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Podemos, vince il “populismo di sinistra” di Iglesias
di Steven Forti e Giacomo Russo Spena
“Unità, umiltà”. Queste sono le parole che riassumono il congresso di Podemos che ha sancito una vittoria por goleada di Pablo Iglesias. Una nuova lezione per la sinistra nostrana che alla Spagna guarda da sempre con interesse. El coleta – come viene definito Iglesias per la sua caratteristica pettinatura a coda di cavallo - ha trionfato su tutta la linea. Il partito, che ha compiuto tre anni di vita lo scorso mese di gennaio, chiude con l'era del "marketing elettoralistico" e ritorna nelle strade. Lo sguardo è rivolto, come nei primi tempi, ai movimenti e alle istanze sociali con una novità rispetto ad allora, o meglio con una conferma, che fino all’altro ieri non era certa: l'alleanza politica con Izquierda Unida (IU), il tradizionale partito della sinistra iberica.
Iglesias è stato rieletto segretario generale del partito con l’89% dei voti. Non aveva sfidanti, questo è certo, ma il dato parla da sé. E la vittoria riguarda anche tutti gli altri documenti votati a Vistalegre II. Per quanto riguarda il documento politico, la madre di tutte le battaglie, Iglesias ottiene il 56% dei voti. Lo sfidante e numero due del partito Íñigo Errejón si ferma al 33,7%, mentre gli anticapitalisti dell’eurodeputato Miguel Urbán e della líder andalusa Teresa Rodríguez portano a casa il 9%. Simili i risultati anche per quanto riguarda l’elezione del Consejo Ciudadano, il maggior organo del partito: 50,7% per la lista di Iglesias, 33,7% per quella di Errejón e 13,1% per quella degli anticapitalisti.
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Uscire dall’Euro?
di Gennaro Zezza
Questa è la prima bozza di un documento divulgativo che mi è stato richiesto. Pubblico qui per commenti
Wynne Godley, nel 1992, scriveva a proposito del progetto dell’Euro:
“la creazione di una moneta unica porterà alla fine delle sovranità nazionali e alla capacità di agire in modo indipendente su questioni di rilievo…. La capacità di stampare moneta, e per il governo di finanziarsi presso la propria Banca centrale, è l’aspetto più importante dell’indipendenza nazionale. … Se vi si rinuncia, ci si trasforma in una autorità locale, o una colonia. … e quando arriva una crisi, se il Paese ha perso la capacità di svalutare e non può beneficiare di trasferimenti fiscali a compensazione, non c’è nulla che possa fermarne il declino, fino all’emigrazione come unica alternativa alla povertà”(1)
Abbiamo voluto l’euro, abbiamo avuto il declino, e ora l’emigrazione e l’aumento della povertà. E il sottoporre le nostre leggi di bilancio alla Commissione Europea è solo una delle dimostrazioni del fatto che il Governo è diventato una “autorità locale”.
Ma allora perché abbiamo adottato l’Euro?
Per lo stesso motivo per cui molti vogliono rimanerci! Era già chiaro, nei dibattiti parlamentari che hanno preceduto la firma dei Trattati, che rinunciare alla politica dei cambi e alla politica monetaria comportava una compressione dei salari.
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Salario, concorrenza e mercato mondiale
Maurizio Donato
La differenza di reddito pro capite tra la più ricca delle nazioni industriali, diciamo la Svizzera, e il più povero dei Paesi non industrializzati, il Mozambico, è oggi [nel 2000] di circa 400 a 1; due secoli e mezzo fa questo divario fra [paesi] ricchi e poveri era forse di 5a1 e la differenza fra l’Europa e l’Asia orientale o meridionale (la Cina o l’India) all’incirca di 1,5 o 2a1». (Kenneth Pomeranz, La grande divergenza)
Salario mondiale e mercato mondiale
Per un’analisi dei livelli e delle dinamiche del salario mondiale occorre tener presente due movimenti, che vanno intesi in riferimento a diversi livelli di astrazione. Da un lato, la tendenza strutturale alla diminuzione del valore della forza-lavoro; dall’altro quella relativa all’aumento dell’industrializzazione e dunque all’inurbamento progressivo della popolazione mondiale.
Secondo la teoria marxiana del valore-lavoro, il valore di una merce dipende dal tempo di lavoro socialmente necessario a produrla; essendo la forza-lavoro una merce, anche il suo valore è determinato allo stesso modo. Se vogliamo esprimere lo stesso concetto facendo riferimento alla forma monetaria del valore, possiamo dire che il valore della forza-lavoro umana è determinato dal valore delle merci di sussistenza necessarie a produrla e riprodurla. L’aumento della forza produttiva del lavoro reso possibile dalle innovazioni tecnologiche riduce il tempo di lavoro necessario a produrre anche le merci di sussistenza, e dunque – per questa via – il valore della forza-lavoro tende necessariamente a ridursi.
Come è noto, non solo questo prezioso elemento di analisi, ma l’intera struttura logica del I libro del Capitale si situano a un livello di astrazione molto alto, nel senso che il metodo di Marx – nel complesso lavoro di scrittura del I volume – era rivolto a concentrarsi sugli elementi e sulle tendenze di fondo del processo di produzione del capitale, prescindendo completamente – e volutamente – dalle “perturbazioni” di un modello costruito sulle sue linee generali, riservando ad altre occasioni il compito di “ridurre” il livello di astrazione dell’analisi, per tener conto di elementi ugualmente importanti ma con un grado inferiore di generalizzazione.
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Soggetti imprevisti, guerre civili, punti di rottura
di Maurizio Lazzarato
Una lettura del libro di Davide Gallo Lassere Contre la Loi Travail et son Monde Argent, précarité et mouvements sociaux (Eterotopia-France, 2016)
Il bel libro di Davide Gallo Lassere mi sembra una buona occasione per una discussione sui “compiti dei comunisti” in questa fase (penso al convegno C17, visto – anche se poco – sul web). Un libro bello perché pone domande pertinenti. È a partire dalle risposte possibili che vorrei impostare un dialogo, piuttosto che scrivere una recensione tradizionale.
Davide si domanda come sia stato possibile, dopo una stagione di vittorie culminate negli anni ‘70, aver subito una sconfitta strategica come quella che ci ha inflitto il neo-liberismo. Aggiungerei che occorre capire quali siano le ragioni delle più recenti sconfitte: quella subita dalle mobilitazioni contro la loi travail non è che l’ultima di una lunga serie.
È proprio dai concetti di “lavoro” e di “produzione” che vorrei partire. In realtà essi non sono concepibili (a partire dalla conquista delle Americhe) senza il lavoro degli schiavi nelle colonie, né senza il lavoro di riproduzione delle donne, cosa che il marxismo ha ignorato o difficilmente integrato politicamente (e comunque mai nella sua teoria del “valore”). Inoltre, mi sembra che le divisioni di classe, di razza e di sesso costituiscano la “natura” non solo economica, ma politica del capitalismo. Le gerarchie di classe, le gerarchie di colore e le gerarchie fondate sull’eterosessualità, comprensibili soltanto dal punto di vista dell’economia-mondo, sono anche quelle su cui si esercita la governamentalità e sulle quali il potere costruisce i suoi modelli di assoggettamento.
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Lessico postdemocratico
Una cartografia concettuale del presente
Pietro Sebastianelli
La congiuntura storica che l’Europa sta attraversando ormai da circa un decennio a questa parte si presenta nelle vesti di una crisi economica, politica e sociale, la cui profondità è tale da non lasciare spazio, almeno per il momento, ad alternative efficaci in grado di spezzarne il circolo vizioso. Al contrario, la crisi sembra ormai essere diventata la condizione strutturale e permanente delle forme neoliberali di governo della società. Siamo cioè di fronte – come da più parti segnalato – alla «crisi come modalità di governo», un fenomeno che rende obsolete gran parte delle categorie politiche della modernità, oggi sottoposte a tensioni e attriti di difficile decifrazione. Concetti come democrazia liberale, sovranità, rappresentanza politica, diritti sociali, la stessa distinzione tra pubblico e privato appaiono oggi come contenitori vuoti: li si può stirare, contorcere, allungare o restringere quanto si vuole, si ha sempre l’impressione di maneggiare attrezzi spuntati, usurati, privi di aderenza alle superfici sulle quali dovrebbero appoggiare. Viviamo in una sorta di «interregno» – per dirla con Étienne Balibar – un limbo nel quale le fondamenta dell’Europa contemporanea sembrano essere scosse dall’irrompere di fenomeni inediti, che minano in profondità la possibilità che essa possa reggere alla sfida perniciosa dei tempi. Di fronte all’opacità del nostro tempo, che rivela tratti talvolta inquietanti, il lessico politico della modernità fatica ad orientarsi sulla scena, come un attore il cui copione appaia sfasato rispetto all’ambientazione in cui pure deve poter recitare. La crisi è insomma anche linguistica, una crisi di corrispondenza tra «nomi» e «cose».
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Quale prospettiva dopo la dissoluzione della politica?
di Giovanni Mazzetti
Quaderno Nr. 2/2017, Formazione online - Periodico di formazione on line a cura del centro studi e iniziative per la riduzione del tempo individuale di lavoro e per la redistribuzione del lavoro sociale complessivo
Presentazione
Se ad un partito comunista con milioni di iscritti e militanti subentra un suo presunto erede, che nell’arco di due generazioni finisce col racimolarne a fatica trecentomila; se il giornale che ne rappresentava la “bandiera” passa da vendite giornaliere superiori al milione o mezzo di copie a settemila, si può tranquillamente riconoscere che è intervenuto un cataclisma sociale. Se si registra questo fatto senza interrogarsi sul suo significato, si finisce però con l’essere come i sismografi che, pur misurando l’energia sprigionata dai terremoti, non sanno nulla della natura del fenomeno che registrano. Se è evidente che i progetti di quel partito, il suo linguaggio e le sue forme di lotta, hanno smarrito ogni presa sulla dinamica della vita sociale, non è limitandosi a prendere atto di questa evoluzione che ci si spiega perché e come tutto ciò sia accaduto.
La parabola discendente è cominciata nella seconda metà degli anni settanta, quando si è innescata la crisi che stiamo attraversando. Allora si pose il problema di capire la natura di quello che stava succedendo, conservando l’insegnamento metodologico più prezioso di Marx: dopo una fase di straordinario sviluppo, come quello di cui abbiamo goduto nel Welfare keynesiano, le forze produttive acquisite entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti.
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L'ultimo Marx e noi
di Annibale C. Raineri
Nel 2016 Donzelli ha pubblicato il libro di Marcello Musto L’ultimo Marx 1881-1883. Saggio di biografia intellettuale. Vale la pena soffermarcisi.
Come chiarito dal sottotitolo, si tratta di un saggio di biografia intellettuale, che si avvale della gran mole di materiali che negli ultimi anni sono divenuti accessibili e che, secondo Musto, modificano l’immagine del vissuto e del pensiero di Marx fin ora consolidata.
Anzitutto biografia: Musto ci consegna l’immagine di Marx uomo negli ultimi tre anni della sua vita, alle prese con le sofferenze, i dolori e le (poche) gioie che quegli anni gli hanno concesso, ma che conserva la sua umanità nonostante il destino ostile, che lo perseguita financo con un’avversione climatica che fiacca il corpo malato. Marx affronta questo destino con lo spirito tenace di un combattente, che continua a tenere per le vicende più ampie della storia dell’umanità, nonostante viva, soggettivamente e non solo oggettivamente, una condizione di isolamento anche e specialmente nei confronti di quelli che dovrebbero essere i suoi più affini solidali, la frastagliata famiglia del movimento socialista nella penultima decade dell’Ottocento.
Resterebbe deluso chi cercasse in questo libro l’approfondimento teorico delle questioni irrisolte nell’ultima ricerca di Marx.
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Tutto deve essere rimesso in questione
Victor Serge e la Russia post-rivoluzionaria
di Sandro Moiso
Victor Serge, Da Lenin a Stalin. 1917-1937 Cronaca di una rivoluzione tradita, Prefazione di David Bidussa, Bollati Boringhieri 2017, pp.185, € 15,00
Con la ripubblicazione, a ottant’anni di distanza dalla sua prima edizione e a quarantaquattro anni dalla prima edizione italiana, dell’efficace sintesi di Victor Serge della storia della rivoluzione bolscevica, dai suoi esordi alle grandi purghe degli anni Trenta, la casa editrice Bollati Boringhieri sembra essersi accollata il merito di inaugurare un anno che molto probabilmente sarà, nel bene e nel male, ricco di rievocazioni di un evento fondamentale per la storia del Novecento.
Anno che correrà il rischio di vedere schierate da un lato le rievocazioni tardo-nostalgiche e acritiche e dall’altro le interpretazioni più distruttive e liquidatorie di un avvenimento rivelatosi determinante sia per la storia del movimento operaio che per quella del XX secolo.
Un avvenimento che nel suo catastrofico decorso, dall’avvento di una speranza concreta in una rivoluzione internazionale al suo volgersi in elemento fondamentale della controrivoluzione, ha meritato, merita e meriterà ancora per lungo tempo un’analisi attenta e complessa del suo svolgimento, delle sue intime contraddizioni e dei motivi del capovolgimento finale dei suoi presupposti.
Il testo di Serge, scritto e pubblicato all’estero, mentre quella orrenda trasformazione da faro della rivoluzione proletaria internazionale a mostruosa macchina dittatoriale e controrivoluzionaria era nel pieno della sua attuazione, può ancora costituire un primo, illuminante esempio di tentativo di analisi critica dei fatti che avrebbero coinvolto non solo il destino di centinaia di migliaia di militanti rivoluzionari e di milioni di proletari e contadini russi, ma anche di milioni di operai e militanti e tutti i partiti comunisti del resto del mondo.
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Del rischio di estinzione del colibrì
Le ragioni dimenticate dei movimenti
di Sergio Segio*
Introduzione al 14° Rapporto sui diritti globali
■ Globalizzazione e altermondialismo
Da molti punti di vista e su non pochi aspetti, il cambio del secolo sembra aver chiuso fuori dalla porta Storia e storie, memoria individuale e memoria collettiva. Con un congruo anticipo, del resto, un economista conservatore, 1Francis Fukuyama, era arrivato a teorizzare proprio la fine della Storia. Contemporaneamente, i suoi colleghi di università e docenza, i “Chicago boys” di Milton Friedman, fornivano le basi dottrinarie di quel processo neoliberista centrato su privatizzazioni, liberalizzazioni, smantellamento dei sistemi di welfare, deregulation e messa in mora di poteri e controlli pubblici tuttora in corso. Si affermava così la regola del Washington consensus e cominciavano le politiche di “aggiustamento strutturale”, cui la Troika di allora (Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, Dipartimento del Tesoro USA) assoggettava prima l’America Latina e poi altre aree e Paesi cosiddetti in via di sviluppo, attraverso l’imposizione di Programmi imperniati, appunto, su privatizzazioni, liberalizzazioni, tagli alla spesa sociale, austerità, limitazione del-la spesa pubblica, obbligo di pareggio di bilancio.
Proprio com’è più di recente successo, e sta succedendo, alla Grecia e ad altri membri dell’Unione, veniva in quel modo messa in discussione la sovranità dei singoli Paesi, obbligati ad aprirsi agli investimenti delle multinazionali e alle loro delocalizzazioni produttive, finalizzate allo sfruttamento di manodopera a basso costo e alla massimizzazione dei profitti. In parallelo e di conseguenza, i diritti sociali, del lavoro, ambientali, ma anche i diritti umani, venivano vulnerati o fortemente ridimensionati, prima in quelle aree geografiche e, successivamente e tuttora, anche in Europa.
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Target2, l'occasione giusta: “pagare il riscatto” per uscire dall’euro
di Marco Cattaneo
Recentemente Mario Draghi ha parlato di “irreversibilità dell’euro” e, soprattutto, di “regolare integralmente” le posizioni nei confronti della BCE. Quale occasione migliore per sganciarsi dalla moneta unica? Il patrimonio netto di Bankitalia è ampiamente positivo, il che significa che esistono attività notevolmente superiori all’importo delle passività. E due europarlamentari del M5S sono convinti si possa fare.
Nelle ultime settimane si è parlato parecchio, su media e social network vari, di uno scambio di lettere tra due europarlamentari italiani, Marco Valli e Marco Zanni, e il presidente della BCE Mario Draghi.
Valli e Zanni sono entrambi stati eletti nelle liste M5S, anche se recentemente Zanni è uscito dal gruppo europarlamentare EFDD, a cui aderisce M5S, per entrare nell’ENF, che ha invece tra le sue componenti la Lega Nord. Qui il testo della loro richiesta di informazioni.
Draghi ha risposto con un’articolata comunicazione che ha suscitato ampio interesse mediatico a causa dell’affermazione finale. Testualmente: “Se un paese lasciasse l’Eurosistema, i crediti e le passività della sua BCN (Banca Centrale Nazionale) nei confronti della BCE dovrebbero essere regolati integralmente”.
Questa frase ha creato molto scalpore, per due motivi differenti.
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Perché distruggere la scuola pubblica?
Paolo Di Remigio
(Riceviamo e volentieri pubblichiamo. M.B.)
La vicenda della scuola pubblica italiana va inserita nella vicenda della repubblica: l'Italia è uno Stato non ancora emancipato dalla sconfitta nella seconda guerra mondiale, dunque a sovranità più o meno strettamente limitata dalle potenze vincitrici, cioè dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna. Negli anni '90 la sua classe dirigente, abituata a un'ampiezza di movimento non più compatibile con i progetti neoconservatori statunitensi di impero globale, è stata liquidata e sostituita da avventizi alle dirette dipendenze dei poteri globali, che hanno occupato tutti i posti di gestione, dallo Stato alle banche, dai partiti ai sindacati, dai giornali ai pulpiti. Compito di questi proconsoli era la rinuncia a ogni sovranità dello Stato e l'attuazione di politiche economiche neoliberali; di qui l'adesione cieca alle più folli geopolitiche anglo-americane e la partecipazione autolesionistica al progetto europeo. Nel nome delle regole europee è stata smantellata l'economia mista; le imprese pubbliche che avevano portato l'Italia a diventare una delle maggiore potenze industriali sono state privatizzate; è stata ridotta la spesa pubblica; i servizi offerti dallo Stato sono diventati sempre più inefficienti e costosi per i cittadini; le pensioni così ridimensionate da dover essere integrate con la previdenza privata, le file d'attesa agli ospedali così lunghe da costringere a ricorrere alla sanità privata oppure a rinunciare a curarsi, la scuola pubblica così dequalificata da aprire la prospettiva di un'offerta di istruzione privata.
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Mary per sempre
L'eterno Ritorno di Mrs. Poppins
di Marcello Benfante
Tutto ritorna a ciò che è veramente intero
Tao-Tê-ching
Mary Poppins è una creatura aerea. Il che, tuttavia, non la fa appartenere al cielo più di quanto non appartenga al sottosuolo.
È il Vento dell’Est a portarla nel romanzo d’esordio. Forse lo stesso vento foriero di trasformazioni che avverte Sherlock Holmes in chiusura del racconto “Il suo ultimo saluto”.
Anche in “Mary Poppins ritorna” (Mary Poppins Comes Back, 1936) l’indecifrabile governante entra in scena dall’alto, come un deus ex machina.
A trascinarla giù sembrerebbe l’aquilone dei piccoli Banks, Michele e Giovanna, rimasto impigliato tra le nuvole sopra gli ordinatissimi giardini pubblici.
Ma le cose non stanno proprio così. Mary Poppins ha preso il posto dell’aquilone, si è sostituita ad esso per mezzo di una magica metamorfosi.
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Francia 2017: vincerà Marine Le Pen, grazie all’errore della banca Rothschild
di Federico Dezzani
Si surriscalda il clima politico in Europa, in attesa delle tornate elettorali che decideranno il futuro della moneta unica. Il punto di svolta coinciderà con le presidenziali che si terranno il 23 aprile ed il 7 maggio in Francia, sempre meno “motore” dell’Unione Europea e sempre più europeriferia. L’elettorato francese è in aperta ribellione, come già dimostrato dalle primarie del partito repubblicano vinte dal candidato “outsider”, il “filo-russo” François Fillon. Per scongiurare un ballottaggio tra Fillon e la populista Marine le Pen, l’establishment è corso ai ripari, azzoppando il repubblicano con uno scandalo mediatico e lanciando verso il ballottaggio il “rottamatore” Emmanuel Macron, ex-banchiere della Rothschild & Compagnie. La manovra si basa su un calcolo politico clamorosamente sbagliato e Marine Le Pen avrà gioco facile a battere al secondo turno “le candidat du fric”, il candidato dei soldi.
La “douce France” è in aperta ribellione
Gli ultimi caotici, folli, mesi dell’Unione Europea si stanno svolgendo senza sorprese, regalando ogni giorno colpi di scena: i falchi tedeschi attaccano Mario Draghi e le sue politiche ultra-accomodanti, il governatore della BCE ricorda “l’irrevocabilità” della moneta unica (ammettendo implicitamente che la sua dissoluzione è nell’ordine delle cose), la cancelliera Angela Merkel ipotizza un’Europa a due velocità per liberarsi dal fardello dell’europeriferia, il governo italiano (forse bluffando, forse alienato dalla realtà) plaude alle proposte di Berlino, come se l’euro-marco non avesse già relegato l’Italia ai margini dell’Europa.
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Roma-Damasco, caccia alla volpe
Le parti in commedia dei russi. La fiction splatter di Amnesty
di Fulvio Grimaldi
Se vi infastidiscono le elucubrazioni su media e Virginia Raggi, potete saltare subito al capoverso: Dal Campidoglio in coma vigile alla Siria, viva o morta.
Cani fatti killer, uomini fatti giornalisti
Da quando avevamo raccolto nei boschi di Teuteburgo quel bassottino selvatico di nome Lumpi (monello) e insieme a lui, nel paese di Dresda, avevamo scansato le mitraglie degli Spitfire britannici, dribblato le bombe dei Mustang statunitensi, mentre magari stavamo raccogliendo ortica lungo i fossi per una cena tra il 1944 e il 1945, ho sempre vissuto con cani, della nobilissima specie dei bassotti a pelo ruvido, specialisti della lotta contro gli altotti, fino a entrarci in simbiosi affettiva e intellettuale, dunque politica. Posso perciò affermare con una certa competenza che tutti i cani, per natura nascendo di branco, cioè inseriti in un collettivo, sono buoni, sociali e socievoli, collaborativi, rispettosi dell’armonia e dell’utile comunitari. Il che li rende la specie animale più vicina a quella umana. Quanto meno a quella umana prima del degrado subito da una sua limitata, ma decisiva, quota.
Addestrati, violentati nella loro identità originaria, educati male, i cani diventano strumenti di umani degenerati che li pretendono delittuosamente, come dio con gli uomini, a loro immagine e somiglianza. E arriviamo ai rottweiler aggressivi, ai pitbull da combattimento, perfino ai jack russell mordaci, interfaccia di poliziotti che picchiano, forze speciali che torturano, energumeni da rissa che inseguono modelli di videogiochi, politici che sterminano, padroni che ingrassano sul dimagrimento dei dipendenti.
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La costituzione materiale €uropea e il pericolo del cr€puscolo autoritario (soft law poco soft)
di Quarantotto
1. La crisi dell'ordoliberismo totalitario €uropeo è, nell'accelerazione delle evidenze fattuali, avviata ad una sua fase, per molti versi, finale.
Come avevamo già anticipato il tramonto dell'euro non potrà che essere rabbioso - per il timore di non riuscire a completare in tempo il definitivo ridisegno degli assetti sociali e della stessa "natura umana" che l'oligarchia neo-liberista si era prefisso.
Perciò, questa fase crepuscolare diviene ancora più pericolosa, per le residue vestigia delle democrazie dell'eurozona (e non solo, come testimonia il livore quotidianamente speso contro la Brexit e la ridicola etichetta di "estrema destra xenofoba" affibbiata all'Ungheria di Orban).
2. Che un'organizzazione internazionale dotata di immensi poteri, peraltro acquisiti in violazione delle norme fondamentali della nostra Costituzione (e, naturalmente, non solo), si trovi dinnanzi alla prospettiva di perderli di fronte alla contestazione di fatto da parte del suo substrato sociale (cioè i "popoli" che non riescono più a tollerare il sistematico, intenzionale e programmatico perseguimento della "durezza del vivere", dell'altissima disoccupazione strutturale, della accentuata distruzione del welfare, concretamente e in modo sempre più vasto), conduce ad una naturale reazione autoconservativa.
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Prossime elezioni comunque e Movimento cinque stelle
di Mario Monforte
Manovre politiche: voto subito, voto no per ora, dopo settembre, al termine naturale della legislatura. E Renzi, convinto di quanto Lotti dixit, «40% alle europee, 40% al referendum», mira «al 40%» e punta alle elezioni quanto prima – occultando il colpo delle elezioni amministrative e il disastro del referendum. I suoi lo confermano leader Pd alle elezioni, e, grazie all’attuale composizione della Consulta, ha ricevuto un paio di “aiutini” non da poco: castrato del quesito sul Jobs Act il referendum della Cgil (lo avrebbe senza dubbio cassato) e legittimato il premio di maggioranza (per cui era stato giudicato illegittimo il Porcellum) per la lista che consegua (appunto!) il 40% dei voti validi. Ma pur se “avanti a tutta protervia”, le cose non cambiano: la “botta” del 4 dicembre è devastante per Renzi e “tutto” il Pd, e il prosequio di Renzi con il governo Gentiloni non ne migliora le sorti, anzi le logora ancora. E il Pd è a pezzi: l’opposizione interna, pur sempre à la “re tentenna”, è rafforzata; D’Alema organizza le forze e agita la scissione per un’altra formazione (data dal 10 al 14% di consensi); Emiliano minaccia ricorsi alla magistratura (senza congresso prima delle elezioni), altri affilano le armi. L’idea di Renzi di tenere in pugno il partito con le ravvicinate elezioni, dando a intendere di vincerle, è infondata.
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Come Nixon nel ’71, gli Usa cambiano le regole del gioco. Ma senza rete…
di Claudio Conti
Chi pensa che il “fenomeno Trump” sia dovuto alla faccia tosta del personaggio o alla credulità dell'elettorato non metropolitano degli Stati Uniti è condannato a non capire nulla di quanto sta accadendo a livello planetario. Al massimo, sarà invitato a “indignarsi” ogni giorno su un tema diverso, scelto con cura dall'ala “globalista” dei media mainstream, quella nostalgica dei bei tempi andati, quando ogni starnuto proveniente dagli Usa era accolto come il verbo divino.
Sul fronte opposto, quelli che ragionano solo in termini di geopolitica e sovranità nazionali sono condannati a fare i salti mortali – e neanche sempre vogliono farli – per non ritrovarsi schiacciati sugli argomenti della destra nazionalista, xenofoba, fascistoide, trumpista o lepenista per puro calcolo elettorale.
A noi sembra decisamente più sensato guardare ai processi economici e storici che stanno arrivando al pettine dopo dieci anni di crisi globale. Dieci anni in cui ogni tentativo di “ripartire”, di “rilanciare la crescita”, ecc, si è scontrato con un arresto generale della “dinamica propulsiva” del modo di produzione capitalistico, nelle forme storiche assunte nel secondo dopoguerra. Se ci si riesce ad orientare nelle modificazioni del mondo, forse si riesce anche a dire qualcosa di non preso a prestito da Repubblica o dal Tg3… Ricordiamo ancora, nonostante tutto, che nella Storia sono i processi oggettivi a sollevare o precipitare gli individui (anche e soprattutto “i capi”), non viceversa.
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Siamo sicuri che l’Italia abbia, oggi, una vera costituzione?
di Mario Dogliani
Una riflessione del vicepresidente del CRS Mario Dogliani sugli orizzonti politico-costituzionali del nostro Paese nella fase post-referendum
1. “Che ne è stato, e che ne è ora, della Costituzione?” Avrebbe dovuto essere questa la prima domanda che una degna élite politica e intellettuale si sarebbe dovuta porre dopo il referendum del 4 dicembre. E invece questa domanda è stata rimossa. E’ evidente che il voto referendario segnalava uno sconvolgimento, una frattura del rapporto tra la politica della classe politica di governo e la politica desiderata dall’elettorato. Una frattura tra due immagini di società, e dunque, in ultima analisi, una frattura tra due modi diversi di concepire la costituzione, che di quella società dovrebbe essere la spina dorsale. E invece abbiamo assistito solo a una impennata del chiacchericcio sulle sorti del governo e sulla durata della legislatura. Tutto è stato ridotto alla politique politicienne.
2. Ma perché quell’elementare domanda relativa agli effetti della riforma così come motivata e progettata e argomentata, così come approvata in Parlamento, così come dibattuta nella campagna referendaria e, infine, così come clamorosamente (e inaspettatamente, almeno quanto alle dimensioni) bocciata, nessuno se l’è esplicitamente posta? Non si tratta, evidentemente, solo di un voto negativo che respinge una proposta della maggioranza parlamentare. Per come si è svolta storicamente la lunga vicenda, si tratta di una “esperienza costituzionale”, analoga a quella che il popolo italiano ha vissuto tra il 1944 e il 1947.
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Gramsci o Laclau? I dilemmi di Podemos
di Carlo Formenti
Fra qualche giorno all’arena coperta di Vistalegre (Madrid), Podemos celebrerà la sua seconda assemblea generale, un evento che potrebbe segnare una svolta importante nella vita di questa formazione politica che rappresenta a tutt’oggi l’unica sinistra del Vecchio Continente in grado di competere alla pari con l’establishment neoliberale. Nel mio ultimo libro (“La variante populista”, DeriveApprodi) ho indicato in Podemos il più importante esempio europeo (accostandolo alle rivoluzioni bolivariane in America Latina e al movimento nato attorno alla candidatura di Sanders negli Stati Uniti) del tentativo di cavalcare a sinistra l’onda populista che in tutto il mondo si sta sollevando come reazione alle devastazioni sociali, civili ed economiche provocate da decenni di regime neoliberista.
Prima di analizzare le opzioni strategiche che si confronteranno a Vistalegre – proverò a farlo mettendo a confronto i documenti programmatici presentati, rispettivamente, dal segretario generale Paolo Iglesias e dal suo competitore Inigo Errejón – è utile premettere alcune sintetiche considerazioni sul mutamento di scenario mondiale in corso (segnato, fra gli altri eventi, dalla Brexit, dall’elezione di Trump e dalla sconfitta di Renzi nel referendum dello scorso dicembre) e sulle sfide che esso impone a tutti i movimenti antiliberisti del mondo.
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Poteri comunisti
di Sandro Mezzadra
Intervento a C17 – La conferenza di Roma sul Comunismo, 21 gennaio 2017
1. Qual è oggi il potere della parola comunismo? È una domanda che dobbiamo porci alla luce dello straordinario successo di C17, dopo che per giorni, centinaia e centinaia di persone hanno seguito con un’attenzione e una partecipazione stupefacenti una serie di dibattiti in cui il comunismo è stato nuovamente messo in gioco dal punto di vista della storia e della critica dell’economia politica, delle pratiche estetiche e della politica tout court. Si tratta forse di tornare a usare il termine comunismo nei volantini, nei manifesti e nei blog? Non mi pare che sia questo il punto. Quanti tra noi hanno continuato in questi anni a definirsi comunisti lo hanno fatto con la necessaria “sobrietà”, consapevoli del fatto che su quella parola grava il peso di una storia tanto entusiasmante quanto terribile – e che solo nuovi movimenti di massa possono rinnovarne radicalmente il significato, incardinandola nella lotta politica e sociale del XXI secolo. Anche a Roma abbiamo ascoltato appelli alla costruzione di un nuovo “partito comunista” (Jodi Dean), senza che di questi problemi, nonché della nuova composizione del lavoro vivo e delle nuove modalità operative del capitale, si tenesse conto. È facile rispondere che ad esempio in un Paese come l’Italia non si contano i “partiti comunisti”, in litigiosa contesa per il monopolio della corretta linea politica senza che la loro azione faccia in alcun modo avanzare un movimento reale di riappropriazione della materialità del comunismo.
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40 anni di Orientalismo
di Lorenzo Forlani
A quasi quarant'anni dall'uscita di Orientalismo, l'influente saggio di Edward Said, cosa è cambiato nella rappresentazione occidentale del mondo islamico? Stereotipi, pregiudizi e sensazionalismi di una narrazione viziata alla fonte
Sono passati quasi quarant’anni dall’uscita di Orientalismo, il saggio scritto dall’intellettuale di origine palestinese Edward W. Said e pubblicato negli Stati Uniti nel 1978. Non sono molti i testi che mantengono intatta la loro attualità a quasi mezzo secolo dalla loro uscita: ai tempi, quello di Said è stato un grimaldello fondamentale nella comprensione di quell’“orientalismo” che dà il titolo al saggio, e che altro non sarebbe che il modo in cui l’Occidente narra e rappresenta un non meglio precisato “Oriente” che va dall’Asia al mondo arabo. Da allora però, non molto sembra cambiato: specie per quanto riguarda l’Islam, la narrazione mediatica mainstream sembra rimasta prigioniera di assunti e luoghi comuni legittimati da secoli di studi, anche accademici. Anzi: alcuni eventi, dall’11/9 alla comparsa dello Stato Islamico, hanno contribuito al loro rafforzamento.
Tutti i tentativi di denunciare gli stereotipi e le dicotomie sul mondo islamico devono qualcosa all’opera polemica di Said, la cui densità – trecentocinquanta pagine di testo più una ventina di bibliografia – ha scatenato accesi dibattiti nonché diversi fraintendimenti, anche nello stesso mondo islamico. Said da parte sua scrive chiaramente che la sua critica non è un attacco all’Occidente, e che la risposta al “discorso orientalista” non può e non deve essere un “discorso occidentalista”. Si limita alla descrizione di un modus operandi della tradizione orientalista istituzionale sopratutto dal 1700 in poi, per decostruire miti e stereotipi orientalisti senza per questo semplificare un’entità eterogenea come l’Oriente.
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Le radici dell’europeismo di sinistra
Thomas Fazi
Rielaborazione di una relazione tenuta in occasione dell’incontro “Eutopia. La sinistra tra Unione europea e sovranità nazionale”, svoltosi a Milano il 15 gennaio 2017
Ultimamente si fa un gran parlare – grazie sia a una serie di importanti riflessioni partorite da intellettuali dell’area della “sinistra radicale” (penso soprattutto ai libri Sei lezioni di economia di Sergio Cesaratto, La scomparsa della sinistra in Europa di Aldo Barba e Massimo Pivetti e La variante populista di Carlo Formenti), sia ai parziali mea culpa di personaggi come Massimo D’Alema e Pierluigi Bersani – degli “errori” compiuti dalla sinistra negli ultimi decenni. Laddove però i secondi – e D’Alema con molta più lucidità di Bersani – si limitano a criticare «la valutazione ottimistica della globalizzazione», «l’accettazione [della] logica delle riforme neoliberali che riducono le tutele sociali e i diritti del lavoro», «l’idea che… il welfare socialdemocratico fosse un peso da alleggerire» (D’Alema) e più in generale la subalternità politica, ideologica e culturale della sinistra al neoliberismo, i primi sottolineano come tale subalternità si sia manifestata anche e soprattutto nel sostegno al processo di integrazione economica e valutaria europea – giudicato positivamente invece sia da Bersani che da D’Alema – e che dunque qualunque “rifondazione” della sinistra (ammesso e non concesso che questo sia possibile, se non a patto di ripensare completamente il nostro approccio) non può che partire da un’opposizione netta alla moneta unica e più in generale ai trattati europei.
Mi trovo senz’altro più d’accordo con i primi che con i secondi. Non basta però dire: «Abbiamo sbagliato».
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Un quarto di secolo con Maastricht
Liberiamocene, o sarà fascismo
di Alessandro Somma
Il Trattato di Maastricht, a cui si devono l’Euro e gli attuali assetti politico istituzionali dell’Unione europea, compie un quarto di secolo: venne firmato il 7 febbraio 1992, per poi essere ratificato dagli allora dodici Paesi membri ed entrare in vigore il 1. novembre 1993. In alcuni casi questo passaggio coinvolse direttamente il corpo elettorale: come in Danimarca, dove furono necessari due referendum per poi raggiungere un consenso relativamente contenuto (56,7%), e in Francia, dove i favorevoli rappresentarono una minoranza decisamente risicata (51%). Diversa la situazione nei Paesi in cui la ratifica spettò ai parlamenti nazionali: quasi ovunque il Trattato fu approvato con maggioranze bulgare, a testimonianza di come sui temi europei, e in genere sulle ricette economiche, la distanza tra elettori ed eletti sia da molto tempo incolmabile.
In Italia i Senatori favorevoli alla ratifica del Trattato furono 176 (16 contrari e un astenuto), e 403 i Deputati (46 contrari e 18 astenuti). Il tutto avvenne tra settembre e ottobre 1992, in un clima di forte preoccupazione non tanto per i disastri che avrebbe provocato, quanto per le note vicende legate a Tangentopoli, su cui all’epoca la magistratura aveva da poco iniziato a indagare. Anche per questo nessuno sembrò aver compreso appieno il senso di Maastricht, mentre i pochi che lo intuirono ritenevano che avrebbe rappresentato un’opportunità.
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1917 – 2017. A un secolo dal grande azzardo
di Sebastiano Isaia
Di imprese storiche passate può essere affermato che i tempi non erano ancora maturi. Nel presente i discorsi sulla insufficiente maturità trasfigurano l’approvazione del cattivo esistente. Per il rivoluzionario il mondo è sempre maturo. Ciò che retrospettivamente appare come stadio iniziale, come situazione prematura, egli l’aveva considerata come l’ultima occasione. Egli è con i disperati che una condanna spedisce sulla forca, non con coloro che hanno tempo. L’appellarsi ad uno schema di stadi della società che post festum mostra l’impotenza di un’epoca passata, in quel momento sarebbe stato teoricamente sbagliato e politicamente vile. […] Benché il successivo corso storico abbia confermato i girondini contro i montagnardi e Lutero contro Munzer, l’umanità non è stata tradita dalle intempestive imprese dei rivoluzionari, bensì dalla tempestiva saggezza dei realisti (M. Horkheimer, Lo Stato autoritario).
Pare che al volgere dell’anno 1916 lo Zar Nicola II lasciasse cadere sul popolo russo, sfiancato da due anni di terribile guerra, le lapidarie quanto poco – o molto, dipende dai punti di vista – profetiche parole che seguono: «Il 1916 è stato un anno molto difficile, ma il 1917 sarà un trionfo». Sappiamo come andò a finire. In effetti un trionfo, alla fine del ’17, ci fu, ma Nicola II non pensava certo a Lenin e ai suoi compagni quando pronunciò l’ultimo augurio di fine/inizio anno nella sua qualità di Zar di tutte le Russie. D’altra parte i regnanti e i governanti in genere hanno l’obbligo dell’ottimismo: «Oggi va malissimo, e nessuno può negarlo; ma domani, statene pur certi, sarà tutta un’altra cosa, e chi lo nega non è che un disfattista».
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Città ribelli, resistenza urbana e capitalismo
Vincent Emanuele intervista David Harvey
Emanuele: Inizi il tuo libro ‘Rebel Cities: From the Right to the City to the Urban Revolution’ [Città ribelli: dal diritto alla città alla rivoluzione urbana] descrivendo la tua esperienza a Parigi negli anni ’70: “Alti edifici giganti, autostrade, edilizia popolare senz’anima e mercificazione monopolizzata nelle strade che minacciano di inghiottire la vecchia Parigi … Parigi dagli anni ’60 in poi è stata chiaramente nel mezzo di una crisi esistenziale”. Nel 1967 Henry Lefebvre scrisse il suo fondamentale saggio “Del diritto alla città”. Puoi parlarci di quel periodo e dell’impulso a scrivere Rebel Cities?
Harvey: Nel mondo gli anni ’60 sono spesso considerati, storicamente, un periodo di crisi urbana. Negli Stati Uniti, ad esempio, gli anni ’60 furono un’epoca in cui molte città centrali finirono in fiamme. Ci furono rivolte e semi-rivoluzioni in città come Los Angeles, Detroit e naturalmente dopo l’assassinio del dottor Martin Luther King nel 1968 … più di 120 città statunitensi subirono disordini e azioni di rivolta minori e grandi. Cito questo negli Stati Uniti perché ciò che in effetti stava accadendo era che la città veniva modernizzata. Era modernizzata intorno all’automobile; era modernizzata intorno alle periferie. A quel punto la Città Vecchia, o quello che era stato il centro politico, economico e culturale della città in tutti gli anni ’40 e ’50 era lasciata alle spalle. Ricorda, quelle tendenze avevano luogo in tutto il mondo capitalista avanzato.
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