giustizia di adottare misure cautelari nei confronti di Israele affinché il suo governo non attui un genocidio a Gaza è stata accolta favorevolmente dalla Corte stessa.
L’ANC, razzismo e genocidio
Il procedimento per evitare un genocidio istituito dal governo del Sud Africa a guida African National Congress (ANC) è rivolto al governo di emergenza nazionale guidato da Benjamin Netanyahu e non contro gli ebrei, come afferma qualche scellerato. Proprio come Hamas non è il volto di tutto il popolo palestinese, il governo israeliano non riflette il volere di tutta la nazione, che comprende anche arabi, musulmani e cristiani, non ce lo dimentichiamo. Il governo d’emergenza israeliano, infatti, comprende tutta una serie di piccoli partiti espressione di una galassia di destre religiose invasate e pericolose per gli israeliani stessi oltre che per i palestinesi. L’opposizione di sinistra è piccola ma esiste in Israele ed è formata dai laburisti e dai comunisti di Hadash.
Il Sud Africa ha un governo guidato dall’ANC, il partito di Nelson Mandela, ovvero dell’africano più popolare del ventesimo secolo. L’ANC è un partito di sinistra, anche se lo è solo sul piano sociale e non più su quello economico, dato che dopo trent’anni al potere il Sud Africa è uno dei paesi africani con i più alti tassi di disuguaglianza e criminalità del continente.
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Lo scontro valutario dietro la guerra russo-ucraina
di Alessandro Bartoloni
Riceviamo e pubblichiamo uno scritto di Alessandro Bartoloni che alimenta il dibattito su un importante tema - le cause finanziarie e valutarie dietro il conflitto contro la Russia - affrontato con un pregevole lavoro scientifico dal titolo "Le radici valutarie del conflitto in Ucraina", edito dalla rivista "Materialismo Storico", che come l'AntiDiplomatico vi abbiamo riproposto la settimana scorsa. Degli stessi argomenti, il Prof. Giulio Palermo ha offerto un pregevole contributo in "Il conflitto russo-ucraino: l'imperialismo Usa alla conquista dell'UE" (LAD Edizioni 2022)
L’ispirazione per questo articolo mi è venuta dalla lettura del saggio del compagno, nonché professore, F. S. pubblicato su Materialismo Storico. Per spiegare la guerra in Ucraina, l’Autore adopera lo schema già utilizzato nel caso degli attacchi all’Iraq e alla Libia, rasi al suolo per aver osato mettere in discussione l’egemonia del dollaro nel commercio dei prodotti petroliferi. In sintesi, «quello russo-ucraino ci appare come l’ennesimo conflitto per interposta persona in cui, attraverso la NATO, il capitale legato al dollaro cerca di indebolire l’area valutaria legata allo yuan che, nel frattempo, sta crescendo economicamente in maniera straordinaria, contendendo esplicitamente l’egemonia sull’intero sistema di capitale».
Di fronte a una tale tesi mi sarei aspettato che la divisa cinese fosse cresciuta negli scambi internazionali di merci, negli investimenti diretti esteri e di portafoglio, nonché nei forzieri delle banche centrali quale valuta di riserva. Al contrario, i dati riportati sembrano suffragare che la guerra in corso non costituisce una conseguenza della potenza dell’area valutaria legata alla “moneta del popolo” (renminbi) bensì uno dei fattori che ne accelerano l’espansione. Come si vede dalla figura 1 tratta da un articolo di Bloomberg, prima della guerra l’importanza della valuta cinese è sì cresciuta, ma non così tanto da rappresentare un effettivo e imminente pericolo per l’egemonia del biglietto verde.
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Intervista Putin-Carlson: tutti i punti salienti sintetizzati
di La Redazione de l'AntiDiplomatico
La tanto attesa intervista di Tucker Carlson a Vladimir Putin è andata in onda nella mezzanotte italiana e nonostante i maldestri tentativi delle lobby mediatiche e politiche filo Nato di impedire la visione ai cittadini del mondo libero si sta diffondendo a una velocità incredibile.
Questi i principali temi toccati dal presidente della Federazione russa Vladimir Putin.
Storia della Russia e dell’Ucraina
All'inizio dell'intervista, Putin ha fornito "una breve panoramica storica" della creazione e dello sviluppo della Russia e dell'Ucraina e delle loro relazioni. Ha detto che la Russia ha iniziato a formarsi come Stato centralizzato nell'862 e successivamente si è sviluppata come uno Stato con due centri: uno a Kiev e l'altro a Novgorod.
Dopo la frammentazione della Rus', iniziò a formarsi uno Stato centralizzato con capitale a Mosca, mentre i territori meridionali, che comprendevano Kiev, tendevano verso il centro dell'Europa, verso il Granducato di Lituania, che in seguito si unì al Regno di Polonia. “I polacchi esercitavano la loro influenza in questi territori meridionali e trattavano la popolazione con durezza”. Per questo motivo gli abitanti di queste terre iniziarono a lottare per i loro diritti e si rivolsero a Mosca per prenderli sotto il loro controllo. Nel corso della storia, i territori sulla riva sinistra del fiume Dnepr, compresa Kiev, divennero parte della Russia, mentre le terre sulla riva destra del Dnepr divennero parte dello Stato polacco. "Durante il regno di Caterina II, la Russia riconquistò tutte le sue terre storiche, comprese quelle a sud e a ovest", ha osservato Putin.
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