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Dal caos nel MAGA agli insuccessi industriali: è segnata la fine del neoliberismo

di OttoParlante - La newsletter di Ottolina

Statua della Liberta che affonda. Donald Trump in primo piano 360x180.jpgIl Marru 

I datacenter di Trump si scontrano con i suoi elettori: la reindustrializzazione neoliberista è fallita. Gli Stati Uniti entrano nella fase più assurda della loro traiettoria tecnologica: il presidente spinge per costruire più datacenter per competere con la Cina sull’AI… e sono proprio i suoi elettori MAGA a ribellarsi. Il paradosso fotografato da Reuters è il simbolo del fallimento del progetto di reindustrializzazione neoliberista: si voleva riportare l’industria in America, ma senza toccare proprietà privata, mercato immobiliare suburbano, consumi energetici e autonomia locale; un’impossibilità logica. I datacenter richiedono acqua, energia, terreni, infrastrutture; generano traffico, rumore, calore, trasformano quartieri, hanno bisogno di reti energetiche stabili – cosa che negli USA non esiste più, dopo decenni di deregolamentazione e privatizzazioni selvagge. Ma la base elettorale di Trump non vuole alcun sacrificio: nessuna turbina vicino casa, nessun elettrodotto, nessun complesso industriale; not in my backyard! Si vuole la potenza americana, ma senza pagarne il prezzo materiale. Nel frattempo, la Cina avanza.

L’antitrust MAGA è morto: quando lasci tutto ai monopoli, i monopoli ti mangiano. A proposito di fallimenti neoliberisti, secondo Naked Capitalism, negli Stati Uniti sta finendo anche l’illusione che il mercato si autoregoli da solo; il Dipartimento di Giustizia dominato dall’agenda MAGA ha ufficialmente abbandonato la funzione antitrust: invece di perseguire RealPage, un colosso accusato di aver coordinato aumenti illegali dei prezzi degli affitti in tutto il Paese, ha scelto un patteggiamento simbolico, una pacca sulla spalla, un buffetto che sancisce la resa dello Stato davanti ai monopoli. E questo è forse più grave dei fallimenti industriali, perché tocca la struttura profonda del capitalismo americano: senza antitrust, non esiste più concorrenza, ma solo oligopoli.

Gli USA avevano già abbandonato la stagione progressista degli anni ’30 e ’60; ora abbandonano anche la fase neo-progressista degli anni 2010 che aveva tentato timidamente di frenare Big Tech. Il risultato è chiarissimo: prezzi delle case fuori controllo, affitti diretti da algoritmi, salari stagnanti, catene di fornitura dominate da 5-6 conglomerati e, soprattutto, l’impossibilità materiale di costruire un’economia industriale resiliente. Non c’è innovazione reale in un ecosistema monopolistico: ci sono solo rendite. La Silicon Valley, i petrolieri del Texas, i fondi immobiliari, il cartello dei software gestionali: tutti prosperano, mentre il resto del Paese decade. La retorica MAGA prometteva la rinascita americana; la politica MAGA consegna il Paese ai suoi predatori economici. Il libero mercato è morto, e l’ha ucciso chi lo idolatrava.

L’industria USA affonda: la narrativa MAGA implode davanti ai dati reali. Intanto, l’indice manifatturiero USA continua a precipitare: ordini in calo, investimenti fermi, aspettative in rosso; Reuters parla di slump, ma sarebbe più corretto chiamarlo collasso strutturale. Gli Stati Uniti non producono più abbastanza perché hanno smantellato la loro base industriale per decenni, sostituendo fabbriche e tecnici con fondi marci e speculazione finanziaria; il dato più ironico: gli Stati più colpiti dal crollo manifatturiero sono proprio quelli che hanno votato per MAGA, sperando in una rinascita che non è mai arrivata. Il libero mercato non ha ricostruito nulla: i dazi non hanno riportato le fabbriche; i sussidi pubblici sono stati divorati dai monopoli finanziari. Il rinascimento industriale americano è rimasto uno slogan e gli USA stanno scoprendo la verità che l’Europa ha imparato anni fa: senza Stato, non c’è industria; senza industria, non c’è sovranità.

L’India non colmerà mai il gap con la Cina senza socialismo. La parabola statunitense nel resto del mondo inizia a farsi sentire e qualcuno si accorge che forse il sistema a stelle e strisce non è il migliore sulla piazza; Ashoka Mody, uno dei pochi economisti indiani capaci di guardare oltre la propaganda neoliberale, lancia un allarme che dovrebbe scuotere New Delhi: l’India non ridurrà mai il divario con la Cina se continua a credere che il mercato da solo possa risolvere tutto. Secondo Mody, la crescita indiana degli ultimi vent’anni è stata trainata da un’élite urbana e da un settore della tecnologia dell’informazione brillante, ma troppo ristretto, incapace di trasformarsi in capacità industriale diffusa; l’India ha il vantaggio demografico, ma non ha né la pianificazione né la struttura statale necessaria per trasformare la sua popolazione giovane in forza produttiva avanzata. La Cina ha costruito il suo successo grazie a un mix di proprietà pubblica, piani quinquennali, infrastrutture centralizzate e intervento diretto dello Stato nello sviluppo industriale; l’India, invece, vive ancora nella mitologia coloniale del mercato libero, mentre milioni di giovani rimangono intrappolati in lavori informali, senza accesso a formazione, sanità, trasporti e tecnologia. Mody sostiene che l’India non ha bisogno di più privatizzazioni, ma di più Stato: uno Stato capace di guidare investimenti, coordinare filiere, costruire reti energetiche e distribuire risorse; senza questa svolta, il Paese resterà un gigante demografico, ma un nano industriale. Il punto non è “diventare la Cina”, ma imparare da ciò che funziona; e ciò che funziona è la pianificazione.

La Cina porta la “rivoluzione dei prezzi” nella Belt and Road. La Belt and Road entra in una fase nuova: non solo infrastrutture e porti, ma esportazione di modelli economici. L’analisi di Di Dongsheng su Guancha descrive come la Cina stia introducendo nei Paesi partner una rivoluzione dei prezzi: modelli logistici, supply chain integrate, standard industriali cinesi e, soprattutto, una capacità di ridurre i costi reali delle opere pubbliche senza sacrificare la qualità. L’idea è semplice: il capitalismo occidentale ha costruito infrastrutture costosissime, gonfiate da appalti, consulenze, privatizzazioni e rendite parassitarie. La Cina offre l’opposto: grandi opere a costi più bassi, tempi rapidi e coordinamento centralizzato. E i Paesi del Sud globale lo capiscono benissimo: non è carità, è efficienza socialista applicata all’economia internazionale. La Belt and Road diventa così un vettore politico: non solo porta treni e porti, ma porta un modello post-liberista in cui lo Stato guida la crescita e riduce i costi delle filiere. Per questo l’Occidente parla di dipendenza: perché non può competere sui prezzi, non può competere sulla velocità, non può competere sulla qualità delle infrastrutture senza abbattere i suoi stessi monopoli interni. La Cina sta trasformando la Belt and Road in un laboratorio di sviluppo alternativo al Washington Consensus, e funziona.

Le riforme che servono alla Cina per mantenere una crescita sana. Anche la Cina, però, ha bisogno di riforme e, a proposito di questo, vi consigliamo questo articolo di Guancha; qui è riportato un discorso completo di Lin Yifu, ex capo economista della Banca Mondiale e studioso di grande rilevanza in Cina: lui vi esporrà, in modo sicuramente migliore di quello che potremmo fare noi, tutte le riforme di cui necessita l’economia cinese contemporanea che, comunque, deve affrontare più di qualche sfida.

 

Il Soddu

Lo scontro Cina-Giappone durerà un anno, avverte Taiwan. Il ministro della Difesa di Taiwan lancia un avvertimento che pesa: la crescente frizione tra Cina e Giappone non è un episodio isolato, ma un ciclo di tensione destinato a durare almeno un anno. Non è un’esagerazione: è la presa d’atto che l’Asia nordorientale sta entrando in un periodo in cui la deterrenza sostituisce la diplomazia; Tokyo, negli ultimi due anni, ha aumentato il budget militare come non accadeva dal dopoguerra, mentre Pechino accelera sui programmi navali e aerei integrando capacità cyber e droni autonomi. Il fatto che sia Taipei a parlarne indica che il triangolo Pechino-Tokyo-Taipei è diventato un sistema termico unico: ogni scintilla in un punto si propaga immediatamente negli altri. Per Taiwan, l’incrinarsi dei rapporti sino-giapponesi significa perdere margini di manovra: meno spazio diplomatico, più pressione militare e più probabilità che uno scontro incidentale si trasformi in crisi regionale. Il Giappone, dal canto suo, percepisce che le linee rosse cinesi si stanno moltiplicando, dal Mar Cinese Orientale a Taiwan, fino alle rotte commerciali che sostengono il suo export; per questo Tokyo sta rinsaldando le sue alleanze: rafforzamento con gli Stati Uniti, dialogo più stretto con le Filippine e una postura più assertiva anche sul piano interno. In una situazione così, non è escluso che proprio un incidente minore – un contatto tra navi, una violazione di spazio aereo – diventi il casus belli involontario di una crisi più ampia.

Ecco, appunto: nuovo scontro tra guardie costiere cinesi e giapponesi alle Diaoyu. L’ennesimo contatto ravvicinato tra le guardie costiere di Cina e Giappone nelle acque contese delle Diaoyu (Senkaku per Tokyo) è avvenuto poche ore fa. Le navi della guardia costiera sono ormai il braccio operativo della geopolitica a bassa intensità: non sono eserciti, ma agiscono come tali; non lanciano missili, ma stabiliscono precedenti e segnano confini. Ciò che colpisce in questo ultimo episodio non è lo scontro in sé, che ormai è quasi routine, ma il tono; il SCMP riporta un linguaggio più rigido, più teso: la Cina vuole dimostrare continuità e presenza permanente, mentre il Giappone risponde con pattugliamenti sempre più frequenti e una narrazione pubblica che non accetta alcuna concessione. Queste isole disabitate, strategiche solo per la loro posizione, sono diventate un palcoscenico simbolico per le rivalità continentali: non si litiga per le rocce, ma per il diritto di decidere l’ordine marittimo dell’Asia; è una lotta per lo status. E il rischio, come sempre, è l’automatizzazione del conflitto: più incidenti, più navi, più interazioni ravvicinate significano più possibilità di errore umano, e un singolo errore può rompere un equilibrio che dura da decenni.

Il Giappone chiarisce la sua posizione su Taiwan: un avvertimento globale. Il New York Times interpreta la nuova posizione giapponese su Taiwan come un campanello d’allarme per l’Occidente; Tokyo, tradizionalmente prudente, sta abbandonando l’ambiguità strategica: la sicurezza di Taiwan è parte della sicurezza nazionale giapponese. Questo linguaggio, che fino a pochi anni fa sarebbe stato impensabile, segna un cambiamento radicale; il governo giapponese sta costruendo un consenso interno attorno all’idea che un conflitto nello Stretto di Taiwan avrebbe un impatto diretto sulle isole giapponesi, sulle rotte commerciali, sull’energia e sugli alleati. Non è più una crisi esterna: è una minaccia immediata. Il significato geopolitico è chiaro: il Pacifico è il centro della competizione tra superpotenze. Gli Stati Uniti spingono per un Giappone più assertivo; la Cina interpreta questa assertività come parte di una strategia di accerchiamento: Taiwan diventa, così, il nodo attraverso cui passa il nuovo equilibrio del potere asiatico. Tokyo non sta cercando lo scontro, ma sta prevenendo la marginalizzazione: se non definisce adesso il suo ruolo, rischia di essere tagliata fuori da un ordine regionale costruito da altri. È una scelta che ha conseguenze: aumento delle spese militari, rafforzamento del QUAD, collaborazione crescente con Australia e India e nuovi accordi logistici con gli Stati Uniti. Il campanello d’allarme è questo: la stabilità asiatica non è più data per scontata.

Il G7 detta legge alla Cina mentre Macron cerca un tavolo. Il portale cinese Guancha analizza una dinamica curiosa: mentre il G7 elabora i suoi tre non consentiti alla Cina (un tentativo di definire linee rosse occidentali sulla sicurezza e la tecnologia), Macron cerca, al contrario, di reinserire Pechino nel dialogo multilaterale, proponendo perfino di invitarla al prossimo vertice. È la fotografia perfetta delle contraddizioni occidentali: contenere la Cina, ma non troppo; criticarla, ma non escluderla; costruire alleanze, ma evitando la rottura definitiva. Macron interpreta la Cina come un attore necessario per gestire le crisi globali, e questa lettura sta diventando silenziosamente dominante in una parte dell’Europa, sempre più consapevole che lo scontro frontale è insostenibile; il G7, invece, cerca una coesione che fatica a trovare: i tre non consentiti sembrano più una dichiarazione di intenti che una strategia credibile. Le posizioni su commercio, semiconduttori, energia e transizione digitale non sono affatto allineate. Guancha, come prevedibile, descrive Macron come un realista lucido; non spesso lo è, ma qualche volta sa esserlo: riconosce che un ordine globale senza la Cina è impossibile, ma tra realismo francese e pressione statunitense c’è un divario che continuerà ad allargarsi.

La Cina porta il Type-076 alla seconda prova in mare: rivoluzione per la guerra con droni. Il Type-076 è uno dei programmi più ambiziosi della Marina cinese: una piattaforma ibrida, capace di lanciare droni, velivoli a decollo verticale e sistemi autonomi da guerra elettronica. La seconda prova in mare, rivelata dal South China Morning Post, indica una tabella di marcia accelerata: Pechino vuole operatività entro pochi anni. La logica strategica è semplice: saturare il campo di battaglia con sciami autonomi riduce i costi, aumenta la resilienza e moltiplica la presenza cinese in scenari dove gli Stati Uniti dominano da decenni. Il Type-076 non è una portaerei classica: è un carrier per droni, un concetto che può cambiare completamente la geometria del potere navale; se sarà davvero operativo in tempi brevi, potrebbe diventare l’arma perfetta per le zone grigie del Pacifico – pattugliamenti, pressioni, proiezioni di forza non dichiarate come guerra. Il messaggio è chiaro: la Cina sta preparando un arsenale pensato non per un singolo scontro, ma per un conflitto lungo e distribuito, in cui l’intelligenza artificiale è parte dell’ordine di battaglia.

L’Indonesia investe 1 miliardo nella nuova banca di sviluppo dei BRICS. L’Indonesia compie un passo che va ben oltre la cifra stanziata: il miliardo di dollari destinato alla Nuova Banca di Sviluppo dei BRICS è un messaggio politico sul futuro del sistema finanziario globale. Giacarta non entra nei BRICS, ma compie una scelta che ha lo stesso peso simbolico: riconosce che la crescita del Sud globale non può più dipendere soltanto dalle istituzioni nate nel secondo dopoguerra. Questo gesto spinge la NDB sempre più vicino al ruolo per cui era stata pensata: un grande fondo infrastrutturale capace di competere con le linee di credito della Banca Mondiale e della Asian Development Bank. Il Sud-Est asiatico è oggi uno dei luoghi dove la multipolarità finanziaria si materializza più rapidamente; l’Indonesia, forte della sua demografia e della sua centralità nel G20, sta costruendo un profilo da potenza autonoma: dialoga con Washington e Bruxelles, ma investe nella sfera dei BRICS; accoglie capitali cinesi, ma difende l’indipendenza strategica; vuole essere hub produttivo delle supply chain, ma anche nodo del credito internazionale. Il miliardo per la NDB è anche una proiezione economica interna: serve a finanziare progetti che altrimenti sarebbero troppo lenti sotto le procedure occidentali, come porti, energia rinnovabile e infrastrutture interregionali; e, soprattutto, arriva in un momento in cui molti Paesi asiatici osservano con sospetto la crescente politicizzazione dei finanziamenti occidentali, spesso legati a condizioni normative stringenti.

La Cina spinge sulle “Little Giant”: la nuova spina dorsale tecnologica nazionale. Le Little Giant cinesi sono il cuore meno raccontato della trasformazione industriale della Cina; sono piccole e medie imprese ad altissima specializzazione, spesso operative in segmenti di nicchia: componentistica avanzata, sensori, robotica, semiconduttori, nuovi materiali. Xinhua racconta un boom che non è casuale, ma il risultato di una strategia pianificata: un ecosistema in cui lo Stato finanzia, protegge e incentiva innovazione distribuita. Il modello è diverso da quello occidentale: invece di scommettere solo su campioni nazionali giganteschi, la Cina costruisce un tessuto di migliaia di aziende altamente tecniche che diventano fornitori critici delle catene del valore; è un mercato modulare, resiliente, pensato per evitare il tilt in caso di sanzioni. Le Little Giant stanno crescendo in parallelo alla grande spinta alla sostituzione tecnologica: tutto ciò che può essere prodotto in Cina deve esserlo, soprattutto dopo le restrizioni americane sui chip; ma la parte più interessante è che questa strategia sta creando innovazione reale, non semplice imitazione. Molte di queste aziende vincono bandi internazionali, esportano componenti sofisticati e diventano nodi tecnologici di riferimento; la Cina sta replicando un modello simile al Mittelstand tedesco, ma in versione statalista: più coordinato, più finanziato e più orientato alla sicurezza nazionale; non solo efficienza, ma anche sovranità. Se questa rete continuerà a crescere, sarà sempre più difficile per i Paesi occidentali limitare la tecnologia cinese attraverso blacklist e restrizioni: non si combatte una galassia con un singolo provvedimento.

L’Europa critica la Cina ma investe in Cina: il paradosso industriale occidentale. Il Financial Times fotografa il paradosso perfetto dell’economia europea: Bruxelles annuncia indagini anti-sussidi, parla di competizione sleale, accusa Pechino di eccesso produttivo e, intanto, le aziende europee spostano ancora più capitali in Cina. È una contraddizione solo apparente: il mercato cinese rimane troppo grande, troppo dinamico e troppo avanzato tecnologicamente per essere ignorato. Le imprese europee, soprattutto quelle industriali e manifatturiere, seguono una logica che non coincide con quella dei governi: cercano margini, ecosistemi tecnologici maturi, fornitori veloci, una domanda interna gigantesca; la Cina offre tutto questo. Anche in settori sensibili come l’auto elettrica, l’Europa investe in Cina perché è lì che si produce meglio, più rapidamente e a costi competitivi. Ma come si salva l’economia europea se dipende essenzialmente dal buon andamento della Cina, Cina che consideri un nemico strategico? Semplice: non si salva. Il FT sottolinea un dato importante: molte aziende europee investono in Cina proprio per vendere in Cina, non per ri-esportare; significa che l’Europa non solo teme la concorrenza cinese, ma teme anche di essere tagliata fuori dal più grande mercato del mondo. Mica scemi i capitalisti europei… La Cina ha capito questa fragilità e la usa come leva: apre, chiude, incentiva, regola; sa che le aziende occidentali, pur tra mille diffidenze, non possono permettersi di andarsene.

DeepSeek: la Cina lancia un nuovo modello IA per sfidare Google e OpenAI. DeepSeek non è più una startup emergente: è la punta di lancia della corsa cinese all’intelligenza artificiale. Bloomberg racconta un lancio aggressivo: modelli linguistici più economici, più efficienti e addestrati con un approccio artigianale-industriale che punta meno sulla quantità e più sull’ottimizzazione delle architetture. Il messaggio è chiaro: la Cina non vuole inseguire; vuole competere. DeepSeek si inserisce nella più ampia strategia cinese di duplicare e poi superare l’avanguardia occidentale; la velocità con cui Pechino sta riducendo il gap è impressionante: mentre gli Stati Uniti impongono controlli sui chip, i laboratori cinesi rispondono migliorando il software, trovando scorciatoie algoritmiche e creando modelli più parsimoniosi. La sfida non è solo tecnologica: è politica; un modello cinese competitivo significa un ecosistema IA non più dominato dalle aziende americane, e questo altera la bilancia del potere informazionale globale. DeepSeek offre modelli a costi inferiori rispetto ai concorrenti occidentali; è un fattore decisivo: permette a decine di migliaia di aziende asiatiche di accedere a servizi avanzati senza dipendere dalla Silicon Valley. Il resoconto del South China Morning Post è più politico di quello di Bloomberg: il SCMP racconta DeepSeek come uno strumento di potere nazionale. Nell’articolo emerge il senso di missione: DeepSeek deve dimostrare che la Cina può innovare da sola, anche con chip limitati. È la risposta alla pressione statunitense: dove Washington chiude i rubinetti, Pechino sviluppa architetture più agili, più leggere e spesso più efficienti. La lettura del SCMP suggerisce che la Cina vuole costruire un modello di IA non occidentale, addestrato su dataset prodotti in Cina, pensato per essere integrato in servizi governativi, scuole, imprese, infrastrutture pubbliche: è un ecosistema chiuso, sovrano, indipendente. L’aspetto più significativo è la fiducia crescente: l’idea che la Cina non stia più correndo dietro all’Occidente, ma stia iniziando a indicare la direzione (qui i due approfondimenti di Bloomberg e del South China Morning Post).

La Cina vuole che facciate sesso. La decisione del governo cinese di aumentare le tasse sui preservativi per stimolare la natalità sembra, a prima vista, una misura bizzarra, ma va inserita in una strategia più ampia: Pechino sta sperimentando ogni possibile leva per contrastare il crollo delle nascite, una crisi ormai strutturale. Il problema è culturale, ma anche economico: i giovani cinesi non si sposano, non fanno figli e non vedono un futuro stabile – case costose, precarietà urbana e costi educativi insostenibili; aumentare il costo dei preservativi è un tentativo di influenzare micro-comportamenti, ma non risolve nessuno dei nodi strutturali. La Cina sembra oscillare tra misure moderne (incentivi economici, welfare per le madri) e misure arcaiche (campagne morali, disincentivi alla contraccezione); è un segno della disperazione istituzionale: una potenza enorme che non riesce a fermare il suo declino demografico. Il rischio è che queste politiche alimentino l’irritazione sociale, soprattutto tra le giovani generazioni che percepiscono lo Stato come troppo invasivo nella sfera intima.

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