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Gli Ultimi Giorni dell’Ideologia Liberal
di Maximilian Forte
In un articolo documentato quanto aspramente ironico, l’antropologo Maximilan Forte annuncia sul suo blog Zeroanthropology il crollo imminente dell’ideologia liberal progressista. E dei Democratici, che all’ideologia progressista hanno legato le loro fortune. Una minuziosa disamina degli errori commessi durante la campagna elettorale della Clinton, delle scomposte reazioni dei Democratici alla sconfitta, della complicità della grande stampa – che crea fake news sostenendo di lottare contro le fake news – e di una classe accademica elitista che si è trasformata in una sorta di nuova aristocrazia. Forte mostra i sedicenti campioni del pensiero progressista come una nuove élite devota alla meritocrazia – e di conseguenza indifferente alla solidarietà – che ha preteso di insegnare al popolo che cosa era buono e giusto, a dispetto di quello che il popolo stesso sperimenta nella propria vita: ed è quindi stata abbandonata dal popolo, che ha votato altrove
Come l’ortodossia, il professionalismo e politiche indifferenti hanno definitivamente condannato un progetto del diciannovesimo secolo
Che spettacolo eccezionale. Questi sono gli ultimi giorni, presto inizierà il conto alla rovescia delle ultime ore per lo sconfitto progetto politico liberal, ereditato dal XIX secolo. Il centro – se ce n’è mai stato uno – alla fine non ha potuto reggere (citazione del “Secondo Avvento” di W.B.Yeats – NdT). Che meraviglia vedere una delle ideologie dominanti, colonna portante del sistema internazionale, portata in trionfo sin dalla fine della Guerra Fredda con una boria e una certezza sconfinate, precipitare a faccia in giù nella pattumiera della storia. È caduta di schianto, come se una folla inferocita l’avesse spinta da dietro, anche se i suoi difensori sosterranno che sono stati semplicemente commessi degli “errori”, come se fossero scivolati sulla più grande buccia di banana della storia. E che spettacolo: chi si sarebbe mai aspettato una simile mancanza di dignità, una così patetica isteria, insulti così infondati, minacce così vuote provenire da coloro che si auto-incensavano come valorosi statisti, che parlavano come se avessero il monopolio della “ragione”. E anche se questa rovinosa caduta avrebbe potuto essere ben peggiore, non sono mancate violenza, minacce, boicottaggi, e persino denunce di tradimento, fatte apposta per delegittimare la scelta degli elettori.
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Note sul Marx di Lukács
di Carlo Formenti
Da C. Formenti, La variante populista. Lotta di classe nel neoliberismo, Derive Approdi 2016
Come il lettore ha avuto modo di constatare, questo libro è duramente critico nei confronti della visione postmodernista cui la maggior parte degli intellettuali della sinistra radicale ha aderito negli ultimi decenni. Mi riferisco, in particolare, agli effetti della «svolta linguistica» delle scienze sociali e all’influenza che cultural studies, gender studies, teorie del postcoloniale e la pletora dei post (post industriale, post materiale, ecc.) proliferati a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso hanno esercitato sulla cultura dei nuovi movimenti, attribuendo progressivamente al conflitto politico e sociale il carattere di una competizione fra «narrazioni» e fra «processi di soggettivazione». Questa psicologizzazione del conflitto ha rimpiazzato la lotta di classe con una sommatoria di richieste di riconoscimento identitario da parte di soggetti individuali e collettivi sostanzialmente privi di qualsiasi riferimento ai rapporti sociali di produzione, funzionando, di fatto, da involontario quanto potente alleato del progetto egemonico neoliberista.
È vero che in queste pagine ho preso anche le distanze da una serie di temi cruciali del marxismo: la tesi che presenta la contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione quale ineludibile presupposto della transizione dal capitalismo al socialismo; la convinzione che il progresso tecnologico e scientifico svolgano in ogni caso un ruolo progressivo e l’idea che la storia incorpori un principio evolutivo immanente. Cionondimeno resto convinto del fatto: 1) che la teoria marxista offra strumenti assai più potenti di quelli delle teorie postmoderniste per analizzare e comprendere la realtà economica, sociale e politica in cui viviamo; 2) che nella monumentale opera di Marx esistono spunti che consentono di superare i suoi stessi limiti.
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Della difficoltà ad intendersi
In risposta ad una recensione di Dino Erba
Il Lato Cattivo
Nel dicembre 2016, Dino Erba (DE) ha prodotto e fatto circolare una recensione del secondo numero de «Il Lato Cattivo», che rendiamo disponibile anche sul nostro blog. DE è un compagno che conosciamo da tempo e di cui, nel corso degli anni, abbiamo apprezzato in più di un'occasione le qualità umane, l'attività pubblicistica non priva di interesse delle sue Edizioni All'Insegna del Gatto Rosso, nonché certe salutari prese di posizione, non da ultimo a proposito del dilagante «pateracchio rossobruno» che – guerra in Siria aiutando – manifesta oggi, una volta di più, la crisi della militanza «anticapitalista» e dei suoi circuiti. Benché la sua recensione sia globalmente elogiativa, non possiamo astenerci da una replica, nella misura in cui il documento di DE rivela: a) dei disaccordi che nessun dibattito ulteriore (di cui DE, in coda alla sua recensione, esprime l'auspicio) potrà smussare; b) alcuni malintesi relativi ai contenuti del secondo numero della rivista.
Cominciamo da questi ultimi. A ragione, introducendo il proprio ragionamento, DE individua nella questione della classe media (salariata) il «filo conduttore» del testo; e, anche qui a ragione, riconosce che in sostanza nessuno ne parla. Molto bene.
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Silvia Federici a colloquio con George Souvlis e Ankica Čakardić
Quest’intervista teorico-politica all’autrice di Calibano e la strega e Il punto zero della rivoluzione (1) viene pubblicata in inglese da Salvage (qui il link) ed è stata condotta da George Souvlis (PhD candidate in History, European University Institute, Firenze) e Ankica Čakardic (Dipartimento di Filosofia, Università di Zagabria)
1. Streghe, casalinghe e capitale
Vuoi parlarci innanzitutto delle esperienze formative (in ambito accademico e politico) che ti hanno maggiormente influenzato?
La prima esperienza formativa della mia vita è stata la seconda guerra mondiale. Sono cresciuta nell’immediato dopoguerra, quando la memoria di un conflitto durato anni, in aggiunta a quella degli anni del fascismo, era ancora molto viva in Italia. In giovanissima età ero già consapevole del fatto d’esser nata in un mondo profondamente diviso, e sanguinario; ero consapevole del fatto che lo stato, lungi dal proteggerci, potrebbe esserci nemico; del fatto che la vita è estremamente precaria e, come dirà poi la canzone di Joan Baez, «there but for fortune go you and I». In questa situazione era difficile non essere politicizzata. Perfino da ragazzina non potevo non sentirmi antifascista, ascoltando tutte le storie che ci raccontavano i miei genitori, e le tirate di mio padre contro il regime fascista. Oltretutto sono cresciuta in una città comunista, dove il primo maggio i lavoratori appuntavano il garofano rosso alla giacca, e ci si svegliava al suono di Bella Ciao; e dove la lotta tra comunisti e fascisti proseguiva, con i fascisti a tentare periodicamente di far saltare per aria il monumento al partigiano e i comunisti ad assaltare per rappresaglia la sede del MSI – Movimento Sociale Italiano – che tutti sapevano essere la continuazione del partito fascista ormai messo al bando.
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Memorie, negazionismi, Regeni e Deir Ez Zor
di Fulvio Grimaldi
Faccio un’altra volta contenti i localisti che biasimavano la mia depravazione professionale di trascurare il vicino per navigare nel lontano, offrendogli un bel potpourri, come si diceva ai tempi del trio Lescano e di Alberto Rabagliati (oggi “compilation”, e fossimo meno perversamente esterofili, “raccolta”, “selezione”), di cose nostre e cose altrui (che, a mio avviso, senza offesa per i localisti, risultano poi sempre anche nostre). E parto lontanto, da Trump per finire vicino, a Virginia Raggi, tanto per dimostrare l’assunto.
L’aspetto storicamente più significativo e anche più umoristico è il ballo di San Vito che, all’apparire del fenomeno Trump, ha visto unirsi in frenetica agitazione tutti i vermi e tutte le larve che fino a ieri pasteggiavano sulla carcassa della società capitalista occidentale. Vuoi quelli che del gozzoviglio si vantavano e vuoi coloro che, vergognandosene, masticavano nascosti dal tovagliolo di seta. Spioni Cia, serialkiller Mossad, vampiri bancari, fabbricanti di F35, necrofagi neocon, contorsionisti del menzognificio mediatico, burattinai del terrorismo internazionale e loro cloni in miniatura dei paesi subalterni, in felice sintonia con i loro finti opposti e autentici reggicoda, pacifisti, ambientalisti, femministe, variopinti sinistri, diritto-umanisti, migrantofili, cultori del Genere, tutti appassionatamente uniti a protestare, ululare, armarsi, contro questo imprevisto rompicoglioni che si permette di scuotere la carogna e spolverarne i parassiti.
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Trump e l’attualità di Keynes
Il nostro futuro è nel protezionismo
di Jacques Sapir
Proponendoci una riflessione sull’attualità del testo di J.M. Keynes “National Self-Sufficiency”, del 1933 – con la sua tripla esortazione ad adottare politiche protezioniste per motivi economici, politici ed etici – l’economista Jacques Sapir sul suo blog Russeurope smantella definitivamente il mito della superiorità del libero scambio, mostrando come già negli anni 30, dopo la Grande Crisi, i suoi immensi limiti fossero ben chiari a Keynes, soprattutto dal punto di vista degli effetti sociali. Quello che oggi è sotto i nostri occhi – la moltiplicazione dei conflitti, l’accumulo crescente di ricchezza nelle mani di pochi, la crisi della democrazia – conferma la lucidità della visione di Keynes e mostra come le politiche protezioniste di Trump e tanti altri siano molto più sensate di quanto la stampa mainstream ci voglia fare credere. Al contrario, conclude Sapir: è nel protezionismo il nostro futuro
Le recenti dichiarazioni di Donald Trump, e la sua politica di pressione sui grandi gruppi industriali attraverso messaggi inviati via Twitter; ma anche dichiarazioni “molto francesi”, come quelle di Arnaud Montebourg sul “produrre francese” hanno riproposto la questione delle moderne forme di protezionismo. Nel dibattito che si apre oggi intorno alla campagna per eleggere il prossimo Presidente della Repubblica, è chiaro che questo problema occuperà una posizione di primo piano. Un certo numero di candidati dichiarati – o di candidati alla candidatura – hanno preso posizione su questo tema. Ma in realtà, questo dibattito c’è già stato.
Nel 1930, dopo la Grande Depressione, un certo numero di economisti sono passati da posizioni tradizionaliste a favore del “libero scambio” verso una visione più protezionista. John Maynard Keynes era uno di questi, e certamente quello che ha esercitato l’influenza più significativa. Può essere utile quindi tornare a questo dibattito, e alla conversione di un uomo che comunque credeva nel libero scambio, per cercare di capire che cosa gli fece cambiare idea.
L’importanza del contesto
Il saggio di J.M. Keynes sulla necessità di una autosufficienza nazionale di cui vogliamo occuparci è stato pubblicato nel giugno 1933 sulla Yale Review.
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Dalla globalizzazione alla geopolitica
Come le nazioni dominanti si adattano all’era complessa
di Pierluigi Fagan
sono in ogni epoca le idee dominanti”
Anonimo istituzionalista
L’ordine del mondo sta subendo una modifica strutturale, si sta passando da un impianto prettamente economico e finanziario ad uno in cui l’economia e finanza saranno pilotate dalla logica geopolitica. Il cambio che verrà imposto dal giocatore principale ovvero gli Stati Uniti, è motivato da una diversa lettura del come perseguire l’interesse nazionale.
L’interesse nazionale è un concetto che è diventato invisibile negli ultimi decenni ma è più probabile lo sia stato per ragioni narrative che per effettiva sua scomparsa. La narrazione globalista, narrazione inaugurata ai tempi del “Washington consensus” il cui varo risale a venticinque anni fa, ha teso a raccontarci l’esistenza di un “interesse mondo” che scioglieva gli egoismi nazionali in un meta-ente indifferenziato a cui tutti avremo partecipato all’insegna del “poche regole e vinca il migliore”, invito rivolto ad entità private, tanto istituzionali (imprese, banche, fondi, intermediari, reti distributive) che individuali (imprenditori, lavoratori, investitori). Un lento scioglimento dello Stato ne era sia precondizione che l’effetto.
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“La globalizzazione è morta”
di Alvaro Garcia Linera*
La frenesia per un imminente mondo senza frontiere, il chiasso por la constante minimizzazione degli stati-nazionali in nome della libertà d’impresa e la quasi religiosa certezza che la società mondiale finirà per amalgamarsi in un unico spazio economico, finanziario e culturale integrato, sono appena crollate di fronte all’ammutolito stupore delle èlites globalofile del pianeta.
La rinuncia della Gran Bretagna a continuare nell’Unione Europea – il progetto più importante di unificazione statale degli ultimi cento anni – e la vittoria elettorale di Trump – che ha inalberato le bandiere di un ritorno al protezionismo economico, ha annunciato la rinuncia ai trattati di libero commercio e ha promesso la costruzione di mesopotamiche mura di frontiera –, hanno annichilito l’illusione liberista più grande e più di successo dei nostri tempi. E che tutto questo provenga dalle due nazioni che 35 anni fa, protette dalle loro corazze di guerra, annunciavano l’avvento del libero commercio e la globalizzazione come l’inevitabile redenzione dell’umanità, ci parla di un mondo che si è capovolto o, ancor peggio, che ha finito le illusioni che lo hanno mantenuto sveglio per un secolo.
La globalizzazione come meta-racconto, questo è, come orizzonte politico ideologico capace di canalizzare le speranze collettive verso un unico destino che permettesse di realizzare tutte le possibili aspettative di benessere, è esplosa in mille pezzi.
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L’immaterialità della moneta e il valore delle emozioni
Christian Marazzi
È importante distinguere tra moneta e denaro, dato che le monete (e le valute) sono oggetti simbolici di qualcosa di più profondo, di quel sistema di crediti e compensazioni che sono il denaro nella sua essenza
Felix Martin, storico del denaro, ha scritto un libro stupendo (Denaro. La storia vera: quello che il capitalismo non ha capito, Utet, Torino, 2014) in cui parla della scoperta della comunità sull’isola di Yap nel Pacifico da parte di un antropologo, William H. Furness, che all’inizio del Novecento ne studiò usi e costumi, fondamentali per il pensiero di John M. Keynes e persino dell’ultimo Milton Friedman. Questa comunità, mai colonizzata nonostante i vari tentativi di missionari e britannici – i quali morirono nell’impresa – disponeva soltanto di tre beni presenti sull’isola: il merluzzo, il cocco e il cetriolo di mare. È una classica comunità nella quale si poteva ipotizzare il baratto, con poche persone che si scambiano solo tre merci.
Furness scoprì, invece, che la comunità nell’isola di Yap era dotata di un sistema monetario estremamente sofisticato, basato sulla relazione comunitaria degli scambi che avvenivano attraverso una moneta chiamata fei, costituita da enormi ruote di granito con un buco all’interno – ora esposte tra l’altro anche al British Museum – che fungevano da simboli per gli scambi che sottendevano questa unità di conto. La moneta, massimamente materiale, in realtà era massimamente simbolica, del tutto immateriale: non si spostava, ma fungeva da testimone contabile degli scambi che avvenivano sull’isola.
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Chi sono i comunisti?
di Militant
[Mesi fa, il collettivo politico di Esc ci chiese di partecipare, con una breve relazione, alla Conferenza sul comunismo – C17 – per celebrare l’anniversario della Rivoluzione. Come direbbe Wu Ming, si trattava di sconfinare abbondantemente dalle nostre “zone di comfort”, tanto politiche quanto culturali. Molte cose, potete immaginare, ci distanziano da *quel* modo di celebrare l’Ottobre. Eppure abbiamo aderito senza problemi. Per due ragioni fondamentali. La prima, coi compagni di Esc c’è (molta) differenza ma c’è altrettanto “riconoscimento” politico. Tra compagni, insomma, ci si confronta apertamente, su tutto, nella condivisione come nello scontro dialettico. La seconda ragione fondamentale è data dalla convinzione che il marxismo ha la forza di confrontarsi con tutto il pensiero umano, non solo con chi ne condivide le premesse. Il marxismo è un pensiero della totalità: non ha paura a confrontarsi col grande pensiero borghese, così come non ha paura di discutere con forme di operaismo post-moderno. Anzi, preferiamo di gran lunga discutere con chi non la pensa come noi, piuttosto che darci ragione a vicenda in sterili dibattiti improduttivi. Il problema non era tanto, allora, “dove” e “con chi” discutere di comunismo, ma “come” essere efficaci in un contesto di reciproca diffidenza. Nel ristrettissimo spazio di dieci minuti (questo il tempo consentito ai relatori) sapersi fare ascoltare diveniva il problema centrale. Speriamo con questa relazione di esserne venuti a capo. Buona lettura].
* * * *
Fra le tante sciagure connesse alla crisi economica, almeno una conseguenza positiva: dal novero delle teorie politiche comprensibili, non trovano più posto le derive culturali tipiche di certo marxismo post-moderno.
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Chi sono i comunisti?
di Toni Negri
Sono quelle donne e quegli uomini che aprono le forme della vita alla liberazione dal lavoro e sviluppano le condizioni di una lotta rivoluzionaria continua a questo fine e così inventano e costruiscono istituzioni radicalmente democratiche – che possiamo chiamare istituzioni del comune.
Meglio detto, i comunisti sono coloro che uniscono rivoluzione politica e liberazione dal lavoro, istituzione comune ed emancipazione della produzione della vita dal comando capitalista.
Prima di argomentare questa definizione lasciatemi fare qualche precisazione a proposito di alcune tesi che si pretendono rifondatrici di un discorso comunista, mentre invece – a mio parere – tolgono la stessa possibilità di parlare di comunismo.
1. Ci sono in primo luogo tesi che destoricizzano e dematerializzano, unitamente all’idea del potere, quella di comunismo.
Sono spesso concezioni abbarbicate al passato, all’ideologia del “socialismo reale” e non riconoscono quanto il mondo del capitale e le lotte di liberazione siano oggi mutati. Altre volte poi ci sono compagni che, pur riconoscendo il mutamento, nella contemporaneità, della composizione tecnica del lavoro vivo (rispetto a quella dell’industrialismo) rifiutano tuttavia di tradurla in un’idea adeguata di composizione e di organizzazione politiche.
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Sul potere sociale della scienza e della tecnologia (II)
di Sebastiano Isaia
Alcune riflessioni intorno alla natura storico-sociale della scienza e della tecnologia, sul concetto di uso capitalistico delle macchine, sul “neoluddismo” e sulla possibilità di una scienza e di una tecnica pienamente – o semplicemente – umane [Qui la prima parte]
Prolungate, le linee conducono
all’intreccio sociale (T. W. Adorno).
1.
I nuovi sistemi digitali di controllo del lavoro, come quelli basati sulla tecnologia messa a punto dalla Motorola, permettono di calcolare in tempo reale, e con la precisione caratteristica delle nuove tecnologie “intelligenti”, la produttività oraria di ogni lavoratore. La singola ora di lavoro viene “virtualmente” dilatata attraverso un numero discreto di operazioni standardizzate e monitorate da un piccolo tablet che il lavoratore indossa come fosse un braccialetto elettronico. Secondo dopo secondo il lavoratore riceve ordini e informazioni dal tablet, e in ogni momento sa se sta rispettando – al secondo! – la tabella di marcia; egli soprattutto sa che in base ai risultati ottenuti gli verranno assegnati o tolti dei punti. Il cronometro di Frederick Taylor, al confronto, fa sorridere quanto a efficacia e a disumanità. Non mi sorprenderei se a fine giornata il lavoratore odiasse a morte la “macchina intelligente” che lo controlla e lo incalza secondo dopo secondo. «Concepito per un utilizzo continuativo, il tablet Wi-Fi ET1, è predisposto con un accesso protetto da password e può essere condiviso tra più lavoratori in modo immediato. Ogni lavoratore potrà accedere alle sole applicazioni abilitate, secondo il livello di responsabilità. Il manager potrà quindi controllare l’utilizzo e garantire che la produttività sul lavoro non sia compromessa.
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Speciale C 17
Nello speciale:
Francesco Raparelli, Comunismo o il segno del possibile
Franco Berardi Bifo, Stelle granchi astronavi e comunismo
Commento di Ennio Abate
* * * *
Comunismo o il segno del possibile
Francesco Raparelli
Migliaia di persone, per cinque giorni di fila, hanno letteralmente invaso i dibattiti di C17 – La conferenza di Roma sul comunismo, tanto a Esc quanto alla Galleria Nazionale. In migliaia hanno attraversato la mostra Sensibile comune(presso La Galleria Nazionale), alla conferenza connessa. Un successo straordinario, destinato a lasciare il segno. Successo ancora più potente se si concentra l'attenzione sul tema: il comunismo. Una parola dimenticata, offesa, impronunciabile, maledetta, che ancora non smette di attirare l'odio delle penne forcaiole, d'improvviso riconquista la scena. E la scena esplode di corpi, di controversie e di passioni. Sarebbe accaduta la stessa cosa se si fosse deciso di parlare d'altro? Magari temi radicali, ci mancherebbe, omettendo però la parola comunismo? La risposta è netta: no.
Obiezioni facili, soprattutto per chi parla e scrive prima di vedere o preferisce parlare senza aver visto dal vivo, senza aver toccato l'evento: “una riunione di nostalgici, affollata sì, ma favorita dal centenario”; “la solita sinistra extraparlamentare italiana, tanti ma sconfitti”.
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Euro o non Euro, questo è il problema (tedesco)
di Militant
Sul CorriereEconomia dello scorso 9 gennaio Marcello Minenna si chiedeva “cosa c’è dietro il successo dell’export tedesco?”, arrivando alla clamorosa risposta: “il segreto? Nell’euro debole”. E grazie al cazzo, verrebbe da dire, visto che da anni parte importante della comunità politica ed economica, nazionale e internazionale, individua proprio nell’euro il problema originario della crisi europea. Ma Minenna, sebbene buon ultimo, ancora non coglie il problema nella sua ampiezza, che non sta in un “euro debole”, ma nell’euro in quanto tale. La debolezza altro non è che l’inevitabile direzione impressa dall’economia tedesca, visto che se l’euro si apprezzasse proporzionalmente alla sua produttività, la Germania andrebbe in crisi economica e tutto il circo europeista crollerebbe un minuto dopo. Ma nell’articolo si citano un po’ di dati interessanti:
“il surplus commerciale tedesco per l’anno appena passato raggiungerà il valore stratosferico del 9,2% del Pil, circa 260 miliardi di euro. Il più alto del mondo, superiore a quello della Cina anche in valore assoluto per oltre 30 miliardi di euro […] La Germania dunque da oltre 16 anni continua ad esportare più di quanto importi, accumulando crediti finanziari nei confronti del resto del mondo; in pratica da quando è nata l’Unione monetaria. E non si tratta di una coincidenza”. E no, non si tratta di una coincidenza. La relativa stabilità economica tedesca è garantita unicamente dalle sue esportazioni, visto che la domanda interna è in depressione da anni e solo ultimamente vede una leggerissima ripresa (nell’ordine dell’1%).
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L'euro è alla frutta e Draghi prepara il conto
di Leonardo Mazzei
Bella scenetta al ristorante "Euro". Mentre è sempre più chiaro come la moneta unica sia alla frutta, il gestore di questa trattoria dai piatti immangiabili prepara il conto nel retrobottega. I signori vogliono uscire per andarsene a prendere un po' d'aria fresca? Che prima passino alla cassa, perché se per molti commensali il pranzo è stato indigesto, il conto sarà salato proprio per loro.
Di cosa stiamo parlando? Di questa notizia lanciata dalla Reuters e commentata da Tyler Durden. Il succo è in questa frase di Mario Draghi:
«Se un paese dovesse lasciare l’Eurosistema, i crediti o le passività della sua banca centrale nazionale verso la BCE dovrebbero essere risolti in toto».
Davvero un'affermazione interessante, nella quale il capoccia dell'euro ci dice due cose: che l'uscita dall'eurozona di uno o più dei suoi membri è ormai messa nel conto; che la Bce si erge a tutrice degli interessi tedeschi.
Eh, come cambiano i tempi! Finita da quel dì la fila per entrare nella gabbia dall'euro, adesso si annuncia quella per uscirne. E lorsignori si attrezzano.
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Donald Trump. Che cosa avrebbe detto Lasch?
di Claudio Giunta
Christopher Lasch aveva capito tutto? Chi ha letto i suoi libri se lo sta domandando da qualche tempo, a mano a mano che in Occidente i partiti di sinistra hanno perso appeal sul loro elettorato tradizionale, e soprattutto dopo che un mese fa Donald Trump, «il demagogo che afferra le donne per la fica, che costruisce il muro, che nega il riscaldamento globale, che abolisce la sanità pubblica, che evade le tasse, che spande merda dalla bocca» (Jonathan Pie: non perdetevi il suo video girato la mattina del 9 novembre), è stato eletto presidente degli Stati Uniti.
Lasch (1932-1994) è stato uno dei più originali e influenti intellettuali americani della seconda metà del Novecento. Per fissarne il profilo in poche parole si possono usare quelle che un suo coetaneo, il sociologo Neil Postman, ha adoperato per descrivere se stesso:
«Io sono quello che si può chiamare un conservatore. Questa parola, naturalmente, è ambigua, e il significato che le date può essere diverso da quello che le do io. Forse ci capiamo meglio se dico che dal mio punto di vista Ronald Reagan è un radicale. È vero che parla in continuazione dell’importanza della difesa di istituzioni tradizionali come la famiglia, l’infanzia, l’etica lavorativa, il sacrificio personale e la religione.
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Fiato sprecato
di Sergio Cesaratto
Intervento al Seminario internazionale, Europe…What’s Left? organizzato da: transform! europe, transform! italia, Rosa Luxemburg Stiftung e Alternative per il Socialismo, sulle “22 tesi per l’Europa”, 20 gennaio 2017, Casa Internazionale delle Donne, Roma
Farò un discorso molto franco. Non c’è molto nelle 22 tesi qui discusse (e in calce riprodotte) con cui mi senta d’accordo. Andando subito al punto, si paga un lip service allo Stato nazionale mentre nei fatti si afferma che nulla di decisivo può essere effettuato a quel livello. Si cita a tal riguardo il caso di Syriza che lo dimostrerebbe. Ma è esattamente l’opposto! Quella tragica vicenda proprio dimostra che nulla è possibile a livello europeo e che ci si deve attrezzare a livello nazionale. Al riguardo ho ascoltato Paolo Ferrero affermare cose piuttosto confuse: disubbidire ai Trattati sino alla rottura, dunque ritorno alla dimensione nazionale, però no perché si rompe per cambiare le regole europee. Un po’ di concretezza per favore.
Nel documento c’è scarsa consapevolezza su tre questioni:
(a) Lo Stato nazionale è il terreno in cui storicamente si è sviluppato negli ultimi secoli i conflitto sociale, e dunque la democrazia. I disegni sovranazionali e la globalizzazione sono disegni liberisti volti proprio a smantellare quel terreno di conflitto spostando altrove i centri di potere, liberalizzando i movimenti del capitale e del lavoro. Robert Gilpin – uno dei fondatori della International Political Economy – scrisse chiaramente come due siano le correnti internazionaliste: i liberisti e i marxisti, cui si oppone la tradizione che nasce col mercantilismo, prosegue con List ecc. del Developmental State, del nazionalismo economico volto al riscatto economico e dunque sociale del proprio paese.
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Toni Negri e i “post-operaisti”: l’utopia funzionale alla globalizzazione capitalista?
Fabrizio Marchi
“La globalizzazione è stata qualcosa di estremamente importante per i popoli del terzo mondo. Milioni e milioni di persone che attraverso la globalizzazione dei mercati sono state tirate fuori dalla miseria. Credo che anche l’Occidente ci abbia guadagnato molto”.
Non sono parole di economisti liberisti come Von Hayek o Milton Friedman, ma di Toni Negri, filosofo, comunista, padre dell’operaismo degli anni ’60 e ’70, leader dell’area cosiddetta “post-operaista” – come vengono appunto definiti coloro che provengono da quell’esperienza politica – intervistato dal giornalista Gianluigi Paragone a “La Gabbia” pochi giorni fa, in occasione del seminario “Comunismo 17” organizzato a Roma presso l’Atelier Autogestito Esc dal 18 al 22 gennaio:
Interessante notare che nella stessa trasmissione, subito dopo di lui, l’imprenditore e uomo politico di area liberale Franco De benedetti, canterà più o meno le stesse lodi della globalizzazione, aggiungendo che quest’ultima, oltre a migliorare le condizioni di vita di milioni e milioni di persone, ha contribuito anche a portare diritti e democrazia dove non c’erano.
I due, Negri e De Benedetti, partono da approcci diversi e hanno finalità e orizzonti diversi (per lo meno in teoria), ma la direzione di marcia, come vediamo, è esattamente la stessa.
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Per la formulazione di una teoria più generale
Gianfranco La Grassa
Avvertenza: uso reale, realtà, ecc. per indicare ciò che ritengo esistente nel suo senso più vero e oggettivo, indipendentemente dalle scelte umane. Indico invece con “reale”, “realtà”, ecc. – cioè mettendovi le virgolette – ciò che l’essere umano costruisce con il suo pensiero nel tentativo di rappresentare il realmente esistente
1. Vediamo di chiarire alcuni punti essenziali di una possibile teorizzazione. Intanto è necessario vi sia, come sempre o quasi, un postulato, qualcosa che si ponga quale premessa impossibile a dimostrarsi; nemmeno ve n’è però la necessità poiché il postulato assolve una duplice funzione “pratica”: 1) fornire un punto di partenza per una serie di argomentazioni che dovranno proseguire fra loro concatenate in successione, ognuna delle quali è quindi premessa alla successiva, per cui vi è bisogno di un inizio senza premessa alcuna; 2) esprimere la concezione generale che chi lo pone ha della “realtà” in cui si “sente” immerso (o se la trova, cioè immagina, davanti a sé, ecc.).
Il postulato da cui parto afferma la nostra esistenza e il nostro movimento in una “realtà” situata all’esterno di noi e con cui entriamo in interazione, non essendone però parte costitutiva. Probabilmente non è così, probabilmente lo siamo invece, siamo strettamente intrecciati e connessi alla realtà. Tuttavia, si pensa di esserne all’esterno perché è ben difficile immaginare un altro modo di muoversi e agire che non implichi preliminarmente la semplice interazione con un mondo al di fuori di noi. Quest’ultimo viene da me considerato in continuo squilibrio, come fosse un fluire disordinato, casuale, indistinto, privo di forma definita e di parti costitutive.
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Come Trump reagisce alle critiche, mettendo in crisi media ed esperti
di Dino Amenduni
La vittoria elettorale di Donald Trump ha messo in crisi molte certezze sulla comunicazione politica.
In alcuni casi l'effetto del successo del tycoon repubblicano ha creato una sorta di effetto-panico, soprattutto tra i consulenti politici la cui utilità è stata persino messa in discussione: Trump ha infatti vinto utilizzando un budget più basso rispetto a quello impiegato da Mitt Romney nel 2012 e spendendo un terzo in meno rispetto a Hillary Clinton.
Inoltre, per lunghi mesi, si è teorizzato che Clinton avesse una comunicazione e un'organizzazione della campagna elettorale molto scientifica, mentre Trump fosse invece il campione della mossa a effetto e dell'improvvisazione: in realtà, come è stato ampiamente dimostrato, la capacità del neo-presidente degli Stati Uniti di utilizzare i dati laddove era davvero necessario farlo (cioè vincendo negli Stati in bilico, in particolare nel Michigan, Wisconsin, Pennsylvania e Florida, necessari per ottenere la maggioranza dei grandi elettori senza ottenere la maggioranza assoluta dei voti) si è rivelata superiore a quella dei ben più accreditati avversari.
In altri casi invece la sfida che il modello-Trump ha lanciato al giornalismo e alla comunicazione politica per come è stato immaginato sinora è grande e gli effetti di questa sfida sono ancora tutti da decifrare.
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Automazione e disoccupazione tecnologica. Sharing e gig economy
di Carlo Formenti
Proponiamo un adattamento dell’intervento di Carlo Formenti all’iniziativa organizzata da Noi Restiamo al Politecnico di Torino il 10 maggio 2016. L’intervento non è stato rivisto dal relatore ed eventuali errori sono quindi da considerarsi a carico nostro. Il titolo è redazionale
Parte I
Il lavoro che ho fatto negli ultimi 10-15 anni all'Università del Salento è stato in larga misura dedicato alla sociologia della rete che oggi, da quando sono felicemente approdato alla pensione, continuo a proseguitare; il giorno dopo che ho smesso di insegnare Teoria e tecnica dei nuovi media sono felicemente tornato a quelli che sono sempre stati i miei interessi fondamentali, che riguardano il socialismo economico e la sociologia politica. E ogni volta che mi tocca sentire qualcuno che mi telefona e mi dice "Professore, perché non viene a questo incontro su Internet e la società", subito mi si rizzano i capelli sulla testa; nel senso che in qualche modo dà per scontato che esista una sfera autonoma della dimensione della tecnologia e della rete come articolazione attuale della dimensione della tecnologia non sovradeterminata dai processi economici, politici, sociali, culturali e quant'altro. E che, viceversa, oggi sia possibile ragionare dei processieconomici, politici, sociali e culturali prescindendo dal fatto che ormai le tecnologie di rete sono parte della nostra vita quotidiana, del nostro lavoro e delle relazioni sociali, del nostro viaggiare, sentire, stringere amicizie, ecc. Quindi, tendo sempre a riportare il tema a degli aspetti molto più determinati e specifici; in particolare, per quanto riguarda la questione del rapporto tra nuove tecnologie e lavoro, metterò a fuoco un aspetto molto particolare, che è quello di Uber, più altre esperienze che vengono variamente denominate di "sharing economy" o, negli Stati Uniti, di "gig economy", con una apertura più ampia rispetto al discorso e secondo me più interessante per il ventaglio di fenomeni che viene preso in considerazione.
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A chi serve la scuola dell’ignoranza?
di Matteo Saudino*
Che, in Italia, i continui appelli alla meritocrazia non fossero altro che un ideologico feticcio usato per smantellare i diritti dei lavoratori e degli studenti avrebbe dovuto essere chiaro quasi a tutti sin da subito, ma si sa che non vi è peggior sordo di chi non vuole sentire e peggior cieco di chi non vuol vedere. Inoltre, indicare il dito per non guardare la luna è una tecnica di distrazione di massa sempre attuale e sempre efficace. Pertanto, per anni, il mantra del merito come panacea di tutti i mali italici è stato ripetuto, con vigore misto ad arroganza, dagli esponenti del governo, dai giornalisti e dagli intellettuali che contano perché lavorano e scrivono per testate che contano, o così almeno si dice.
Insegnanti vecchi, migliaia di docenti precari, salari bassi, edifici pericolanti, dispersione scolastica in aumento, classi pollaio, laboratori obsoleti, palestre inagibili: niente… secondo i presidenti del consiglio, i ministri dell’istruzione, le maggioranze di governo e gli opinionisti di grido, tali aspetti erano e sono secondari, se non addirittura irrilevanti (almeno sino a quando non crolla un soffitto o una parete che uccide “accidentalmente” qualche studente e a cui seguono le rituali lacrime di coccodrillo). Il vero, grande e irrisolto problema della scuola italiana sembrava essere, in modo inequivocabile, la scarsa meritocrazia che regnava tra gli insegnanti e gli studenti (nonostante studi internazionali collocassero le nostre elementari e i licei ai primi posti al mondo come percorso formativo).
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Care élites globaliste, Trump è un accettabile compromesso
N0n vi date la zappa sui piedi
di Quarantotto
ANTEFATTO- (ANSA) - "Ricostruiremo il Paese con mani americane e posti di lavoro americani": lo ha detto Donald Trump...
Il sito della casa Bianca passa all'amministrazione Trump. E subito si hanno le indicazioni di quelle che potrebbero essere le prime mosse del 45mo presidente americano. "La nostra strategia parte con il ritiro dalla Trans-Pacific Partnership e dall'accertarci che gli accordi commerciali siano nell'interesse degli americani". Il presidente Trump è impegnato a rinegoziare il Nafta", l'accordo di libero scambio con Canada e Messico, e se i partner rifiutano di rinegoziare il presidente insisterà sulla "sua intenzione di lasciare l'accordo di libero scambio del Nafta"
Hanno fatto il deserto e lo chiamano pace; hanno distrutto la democrazia, rendendola un triste rito idraulico, e lo chiamano politically correct; hanno calpestato e umiliato miliardi di esseri umani e lo chiamano "futuro".
1. La vulgata tristemente trasmessa dalla solita grancassa, in affrettata frenesia para-espertologica, spinna disperatamente i termini di "protezionismo" e di "turbonazionalismo".
Dunque, viene chiamato protezionismo qualsiasi freno al globalismo liberoscambista che si continua a contrabbandare come promotore di crescita e di benessere diffusi, contro ogni evidenza (pp.4-6) dei dati economici mondiali degli ultimi decenni, che indicano la flessione della crescita e il dilagare della concentrazione di ricchezza, nonché di disoccupazione e, soprattutto, sotto-occupazione, come frutto di tale paradigma.
Un paradigma che, per essere precisi, è la conseguenza non di irresistibili fenomeni naturalistici, ma essenzialmente di imposizioni derivanti da risoluzioni di organismi economici sovranazionali, che hanno alterato radicalmente (v. p.9) il mandato, cooperativo e riequilibratore, originariamente previsto dai trattati che li hanno istituiti, ovvero di imposizioni poste da nuovi trattati che hanno dato luogo al fenomeno del "diritto internazionale privatizzato": privatizzato sugli interessi della ristretta elite che ne impone il contenuto attraverso la sistematica capture dei delegati statali che vanno a negoziare (come ci attesta la lettura di "The Bad Samaritans").
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Il pachiderma sospeso sul filo
Brevi considerazioni su referendum, Cgil e dintorni
di CortocircuitO
1. Non è necessaria alcuna dietrologia riguardo la bocciatura del referendum sull’articolo 18 da parte della Corte costituzionale. L’errore commesso dalla Cgil non è tecnico. E’ politico. E’ di strategia. Si trattava di un quesito referendario “taglia e cuci”. Invece di puntare a un’abrogazione complessiva del Jobs Act, interveniva di cesello. I giuristi che l’hanno scritto non hanno fatto altro che tradurre nel loro linguaggio l’impostazione politica della Cgil: nessuno scontro frontale, ma tanta responsabilità.
2. La corte costituzionale ha dato un giudizio politico. Ha fatto quel che Governo e Confindustria, chiedevano. Un brutto risveglio per la sinistra costituzionalista fresca dei propri sogni di gloria dopo il 4 dicembre: in una società divisa in classi, non esistono organismi sopra le parti. Tanto meno lo sono le funzioni dello Stato.
3. Prima e dopo il 4 dicembre avevamo scritto quanto fosse fallace l’illusione di sconfiggere le politiche di Renzi passando da una stagione referendaria all’altra. E il punto rimane questo: non si è mai vista una sola questione di classe realmente dirimente che sia stata risolta per via referendaria o per voto democratico.
4. L’articolo 18 non ha un peso economico diretto: non ha mai impedito licenziamenti, esternalizzazioni o chiusure di aziende. Ma è un elemento psicologico fondamentale nei rapporti di forza tra le classi. La libertà di licenziamento è per i padroni una sorta di pistola alla tempia.
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Marco Minniti. Quest’uomo è una sicurezza
di Antonio Mazzeo
Contrasto delle migrazioni “irregolari”, gestione dell’ordine pubblico e repressione del dissenso. Con Marco Minniti al Viminale si annuncia un giro di vite alla vigilia di importanti appuntamenti come il G7 a Taormina e le elezioni politiche
Quello guidato da Paolo Gentiloni è davvero il governo fotocopia di Matteo Renzi? La promozione di Domenico “Marco” Minniti da sottosegretario con delega ai servivi segreti a ministro dell’Interno rappresenta una novità più che inquietante alla luce dei nuovi programmi di contrasto delle migrazioni “irregolari” o di gestione dell’ordine pubblico e repressione del dissenso. Non è certo un caso, poi, che il cambio al Viminale avvenga alla vigilia dei due appuntamenti internazionali che hanno convinto a rinviare sine die la fine della legislatura: la celebrazione del 60° anniversario della firma del Trattato istitutivo della Cee (il 25 marzo a Roma), ma soprattutto il vertice dei Capi di Stato del G7 a Taormina il 26 e 27 maggio. Marco Minniti, di comprovata fede Nato, vicino all’establishment ultraconservatore degli Stati Uniti d’America e alle centrali d’intelligence più o meno occulte del nostro Paese appare infatti come il politico più “adeguato” per consolidare il giro di vite sicuritario sul fronte interno e strappare a leghisti e centrodestra il monopolio della narrazione sul “pericolo” immigrato. Curriculum vitae e trame tessute in questi anni ci spiegano come e perché.
Originario di Reggio Calabria, una laurea in filosofia e una lunga militanza nel Pci prima, nel Pds e nei Ds dopo, nel 1998 Minniti viene chiamato a ricoprire l’incarico di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio (premier l’amico Massimo D’Alema), anche allora con delega ai servizi per le informazioni e la sicurezza; l’anno seguente, con le operazioni di guerra Nato in Serbia e Kosovo, Minniti assume il coordinamento del Comitato interministeriale per la ricostruzione dei Balcani.
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