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Post-neoliberismo e la politica della sovranità
Paolo Gerbaudo
La crisi della globalizzazione neoliberista che si sta manifestando a diverse latitudini, e che è stata dimostrata in maniera eclatante dalla vittoria della campagna per la Brexit nel Regno Unito e dal successo di Donald Trump nelle presidenziali americane, ha risuscitato una delle più antiche e polverose tra tutte le nozioni politiche: l’idea di sovranità.
Di solito intesa come l’autorità dello Stato di governare sul suo territorio, la sovranità è stata a lungo considerata un residuo del passato in un mondo sempre più globale e interconnesso. Ma oggi questo principio viene invocato in maniera quasi ossessiva dall’insieme di nuove formazioni populiste e dai nuovi leader che sono emersi a sinistra e a destra dell’orizzonte politico a seguito della crisi finanziaria del 2008.
La campagna per la Brexit in Gran Bretagna, con la sua richiesta di “riprendere il controllo”, si è incentrata sulla riconquista della sovranità dall’Unione europea, accusata di privare il Regno Unito del controllo sui propri confini. Nella campagna presidenziale americana Donald Trump ha fatto della sovranità il suo leitmotiv. Ha sostenuto che il suo piano sull’immigrazione e la sua proposta di revisione degli accordi commerciali avrebbero garantito «prosperità, sicurezza e sovranità» al paese.
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Gattopardismo di sinistra?
di Renato Caputo
In questi giorni stiamo assistendo, perplessi, a grandi manovre di riposizionamento a sinistra, per cercare di occupare gli spazi vuoti che si sono aperti dopo il deciso spostamento a destra del Pd renziano e la sua netta battuta d’arresto a seguito del referendum del 4 dicembre. Il fatto che persino gli irriducibili sostenitori della “ditta”, come Bersani e Speranza, si siano infine decisi ad abbandonarla alla sua deriva neo-democristiana, è certamente un evento da valutare positivamente.
In primo luogo perché mette definitivamente la parola fine all’incubo di un ventennio renziano sotto il segno del Partito della nazione, in realtà già duramente colpito dalla grande mobilitazione contro la “Buona scuola”, dal primo sciopero generale della Cgil contro il governo amico e, infine, dalla disfatta del tentativo di stravolgere la Costituzione.
In secondo luogo perché contribuisce indubbiamente a una maggiore chiarezza del quadro politico e mette la parola fine al tentativo dei liberisti renziani di spacciarsi come di sinistra e, quindi – grazie alla copertura della triplice sindacale e della sinistra interna – di presentarsi al contempo come la più affidabile opposizione. In altri termini un partito sempre più affine nei fatti ai partiti Popolari europei che continua però a spacciarsi come la principale e più credibile alternativa al centro-destra. Tanto più che la scissione del Pd comporta, nei fatti, la rottura del cordone ombelicale che lo legava – coprendolo a sinistra – con la più grande forza sindacale italiana, ovvero la Cgil che mantiene, nonostante tutto, un forte ascendente su ampi settori di lavoratori salariati e della stessa classe operaia.
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Maschera e volto del postmodernismo contemporaneo
di Luca Siniscalco*
Il postmodernismo si presenta in maniera confusa, quasi bifronte. Dire -post è filosoficamente un non dire, in quanto la collocazione temporale di una nozione non ne stabilisce il contenuto esplicativo né, tanto meno, veritativo. Per considerare la trasfigurazione tutta profana del modernismo in postmodernismo intendiamo avvalerci del contributo di due studiosi contemporanei di grande statura e, per rimanere nel campo delle anomalie, di antitetica provenienza culturale. Ci riferiamo a Mario Tronti, padre dell’operaismo italiano e fine filosofo politico, e ad Aleksandr Dugin, tradizionalista ed eurasiatista russo
L’eco evoliano di questo titolo intende, fra il serio e il faceto, evocare un problema culturale – e, perché no, spirituale – del nostro evo. Così come nel secolo scorso un “idealista magico” ha messo in luce la natura ambivalente degli spiritualismi, forme degenerate della spiritualità tradizionale, è oggi opportuno denunciare la struttura ambigua e sfuggente del postmodernismo, figlio spurio della modernità. Filiazione di segno negativo, quella rilevata da Evola; partenogenesi di segno dubbio, meritevole di un dibattito, quella del paradigma politico, culturale ed esistenziale del postmodernismo. Poiché, sebbene tutti gli -ismi meritino riserve – e Nietzsche ha già detto tutto in merito – lo statuto del postmodernismo è foriero di dinamiche perennemente instabili, scivolose, chiaroscurali. A tratti ineffabile, questo Giano bifronte – sulla cui stessa esistenza autonoma, svincolata dal Moderno, il dibattito teoretico si sbizzarrisce – comporta infiniti problemi di definizione. Si staglia come una chimera, il sogno mostruoso che tutti noi sogniamo nei momenti di lucidità e che la veglia della ragione lascia obliato in nome del sensus communis.
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Le anime elettriche del capitale
Benedetta Pinzari e Salvatore Cominu intervistano Ippolita
Abbiamo intervistato il collettivo Ippolita che da anni analizza gli effetti delle nuove tecnologie di rete sulla soggettività, le ricadute sociali dell’innovazione e le pratiche di autodifesa digitale
Partiamo dal vostro ultimo libro “Anime elettriche”, che dialoga esplicitamente con Foucault e affronta il tema della produzione di soggettività in età tardo-capitalistica (nel “rumore bianco” della rete). Questa contiguità tra individuo e tecnologia da una parte ha innescato un processo di “smaterializzazione” del corpo biologico degli utenti, le cui possibilità di relazionarsi diventano pressoché illimitate, dall’altra ha prodotto forme ibride di socializzazione in cui il confine fra “realtà” e “rete” non è più distinguibile. Questa ibridazione, che ha investito in parte anche le pratiche dei movimenti sociali, lungi dal favorire il “divenire collettività” - organizzata o meno - dentro la rete, e nei social network in maniera più specifica, sembra piuttosto avere avviato una forma distopica di ricomposizione nella de-socializzazione e nell’individualismo, con modalità che sembrano ricalcare l’individualizzazione della relazione fra capitale e lavoro. Vorremo iniziare col chiedervi se ritenete irreversibile questa deriva o se ci sono nella rete (per come è strutturata) anche le possibilità di una sua messa in crisi?
Il corpo non si smaterializza. La mente è coestensiva al corpo, il corpo è coestensivo alla mente. Noi siamo ciò che il nostro corpo è.
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Crisi e critica della società della merce
Editoriale EXIT! nº 14 (Marzo 2017)
Roswitha Scholz
Negli ultimi anni, a partire dal 2008, il mercato è stato inondato da pubblicazioni che sostengono che la fine del capitalismo non solo è possibile, ma è anche probabile. Solo per menzionare alcuni titoli: David Harvey, "Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo" (Feltrinelli, 2014); Wolfgang Streeck, "Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico" (Feltrinelli, 2013); Paul Mason, "Postcapitalismo" (Il saggiatore, 2016); Ulrike Hermann, " Der Sieg des Kapitals" (La vittoria del capitale), 2013; Mark Fisher, "Capitalist Realism: Is there no alternative?" Winchester: Zero Books, 2009; Fabian Scheidler, "Das Ende der Megamaschine. Geschichte einer scheiternden Zivilisation" (La fine della megamacchina. Storia di una civilizzazione fallita), Vienna 2015.
A questo proposito Wallerstein ha detto nel 2009 che il capitalismo probabilmente non vivrà per più di 30 anni (Telepolis, 6/2/2009), e Varoufakis ha sostenuto con veemenza che come prima cosa bisognerebbe salvare il capitalismo in modo da poter avere ancora il tempo di pensare a delle alternative, in caso contrario andrà tutto a putt ane (der Freitaf, 16/3/2015). Questa lista non è per niente completa e potrebbe essere facilmente arricchita, ma non è questo il luogo per entrare nel dettaglio di tutte le pubblicazioni.
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Natura del sindacato ieri e oggi
Michele Castaldo
Prendo spunto dall'arresto e dalla scarcerazione di Aldo Milani per affrontare un tema molto complesso.
Premesso che era da difendere il compagno Aldo Milani come militante comunista da sempre schierato per la causa degli oppressi e sfruttati; premesso ancora che il suo arresto e le motivazioni che stanno dietro sono da ritenere una ignominiosa macchinazione degna di un moderno Stato democratico, veniamo alla questione seria da affrontare, cioè il rapporto tra la militanza rivoluzionaria comunista e il movimento di massa nella doppia relazione: sindacale e politica.
Nella storia del movimento proletario questa questione ha da sempre riscaldato i cuori dei militanti di ogni livello e grado, senza riuscire a venirne a capo. La ragione è molto semplice: siamo stati e siamo tuttora troppo legati all’aspetto formale della rappresentanza, piuttosto che farla derivare dallo stato reale dei rappresentati. Per cercare di farmi capire meglio cito proprio Aldo Milani che disse – a proposito dei lavoratori della Logistica: «sono stati loro che ci hanno cercati e ci hanno chiesto di metterci alla loro testa per organizzarli perché nessuno dava loro ascolto, mentre le loro condizioni di lavoro erano proibitive, non ce la facevano più».
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Oltre La La Land
di Piero Pagliani
Si parla ormai correntemente di deglobalizzazione. Bene! Finalmente ci siete arrivati! mi verrebbe da dire. Un'analisi dello splendido saggio di Fagan
Molti di noi, mediamente, vivono immersi in un mondo di inconsapevolezze arredato per metà con la caverna di Platone e per l'altra dal migliore dei mondi possibili di Leibniz-Candide. Veniamo tenuti apposta in questo mondo estetico ed etico mentre le nostre élite operano costantemente nelle segrete, dove torturano la realtà coi più affilati strumenti e le tecniche più sofisticate. Sia torturare la realtà, sia tenercelo nascosto, viene fatto per il "nostro bene", non reggeremmo allo shock e tutte le nostre sicurezze ne risentirebbero.
(Pierluigi Fagan)
1. Il libro di Pierluigi Fagan Verso un mondo multipolare. Il gioco di tutti i giochi nell'era Trump (Fazi, 2017) parla di Stati e di nazioni. Concetti tabù per la sinistra radicale, da non menzionare nemmeno. Dal canto loro, i cultori di destra del Blut und Boden invano vi cercheranno un'esaltazione della Patria e del Re e i seguaci dell'establishment culturale di sinistra avranno il dispiacere di veder messi a nudo il cosmopolitismo progressista e la narrazione della "fine degli stati-nazione", che verranno chiamati col loro nome proprio: imperialismo.
Sono secoli che la sinistra (tutta, in vari gradi e sfumature) ci ricasca - o ci ritenta. E viene sbugiardata.
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Lavorare senza diritti: dal voucher al caporalato
Collettivo Clash City Workers
Ormai da mesi, ogni settimana i titoli dei giornali riportano, più o meno allarmati, notizie e dati sul dilagante utilizzo dei vouchernell’economia italiana. Da ultimo, a far parlare del tema è stata la notizia dell’approvazione, l’11 gennaio, da parte della Corte Costituzionale, di un referendum proposto dalla Cgil che intende abrogare lo strumento dei voucher (approvazione, va ricordato, parallela all’accettazione di un secondo quesito, relativo agli appalti nella pubblica amministrazione, e alla negazione di un terzo, che verteva sull’articolo 18 – e quest’ultima decisione ha suscitato non poche perplessità, sul piano giuridico prima ancora che su quello politico [1]).
L’origine dei voucher è nella legge Biagi che ne prevedeva limitazioni temporali ed economiche e parametri di occasionalità e soggetti coinvolti: la loro natura è cambiata con la legge Fornero e poi il Jobs Act
Ora, per capire effettivamente di cosa stiamo parlando, conviene guar-dare alla storia di questo recente protagonista del mercato del lavoro del nostro Paese.
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L’imperialismo e la trasformazione dei valori in prezzi
di Torkil Lauesen e Zak Cope
Introduzione
Con questo articolo, ci proponiamo di dimostrare che i bassi prezzi dei beni prodotti nel Sud globale, ed il concomitante modesto contributo delle sue esportazioni al prodotto interno lordo del Nord, occultano la reale dipendenza delle economie di quest’ultimo dal lavoro a basso costo del Sud. Dunque, sosteniamo che la delocalizzazione dell’industria nel Sud globale, nel corso dei tre decenni passati, ha condotto ad un massiccio incremento del valore trasferito al Nord. I principali meccanismi di tale processo consistono nel rimpatrio del plusvalore tramite investimenti diretti esteri, lo scambio ineguale di prodotti incorporanti differenti quantità di valore e l’estorsione per mezzo del servizio del debito.
L’assorbimento di enormi economie del Sud all’interno del sistema capitalistico mondiale, dominato da multinazionali e istituzioni finanziarie con base nel Nord globale, ha posto le prime nella condizione di dipendenze socialmente disarticolate votate all’esportazione. I miseramente bassi livelli dei salari di tali economie trovano fondamento (1) nella pressione imposta dalle loro esportazioni al fine di competere per limitate porzioni del mercato, in larga parte metropolitano, dei consumatori;
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Disastro privatizzazioni, il caso dell'ENEL
di Leonardo Mazzei
Mentre le nuove privatizzazioni affannano, ricominciamo a parlare di nazionalizzazioni. Per capire quanto sia necessario diamo uno sguardo alle privatizzazioni del passato, a partire dal caso da manuale del settore elettrico
Nel governo qualcuno si è svegliato?
Su La Stampa di ieri campeggiava un titolo all'apparenza bislacco: «Orfini avvisa il governo: “Fiducia sullo ius soli e basta privatizzazioni”». La novità, che segnala pure una divisione nel governo, è tutta in quel «basta privatizzazioni». Ora, Matteo Orfini è un personaggio assolutamente modesto, ma dopo quarant'anni di «viva le privatizzazioni!» a reti unificate anche quel «basta» del neo-reggente del Pd qualcosa ci dice.
Insomma, la crisi del modello e delle politiche neoliberiste è ormai evidente a tutti. Perfino a chi quelle politiche le ha sempre sostenute fino ad oggi. Si pensi alla fallimentare idea renziana sulla «soluzione di mercato» in materia bancaria.
Ma cosa dice esattamente Orfini? Leggiamo:
«Prima di tutto, dobbiamo fare una discussione seria sull’economia. Purtroppo siamo tutti più vecchi e gli anni ’90 sono finiti: riproporre oggi come soluzione a un debito pubblico di oltre 2000 miliardi le privatizzazioni è sbagliato. Abbiamo piuttosto bisogno di rilanciare la funzione delle grandi imprese pubbliche e di capire come usare meglio in questo senso anche Cassa depositi e prestiti. Su questo dobbiamo discutere prima di procedere».
Fin troppo facile rilevare come questo primo segnale di ravvedimento sia del tutto tardivo.
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"Un mondo senza guerre"
intervista a Domenico Losurdo
1) Professor Losurdo, la Sua ultima fatica, appena uscita per i tipi di Carocci, si intitola Un mondo senza guerre: è possibile un mondo senza guerre?
Il mio libro è anche la descrizione del fallimento dei diversi progetti di realizzazione di un mondo senza guerre che storicamente si sono succeduti. Pur accomunati dal fallimento, questi progetti non possono essere messi sullo stesso piano. Storicamente, la «pace perpetua» è stata invocata abbracciando l‘umanità nel suo complesso oppure con lo sguardo rivolto solo ai popoli «civili», escludendo quindi i popoli coloniali nei confronti dei quali erano giustificate la conquista, l’assoggettamento, la schiavizzazione, le guerre di ogni genere comprese quelle di carattere genocida.
L’unico italiano ad aver conseguito il Premio Nobel per la pace è stato nel 1907 Ernesto Teodoro Moneta, che però quattro anni dopo non aveva difficoltà a dare il suo appoggio alla guerra dell’Italia contro la Libia, legittimata e trasfigurata, nonostante i consueti massacri coloniali, quale intervento civilizzatore e benefica operazione di polizia internazionale. Peraltro, nel rivendicare la sua coerenza di «pacifista», egli aveva il merito di esprimersi con chiarezza: ciò che veramente importava era la pace tra le «nazioni civili», tra le quali egli chiaramente non annoverava né la Turchia (che sino a quel momento esercitava la sovranità sulla Libia) né tanto meno i libici.
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Governare il vuoto? Neoliberalismo e direzione tecnocratica della società
di Alessandro Somma*
Recentemente è uscito per Rubbettino «Governare il vuoto. La fine della democrazia dei partiti», traduzione in italiano dell'opera incompiuta del prematuramente scomparso Peter Mair, dedicata alla crisi della partecipazione popolare alla vita politica. L'errore dell'autore sta tuttavia nella indebita separazione dell'analisi del livello politico della crisi da quella del livello economico
Peter Mair, politologo irlandese di fama mondiale, è scomparso prematuramente nel 2011, quando stava lavorando a un volume sulla crisi della partecipazione popolare alla vita democratica come fenomeno tipico delle società occidentali. L’opera è rimasta dunque incompiuta, ma è stata integrata con altri interventi dell’autore e pubblicata su iniziativa della «New Left Review»: il prestigioso periodico della sinistra postmarxista che già aveva ospitato un ampio contributo di Mair anticipatore delle principali tesi poi sviluppate nel libro[1]. Di quest’ultimo è da poco uscita una traduzione italiana per i tipi di Rubbettino[2], la piccola ma vivace casa editrice nota soprattutto come amplificatrice del pensiero neoliberale.
Ci si potrebbe stupire di questa curiosa osmosi tra esperienze culturali di matrice non proprio assimilabile, ma a bene vedere il volume di Mair ben può metterle d’accordo entrambe. Compatibile con le opposte visioni postmarxista e neoliberale è infatti la riflessione sulla fine del partito di massa, all’origine del vuoto evocato nel titolo del libro, e in particolare la descrizione di ciò che il partito politico è diventato: un centro di potere sradicato dalla società, proiettato verso lo Stato e il governo, e in ultima analisi incapace di alimentare l’ordine democratico. Il discorso potrebbe a questo punto divenire incompatibile con il punto di vista neoliberale, giacché fon-dativa dell’identità occidentale è la commistione di capitalismo e democrazia, motivo per cui le trasformazioni nella sfera politica difficilmente possono spiegarsi senza riferimenti a quanto avviene nella sfera economica: senza una critica alle teorie e pratiche neoliberali.
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Chi vuole spostare la Capitale a Milano?
di Sergio Cararo
Le campagne stampa contro Roma Capitale
Qualcuno spinge per spostare la Capitale da Roma a Milano? Possiamo liquidarla come un battuta dell’ex sindaco Pisapia di due anni fa, alla quale replicò con algida indulgenza l’ex sindaco Marino. Spostare la Capitale da Roma a Milano sarebbe invece una questione da non liquidare come l’eterna competizione campanilista tra la capitale storica e quella economica. Per un periodo, fino al 1992, Milano volle fregiarsi anche del titolo di “Capitale morale” del paese fino ad essere travolta dall’inchiesta su Tangentopoli. Per anni dunque non se ne è parlato più. Ma da almeno un paio d’anni, il partito dello spostamento della Capitale a Milano ha ripreso vigore.
Le prime reazioni, come di consueto, sono quelle tese ad ignorare il problema, le seconde quelle tese a deriderlo, le terze sono quelle che mettono in moto il combattimento. A fiuto possiamo dire che siamo in una fase intermedia tra le seconda e la terza. Il motivo? Quello economico innanzitutto, ma c’è anche una narrazione ideologica che ha molto a che fare con i tempi che corrono. Eppure, ad esempio, moltissimi hanno completamente sottovalutato il processo di ristrutturazione istituzionale introdotto con le Città Metropolitane nelle principali città italiane. Gli effetti verranno avvertiti non subito ma neanche troppo in là in termini di poteri decisionali, meccanismi elettivi, gestione delle risorse.
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Un libro fondamentale per capire le dinamiche dell’economia mondiale
di Gianni Cadoppi
“Geofinanza e Geopolitica” di Fabio Massimo Parenti e Umberto Rosati. EGEA (29 settembre 2016), € 16
Economia reale Vs. finanziarizzazione
“Se nel 1970 il valore totale dello scambio valutario era circa equivalente al valore del commercio globale (1:1), nel 2007 il rapporto è diventato di 50:1, in altre parole una finanziarizzazione spinta. La globalizzazione finanziaria ha portato allo squilibrio tra creazione di valore reale, ossia la produzione e lo scambio di beni e servizi, e creazione di valore artificiale, ovvero ancorato alla mera circolazione di denaro, spesso solo virtuale, e di titoli derivati. Una dinamica, quest’ultima, che si è incardinata nel sovradimensionamento del settore bancario, soprattutto nei paesi più avanzati dell’Occidente, e nel progressivo indebitamento di paesi, famiglie e individui in giro per il mondo”. Così Fabio Massimo Parenti ci spiega come la finanziarizzazione dell'economia comporti uno scambio valutario che non corrisponde più all’entità del commercio mondiale. I beni e servizi sono aumentati in maniera assai inferiore agli investimenti in beni finanziari non più correlati all'economia reale come era concepita tradizionalmente. Ciò ha portato all'esplosione del settore bancario.
La globalizzazione finanziaria è stata diretta dagli USA a loro beneficio e al limite dei loro alleati. La competizione con questo ordine proviene dai BRICS ma soprattutto dalla Cina che è la più coerente nel portare una sfida a tutto campo.
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Parole di destra
di Armando Lancellotti
Luc Boltanski, Arnaud Esquerre, Verso l’estremo. Estensione del dominio della destra, Mimesis, Milano – Udine, 2017, pp. 78, € 6,00
A questo libretto o pamphlet dei sociologi Luc Boltanski e Arnaud Esquerre – non «uno studio specialistico appesantito di note, […] né un editoriale politico, […] bensì […] un genere discorsivo trascurato da qualche decennio, ovvero quello dell’analisi impegnata» (p. 17) – si debbono riconoscere almeno tre meriti: innanzi tutto quello di essere profondamente immerso nella materia che tratta, in quanto scritto tra il febbraio e l’aprile del 2014 “sotto l’urgenza dei fatti”, da intendersi come il dilagare inarginabile dell’estrema destra francese, di quel Front National, che un paio di mesi più tardi, nelle elezioni europee del 24-25 maggio, si sarebbe affermato come primo partito nazionale con il 25% circa dei consensi. Il secondo merito consiste nel fatto di considerare la spaventosa deriva politica francese ed europea verso l’estrema destra attraverso l’analisi delle parole, dei termini, delle forme linguistiche che esprimono concetti dentro ai quali si addensano grumi di pensiero reazionario e fascista che, qualche anno fa ripescati dalla loro condizione di latenza e riemersi attraverso i percorsi carsici del pensiero politico, ormai imperano, tracotanti e sicuri al punto da essersi trasformati in un nuovo “senso comune”, in un «inquietante spirito del tempo in espansione» (p. 8). Ed infine, non meno importante è l’intento di contribuire al risveglio di una sinistra francese (e poi europea) che disorientata e tramortita non sembra in grado di resistere all’onda montante di questo nuovo “fascismo da terzo millennio”. [Per analoghi temi riguardanti l’estrema destra italiana vedi su Carmilla “Cinghiamattanza”: pensieri, parole ed opere dei “fascisti del terzo millennio”].
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Jean Baudrillard, il delitto perfetto?
di Davide Gatto
Un esergo adatto a presentare questo libro di Baudrillard – Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà? – cronologicamente un po’ datato (1995, Èditions Galilèe, Paris; 1996, Raffaello Cortina Editore, Milano), ma di fatto così attuale da apparire ora profetico – potrebbe essere rappresentato da alcuni celebri versi di Leopardi:
Ahi ahi, ma conosciuto il mondo
non cresce, anzi si scema (…).
(…) e figurato è il mondo in breve carta;
ecco tutto è simile, e discoprendo,
solo il nulla si accresce.
(Ad Angelo Mai, vv. 87-88; 98-100)
Il saggio del filosofo e sociologo francese (1929 – 2007) si compone di due distinte sezioni: la prima, che ripete il titolo dell’opera (Il delitto perfetto), occupa i due terzi del libro ed è di carattere speculativo, mentre la seconda (L’altro versante del delitto) ragiona sulle evidenze del ragionamento teoretico in alcuni aspetti emblematici – psicologici, sociologici, politici – del mondo contemporaneo.
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Marine Le Pen: ordoliberismo o keynesismo?
di Moreno Pasquinelli
“Se una cosa sembra una papera, cammina come una papera e fa qua-qua, probabilmente è proprio una papera”
Suscitò critiche, due anni fa, il mio articolo del gennaio 2014: «CHE COS’È IL FRONT NATIONAL DI MARINE LE PEN (dedicato a quelli che la dicotomia destra-sinistra non c’è più)».
Si trattava di un'analisi del programma del Front National — per l’esattezza «MON PROJECT. POUR LA FRANÇE ET LES FRANÇAIS» —, quello sul quale il FN condusse la campagna per le presidenziali del 2012.
Alle porte delle ancor più importanti elezioni presidenziali imminenti, vale forse la pena tornare sull'argomento, analizzando l'odierno programma elettorale del Front National — in particolare le misure economiche che esso prenderebbe una volta salito al governo —, dandone un giudizio di massima, ed anche verificando se vi siano aggiustamenti rispetto a quello del 2012 e, nel caso, quali sono ed in quale direzione vanno.
2012: Stato (poco) keynesiano di poizia
Nel mio pezzo del 2014, mettevo in guardia coloro che guardavano con eccessiva simpatia e/o indulgenza al Front National, segnalando come esso, al netto di numerose proposte di politica economica sostenibili, non solo fosse molto ambiguo sulla questione dell'euro, ma avesse, oltre ad una visione revanscista e imperialista della Francia, una concezione fortemente autoritaria della democrazia, anzi perorasse un tetragono Stato di polizia.
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Forma è sostanza. Appunti su forme della politica e forme di vita
di Rocco Albanese
“Passa il tempo / sembra che non cambi niente.
/ Questa mia generazione / vuole nuovi valori”.
F. Battiato, Aria di Rivoluzione, 1973
Nessuno ci regalerà niente
Tra pochi giorni si celebrerà a Rimini la nascita di un nuovo soggetto politico della sinistra. Il congresso fondativo di Sinistra Italiana arriva, però, in un momento caratterizzato da contraddizioni tanto generalizzate quanto profonde. Ed è da un punto di vista generazionale che vale la pena guardare a queste contraddizioni, così come all'apertura di uno spazio politico che aspira ad essere nuovo”.
Appena due mesi fa, il referendum costituzionale si rivelava lo strumento con cui l'81% delle persone tra i 18 e i 34 anni tirava un gigantesco schiaffo all'establishment e al grande bluff renziano. Sarebbe però un errore madornale astrarre, mitizzare e semplificare quel voto generazionale. È vero che esso, per le sue proporzioni, ha assunto la fisionomia di una rivolta. Ma non è men vero che le cifre di questa rivolta sono soprattutto la stanchezza, il disincanto, il risentimento. Come scriveva Gesualdo Bufalino, infatti, nell’asfissia del sentire, che a gara con l’altra del respiro ci soffocava le fauci, ogni parola grande stingeva, appariva una truffa di adulti. Anche la libertà, anche la verità”.
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La fine del neoliberismo progressista
di Nancy Fraser
[Pubblichiamo la traduzione di due articoli della femminista americana Nancy Fraser dal sito della rivista DISSENT. Il primo The end of “progressive neoliberalism” è del 2 gennaio 2017, il secondo Against Progressive Neoliberalism, A New Progressive Populism è stato pubblicato il 28 gennaio ed è una replica a un articolo critico di Johanna Brenner There Was No Such Thing as “Progressive Neoliberalism” del 14 gennaio. Nancy Fraser ha lanciato insieme a Angela Davis e altre femministe americane l'appello per uno sciopero internazionale e militante per l'8 marzo]
L’elezione di Donald Trump rappresenta una della serie di drammatiche rivolte politiche che insieme segnalano un crollo dell’egemonia neoliberista. Queste rivolte comprendono tra le altre il voto per la Brexit nel Regno Unito, il rifiuto delle riforme di Renzi in Italia, la campagna di Bernie Sanders per la nomination del Partito Democratico negli Stati Uniti e il sostegno crescente per il Fronte Nazionale in Francia. Anche se differiscono per ideologia e obiettivi, questi ammutinamenti elettorali condividono un bersaglio comune: sono tutti dei rifiuti della globalizzazione delle multinazionali, del neoliberismo e delle istituzioni politiche che li hanno promossi. In ogni caso, gli elettori stanno dicendo “No!” alla combinazione letale di austerità, libero commercio, debito predatorio e lavoro precario mal pagato che caratterizza il capitalismo finanziarizzato oggi. I loro voti sono una risposta alla crisi strutturale di questa forma di capitalismo che si è prima materializzata con il quasi crollo dell’ordine finanziario globale nel 2008.
Fino a tempi recenti, però, la risposta principale alla crisi era la protesta sociale – drammatica e vivace, di sicuro, ma in gran parte effimera. I sistemi politici, al contrario, sembravano relativamente immuni, ancora controllati da funzionari di partito e dalle élite dell’establishment, almeno negli stati capitalistici potenti come gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Germania.
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Contro la sinistra globalista
di Carlo Formenti
I teorici operaisti italiani di matrice "negriana", che trovano spazio sulle colonne del giornale "Il Manifesto", detestano la sinistra che scommette su quelle lotte popolari che mirano alla riconquista di spazi di autonomia e sovranità, praticando il "delinking". Ma così facendo diventano l'ala sinistra del globalismo capitalistico
Correva l’anno 1981 quando il Manifesto recensì il mio primo libro (“Fine del valore d’uso”). Era una stroncatura che non ne impedì il successo e, alla lunga, risultò più imbarazzante per il quotidiano che per l’autore. Quel breve saggio, uscito nella collana Opuscoli marxisti di Feltrinelli, analizzava infatti gli effetti delle tecnologie informatiche sull’organizzazione capitalistica del lavoro e, fra le altre cose, prevedeva – cogliendo con notevole anticipo alcune tendenze di fondo – che la nuova rivoluzione industriale avrebbe drasticamente ridotto il peso delle tute blu nei Paesi occidentali, favorendo i processi di terziarizzazione del lavoro, e avrebbe consentito un massiccio decentramento della produzione industriale nei Paesi del Terzo mondo. Il recensore (di cui non ricordo il nome) liquidò queste tesi come una ridicola profezia sulla fine della classe operaia. Sappiamo com’è andata a finire…
Si trattò di un incidente di percorso irrilevante rispetto al ruolo che il Manifesto svolgeva a quei tempi, ospitando un confronto alto fra le migliori intelligenze della sinistra italiana (e non solo). Oggi la sua capacità di assolvere a questo compito si è decisamente appannata, eppure una caduta di livello come quella della “recensione” che Marco Bascetta ha dedicato al mio ultimo lavoro (“La variante populista”, DeriveApprodi) fa ugualmente un certo effetto. Ho messo fra virgolette la parola recensione, perché – più che di questo – si tratta di una tirata ideologica contro i populismi - etichettati come protofascisti – che incarna il punto di vista d’una sinistra “globalista” schierata al fianco del liberismo “progressista” contro questo nemico comune.
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La distopia sbagliata
di Dario De Marco
In epoca di Trump e “fatti alternativi”, 1984 di George Orwell è tornato a scalare le classifiche di vendita. Ma siamo sicuri che il classico dell'autore britannico sia la distopia più adatta a raccontare il tempo in cui viviamo?
Ho visto milioni di persone terrorizzate dall’idea di essere osservate dal Big Brother; le ho viste alzare lo sguardo al cielo con angoscia, e non trovarci nessun occhio; le ho viste abbassare la testa, alquanto rincuorate, e mettersi in coda per comprare l’ultimo smartphone con videocamera a 16 megapixel e grandangolo a 135°.
Se ci trovassimo in un romanzo paranoide di Philip K. Dick, si potrebbe iniziare il discorso in questi termini. E forse anche finirlo, senza aggiungere altro. Invece siamo nella cosiddetta “realtà”: dobbiamo parlare di “fatti”, dobbiamo partire dalla cronaca, dobbiamo iniziare così:
Da quando Donald Trump ha iniziato il suo mandato presidenziale, il libro 1984 di George Orwell ha conosciuto un boom di vendite, fino addirittura a tornare in classifica. Comprensibile. Una realtà in cui il passato è modificabile a seconda delle convenienze politiche, e in cui una persona può credere vera un’affermazione e la sua smentita, in barba al principio elementare di non contraddizione, ricorda da vicino la distopia orwelliana. Alternative facts, il bipensiero. Eppure. Una società del controllo, oppressiva, violenta, totalitaria: siamo proprio sicuri di essere preoccupati per la distopia giusta?
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Il capitalismo reale
di Renato Caputo
I crescenti limiti della democrazia formale borghese, fondata sulla delega, rilanciano l’esigenza della democrazia diretta, imprescindibile per una reale sovranità popolare
Dal “Rapporto sulla qualità dello sviluppo in Italia” del 2017, realizzato da Tecnè e dalla Fondazione Di Vittorio “emerge la fotografia di un Paese in cui la ricchezza tende sempre di più a concentrarsi”, ha osservato la segretaria del maggiore sindacato italiano. Ciò che colpisce è che le diseguaglianze, i bassi salari, la progressiva proletarizzazione del ceto medio – che generano scarsa fiducia, anzi paura nel futuro – vengono presentate e percepite come una “scoperta”, quasi si trattasse di una novità di quest’anno. Quasi si trattasse di un’eccezione e non di una regola, propria del modo di capitalistico di produzione e per altro già evidenziata ai suoi albori, dal suo primo apologeta, Adam Smith, che in un noto paradosso notava come la ricchezza delle nazioni, prodotta dalla rivoluzione industriale, si sviluppava in modo proporzionale all’aumento della miseria in una parte crescente della popolazione.
Quest’ultima, che già Hegel definiva la plebe moderna, quale caratteristica strutturale e lato cattivo ineliminabile della società capitalista, nell’Italia odierna ha raggiunto quota otto milioni. Senza, ovviamente, contare i milioni di proletari che percepiscono, in cambio della vendita della loro capacità di lavoro, il minimo necessario per riprodursi come massa a disposizione del capitale per valorizzarsi.
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A libro paga fuori dalla fabbrica
La potente legge uguale per tutti non prevede per i padroni l’esecuzione forzata
di Andrea Vitale
La vicenda giudiziaria dei cinque operai FCA di Pomigliano, licenziati per aver inscenato il finto suicidio di Marchionne in segno di protesta contro il reale suicidio di due loro compagni di lavoro cassintegrati, continua ad essere una fonte inesauribile di spunti di riflessione sul diritto e sull’intero sistema giuridico italiano, rivelandone il fondamento di classe.
E’ noto che la Corte di Appello di Napoli (sentenza n. 6038/2016 del 27/09/2016)[1] ha ribaltato i due precedenti pronunciamenti del Tribunale di Nola (Decreto di rigetto n. 18203/2015 del 04/06/2015 e Sentenza n. 993/2016 del 05/04/2016)[2], che avevano in un primo momento dichiarato legittimo il licenziamento dei cinque operai. La sentenza dei giudici di appello ha il grande merito di aver smontato punto per punto le argomentazioni dei giudici di primo grado, dimostrando come la protesta messa in atto dagli operai sia stata una legittima manifestazione del diritto di esprimere la propria opinione critica. In questo modo, i giudici hanno dato ragione alla numerosa schiera di intellettuali e giuristi che avevano solidarizzato con la lotta degli operai licenziati in nome della difesa della libertà di critica e di satira[3], che i giudici di Nola avevano inteso invece limitare fortemente per i lavoratori dipendenti.
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Più che l'etica, è la tecnica a dominare le città
Commento al libro di David Harvey
di Francesco Ventura
L'agile volume di David Harvey, Il capitalismo contro il diritto alla città, riedito per tipi di Ombre corte nel 2016 (I ed. 2012), raccoglie in centoventiquattro pagine tre articoli e un'intervista all'autore già pubblicati in inglese su altrettante riviste. Nel primo, Il diritto alla città, è chiarito e analizzato il senso di tale diritto in quanto "collettivo". Il secondo, La visione di Henri Lefebvre, è un breve saggio sull'ormai classico testo, Il diritto alla città, del filosofo marxista francese, uscito per la prima volta a Parigi nel 1969 e rieditato in italiano nel 2014 da Ombre corte. Il terzo, Le radici urbane delle crisi finanziarie. Restituire la città alla lotta anticapitalista, è un saggio dove l'autore ripropone in breve, e in relazione alle crisi finanziarie come quella recente, le tesi, strutturate e sviluppate in altri suoi libri, sulla relazione tra la necessità di assorbimento della sovraccumulazione di capitale e l'urbanizzazione, che pone la "città" - la parola è usata da Harvey per il suo valore iconico - come luogo centrale delle lotte anticapitaliste (dunque non più solo la fabbrica come nelle teorie marxiste tradizionali). Chiude il libro l'intervista, che verte, appunto, sulle possibilità di una Rivoluzione urbana.
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Appunti per una epistemologia della conversione liberista della “sinistra”
di Salvatore Palidda
Premessa
Questo testo vuole essere soprattutto un invito alla ricerca epistemologica sul successo liberista che s’è compiuto grazie anche e talvolta soprattutto grazie alla conversione neo-liberista della “sinistra” in particolare nel campo degli affari militari e di polizia, campo di ricerca troppo spesso trattato superficialmente se non totalmente ignorato anche per ciò che riguarda l’intreccio stretto con altri campi[1].
Con formidabile lucidità nel suo celebre 1984 (del 1949), Orwell scriveva quali principali slogan del regime: “La pace è guerra”, “La libertà è schiavitù”, “L’ignoranza è forza”. Orwell sintetizzava così quanto avevano mostrato il fascismo e il nazismo, e continuavano a praticare lo stalinismo e in generale tutti i regimi che, soprattutto dalla fine del XIX secolo, condussero alla Prima e alla Seconda guerra mondiale e ad altre mostruosità, smentendo le illusioni del progresso pacifico verso il benessere, la democrazia e i diritti umani. Dopo il 1945, ignorando i solenni proclami delle Nazioni unite, del “mai più” quelle aberrazioni, la storia politica del mondo è stata segnata da un coacervo di fatti che solo qualche volta sono andati in direzione della pace e dell’emancipazione dei popoli e dei diritti fondamentali di tutti.
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