
Movimenti sociali ed elezioni in Occidente
di ALGAMICA*
In occasione delle straordinarie mobilitazioni contro il genocidio perpetrato dallo Stato sionista di Israele nei confronti del popolo palestinese e la distruzione di Gaza, è tornata di moda la discussione sul fatto che le piazze siano state piene, ma continuano a essere vuote le urne, ovvero che c’è una disaffezione al voto da parte del popolo e in modo particolare delle nuove generazioni.
Questo per un verso, mentre per l’altro versante ci sarebbe un “acceso” dibattito circa la riduzione degli spazi democratici, impugnando il fatto, tra l’altro, che la presidente del consiglio Meloni viva una sorta di orticaria nei confronti dei giornalisti, ovviamente in modo particolare quelli di sinistra.
Premesso che ai sottoscrittori di queste scarne note non importa un fico secco delle elezioni, di qualsiasi tipo, e che le ritengono un magistrale imbroglio nei confronti del cosiddetto popolo, e che questo agisce sempre impegnando il minimo sforzo per ottenere il massimo risultato. Siamo perciò di fronte a chi si candida a imbrigliare e a chi di buon grado si fa imbrigliare, pur di evitare di assumere un impegno in proprio per diritti collettivi, mentre va alla ricerca di quello/i individuale/i.
Di logica, perciò, diciamo in modo convinto che gli assenti hanno sempre torto, e non hanno nessun diritto di accampare scuse.
Entriamo però più nel merito, cercando di fornire una nostra spiegazione a un fenomeno che in Occidente desta – per lor signori – qualche preoccupazione.
Detto che gli assenti hanno sempre torto, cerchiamo di capire e spiegare perché lor signori sono preoccupati dell’astensionismo passivo del popolo, fino al punto che si recano alle urne meno del 50% degli aventi diritto.
La prima risposta è che c’è una disaffezione al voto, ma questa è solo la presa d’atto di un fatto, non la spiegazione del fatto stesso.
Volendo essere un poco cattivelli potremmo dire che se la democrazia si concentra nella espressione della parola doppia, cioè composta, e che recita testualmente: parlamento, poi proprio perché era (ed è) onomatopeica la si compose in un’unica parola, ma il senso letterale quello è e quello resta, ovvero di persone che vengono elette per rappresentare in Parlamento determinati interessi subordinati a cotanto di Costituzione, nel nostro caso, nata dalla Resistenza.
Lasciamo perdere attraverso quali strani meccanismi, mentre poniamo al centro del problema una tesi, molto precisa, sostenuta da un certo Palmiro Togliatti, segretario del Partito Comunista Italiano, resistenziale e resistenzialista che all’indomani della costituzione della Repubblica sosteneva una tesi di questo tipo, rivolgendosi alle masse: «voi avete nelle vostre mani un’arma potentissima, cioè il voto, sappiate farne buon uso ». Il gioco era fatto, il liberalismo democratico era entrato nelle viscere “comuniste”, lo strumento per imbrigliare le masse veniva impugnato come forza di combattimento per le proprie necessità, i propri diritti e così via.
Fu un traditore della causa del comunismo Togliatti? Si tratta di una domanda priva di senso e la lasciamo cadere, perché il materialismo cerca di spiegare le cause che muovono la storia, non le responsabilità individuali che sono effetto sociale riflesso nel personaggio e non l’inverso.
Era l’insieme del movimento ideale del Comunismo che era ormai avviato verso un principio subordinato alle leggi del modo di produzione capitalistico, secondo cui «la democrazia sarebbe stata propedeutica allo sviluppo della coscienza rivoluzionaria del proletariato per la lotta per il Comunismo ».
Nel corso degli anni gli epigoni di Togliatti si sono moltiplicati, a sinistra, a centro e a destra. Dunque la Democrazia rappresentativa, dalla rivoluzione francese si imponeva come criterio generale per l’epoca moderna a ogni latitudine e longitudine. Ovvero «Il potere appartiene al popolo, che lo esercita attraverso i suoi rappresentanti ». Insomma il popolo, aveva ed ha diritto di voto, sì, ma il potere lo esercita attraverso i suoi rappresentanti, si badi bene, in che modo? Nel parlamento. Ovvero in un luogo composto da un sostantivo che contiene due verbi, parlare e mentire, che danno veramente il senso delle cose, ma che per rendere diversamente l’idea dei fatti e delle cose vengono unificati i due verbi per creare un sostantivo, che diviene così un luogo sacro della moderna civiltà: il Parlamento, ovvero il luogo dove le esigenze del popolo devono essere subordinate a quelle delle leggi che sovrastano ogni altra legge, quelle del modo di produzione capitalistico.
A che pro questa premessa? Per spiegare che non c’è un rapporto diretto tra i rappresentanti e i rappresentati, perché tutto viene mediato attraverso associazioni di categorie, formazioni di partiti, istituzioni dello Stato, o anche sindacati, proprio per incanalare le masse verso orizzonti manzi, cioè democratici, insomma di accettazione del sistema.
Vogliamo forse dire che senza quegli istituti le masse sarebbero rivoluzionarie? Non siamo così sciocchi, vogliamo solo sostenere che ad esse sovrastano le leggi dell’economia di un modo di produzione quale risultato storico dell’uomo con i mezzi di produzione e che certe aree hanno avuto la possibilità di dominio su altre, e che le classi dei paesi dominanti hanno usufruito – certamente a cascata – del benessere estorto ai paesi dominati.
Ora, però, va fatta una precisazione d’obbligo: premesso che si tratta, di organizzazioni destinate a imbrigliare le masse, dunque non per volontà di libero arbitrio, sia chiaro, il loro ruolo varia secondo l’andamento delle condizioni economiche di un paese in relazione con gli altri paesi nello scambio. Dunque tali organizzazioni non svolgono il loro ruolo sempre allo stesso modo, ma secondo le circostanze economiche, ovvero secondo quello che « passa il convento », secondo l’andamento dell’economia. Va da sé che in una fase di sviluppo, dove cresce l’accumulazione capitalistica ci sono maggiori possibilità di elargire da parte dello Stato, in modo particolare in un paese che fa parte dei dominatori, servizi come assistenza sanitaria, scuole e così via. Allo stesso modo i capitalisti possono pagare “meglio” i propri operai se il ciclo di produzione e commercializzazione delle merci si incrementa sempre di più. I problemi sorgono quando subentra una crisi, come in questa fase, e affluiscono meno fondi nelle casse dell’erario dello Stato, e va ancora peggio per tanti capitalisti. Per gli operai, che vivono di un rapporto di doppia schiavitù col capitalista rispetto allo scambio e al mercato, sono dolori.
È in queste seconde condizioni che cominciano i balzelli democratici, ovvero quando in una nazione comincia a calare il pil e quella «doppia schiavitù », di cui parliamo, subisce un processo di decomposizione e di riaccorpamento oggettivo che tende a sviluppare e rafforzare una tendenza al nazionalismo, fra gli individui o categorie più dotati di quanti possono accorparsi, contro quanti invece subiscono un processo di disgregazione verso l’individualismo che li depriva di prospettive.
Siamo così al nazionalismo, ovvero la difesa del proprio paese da parte di chi può di più, a scapito di chi può di meno o non può per niente, nel tentativo di battere la concorrenza degli altri paesi, nella logica imperterrita dello scambio.
Cerchiamo di essere ancora più chiari richiamandoci a un esempio storico, e alla nascita di partiti nazionalisti di estrema destra, come fu il Fascismo in Italia e il Nazionalsocialismo in Germania. All’indomani della fine della Prima guerra mondiale si confrontarono due posizioni, una ideale di natura internazionalista, di matrice marxiana, che professava l’unità del proletariato mondiale contro le proprie classi borghesi, con un certo riferimento alla Urss, l’altra di tipo nazionalista, ovvero di difesa della propria nazione attraverso un processo di corporativizzazione nella famosa, nonché obbligata «doppia schiavitù» di cui si diceva sopra.
Attenzione però, si trattava ancora di una fase di espansione del colonialismo e dell’imperialismo, ovvero di fronte alla possibilità di una nuova straordinaria ascesa del modo di produzione capitalistico si profilava uno scontro tra potenze per l’egemonia: da un lato gli angloamericani dall’altro alcuni paesi europei con l’Urss da terzo incomodo.
Per onestà dobbiamo dire, col senno di poi, in un modo di produzione in crescita, parlare di Internazionalismo proletario o di Socialismo era più che velleitario, è questa la realtà dei fatti. E chi trasse poi come bilancio storico il fatto che il proletariato non avesse fatto la rivoluzione per mancanza di dirigenti adeguati, come scrisse Del Carria, in Proletari senza rivoluzione, non ci aveva capito molto. Pazienza.
Dunque il nazionalismo va spiegato in modalità temporali e spaziali, che per brevità, e senza volerla tirare troppo per le lunghe li sintetizziamo in questo modo:
- Quello di paesi colonialisti in una fase di ascesa, cioè di espansione del modo di produzione capitalistico;
- Quello dei paesi che per sottrarsi al dominio coloniale e sviluppare una economia autoctona, sono costretti a centralizzare e corporativizzare la società deprimendo anche le libertà democratiche di determinati settori più orientati dalle forze materiali delle grandi potenze che prevalgono nello scambio;
- Quello che con la crisi del modo di produzione capitalistico e dell’accresciuta concorrenza vede il rischio del tracollo, come paese e lancia l’allarme marinaro: « Si salvi chi può ».
Poi ci sono mille articolazioni, di destra, di centro o di sinistra che sono delle sottotesi delle tre coordinate fondamentali qui esposte.
Si salvi chi può!
Cerchiamo di chiarire ulteriormente il senso del nazionalismo nel quale vige il principio marinaro per il quale se una nave riesce a navigare, trasporta tutti, equipaggio e passeggeri e solca il mare verso il porto stabilito. Che per il modo di produzione capitalistico vuol dire più crescita, più sviluppo, più consumo, più ricchezza ecc. Se interviene una tempesta, una burrasca, da rischiare l’affondamento della nave, il comandante lancia il famoso grido «si salvi chi può»! Chi è più portato a salvarsi? Chi è più sano, più robusto, che è capace di farsi largo fra la calca, chi è capace di nuotare ecc. La stessa cosa succede quando una nazione è in grande difficoltà e rischia il collasso, e a differenza della nave che ha un comandante in una persona fisica che lancia il «Si salvi vi può », in una nazione lo stesso grido d’allarme viene lanciato non da un chi, ma da un riflesso delle cose, ovvero dallo scambio, cioè dai mercati. Cioè da questo “Dio” presente dappertutto ma invisibile. E avviene, però, la stessa cosa dei naviganti: si attivizzano i più furbi, i più capaci, i più forti, i più ricchi, i più fortunati, a scapito di tutti gli altri. Chi sono tutti gli altri? I più deboli: operai dipendenti, disoccupati, immigrati e così via.
Eccolo personalizzato il nazionalismo e i suoi riflessi.
Sicché i governi in una nazione in una fase del «si salva chi può» sono l’espressione di quelle fasce sociali più arriviste, più arroganti, più prepotenti che si incattiviscono ulteriormente contro tutte quelle categorie strutturalmente più deboli.
Fissiamo perciò due momenti storici per meglio chiarire il concetto. Qual è la differenza tra la condizione generale dell’economia oggi in Europa, o negli Usa, rispetto al 1921/22/23? Nel secondo quarto del secolo scorso il modo di produzione capitalistico era lanciato verso un poderoso sviluppo, e alcuni paesi europei, profittando delle colonie avevano di che gioire, pertanto le aspirazioni internazionaliste degli ideali del comunismo apparivano, come già detto, del tutto velleitarie. Non che oggi quegli stessi ideali si presentino più possibilisti, non è questo il punto, ma si cerca solo di spiegare le ragioni dello sviluppo del nazionalismo di ieri, e quello di oggi. Ed è possibile farlo solo rifacendoci a due condizioni completamente diverse del quadro generale dell’accumulazione capitalistica, dello sviluppo del valore, insomma della ricchezza altrimenti detto, di ieri verso l’ascesa e nuovi idilli, e quella d’oggi in una crisi generale del modo di produzione.
Se tale ragionamento valeva per l’Europa nel primo quarto del secolo scorso, a maggior ragione valeva per gli Usa che avevano i forzieri pieni, dopo circa 500 anni di dominio assoluto nel mondo e potevano dispensare “democrazia” a piene mani, anche se a scapito di paesi sottomessi ancora al colonialismo e all’imperialismo.
Secondo il nostro punto di vista un partito altro non è che una parte della società organizzata in un determinato periodo storico e che compie un certo percorso all’interno dei meccanismi del modo di produzione delle condizioni date. Pertanto non è un partito che si precostituisce dal nulla e lo si offre alle masse, no, sono persone all’interno di un determinato rapporto economico sociale che si organizzano per difendere e migliorare la loro condizione. Vale tanto per gli imprenditori, quanto per gli operai, i commercianti e così via.
Se si modificano i rapporti dell’economia, si modificano anche i rapporti di dette parti e/o comunità e si formano delle altre parti, delle altre organizzazioni e degli altri partiti. Questo vale ovviamente in tutta una fase in cui i rapporti economici scorrono senza grandi scossoni.
In Italia abbiamo degli esempi chiari sottomano sia alla fine della Prima guerra mondiale dove nacque e si sviluppò il Fascismo, neutralizzando le altre formazioni politiche, delle modalità non ce ne occupiamo in questa sede, oppure alla fine della Seconda guerra mondiale dove fu sciolto il Partito nazionale fascista e si costituirono tanti altri partiti, fra i quali la Democrazia Cristiana, il Partito Comunista, il Partito Socialista, il partito Repubblicano, il Partito Liberale e così via.
Oggi di tutti quei partiti non c’è più traccia, e i loro presunti codicilli non hanno nessuna sembianza formale con i partiti originari da cui ritengono di aver ereditato qualcosa, anche se il personale politico si è riciclato in altri accorpamenti.
Successe la stessa cosa col cosiddetto fenomeno Berlusconi, divenuto primo partito, governò per alcune legislature, inciampò e fu fatto inciampare e oggi i suoi epigoni si stringono intorno ai suoi familiari senza più il carisma del “capo” e alla ricerca della via perduta del liberalismo.
Anche in questo caso non ci intratteniamo sulle ragioni che fecero sorgere il fenomeno di un uomo potente e ricco che in pochi mesi riuscì a compiere il miracolo di costituire un partito, farlo divenire maggioritario e formare il governo. Poi i fessi lessero nelle sue televisioni private i motivi che lo fecero vincere. Pazienza.
Più recentemente si sviluppò un movimento di opinione generalizzato in un ceto medio impoverito e nelle fasce giovanili acculturate o di nuova disoccupazione che si identificò nelle espressioni di arrabbiatura di Beppe Grillo e il suo sodale Casaleggio, che divenne movimento-partito da “clic”, che raccolse le firme, come da legge, si presentò alle elezioni, arrivò addirittura al governo, pensando di aprire il Parlamento come una scatola di sardine, si adattò a governare con settori della destra prima e della sinistra poi, Casaleggio passò a miglior vita, il partito è entrato in crisi, si è separato da Grillo, altri si sono allontanati, altri si sono riciclati e via di questo passo.
Questo “fenomeno” che abbiamo accennato non è a esclusivo interesse storico solo dell’Italia, ma sta interessando tutta l’Europa e gli stessi Stati Uniti d’America, basta osservare i fatti.
Ora, però, qual è il problema vero che ci si presenta d’avanti? Quello che la stragrande maggioranza dei critici, storici, sociologi e così via cercano sempre nelle similitudini del passato le novità della storia. Si tratta di una operazione assurdamente meccanicistica, perché la storia non si ripete mai allo stesso modo, proprio perché è storia, ovvero condizioni temporali diverse che non possono mai riprodurre gli stessi fenomeni alle stesse modalità.
Usciamo perciò dalle secche e veniamo all’oggi, ovvero alla questione che ci interessa esaminare: in che modo si collocano sul piano storico le mobilitazioni Pro Pal, ovvero lo straordinario movimento sorto in Occidente contro il genocidio del popolo palestinese e la distruzione di Gaza da parte dello Stato sionista di Israele?
La grande novità e le sue implicazioni
È arcinoto che lo Stato sionista di Israele è vissuto di rendita sul fatto di aver subito, in quanto popolo ebraico, l’olocausto durante la Seconda guerra mondiale. Tutto passava in secondo piano, per 80 anni, in tutto l’Occidente rispetto a ciò che quel crimine aveva provocato.
A un certo punto la storia, impersonale, entra a gamba tesa sugli equilibri consolidati nei rapporti sociali e sconvolge la volontà degli uomini: è il 7 ottobre 2023.
I fatti sono noti e non c’è bisogno, perciò, di ripeterli nuovamente in questa sede. A quell’azione del 7 ottobre 2023 non seguirono mobilitazioni a sostegno della causa ebraica e della difesa dello Stato di Israele, ma seguirono attenzioni particolari a comprendere le ragioni profonde che avevano determinato l’azione di lotta dei palestinesi diretta da Hamas. Non solo, ma alle reazioni di Israele, cominciò da subito a svilupparsi uno straordinario movimento in tutto l’Occidente, e in modo particolare negli Usa, proprio dove risiede il vero padrone della causa sionista, cioè dello Stato di Israele. Si è capovolta la storia: gli ebrei da vittime sacrificali di un periodo che fu, divengono agli occhi delle nuove generazioni occidentali i carnefici responsabili di genocidio ai danni del popolo palestinese. Senza nessuna distinzione tra ebrei e sionisti? Si, senza nessuna distinzione, perché se gli ebrei non separano le loro responsabilità dal loro governo, rappresentato da Netanyahu, sono corresponsabili, volenti o nolenti. Si tratta di una nuova verità storica straordinaria, che il potere dell’establishment occidentale coglie con estrema preoccupazione.
Come viene analizzato questo nuovo e straordinario movimento in Occidente delle nuove generazioni? Come al solito si cercano similitudini, come dicevamo prima, nel passato per spiegare quello che passato non è. In ciò sta la difficoltà dei sapientoni. Si vuole un esempio? Uno dei decani della sociologia italiana, Giuseppe De Rita, 93 anni e in buona salute, che in un editoriale nelle pagine interne del Corriere della sera (dunque rivolto agli addetti ai lavori) di lunedì 27 ottobre 2025 sentenzia: «Colpisce in particolare il surplus di rappresentazione e il deficit di rappresentanza ». Ovvero: da chi sono rappresentati, questi milioni di scalmanati, che scendono in piazza contro lo Stato di Israele e l’Occidente che gli sta dietro?
Ecco la domanda priva di senso di un grande vecchio della sociologia. Un nuovo movimento va esaminato per le cause che lo hanno fatto sorgere e sviluppare, non per i suoi rappresentanti, che arriveranno dopo, hegelianamente. Sicché il grande vecchio si preoccupa, e giustamente, proprio perché legge nel nuovo ciò che non può essere imbrigliato dai precedenti rappresentanti, è questa la straordinaria questione teorica, politica e pratica.
Ma ascoltiamolo ancora il grande vecchio, perché è pieno di saggezza (cioè di disperazione, di preoccupazione) quando dice: «E fa impressione che la nostra più grande organizzazione sindacale (la Cgil) sia da mesi orientata a esternazioni d’opinione (la dichiarazione di rivolta sociale, i referendum, ecc. ) che a una permanente elaborazione dei bisogni dei diversi strati sociali;» attenzione bene, diciamo al lettore «finendo poi a rimorchio di altre sigle sindacali o del mood complessivo della piazza ».
Povero vecchio sociologo De Rita, il vecchio non può in alcun modo rappresentare il nuovo, pertanto Landini e la Cgil non solo non possono capire il nuovo, ma sono costretti a smentirsi per quello che avevano sostenuto in piazza San Giovanni la mattina del 7 ottobre 2023 e scendere in piazza alla coda di un movimento che condanna senz’appello lo Stato di Israele e l’Occidente. Si tratta della famosa legge storica della «tosse» che non può essere troppo a lungo compressa, e sbotta con tutta la sua virulenza. E il povero Landini, costretto a un ruolo miserabile, al pari di tanti altri personaggi sindacali e politici, è costretto a recitare il ruolo dell’asino fra i suoni.
Sono lontani anni luce i tempi della classe operaia che si faceva Stato, col suo servizio d’ordine disposto a controllare gli estremisti in piazza. È cambiata l’epoca, è una nuova fase, quella classe operaia è stata sciolta e diluita dalla crisi del modo di produzione e i suoi attuali componenti sono stati ridotti a individui privi di qualsiasi senso comunitario di classe. È una amara verità, ma è la verità. Mentre il nuovo storico si va componendo su sentimenti e interessi antisistema più complessivi, la sociologia borghese, in modo particolare quella occidentale, non riuscirà ma a comprendere, o che comprende ed è, perciò, spaventata e preoccupata.
Che l’establishment sia preoccupato lo dice a chiare lettere anche il grande vecchio De Rita «[…] va preso atto che resta pericolosamente muto il fronte fin qui più sfidato: quello della rappresentanza, che, essendo naturaliter fredda, è andata in crisi rispetto al “movimento del sentire” capace di smuovere i sentimenti più semplici; ed è probabile che la cosa possa ripetersi in futuro. Occorre sperare allora in una prassi di rappresentanza capace di unire gestione degli interessi nei conflitti, professionalità organizzativa e attenzione ai sentimenti in movimento ».
Il sociologo De Rita suggerisce alle preesistenti strutture di tornare a costituire degli argini nei confronti dei nuovi movimenti affinché rientrino nell’alveo naturale del modo di produzione capitalistico. In questo modo non ha capito, o fa finta di non capire o non vuole capire che i movimenti sociali di quest’epoca storica in Occidente muovono da sentimenti e interessi ben più profondi e diversi di quelli dei secoli diciottesimo, diciannovesimo e ventesimo. E non mossi da spirito ideologico, come per il passato, ma per ragioni strutturali, per consunzione cui è arrivato il modo di produzione capitalistico con le sue leggi. Siamo in un’altra fase del moto-modo di produzione capitalistico, dove gli obiettivi non sono più minimalisti, cioè integrabili e assorbibili all’interno delle leggi del sistema, ma mettono in discussione l’insieme del sistema partendo dal suo epicentro, in modo del tutto impersonale.
Per concludere, abbiamo salutato con grande entusiasmo il movimento generale che si è sviluppato in tutto l’Occidente contro il genocidio del popolo palestinese e la distruzione di Gaza a opera dello Stato sionista di Israele che ha fatto e sta continuando a fare il lavoro sporco per conto dell’insieme dell’Occidente. Ma proprio perché distinguiamo storicamente la fase, privi di velleitarismo ideologico, diciamo che la provvisoria tregua su Gaza contribuirà a che il movimento sorto a seguito d’esso rifluisca. Non c’è ragione ideologica che tenga. Il punto non è questo, quanto piuttosto il fatto che certe organizzazioni sindacali e/o politiche minoritarie rispetto agli schieramenti dei partiti maggiori di “sinistra”, possano pensare di trarre un bilancio a proprio favore in termini elettoralistici, non sarebbe la prima volta e non sarà neanche l’ultima. Lo sconsigliamo vivamente, se non altro perché sarebbe rovinosamente penoso andare alla ricerca di percentuali elettorali da prefisso telefonico, ed essere emarginati a miserevoli ruoli di comparsa, nel tentativo di portare nelle istituzioni dello Stato democratico, la causa palestinese. Ce n’è già tanti a svolgere simili ruoli, non serve aggiungerne altri.
A nostro modesto parere sarebbe molto più importante fare una seria riflessione sulla fase, capitalizzando al massimo per le potenzialità che essa pone per uno scontro in Occidente di portata storica, e attrezzarsi alla bisogna, perché proprio le mobilitazioni contro il genocidio hanno imposto una tregua e dimostrato oltremodo il nullismo delle elezioni, in modo particolare in una fase avviata in modo definitivo verso il caos implosivo, senza possibilità di soluzioni intermedie.






































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