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comedonchisciotte.org

Guerra Russia-Ucraina: la resa dei conti

L’Ucraina è alle corde

di Big Serge - bigserge.substack.com

titolo 7.jpgLa guerra russo-ucraina è stata un’esperienza storica inedita per diverse ragioni, e non solo per le complessità e i tecnicismi dell’impresa militare in sé. È stato il primo conflitto militare convenzionale nell’era dei social media e della cinematografia planetaria (sotto la costante presenza delle telecamere). Questo ha consentito di dare uno sguardo (anche se solo una sbirciatina) all’essenza stessa della guerra, che, per millenni, si era rivelata solo attraverso le forze mediatrici dei notiziari via cavo, dei giornali stampati e delle steli della vittoria.

Per gli eterni ottimisti, c’erano dei lati positivi nell’idea che una guerra ad alta intensità potesse essere documentata da migliaia di video in prima persona. Dal punto di vista della curiosità intellettuale (e della sagacia militare), la marea di filmati provenienti dall’Ucraina consente una visione dei sistemi e dei metodi di armamento emergenti e permette di ottenere una notevole quantità di dati tattici. Invece di aspettare anni le analisi dei rapporti post-azione e poter ricostruire la dinamica degli scontri, siamo a conoscenza in tempo quasi reale dei movimenti tattici.

Sfortunatamente, si sono verificati anche tutti gli ovvi inconvenienti della trasmissione di una guerra in diretta sui social media. La guerra è stata immediatamente sensazionalizzata e saturata da video falsi, fabbricati o con didascalie errate, saturi di informazioni che la maggior parte delle persone e degli pseudo-esperti non è semplicemente in grado di analizzare (per ovvie ragioni, una persona normale non è in grado di fare distinzioni tra due eserciti post-sovietici che utilizzano equipaggiamenti simili e parlano una lingua simile o addirittura la stessa).

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giubberosse

Palestina: strategie a confronto

di Enrico Tomaselli

photo 2023 11 10 16 31 47Proviamo a indagare l’attuale fase del conflitto israelo-palestinese sotto il profilo strettamente militare: le strategie, le tattiche, le scelte fatte – e le condizioni oggettive – di una guerra in cui comunque interagiscono, direttamente o indirettamente, molti attori, ciascuno con i propri interessi e le proprie esigenze. Proprio per ciò, un puzzle complicato da risolvere.

* * * *

In ogni conflitto non c’è solo lo scontro tra forze militari. Ci sono sempre (questo anche prima) due strategie che si confrontano. E se, come ci ricordava von Clausewitz, la guerra è il proseguimento della politica con altri mezzi, allora queste strategie non sono mai esclusivamente militari.

Il parlare di strategie, però, implica l’idea che ci sia un disegno, un piano, che tenga insieme degli obiettivi da conseguire con le mosse necessarie per conseguirli. Il che, a sua volta, comporta che vi sia un prevalere del calcolo razionale, rispetto al dato emotivo, che pure è ineludibile.

La prima cosa da chiedersi, dunque, è se vi siano effettivamente strategie che si stanno confrontando, nell’ambito del conflitto israelo-palestinese, così come esso si è andato delineando dal 7 ottobre in avanti. E, solo successivamente, se è il caso, indagarle.

Ora, in un conflitto così lungo (quasi secolare) e così aspro, è ovvio che vi siano componenti che affondano le proprie radici nei sentimenti e nelle emozioni; il dolore, la nostalgia, la rabbia, la paura, l’odio. Quindi, non possiamo aspettarci di non trovarne traccia, da ambo le parti. Si tratta piuttosto di capire in quale misura tutto ciò agisca nel determinare le scelte degli uni e degli altri.

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lantidiplomatico

Il complesso militare e industriale degli Stati Uniti (e dell’Europa)

di Paolo Arigotti

720x410c50mu7ygvcdw.jpgIl segretario di stato (leggi, ministro degli Esteri) degli USA, Anthony Blinken, ha tenuto lo scorso 13 settembre un discorso alla John Hopkins School of Advanced International Studies[1], considerato uno dei “templi” della strategia a stelle e strisce, nel quale, pur ribadendo l’avversione dell’Amministrazione Biden nei confronti della Russia, ha confermato che la maggiore sfida alla leadership (o dominio, se preferite) politica, economica e militare degli States è rappresentata, specie nel lungo periodo, dalla Cina; tenuto conto del livello di “autonomia” del quale godono gli “alleati” di Washington (pensiamo solo a Giappone o Europa, Italia in primis) è ovvio che questo messaggio rappresenta una sorta di “direttiva” non ufficiale per tutte le “province” dell’impero.

In sostanza, il cambio di “colore” dell’Amministrazione statunitense non sembra aver inciso più di tanto sull’orientamento politico di Washington, che già al tempo di Donald Trump aveva individuato nella Repubblica popolare il principale avversario, forse l’unico in grado di tenere testa e/o contrastare, per lo meno nel lungo periodo, i disegni egemonici di Washington e scardinare quella sorta di unipolarismo scaturito dalla fine della guerra fredda.

La potenza americana deriva innanzitutto da quella militare. Le forze armate USA sono stanziate in circa 170 paesi sparsi per l’intero globo, e sono almeno 76 gli stati che ospitano le circa 642 basi presenti nei quattro angoli del mondo[2]; per la cronaca nella nostra penisola le basi NATO sono 120, cui se ne aggiungerebbe una ventina di non ufficiali[3]. Gli Stati Uniti surclassano nettamente il resto del pianeta anche per quanto concerne la spesa militare: nel 2022 il budget di Washington ha toccato gli 876 miliardi di dollari, cifra da sola equivalente a quella stanziata da undici tra le più grandi nazioni: Cina, Russia, India, Arabia Saudita, Gran Bretagna, Germania, Francia, Corea del sud, Giappone, Ucraina e Canada.

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lantidiplomatico

La débâcle militare e la resa dei conti interni: cosa accadrà ora a Kiev?

di Giacomo Gabellini

720x410c50hvjgyAll’inizio di novembre, il generale Valerij Zalužny, comandante in capo dell’esercito ucraino, ha scritto un articolo pubblicato sull’«Economist», arricchito da un’intervista rilasciata sempre alla nota rivista britannica.

Dal quadro dipinto dal generale, emerge con chiarezza cristallina che la controffensiva avviata nella tarda primavera di quest’anno dalle forze armate ucraine non ha raggiunto alcuno degli obiettivi perseguiti dal governo di Kiev e dai suoi sponsor occidentali. Secondo Zalužny, il conflitto «si sta muovendo ora verso una nuova fase: quella che noi militari chiamiamo guerra “di posizione”, di combattimento statico e logoramento sulla falsariga della Prima Guerra Mondiale, in contrasto con la guerra “di manovra” di movimento e velocità».

A suo avviso, le forze in campo si sono arenate in una situazione di stallo che non lascerebbe spazio ad alcuna svolta significativa della guerra, poiché la parità tecnologica – tipica dei conflitti simmetrici che l’Occidente si è ormai disabituato ad affrontare – che caratterizza i due schieramenti impedisce alle truppe di sfondare le linee difensive del nemico. Ne consegue che, in assenza di un concreto avanzamento qualitativo ma anche quantitativo di una parte sull’altra dal punto di vista delle capacità militari e di intelligence, il conflitto è destinato a languire nella condizione in cui si trova allo stato attuale.

Per Zalužny, il superamento della guerra di posizione passa necessariamente per l’ottenimento «della superiorità aerea che consenta alle forze di terra di penetrare in profondità nei campi minati; di una maggiore efficacia del fuoco di controbatteria; di accresciute capacità in materia di guerra elettronica, oltre che dalla possibilità di formare e addestrare unità di riserva in numero adeguato», attualmente compromessa dalle diserzioni di massa che si registrano ormai da molti mesi.

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sinistra

La cesoia corazzata

di Salvatore Bravo

israele palestina.jpegIl conflitto tra sionismo e palestinesi è giunto a un punto di svolta, la sproporzione tra l’attacco di Hamas e la reazione di Israele rivela la verità di una guerra dai contorni genocidiari. Se si pongono in successione gli eventi del conflitto negli ultimi decenni, la deriva sanguinaria in cui siamo, è solo l’effetto di un meccanismo di violenza ed esclusione in atto da non poco tempo. Gli scritti di Giancarlo Paciello con i loro dati e con la loro documentazione ricostruiscono la verità storica del presente ricostruendo la storia del conflitto. La Nakba (esodo) ovvero l’esodo palestinese è stato per Giancarlo Paciello un evento storico divenuto parte della sua biografia, egli non ha solo svolto un lavoro di ricerca, ma ha vissuto profondamente il dolore di un popolo costretto all’esodo e alla diaspora. Nei suoi scritti ha utilizzato il termine “sionismo”, poiché non accusa il popolo israeliano ma solo i sionisti.

Le violazioni dei diritti umani da parte di “Israele” denunciate dall’ONU mostrano, altresì, l’impotenza degli organismi internazionali di fatto sotto il controllo delle gerarchie delle potenze economiche, in primis, gli Stati Uniti. I diritti umani sono solo un mezzo nella strategia dell’imposizione del nuovo ordine mondiale che affonda nel caos di guerre e sconfitte. La logica dell’esclusione fisica dei palestinesi trova un punto di svolta nella costruzione nel 2002 del Muro che separa la comunità palestinese da quella israeliana. Ogni anno si festeggia la caduta del muro di Berlino, e si inneggia alla libertà ritrovata, ovvero il neoliberismo, dei paesi dell’ex blocco comunista, ma il silenzio cala sui nuovi muri che tagliano i popoli e preparano con la discriminazione spaziale la successiva eliminazione fisica. Il Muro costruito da “Israele” per proteggersi da eventuali attacchi suicidi non è un confine.

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giubberosse

Due guerre

di Enrico Tomaselli

22Conflitto Israele Hamas Aggi scaled 1Quella che si combatte in Ucraina, e quella che si sta combattendo in Palestina, non sono semplicemente due guerre che oppongono l’occidente collettivo al mondo multipolare, ma sono in effetti osservabili come due battaglie di una medesima, grande guerra globale, nella quale la declinante egemonia statunitense si confronta con le potenze emergenti. Un conflitto destinato a durare ancora anni, e che sarà segnato da nuove ‘battaglie’, in differenti quadranti dello scacchiere mondiale.

* * * *

Forse per la prima volta dal 1945, il cosiddetto occidente collettivo si trova a dover affrontare due guerre significative nello stesso momento. Si tratta di una situazione già di per sé eccezionale, ma lo è ancor più in quanto il mondo occidentale sta attraversando una fase a dir poco complicata, e in cui sicuramente la sua potenza (non solo militare) viene apertamente messa in discussione e sfidata, da parte di più attori sulla scena internazionale. E per quanto, soprattutto negli ambienti anglo-americani, una lunga dimestichezza con la geopolitica e le strategie globali dovrebbe aiutare a leggere correttamente la fase, ciò sembra invece non accadere. O quanto meno, non del tutto.

Dal punto di vista dell’occidente, infatti, sembra che – semplicemente – una guerra rimuova l’altra. Archiviata di fatto quella in Ucraina, data sostanzialmente per persa e comunque ormai fonte più di imbarazzo e fastidio, Stati Uniti e NATO sembrano essersi gettati sulla (rinnovata) guerra israelo-palestinese, con lo stesso entusiasmo dei primi mesi in Ucraina.

Anche se per il momento a sostenere economicamente Israele sono soltanto gli USA, mentre i paesi europei si limitano a un supporto politico totale e incondizionato [1], è evidente che l’onda lunga di questa guerra finirà per investire ancora una volta proprio questi ultimi.

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intelligence for the people

Un mese di conflitto: nessuna exit strategy dall’inferno di Gaza

di Roberto Iannuzzi

Tutti gli scenari post-bellici nella Striscia appaiono problematici, mentre il prolungarsi della campagna militare mantiene alto il rischio di escalation

0bcc0f4f 390d 4e91 8830 e02d95bc2a2f 2560x1707A poco più di un mese dallo scoppio della guerra, l’inferno di Gaza non sembra avere vie d’uscita. Sicuramente non per i residenti di questa prigione a cielo aperto, sottoposta a uno dei più violenti bombardamenti della storia contemporanea. Ma apparentemente nemmeno per coloro (Israele, USA) che dovrebbero disegnare i futuri assetti dell’area.

I raid dell’aviazione di Tel Aviv sono in corso dal 7 ottobre, dopo che 1.200 - 1.400 israeliani erano rimasti uccisi nell’attacco terroristico senza precedenti condotto da Hamas quel giorno. Israele ha sganciato oltre 25.000 tonnellate di bombe su un’esigua lingua di terra, lunga 41 km e larga da 6 a 12 km.

In questo spazio ristretto – una delle aree più densamente popolate al mondo – vivono circa 2 milioni e 300 mila palestinesi (circa metà dei quali hanno meno di 18 anni), impossibilitati ad uscirne a causa di un blocco terrestre, aereo e navale in atto dal 2007.

I bombardamenti hanno provocato finora circa 11.000 morti fra i residenti della Striscia, in gran parte civili – per il 70% anziani, donne e bambini. Le stime sono fornite dal ministero della sanità di Gaza, controllato da Hamas ma ritenuto affidabile da organismi internazionali come l’ONU e da osservatori come Human Rights Watch.

E’ anzi probabile che il bilancio delle vittime sia molto più elevato, a causa dei numerosi cadaveri tuttora non estratti dalle macerie.

Secondo l’ONU, coloro che hanno dovuto abbandonare le loro case, e sono ormai sfollati all’interno della Striscia, ammontano a 1,5 milioni. Sulla base di immagini satellitari, si stima che circa un terzo degli edifici nella parte settentrionale della Striscia siano danneggiati o distrutti.

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lariscossa

Sulla "punizione collettiva" sofferta dai palestinesi

di Alessandro Bartoloni

gaza 8.jpgSul fronte palestinese si levano numerose le voci di condanna per i morti patiti dalla popolazione civile. La “punizione collettiva” inflitta dal governo israeliano agli abitanti della Striscia di Gaza sarebbe una violazione dei diritti umani.“Un conto sono gli attacchi diretti contro Hamas, un conto la rappresaglia sui civili inermi…”, si dice.

Come analizzato in un altro contributo, solamente chi crede nelle guerre “umanitarie” può stupirsi per quanto sta avvenendo nella Striscia di Gaza.

In questo articolo proverò a spiegare perché tale modo di fare è, dal punto di vista della classe dominante israeliana, paradossalmente legittimo, legale e razionale. Occorre ricordare in tal senso come perfino i nazisti abbiano argomentato a Norimberga, di aver seguito la legalità e una ben precisa “razionalità” tecnico-economica, il che serve a ricordarci la necessità di un punto terzo di osservazione, capace di considerare l’abisso che può separare la legalità borghese e imperialista dalla giustizia sociale internazionalista.

 

I. La legittimità del male

La concezione che legittima gli attacchi contro formazioni militari e condanna quelli contro i civili presuppone una separazione netta tra l’organizzazione politica che comanda nella striscia di Gaza dal 2007 e i disgraziati che da questa organizzazione sono governati. Un presupposto irrealistico, che è stato più volte messo alla berlina sia dal governo sionista sia dagli analisti più attenti, i quali riconoscono il forte radicamento e consenso di cui godono gli estremisti islamici responsabili della controffensiva del 7 ottobre.

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lantidiplomatico

L'India nello scacchiere geopolitico attuale

di Paolo Arigotti

720x410c50jurdz.jpgLa collocazione dell’India nello scacchiere geopolitico internazionale è estremamente interessante per la posizione che il subcontinente occupa rispetto ai diversi attori: oggi ci concentreremo, in particolare, sui rapporti con la Cina.

Al pari della Repubblica Popolare, l’India è uno dei paesi fondatori dei BRICS, dopo essere stata a lungo, nel periodo della guerra fredda, uno dei leader del fronte dei cosiddetti non allineati, fatto che non le impedì di intessere rapporti molto stretti con l’allora Unione Sovietica; inoltre, assieme a Cina, Russia e altri sei stati è membro dell’Organizzazione per la cooperazione di Shangai (SCO).

Allo stesso tempo, l’India ha siglato, anche recentemente, importanti accordi politici e militari con gli Stati Uniti, dopo che nel 2017 le due nazioni – assieme a Giappone e Australia – avevano dato vita al Dialogo quadrilaterale di sicurezza (Quadrilateral Security Dialogue, QUAD), un patto strategico informale per contenere l'espansionismo cinese nell'Indo-Pacifico; Delhi, inoltre, fa parte dell’ulteriore iniziativa multilaterale dell’IPEF, Indo-Pacific Economic Framework for Prosperity e della I2U2, con USA, Israele ed Emirati.

Il comune denominatore che caratterizza molte di queste iniziative, a cominciare dal QUAD, nessuna delle quali mai elevata al rango di alleanza militare vera e propria, affonda le radici nella comune consapevolezza che nessuna nazione, da sola, sarebbe mai stata in grado di fronteggiare la crescente potenza militare cinese, consentendo agli americani di riunire attorno a sé diversi paesi amici che l’aiutino a presidiare una regione sempre più strategica, oltre a fungere da strumento di deterrenza per quegli stati che si fossero mostrati disponibili ad accogliere le offerte d collaborazione di Pechino, vuoi perché timorosi della sua forza o semplicemente perché attratti dagli investimenti promessi dal Dragone.

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Riflessioni su Guerra, Politica e Pace: un’analisi critica

di Alberto Bradanini

pace.jpgIl linguaggio politico è progettato per far sembrare vera la bugia, rispettabile l’omicidio e dare una parvenza di solidità al puro vento (G. Orwell)

Possiamo anche non occuparci della guerra, ma è la guerra che si occupa di noi. A seconda dei criteri di riferimento, le guerre possono classificarsi in giuste, opportune e legali, o anche in un intreccio di tali aggettivazioni.

Il criterio della giustizia dipende dall’ideologia o etica di chi lo invoca, possiede un forte contenuto di soggettività e ad esso fa ricorso in chiave giustificativa chi usa la forza militare per combattere una presunta ingiustizia (termine questo anch’esso aperto a un labirinto d’interpretazioni). Il criterio dell’opportunità si caratterizza invece per una forte valenza politica: a un certo punto, secondo il ragionare di alcuni, la guerra emergerebbe come sola risoluzione di contenzioni altrimenti irrisolvibili. Il criterio della legalità, infine, sulla carta appare il meno incerto, il solo che possieda i contorni di una qualche riferibilità oggettiva: per il diritto internazionale, infatti, la guerra diventa legittima in due casi: a) quando è autorizzata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (evento invero assai raro); b) in caso di legittima difesa, ai sensi dell’art. 51 della Carta delle N.U., nel qual caso, per restare nel recinto della legittimità, la reazione deve rispettare i principi di moderazione e proporzionalità.

Sui teatri di guerra, alla violenza militare codificata dal diritto s’accompagna spesso un’altra pratica, il cosiddetto terrorismo, una pratica la cui nozione condivisa è tuttora assente tra le norme internazionali.

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lantidiplomatico

Il 7 ottobre e la “crisi di nervi” di Israele

di Giacomo Gabellini

720x410c50okmnr.jpgUno degli obiettivi cruciali perseguiti da Hamas attraverso l’operazione al-Aqsa Flood sferrata lo scorso 7 ottobre consisteva con ogni probabilità nel produrre una radicale destabilizzazione psicologica della società israeliana, in modo da disintegrare molte di quelle che i comuni cittadini israeliani consideravano alla stregua di certezze granitiche, a partire dall’infallibilità delle forze armate e dell’intelligence israeliana, nelle sue articolazioni del Mossad, dello Shin Beth e dell’Aman. La visione dei carri armati in fiamme, delle decine di mezzi caduti può considerarsi raggiunto, se è vero – come è vero – che con il suo operato da elefante in una cristalleria la classe dirigente di Tel Aviv sta guastando in sotto il controllo delle brigate al-Qassam, di migliaia di coloni in fuga o catturati e brutalizzati e/o assassinati hanno fatto pericolosamente vacillare il mito della invincibilità israeliana.

Sul quale va peraltro proiettandosi un’ombra, se possibile, ancor più inquietante, che emerge da alcune inchieste realizzate da «Haaretz» sulla base di testimonianze dirette rese da cittadini israeliani coinvolti nella vicenda. Tuval Escapa, un membro della squadra di sicurezza del kibbutz Be’eri che aveva istituito una linea di comunicazione diretta con l’esercito israeliano, ha dichiarato al quotidiano israeliano che, nel momento in cui le brigate al-Qassam sono dilagate nei territori limitrofi alla Striscia di Gaza, «i comandanti sul campo hanno preso decisioni difficili, tra cui quella di bombardare gli edifici occupati dai terroristi, che avevano tuttavia portato con sé decine di ostaggi». Secondo «Haaretz», l’esercito è stato in grado di ripristinare il controllo su Be’eri solo dopo aver ammesso di aver “bombardato” le abitazioni degli israeliani che erano stati fatti prigionieri. «Il prezzo – riporta il quotidiano – è stato terribile: almeno 112 residenti di Be’eri sono stati uccisi».

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Venti giorni di tempesta

di Enrico Tomaselli

hezbUna analisi politica e militare dell’operazione al-Aqsa Flood, condotta dalla resistenza palestinese, che non solo rimette al centro la Palestina, ma ricolloca il baricentro dello scontro globale in atto, riportandolo in Medio Oriente – regione fondamentale non solo per il petrolio, ma per la sua collocazione geopolitica e la sua storia. È qui, allo snodo del continente euroasiatico e del Mediterraneo, dove si incrociano culture (e interessi) diversi, che si gioca il nuovo match.

* * * *

Credevamo – a ragione – che il conflitto ucraino rappresentasse un punto di svolta importante, forse decisivo, nel processo di trasformazione geopolitica globale, che sta transitando il mondo verso un’era multipolare. Ne avevamo colto sia, appunto, il fatto che segnasse un giro di boa, sia come fungesse allo stesso tempo da acceleratore del processo che portava alla luce. Una accelerazione riscontrabile – ad esempio – negli avvenimenti che hanno attraversato l’Africa sub-sahariana, o nella crescente saldatura tra i grandi nemici dell’impero americano, Russia Cina Iran e Corea del Nord – che invece il disegno strategico di Washington voleva dividere e colpire separatamente.

Ma quanto accaduto il 7 ottobre ha segnato una scossa ancora più forte, più profonda. E che l’attacco sferrato dalle Brigate al-Qassam contro l’occupante israeliano sia un momento importante dello scontro in atto, è testimoniato proprio dalla portata delle reazioni. L’Ucraina, già data comunque per sconfitta, è stata prontamente relegata nel dimenticatoio, gli Stati Uniti si sono immediatamente mobilitati – con una poderosa dimostrazione di potenza – nel sostenere in prima persona l’alleato strategico nel Medio Oriente, e in occidente è scattata ancor più forte e stringente che mai la negazione-repressione del dissenso. La posta in gioco è alta.

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L’escalation non può essere fermata, la Casa Bianca è in allarme: il rischio di un conflitto è sempre più reale

di Alastair Crooke - strategic-culture.su

La necessità della guerra sta facendosi strada nella coscienza del mondo arabo e islamico

F8Nnj07XoAAOToL 930x520 1 750x430.jpgGiovedi scorso, dalle pagine del New York Times Tom Friedman ha lanciato il suo terribile avvertimento:

“Credo che, se ora Israele entrerà [unilateralmente] con la forza a Gaza per distruggere Hamas, commetterà un grave errore che sarà devastante per gli interessi israeliani e americani”.

“Potrebbe innescare una conflagrazione globale e far detonare l’intera struttura di alleanze filo-americane costruita dagli Stati Uniti… Sto parlando del trattato di pace di Camp David, degli accordi di pace di Oslo, degli accordi di Abraham e della possibile normalizzazione delle relazioni tra Israele e Arabia Saudita. Tutto potrebbe andare in fumo.

“Purtroppo, ha detto l’alto funzionario statunitense, i leader militari israeliani sono, in realtà, ancora più guerrafondai dell’attuale primo ministro. Sono rossi di rabbia e determinati a sferrare ad Hamas un colpo che tutte le nazioni confinanti non dimenticheranno mai”.

Friedman sta parlando, ovviamente, del sistema di alleanze americano imperniato sull’idea dell’invincibilità della potenza militare di Israele – il paradigma della “piccola NATO” che dovrebbe fungere da substrato essenziale per la diffusione in Asia occidentale dell’Ordine delle Regole dettato dall’America.

È analogo al substrato dell’alleanza NATO, la cui pretesa “invincibilità” ha sostenuto gli interessi statunitensi in Europa (almeno fino alla guerra in Ucraina).

Un membro del gabinetto israeliano ha dichiarato al corrispondente israeliano anziano per la difesa, Ben Caspit, che Israele non può permettere che la sua deterrenza di lunga data venga ora messa in dubbio:

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lantidiplomatico

Qualche amara riflessione sul conflitto in Medio Oriente: gli interessi degli attori coinvolti e dei popoli

di Paolo Arigotti

720x410c507ujkmvbnhjio.jpgQuella di oggi sarà una sorta di riflessione a 360 gradi sul conflitto in corso in Medio Oriente e sulle sue possibili ripercussioni, tentando di dimostrare come, a nostro avviso, alcuni dei potenziali sviluppi potrebbero dipendente più da interessi politici, strategici e/o economici, che da altre questioni, come le preoccupazioni, pure da più parti espresse, per la sorte dei civili.

Naturalmente non c’è nessuna pretesa di esaustività: quello che ci proponiamo è di fornire alcuni spunti, con l’invito ad approfondire le varie questioni tramite le risorse che l’editoria e il web mettono a disposizione.

Partiamo con una descrizione degli asset di alcuni attori coinvolti, più o meno direttamente, nella regione e nella conflittualità in corso.

La Repubblica Popolare Cinese vanta molti interessi economici e strategici in Medio Oriente, una regione che rappresenta una sorta passaggio obbligato per la Nuova via della seta, quella dalla quale l’Italia ha deciso di ritirarsi; ricordiamo che nei giorni scorsi a Pechino - padrone di casa Xi Jinping, ospite d’onore Vladimir Putin – si è tenuta la terza edizione del Belt and Road Forum for International Cooperation, con la partecipazione di dirigenti aziendali e studiosi provenienti da tutto il mondo[1].

È proprio in funzione di questi interessi che si può inquadrare la mediazione di Pechino tra Iran e Arabia Saudita, che non solo ha consentito ai due paesi di riallacciare le relazioni diplomatiche, ma ha aperto loro le porte per l’ingresso nei BRICS (dal prossimo primo gennaio). Come di tutta evidenza, lo scopo della dirigenza cinese non era tanto quella di dirimere un contrasto che divideva da anni le due massima potenze regionali dell’area, quanto eliminare un ostacolo che si frapponeva coi suoi interessi commerciali (e gli ingenti investimenti) e più in generale con la sua strategia geopolitica ed economica, regalando al Dragone un indubbio prestigio per il successo diplomatico.

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Israele, Gaza e la guerra economica mondiale

di Emiliano Brancaccio

beirut palestina.jpgCommentando l’estensione dei fronti di guerra in Medio Oriente, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha dichiarato: «Il mondo è cambiato in peggio, non a causa di un virus ma per sciagurati comportamenti umani». Vero, eppure non basta. Il problema, aggiungiamo noi, è capire quali grandi meccanismi stiano inducendo i comportamenti umani a inaugurare un nuovo tempo sciagurato, di ferro e di fuoco.

Per svelare un tale arcano, non si può dire che i commentatori mainstream stiano aiutando. Più che occuparsi di comprensione dei fatti, i “geopolitici” di grido paiono affaccendati in una discutibile opera di persuasione, che consiste nel suscitare emozioni e riflessioni solo a partire da un punto del tempo scelto arbitrariamente. Essi ci esortano a inorridirci e a prender posizione, per esempio, solo a partire dalle violenze di Hamas del 7 ottobre 2023, mentre suggeriscono di spegnere sensi e cervelli sulla trasformazione israeliana di Gaza in un carcere a cielo aperto, o su altri crimini e misfatti compiuti dai vari attori in gioco e anteriori a quella data. Inoltre, come se non bastasse l’arbitrio del taglio temporale, ci propongono di esaminare i conflitti militari come fossero mera conseguenza di tensioni religiose, etniche, civili, ideali. Quasi mai come l’esito violento di dispute economiche.

 

Guerra a Gaza, mettere al centro gli interessi economici

Diciamo le cose come stanno. Se lo scopo è capire la dura realtà che ci circonda, il contributo di questi analisti non serve a nulla.