Le parole e i fatti
di Piero Pagliani
Basta fatti. Vogliamo parole!
Così diceva Gasparazzo, l'eroe proletario delle strisce di Lotta Continua.
E Donald Trump parla, parla, parla. Parla in modo incontenibile.
Finora il peggio di sé lo ha dato affermando:
1) Se Hamas non libera gli ostaggi scatenerò l'inferno.
2) Farò concludere la guerra in Ucraina minacciando Zelensky di tagliargli gli aiuti e, al contrario, minacciando Putin di aumentarli.
3) Non escludo di usare la forza per controllare Panama e la Groenlandia.
Partiamo dal primo punto, cioè più in generale dal Medio Oriente.
Dopo 16 mesi di bombardamenti genocidi su Gaza, l'Idf non è riuscito a venire a capo di un esercito informale palestinese scarsamente armato, senza aviazione, senza antiaerea, senza artiglieria, senza forze corazzate. Anzi, fonti israeliane affermano che sempre più giovani entrano nelle fila di Hamas e le perdite nell'Idf aumentano. E come previsto da molti, Israele nel sud del Libano ha in poco tempo dovuto imbastire una tregua con Hezbollah.
Il rovesciamento di al-Assad è stato indubbiamente un brutto colpo per la Russia e l'Iran, e soprattutto per i Siriani, ma la situazione ora è caotica. Nessuna forza in campo sembra essere in grado di controllare né un processo di ricostruzione del Paese né un processo di sua balcanizzazione. L'Occidente e Israele stanno capendo che mentre il governo di al-Assad era prevedibile in quanto i suoi obiettivi erano razionalmente descrivibili e valutabili, la sua uscita di scena ha dato la stura a vari interessi che si differenziano geopoliticamente, materialmente e ideologicamente creando un buco nero di intelligibilità e di operatività. I vari attori procedono sfruttando questa o quella situazione di forza, questa o quella opportunità, senza un piano coerente e facendo scontrare una contro l'altra le loro strategie che più sono “grandi” e “comprensive” più sembrano sfrangiarsi in percorsi locali dietro ai quali ogni tanto fanno capolino sontuosi proclami, del tipo: “Dopo Damasco, Gerusalemme!” [1].
In questa situazione può non essere esagerato parlare di una possibile guerra tra Turchia e Israele, guerra ombra o guerra aperta [2].
Quando Usa, UK e Israele bombardano la capitale yemenita Sana'a - per pura rappresaglia dato che è chiaro che le postazioni di lancio di missili e droni non si trovano lì - dopo più di un anno dall'inizio dell'operazione Prosperity Guardian che ha visto quella che sulla carta è la più potente marina del mondo contrapporsi a forze armate vistosamente inferiori, senza riuscire a fermarle, quando ciò accade, vuol dire che stiamo assistendo a un'ammissione di impotenza. Il traffico nel Mar Rosso è ancora tenuto in scacco da Ansar Allah (gli Houti), e lo è perché Israele continua le sue azioni criminali contro la popolazione palestinese e l'Occidente non intende fermarle, se non a parole.
Vuole, l'Occidente, iniziare, o meglio riprendere, un'altra guerra di sterminio nello Yemen perché non vuole fermare quella a Gaza? Attenzione alla risposta, perché il mondo prende nota.
Il Medio Oriente sembra dunque un concentrato di quel caos sistemico nel quale nel corso della Storia le potenze via via dominanti si sono sempre perse.
Ora, se si prendono sul serio le parole di Trump bisogna concludere che gli USA cercando di espandere a dismisura un dominio già ora insostenibile finiranno per accelerare il proprio processo di “de-egemonizzazione” nel tentativo di raggiungere l'opposto obiettivo. Se si vuole invece accreditare il Trump collettivo di razionalità, dobbiamo ipotizzare che le affermazioni bombastiche di The Donald, non solo su Gaza, servono a coprire un sotterraneo processo di negoziazione e poter poi farne apparire gli esiti come il risultato delle “maschie” dichiarazioni del nuovo Potus (President Of The United States). Si noti che se in effetti Hamas rilasciasse gli ostaggi, Trump oltre che a ergersi come eroe di fronte alla lobby e all'elettorato ebraico potrebbe usare questo successo per togliere il terreno sotto ai piedi del gruppo dirigente israeliano “disarmandone” le mire e i disegni che possono intralciare quelli della nuova amministrazione. Si noti che l'Inviato Speciale di Trump per il Medio Oriente, Steven Witkoff, fa parte del team che sta attualmente negoziando con Hamas e che Trump ha pubblicato sul suo canale Truth Social l'intervista rilasciata dal professor Jeffrey Sachs alla storica società di dibattito e libertà di parola Cambridge Union, piena di le invettive contro Netanyahu e l'intera politica estera statunitense [3].
Se l'ipotesi è vera, come questi indizi dimostrerebbero, ciò significherebbe che la nuova amministrazione, al di là delle sue roboanti intemerate e i cristiano-sionisti che vi sono stati infilati, non intende farsi invischiare in un Medio Oriente sempre più incasinato e ingestibile essendo i suoi principali problemi strategici e geopolitici altrove.
Un ragionamento simile si può applicare alle dichiarazioni sull'Ucraina, cioè al punto 2. Le minacce a Putin si alternano alle dichiarazioni da parte del President-elect e del suo entourage che il presidente russo è interessato a un incontro, ma si intersecano anche con gli ironici dinieghi del Cremlino e con l'allungamento dei tempi per “imporre la pace” (si è passati dalle famose 24 ore a 6 mesi) [4].
Riguardo ai tempi per un incontro tra Trump e Putin e ai termini di un'eventuale negoziazione, occorre fare molta attenzione alle informazioni che vengono fornite in questa fase al nuovo presidente statunitense.
Da Clinton in poi la CIA si è politicizzata nel senso che ha iniziato a produrre rapporti sempre più lontani dalla realtà e sempre più vicini ai neocon, cioè supportivi dei loro piani e della loro ideologia a scapito dell'oggettività [5]. Ciò che rimbalza sulla bocca del Presidente e dei suoi uomini è dunque un'alterazione politica e ideologica della realtà, anche quando pretende di enunciare fatti.
In una delle sue dichiarazioni più famose e recenti, Trump ha parlato di 600.000 caduti russi e 400.000 caduti ucraini. Mentre la prima cifra è un'informazione banalmente falsa (anche i siti russi più ostili a Putin e filoccidentali, come Media Zona, parlano di 90.000 caduti), la seconda cifra pur essendo meno della metà di quella reale (all'incirca un milione di morti secondo le stime più prudenti, in linea con la “differenza del volume di fuoco” dei due eserciti riscontrata dagli analisti militari, da 1:10 a 1:12 in favore dei Russi) è tuttavia largamente superiore a quella ufficiale di Kiev (90.000, cioè esattamente quella reale russa in una sorta di ribaltamento delle parti).
Sembra dunque che alla Presidenza vengano ora fornite informazioni che escludono ogni possibilità di vittoria da parte sia di Kiev sia di Mosca e quindi suggeriscono di spingere verso il “congelamento” del conflitto, soluzione che tuttavia non verrà mai accettata da Mosca, il cui mantra è “Accordi di Istanbul rivisti alla luce della situazione oggi sul campo” (che è sempre più a favore della Russia).
L'ex funzionario della CIA, Roy MacGovern - un signore che negli anni Ottanta presiedeva la stesura dei National Intelligence Estimates che servivano al briefing presidenziale giornaliero - ha infatti invitato a non scordarsi e a prendere sul serio gli obiettivi elencati da Putin al momento dell'invasione, cioè demilitarizzazione e denazificazione dell'Ucraina. Gli altri, tipo “prendere Kiev” o “conquistare tutta l'Ucraina”, sono stupidaggini occidentali, mai stati all'ordine del giorno (per non parlare delle scemenze della Russia che vuole conquistare l'Europa, riedizioni del “Testamento di Pietro il Grande” [6]).
Per quanto riguarda lo scambio dei territori russi nell'oblast di Kursk in mano alle truppe di Kiev con territori ucraini in mano a quelle di Mosca, è meglio metterci una pietra sopra. I primi sono sempre più ridotti nonostante Kiev vi immoli una brigata dopo l'altra nel disperato tentativo di mantenere almeno un fazzoletto di terra russo e far vedere il suo zelo a Washington e specialmente a Londra.
Non è un comportamento nuovo:
«Avendo visto dall'altra parte les Cosaques e la distesa delle steppe (les Steppes), al centro delle quali sorgeva Moscou, la ville sainte, la capitale di quello stato paragonabile all'impero degli Sciti dove si era spinto Alessandro il Macedone, tra la sorpresa generale e in più in contrasto con ogni considerazione strategica e diplomatica, Napoleone ordinò l'avanzata, e l'indomani le sue truppe cominciarono a varcare il Niemen. […]
Era stato impartito l'ordine di trovare un punto della corrente ove poter passare a guado, e di varcare il fiume. Il comandante degli ulani polacchi, un uomo anziano di bell'aspetto, arrossendo e confondendosi per l'emozione, chiese all'aiutante se gli fosse consentito attraversare il fiume coi suoi ulani senza cercare il guado. Chiedeva che gli fosse concesso di attraversare la corrente sotto gli occhi dell'imperatore. [...]
Nel fiume affogarono quaranta ulani nonostante le barche inviate a soccorrerli. La maggior parte tornò indietro, riguadagnando la riva donde erano partiti. Il colonnello e alcuni uomini attraversarono il fiume e risalirono a fatica l'altra sponda. Ma non appena usciti dall'acqua con le uniformi zuppe che gli si appendevano al corpo e ruscellavano d'acqua, si misero a gridare «Evviva!», guardando estatici il punto dove poco prima c'era Napoleone, ma dove adesso non c'era già più. E in quel momento si credettero felici.»
(Lev Tolstoj “Guerra e pace”, Libro III, Parte I, Capitolo II.)
Veniamo quindi al terzo punto, cioè a Panama e alla Groenlandia (e volendo anche al Canada):
Così recentemente Trump: «Non ho intenzione di impegnarmi su questo [l'esclusione della forza militare] ... Potrebbe darsi che occorra fare qualcosa. Il Canale di Panama è vitale per il nostro Paese... Abbiamo bisogno della Groenlandia per scopi di sicurezza nazionale».
Premesso che dell'acquisizione della Groenlandia ne parlava anche Biden, il problema è questo. A Panama da 25 anni la Cina sta sviluppando importanti interessi, centrati sulla gestione dei porti e le rotte commerciali. Dal canto suo “Groenlandia” vuol dire rotte artiche. E Trump lo dice apertamente: Non possiamo permettere il via vai di navi russe e cinesi, commerciali e, ovviamente, militari [7].
Anche Trump è un suprematista americano, benché non della razza “ideologica” ma di quella “realista” e ha una nozione più vicina alla realtà della situazione.
Penso ad esempio che a Trump abbiano detto che la Russia sta costruendo la più potente flotta di rompighiaccio nucleari del mondo e che attualmente la Federazione Russa può schierare 60 rompighiaccio e gli Stati Uniti solo 2, di cui uno è andato a fuoco [8]. L'acquisizione della Groenlandia servirebbe dunque ad avere voce territoriale-militare in capitolo sulle nuove rotte, non potendo competere per esse tecnologicamente, industrialmente e commercialmente. Si tenga conto che la flotta commerciale statunitense è lo 0,4% di quella mondiale [9].
Lo stesso discorso vale per Panama.
L'interpretazione più benevola è che, in puro stile da boss degli affari malato di narcisismo, Trump stia facendo la voce grossa per negoziare al meglio con la Cina e la Russia, ancora una volta cercando di controbilanciare con la forza territoriale (politica e militare) una decrescente forza economica [10].
La peggiore interpretazione è che se continuerà su questa china, con la Russia e la Cina rischierà una guerra cinetica. E magari anche con la Danimarca, ammesso che l'ipotetico piano non sia invece una classica “rivoluzione colorata” dopo avere sfiancato Copenaghen con sanzioni.
È comunque da spiegare perché agli Usa non basti il controllo indiretto della Groenlandia via Nato.
Excursus
In realtà non è da escludere che una delle possibilità che il Trump collettivo sta esplorando sia quella di prendere il controllo del continente americano e ivi “isolarsi” parzialmente, come ipotizzato recentemente da Pierluigi Fagan [11].
Possiamo metterla nel modo seguente. Dopo la II Guerra Mondiale il presidente Truman decise di dividere il mondo in due, la parte “libera” e la parte “non libera”, per poter avviare l'operazione di ricostruzione e di rilancio dell'economia limitatamente alla parte “libera”, in contrasto col piano di New Deal universale immaginato dal suo predecessore, Roosevelt. In questo modo riuscì a superare le ritrosie di un Congresso conservatore dal punto di vista fiscale e permettere il riciclaggio nell'espansione del commercio e della produzione mondiali della liquidità controllata dagli Stati Uniti. Trump potrebbe voler fare una cosa simile ritagliando il continente americano dal resto del mondo e ponendolo sotto il controllo di Washington. Le “distanze strategiche” sarebbero più favorevoli (relativa vicinanza e niente bisogno di traversare oceani infestati da sottomarini e navi da guerra ostili) e sulla carta si raggiungerebbe una massa critica importante in termini di persone e risorse. Un quadro teoricamente pensabile e politicamente attraente per gli Usa, ma con molti “però”. Che geografia sarà privilegiata dallo sviluppo scientifico e tecnologico, che geografia svilupperanno le catene del valore e le possibilità di estrazione del profitto e di accumulazione? Che resistenza opporranno i Paesi interessati?
È veramente possibile la riproposizione di quanto gli Stati Uniti fecero con l'Europa Occidentale alla fine della II Guerra Mondiale? Allora gli Usa avevano tutto, concentravano liquidità e produttività mondiali, e gli altri Paesi o avevano poco o avevano niente. Non solo, ma la divisione del mondo era stata concordata a Yalta. La costruzione di un mondo diviso in due era quindi più facile e tuttavia facile non fu nemmeno allora. Ora gli Usa sono immersi nella crisi, sono in preda a un'economia finanziarizzata e grandi competitor li fronteggiano in ogni settore e in ogni punto cardinale. Le economie nel continente americano sono già intrecciate con quelle eurasiatiche così come, con alti e bassi, le loro politiche. È difficile pensare che queste condizioni possano essere azzerate e che gli Usa riescano a ricostruire a propria immagine e somiglianza tutto il continente americano. Un continente che oltretutto finora gli Stati Uniti hanno in buona parte concepito o in propria funzione subordinata o come ostile se ciò non era possibile. Il rapporto centro capitalizzato-periferia relativamente non capitalizzata è funzionale all'accumulazione. Un centro ha bisogno di una periferia. Problema che si porrebbe sia nella costruzione di una, diciamo così, “Grande America americanizzata”, sia nel rapporto tra un'eventuale Grande America americanizzata e gli altri centri. Cosa che ci riporta alla domanda, cruciale, se un mondo multipolare sia capitalisticamente concepibile e fattibile. Domanda che avevo già posto in “Slittamenti di paradigma” e a cui ancora non so dare una risposta [12].
Le parole, i fatti e la crisi
Facciamo voti che Trump voglia in realtà negoziare? Sì, facciamo voti. Ma non dobbiamo dimenticarci la crisi sistemica dell'economia-mondo a guida statunitense. Se Trump intende realmente negoziare, questo vorrà dire che la sua amministrazione e le forze che la sostengono stanno puntando sull'adattamento dopo aver verificato che la via della difesa a oltranza dell'egemonia mondiale statunitense è impraticabile. Ma questa scelta strategica, la più desiderabile, si scontra con un macro fattore: i mastodontici interessi concentrati nella sfera finanziaria o relativi alla cosiddetta “economia reale” ma legati a quelli finanziari in modo vitale. Interessi che poggiano sulla supremazia statunitense.
La differenza tra i valori finanziari e quelli dovuti alla produzione e al commercio si è ampliata in modo smisurato, con i primi che non hanno più alcun rapporto coi secondi e li superano per ordini di grandezza. Una differenza che è esito del lungo lavoro di valvola di sfogo che la finanziarizzazione dell'economia ha costituito per la crisi dal Nixon shock in poi.
La riorganizzazione della divisione occidentale del lavoro, che passa per la sedicente “transizione ecologica” (ma col “negazionista” Trump prenderà altre forme) e sfrutta la guerra in Ucraina (si veda la questione dell'aumento dei costi energetici, la migrazione negli Usa - ma anche altrove - di importanti industrie europee o la indotta crisi di settori chiave europei come l'automotive e il suo indotto), ha nelle intenzioni il compito di “rimpolpare” l'economia reale statunitense, che relativamente alla manifattura conta ora ad esempio per poco più del 10% del PIL [13].
Questo ribilanciamento interno agli Usa, ammesso che sia possibile e che sia significativo (cosa non scontata), potrebbe mitigare la resistenza all'adattamento, quanto meno re-incanalando una maggior quota di investimenti nella sfera del commercio e dell'industria sottraendoli al settore FIRE (Finance, Insurance, Real Estate) che senza freni ha preso il sopravvento dall'inizio degli anni Novanta [14]. Questi decenni di predominio “scientifico”, ideologico, culturale e politico del neoliberismo finanziarizzato e le enormi ricchezze che essi hanno prodotto, spingono a pensare che l'adattamento, quanto meno in tempi ragionevoli, sia una possibilità remota. Che tuttavia bisogna considerare tenuto conto della resistenza del resto del mondo e dei “rendimenti decrescenti”, anche in termini di tenuta militare, che il neoliberismo finanziarizzato produce - e lo si vede nel conflitto tra la Nato e la Russia in Ucraina.
Ma l'adattamento, e quindi il negoziato con Mosca, passa per la demilitarizzazione e la denazificazione dell'Ucraina, ovvero per l'ammissione di sconfitta della Nato e quindi per la costruzione di una nuova architettura di sicurezza condivisa. E tutto ciò, di converso, potrebbe teoricamente “liberare” l'Europa da molti vincoli imposti da Washington (è la tesi anche di Emmanuel Todd), rendendo più difficile la “ri-accumulazione reale” degli Usa per rapina e ricatto, un tipo di “accumulation by dispossession” per usare il concetto di David Harvey. Non è infatti possibile nessuna architettura di sicurezza condivisa senza la revoca delle sanzioni e quindi per quale motivo l'Europa dovrebbe a quel punto continuare a privarsi del gas e del petrolio russi e dei mercati eurasiatici e più in generale dei Brics?
In linea teorica, per nessun motivo. Questo se si seguisse una “normale” logica economica. Ma non esiste una logica economica “pura” avulsa dai rapporti di forza, sociali e geopolitici, e le forze extraeconomiche hanno il sopravvento quando le cose non seguono - per dirla con Marx - il proprio “corso ordinario”, cosa che sicuramente non succede durante una crisi sistemica. E coi rapporti di forza attuali Washington potrebbe continuare a ricattare l'Europa e rapinarla. Dal canto suo la Russia ha tutto l'interesse a negoziare con gli Usa per favorirne l'adattamento a un “mondo polifonico” (copyright Vladimir Vladimirovic Putin). E non ha interesse a intralciare i negoziati con gli Usa per “salvare” l'Europa. Se il nostro sacrificio servirà a placare il Minotauro statunitense, Mosca non obietterà.
La Russia non ci libererà una seconda volta.
Già alla prima, che costò all'URSS 27 milioni di morti, sapeva come sarebbe andata a finire: «Abbiamo liberato l'Europa dal nazismo. Non ce lo perdoneranno mai», così disse il maresciallo sovietico Zhukov all'indomani della presa di Berlino. E così si è visto: un'Italia che inneggia al battaglione Azov e alle sue svastiche e una Germania che mostra chiaramente di non aver mai digerito la bandiera rossa sul Bundestag e invia nuovamente i suoi carri armati in Russia per interposto ducetto, una Francia che è ancora livida per la distruzione della Grande Armée e una Gran Bretagna che rimpiange il Grande Gioco e l'impero (a ragione perché la sua forza e la sua ricchezza venivano da lì), con una Polonia, infine, che scalpita sentendosi nuovamente stretta tra Russia e Germania (e con mire su Leopoli).
Oltre ai motivi economici e geopolitici per non venirci a salvare, ce n'è uno “sentimentale”, o culturale in senso ampio: per la Russia l'Europa è un'amante che ha tradito. Ha tradito a Minsk, come addirittura rivendicato dalla Merkel e da Hollande, e ha continuato pervicacemente e perversamente a tradire dopo che la trappola ucraina è scattata, addirittura rispolverando apertamente la retorica fascista (“Russi barbari”, “Russi non civilizzati”, persino “Russi semiasiatici” - più precisamente: “Solo apparentemente europei”) laddove Putin aveva definito l'Europa “culla della democrazia e della civiltà, uno dei più importanti poli dell’emergente mondo multipolare” e quindi “partner strategico della Russia”.
Dmitri Medvedev è stato rude:
«[L]'attuale Vecchio Mondo non evoca in me altre emozioni se non il disgusto più profondo. È stata l'Europa, che si è trasformata in una vecchia malvagia e pazza, che è diventata la principale roccaforte della russofobia nel mondo. L’Europa bugiarda è responsabile del fallimento dei negoziati di Istanbul. È stata un’Europa senza cervello a promuovere freneticamente una mediocre campagna di sanzioni che ha causato perdite colossali ai suoi cittadini. È stata l’Europa assetata di sangue ad alimentare tutti i demoni più rabbiosi della guerra, indipendentemente dalle perdite delle parti in conflitto.
E quindi l’Europa deve essere punita con tutti i mezzi a nostra disposizione: politici, economici e tutti i tipi ibridi. E quindi dobbiamo aiutare qualsiasi processo distruttivo in Europa» [15].
Il rapporto d'amore è finito e, come spesso accade, è rimasto il rancore.
Nemmeno con gli Stati Uniti la Russia ha un rapporto d'amore, ovviamente. Sempre Medvedev dà per scontati 100 anni di inimicizia. La differenza è che gli Usa sono grandi e grossi ed è necessario starli a sentire (Medvedev in realtà afferma che la Russia deve ignorare gli Usa e Trump potrebbe volerli mettere in posizione da potere essere ignorati e di ignorare gli altri, per lo meno in termini relativi e probabilmente temporanei o rapsodici - vedi l'Excursus). Noi siamo invece un'accolita di servitori che non riescono ad avere nemmeno più un sussulto di dignità. Si negozia col padrone, a cui va il rispetto, non coi servi, a cui se va bene si dà la mancia (ovvero qualcosa perché la vicina Europa non cada in una situazione di fastidioso disordine).
E i sentimenti, che si intrecciano con l'ideologia, contano.
E dato che contano, occorre stare attenti a un dato di fatto: «La reazione del pubblico degli Stati Uniti all'osservazione di Trump [su Panama e la Groenlandia] è stata fortemente favorevole» (così Larry Johnson, che nota con disappunto che le affermazioni di Trump sono direttamente in contrasto con la sua promessa “pacifista” elettorale).
La crisi gioca brutti tiri anche ai sentimenti popolari se non c'è una guida politica. E senza una guida politica nessun Paese europeo riuscirà a imparare a nuotare per non affogare. La Russia non sarà una ciambella di salvataggio. Possiamo sperare che ci ripensi, ma per ora non riesco a vedere un motivo perché debba farlo.
" nella situazione Mondiale attuale ritengo sbagliato essere o diventare
" Pro Qualcuno " ; è riferito naturalmente a tutte le Élites Dominanti.
Grazie