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contropiano2

Reddito di cittadinanza. Tanto rumore per poi finire con il “modello Hartz IV”?

di Giuliana Commisso - Giordano Sivini

Hartz IV disoccupatiIl ministro del Lavoro e vicepremier Di Maio dopo l’incontro con il ministro Hubertus Heil ha riferito le considerazioni del suo omologo tedesco: “Ha detto che finalmente hanno capito che il nostro reddito di cittadinanza non è una misura assistenziale, ma uno strumento di politica attiva per il lavoro, come il loro Hartz IV”.

Hartz IV tiene in povertà milioni di persone in Germania. Dieci anni dopo aver imposto al paese questa legislazione l’ex cancelliere socialdemocratico Schroeder non aveva negato questa evidenza ma aveva avuto la faccia tosta di sostenere che non sono le sue riforme del mercato del lavoro e dell’assistenza sociale a tenerli in povertà, la colpa è delle imprese che ne fanno uso improprio. EPerò quelle sue riforme trascendevano le imprese; hanno puntato a ristrutturare e rilanciare il sistema produttivo nel suo complesso realizzando la flessibilizzazione degli strati medio bassi del lavoro contando sul fatto che era possibile abbassare i salari individuali fin sotto il livello della sussistenza perché il sussidio avrebbe realizzato ad un tempo una funzione di integrazione salariale in favore delle imprese, e di controllo e di ricatto sui lavoratori. La storia di Hartz IV riguarda l’estesa frammentata popolazione di individui legalmente riprodotti sul mercato del lavoro come poveri.

Su Hartz IV si può leggere questa analisi estratta dal libro di Giuliana Commisso e Giordano Sivini, Reddito di cittadinanza: Emancipazione dal lavoro o lavoro coatto? (Asterios 2017).

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I pilastri della riforma del mercato del lavoro

Le misure decise da Schroeder furono volte a ridisegnare il sistema di gestione del mercato del lavoro, comprimendo i sussidi di disoccupazione, introducendo il reddito minimo condizionato allo svolgimento di attività lavorative, e creando occasioni di lavoro attraverso normative che ampliavano il precariato.

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iltascabile

Lavori senza senso

di Paolo Mossetti*

Una riflessione sui bullshit jobs, a partire dal saggio dell'antropologo David Graeber

The Apartment 2cover 1440x708Con un capitalismo americano che, come il Barone di Münchhausen, è riuscito a sfuggire alle sabbie mobili tirandosi fuori per i capelli, raggiungendo dieci anni dopo la crisi dei subprime quasi la piena occupazione, ci può essere ancora spazio per lamentarsi del lavoro salariato? C’è voluto un antropologo anarchico, lo statunitense David Graeber, per diagnosticare un’epidemia che affligge coloro che sembrano sempre impegnati anche quando non hanno nulla da fare; o quelli che, anziché ringraziare per il fatto di avere uno stipendio, non riescono a ignorare la soffocante sensazione di stare sprecando la propria vita. Non parliamo del lavoro in quanto tale, ma di una specifica occupazione retribuita che “è così totalmente inutile, superflua o dannosa che nemmeno chi la svolge può giustificarne l’esistenza, anche se si sente obbligato a far finta che non sia così”. Sono i bullshit jobs – tradotto con “lavori del cavolo” nel sottotitolo dell’edizione italiana appena uscita per Garzanti – il tema portante di un articolo che cinque anni fa lanciò il pensatore newyorchese trapiantato a Londra nel firmamento accademico e radical, articolo ampliato e sviluppato in un saggio dal titolo omonimo pubblicato nel maggio di quest’anno per Simon & Schuster, e già bestseller.

La tesi del libro è che, in tutte le economie sviluppate, il settore finanziario, avviluppando qualsiasi altro campo, ci ha imprigionato in una rete fittissima di lavori senza alcun valore, trasformandoci da cittadini in sudditi, e imponendo su di noi una vera e propria “violenza spirituale”. Certi lavori sono così inutili che nessuno si accorge se chi se ne occupa scompare. Capita, spiega Graeber, soprattutto nel settore pubblico. Basti leggere un titolo del Jewish Times del 26 febbraio 2016: “Impiegato statale non si presenta al lavoro per sei anni per studiare Spinoza”. Ma vale anche per le multinazionali: “proprio come i regimi socialisti avevano creato milioni di posti di lavoro fasulli per i proletari”, oggi le imprese private stanno “di continuo alleggerendo del superfluo le officine e utilizzando i risparmi che ne derivano per pagare lavoratori ancora meno necessari negli uffici ai piani superiori”.

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carmilla

Il fiato del drago

di Giovanni Iozzoli

sala mensa assemblea 99Oh, il mistero arcano della creazione di valore.

Oh, il mistero ancora più occulto della creazione di coscienza: i produttori di valore davanti all’incantesimo della merce, della ricchezza astratta, della potenza produttiva dispiegata. E della loro indecifrabile condizione dentro questa fantasmagoria.

Anche quest’anno, nonostante una discreta repulsione, sono stato arruolato tra i relatori di minoranza (di micro-micro minoranza) nelle assemblee congressuali della CGIL del mio territorio.

Alcune cose vanno fatte anche se non sai più perchè. Fa un po’ parte del gioco.

La vecchia CGIL è un corpaccione molle, esanime su cui si proietta minacciosa l’ombra storica dell’inutilità. Però una cosa buona la mantiene, almeno sul piano dei principi: i suoi congressi si decidono sui posti di lavoro, azienda per azienda, in una consultazione di massa che dovrebbe riguardare tutti i sui iscritti. Inutile dire che se il metodo è virtuoso, la prassi lo è molto meno. Senza parità di condizioni – com’è ovvio anche nello schema di ogni democrazia liberale – alla fine della conta prevale chi ha in mano le risorse, cioè gli apparati e le chiavi della cassa. Però ogni 4 anni, nel grigio tran tran quotidiano in cui si macinano essenzialmente ripiegamenti, si apre uno squarcio vero di vita sindacale e discussione: e finanche la piccola minoranza eretica e scombinata – l’unica rimasta in CGIL – ha il diritto statutario di andare a parlare direttamente con i lavoratori, tutti, senza eccezione, fin dove le sue modeste forze le consentono di arrivare.

Breve parentesi per i non addetti ai lavori: in CGIL sono sempre esistite una o più “sinistre sindacali” – e le si derubricava alla voce “diverse sensibilità”. E si usava proprio questo termine emotivo ed affettivo – sensibilità – per definirle come sfumature dentro il corpo sempre omogeneo della grande madre.

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fiom cgil

Marchionne? Ha sacrificato la Fiat per salvarne i padroni

Gabriele Polo intervista Gianni Rinaldini

elkann e marchionne“Marchionne non ha salvato la Fiat, l'ha sacrificata per salvarne i proprietari. Del resto era stato assunto per questo, quindi ha fatto un ottimo lavoro, dal punto di vista degli eredi Agnelli”. Gianni Rinaldini fa uno sforzo di laicità: dopo il lutto per l'uomo, l'ex segretario generale della Fiom prova a superare la generalizzata santificazione del manager, fornendo il proprio punto di vista su chi è stato sua controparte e trarre un bilancio sugli esiti industriali, sindacali e sociali della fu maggiore impresa privata italiana targata Torino; ora gruppo americano con la testa a Detroit, quotata a Wall Street, sede legale ad Amsterdam e fiscale a Londra: “Assunto per gestire l'uscita della Fiat dall'auto, evitare il fallimento del gruppo che avrebbe travolto gli Agnelli – più di cento eredi, divisi in numerose famiglie e importanti cognomi – e arrivare al pareggio di bilancio, Sergio Marchionne ha svolto fino in fondo il compito che gli era stato assegnato. Salvando Exor, i suoi azionisti. E la Chrysler, grazie a Obama. Per poterlo fare ha sacrificato la Fiat, penalizzato gli stabilimenti italiani e soprattutto i suoi operai”.

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Marchionne arriva in Fiat nel 2003 e diventa amministratore delegato nel giugno 2004, dopo la morte di Umberto Agnelli e lo scontro della famiglia con Morchio che voleva diventare presidente oltre che a.d. del gruppo. Da allora è stato anche la tua controparte. Che impressione ne hai tratto?

Stabiliva rapporto diretti, senza alcuna formalità, andava al sodo – anche brutalmente – con un'idea molto precisa ed esplicita di “comando aziendale”; con i suoi collaboratori come con le sue controparti. Per questo ci fu chiaro fin da subito quale fosse il suo mandato: salvare la proprietà – chi l'aveva ingaggiato – dal disastro del gruppo Fiat riducendo il peso dell'auto fino a liberarsene, arrivando al pareggio di bilancio e permettere alla famiglia di muoversi più liberamente sul terreno della finanza, dell'immobiliare, delle assicurazioni.

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la citta futura

L'economia robotica

di Marco Beccari

Nonostante l’introduzione dei robot e la crescente automazione, l’elemento attivo nella produzione sociale di valori d’uso rimane il lavoro umano, i robot industriali non sono mai completamente autonomi dall’uomo

fde415699381776e109824569e233fb5 XLL’articolo trae spunto dal materiale didattico (lucidi) preparato e presentato da Domenico Laise, docente dell’Università La Sapienza di Roma, ad un seminario, su: “La Teoria del valore-lavoro nell’epoca della robotica”, tenuto presso l’Università Popolare A. Gramsci nell’anno accademico 2017-2018. Il riferimento bibliografico essenziale dei materiali presentati in tali seminari è: D. Laise, La Natura dell'impresa capitalistica, Egea, Milano, 2015.

In un precedente articolo abbiamo visto come nel processo lavorativo sia solo l’uomo l’elemento attivo, e come, invece, le macchine e gli animali siano degli elementi passivi, che non possono essere considerati dei sostituti dell’uomo nella produzione di valori d’uso. In un secondo articolo abbiamo poi esaminato la Teoria del valore-lavoro in Marx giungendo alla conclusione che il lavoro astratto è l’unica fonte di valore, e nel capitalismo, di plusvalore (lavoro non pagato) in quanto il lavoro umano è la fonte attiva del valore d’uso. Possiamo sostenere che le macchine non possono sostituire l’uomo nella produzione di plusvalore. Solo il lavoro umano astratto crea valore e, quindi, plusvalore; infatti, come sostiene Marx, le macchine non aggiungono mai più valore di quanto non ne perdono per il loro logorio [1].

Scopo di questo articolo sarà quello di mostrare come le tesi di Marx mantengano la loro validità anche quando le macchine assumano la loro forma più evoluta di "robot". Per arrivare a queste conclusioni dovremo, innanzitutto, definire che cosa è un robot.

Che cosa è una macchina robotica o robot? Occorre notare che non esiste una definizione univoca di macchina robotica, e diversi autori ne hanno dato definizioni differenti. In questo articolo faremo riferimento alla definizione adottata da Wiener, padre della cibernetica [2].

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blackblog

Lavori, stronzate, e la burocratizzazione del mondo

di Jason E. Smith

smith callcenter4«In nessun altro luogo, troviamo uno spreco altrettanto vergognoso della forza lavoro umana, per gli scopi pù spregevoli, di quello che troviamo in Inghilterra, la terra delle macchine.» (Karl Marx, 1867)

Probabilmente, ne avete sentito parlare per la prima volta quando avrete letto - su Bloomberg.com oppure sulle pagine del "The New Yorker" - del ruolo che ha avuto come uno dei "fondatori" del movimento di Occupy Wall Street. È probabile che alcuni di voi si siano imbattuti in lui anche prima, quando il The New York Times ha pubblicato un breve articolo sul professore di antropologia, apertamente anarchico, dove si lamentava del fatto che la politica aveva sventato i suoi piani per ottenere una cattedra a Yale. Altri, probabilmente un po' più giovani - che sono andati alla deriva nel periodo politico "radicale" successivo al 2008 - lo hanno trovato la prima volta su Twitter, dove mantiene assiduamente contatti con quasi 70.000 followers. Radicali un po' più anziani lo ricorderanno all'inizio del secolo, come partecipante entusiasta, e cronista, al movimento anti-globalizzazione. "Slate", The Guardian, The Financial Times ed altri organi delle potenze dominanti, aprono gli spazi delle colonne dei loro giornali alle sue riflessioni sulla tecnologia, sul denaro e sul Corbynismo, oppure ai suoi appelli in cui si richiede soccorso occidentale per i "rivoluzionari curdi" di Rojava (che hanno goduto per molti anni del letale supporto aereo degli aerei da guerra statunitensi). Figlio di un newyorkese di sinistra - suo padre ha combattuto nelle leggendarie Brigate Lincoln - oltre che uno degli ultimi studenti di Marshall Salins, oggi David Graeber è più noto per il suo monumentale libro del 2001, “Debito. I primi 5000 anni”, che è stato pubblicato appena un paio di mesi prima che sorgesse l'accampamento in Zuccotti Park.

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senso comune

Il lavoro ai tempi dei 5 Stelle

di Domenico De Blasio

1521042251237 1521042261.jpg com e il lavoro a 5 stelle Questa settimana il senato ha approvato il testo definitivo del cosiddetto “decreto dignità”, il primo atto del nuovo governo dichiaratamente (forse anche esclusivamente) pentastellato. Per onestà intellettuale bisogna subito riconoscere che si tratta del primo provvedimento dai tempi di tangentopoli in cui pare che si cerchi di imprimere un cambio di direzione alla deregulation selvaggia del mondo del lavoro, aspetto che ha generato un duro e lungo dibattito intorno alle novità introdotte dalla legge. La cosa non dovrebbe essere nuova in una democrazia viva e sana, eppure difficilmente si ricordano altri momenti in cui il discorso politico-mediatico si sia concentrato così tanto sul merito di un progetto legislativo più che sulle posizioni politiche. Era accaduto col referendum costituzionale del 2016 che, non a caso, rischiava di sancire il trionfo del liberalismo targato Renzi e invece registrò una decisa e partecipata rivolta popolare. Finalmente le posizioni in campo circa la visione del lavoro nel sistema italiano sono necessariamente venute allo scoperto, il Partito Democratico si è definitivamente manifestato per quello che è, un partito neoliberale al servizio della grande impresa privata e, diciamocelo, vedere Gennaro Migliore o Deborah Serracchiani che si sbracciano per difendere i poveri imprenditori, non più liberi di fare come meglio credono, è un vero piacere. Gli unici interventi in direzione lavorista, anche se squisitamente pretestuosi, sono arrivati dai banchi di LeU e sono stati votati solo dai suoi esponenti. Anche questo però darà molto di cui parlare a chi dovrà fare del discorso sul lavoro un discorso politico negli anni a venire; se infatti un esame di coscienza è doveroso per quei parlamentari che oggi chiedono la reintroduzione dell’articolo 18 e ieri hanno votato il Job’s Act, siamo sicuri che il fisiologico gioco di accuse reciproche che questo esame comporta (sempre in quella democrazia sana in cui LeU non muore dalla voglia di ricongiungersi col PD) non sarà avaro di sorprese.

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conness precarie

I lavoratori in affitto e il difficile governo europeo del salario

di ∫connessioni precarie

POsted workers 2Lo scorso giugno il Parlamento Europeo ha approvato la nuova direttiva sui posted workers, cioè lavoratori e lavoratrici che, per un periodo limitato di tempo, lavorano in uno Stato membro UE diverso da quello in cui sono abitualmente occupati. Si tratta di circa due milioni di operaie e operai che di mese in mese si spostano sul territorio europeo, una porzione di forza lavoro da sommare agli oltre 17 milioni di migranti interni oggi presenti in Europa. La direttiva sembra magicamente mettere d’accordo tutti: Juncker, Macron, i sindacati, i governi dei principali paesi destinatari del distacco e alla fine, dopo qualche protesta, anche i paesi dell’Est – con l’eccezione di Polonia e Ungheria – sembrano aver accettato l’inevitabilità di cotanta ragionevole commistione di libertà del mercato e diritti del lavoro. La regolamentazione mostra non solo la sorprendente convergenza di governi nazionali, commissione europea, sindacati e imprese, al netto dei contrastanti nazionalismi e dei conflitti politici, ma anche il modo in cui l’integrazione logistica europea funziona attraverso un governo transnazionale del salario il cui scopo è legare la mobilità esclusivamente al lavoro e al profitto.

In primo luogo, la direttiva riduce la durata massima del distacco a 12 mesi, estendibili a 18, oltre i quali ai lavoratori deve essere garantita «una serie aggiuntiva di condizioni applicabili in via obbligatoria ai lavoratori nello Stato membro in cui il lavoro è svolto». Questa misura, giustificata con l’obiettivo di ridurre gli abusi, comporta in realtà solo un cambiamento minimo, considerato che la maggior parte dei distacchi ha in ogni caso durata inferiore a sei mesi.

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pandora

Sulla gig economy

intervista a Riccardo Staglianò

Intervista a Riccardo Staglianò sulla gig economy 640x315Le recenti mobilitazioni dei ciclofattorini in diverse città d’Italia hanno attirato l’attenzione dei media e della politica sulle problematiche della gig economy. Del tema Pandora ha parlato in diverse occasioni con articoli e interviste, inquadrandolo nella questione più generale della digitalizzazione e dei suoi rischi. Riccardo Staglianò, giornalista de La Repubblica, si è a lungo occupato di questi temi, che ha affrontato nel suo recente libro Lavoretti. Così la sharing economy ci rende tutti più poveri (da noi recensito su questo sito) e anche nel precedente Al posto tuo. Così web e robot ci stanno rubando il lavoro, entrambi editi da Einaudi. Abbiamo deciso di intervistarlo per approfondire il complesso di questioni che lega gig economy, sharing economy, automazione e digitalizzazione, polarizzazione sociale e concentrazione delle aziende del settore tecnologico. L’intervista è a cura di Giacomo Bottos, Raffaele Danna e Luca Picotti.

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Nel discorso pubblico, per parlare di alcune delle recenti trasformazioni economiche, si impiega spesso il termine “sharing economy” che, nell’immaginario collettivo, viene generalmente associato ad un insieme di significati positivi. In una seconda fase si è invece iniziato a parlare di “gig economy”, termine che viene generalmente usato con un’accezione critica, associato a lavori malpagati, scarsità di tutele e sfruttamento. Secondo lei esiste una reale distinzione tra “sharing economy” e “gig economy”? Insomma, esiste un “volto buono” e uno negativo delle trasformazioni che stiamo vivendo, o viceversa si tratta di processi complessivamente negativi, nei quali la retorica della condivisione nasconde una realtà diversa?

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operaieteoria

La Cassazione contro gli operai

Critica alla sentenza sui cinque operai FCA di Pomigliano

di Andrea Vitale

satira fca“Non l’abbiamo mai nascosto. Il nostro terreno non è il terreno del diritto; è il terreno della rivoluzione. Il governo, da parte sua, ha infine abbandonato l’ipocrisia del terreno legale; si è posto sul terreno rivoluzionario; giacché anche il terreno controrivoluzionario è rivoluzionario.

Così scriveva nel lontano 1848 il giovane Karl Marx. Siamo oggi di fronte a tutt’altra situazione di quella rivoluzionaria che nel ’48 sconvolgeva l’Europa, eppure questa frase è del tutto adeguata ad esprimere il giudizio sulla sporca faccenda che ha visto la Cassazione ribaltare la sentenza di appello e confermare il licenziamento dei 5 operai FCA di Pomigliano. Certamente non abbiamo a che fare con le titubanze e le indecisioni della borghesia tedesca né con la controrivoluzione prussiana, ma con una semplice e plateale denuncia della propria tremenda condizione fatta da un gruppo di operai e l’avallo che la magistratura fa della rappresaglia del padrone, il quale non può accettare nessuna critica e pretende il silenzio e la totale sottomissione degli operai che sfrutta. Nondimeno le parole di Marx risultano pregnanti in questo contesto.

“Non l’abbiamo mai nascosto. Il nostro terreno non è il terreno del diritto; è il terreno della rivoluzione.

I licenziati di Pomigliano hanno sempre avuto presente questo concetto e non hanno mai avuto il timore di dichiararlo a gran voce. Lo hanno fatto quando hanno detto che loro non erano interessati alla lunga e spesso sterile trattativa sulla vite in più o in meno da avvitare sulla linea di montaggio. Questo livello di scontro, se assolutizzato come unico piano di azione degli operai, presuppone l’accettazione eterna della propria condizione di “prestatori di lavoro” sotto il comando del padrone. Un piano conflittuale che in particolare nella crisi rivela tutti i suoi limiti, quando, sotto il ricatto della disoccupazione e della concorrenza fra proletari, la forza contrattuale operaia viene drasticamente ridimensionata.

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blackblog

Giuseppe Rensi, Contro il lavoro

di Benoit Bohy-Bunel

silhouette construction workerIn Francia, le edizioni Allia rieditano il libro di Giuseppe Rensi, "Contro il lavoro" [che può essere liberamente letto e/o scaricato, in italiano, da qui], tradotto in italiano da Marie-José Tramuta, e con prefazione di Gianfranco Sanguinetti. Pubblicato nel 1923, lo stesso anno di "Storia e coscienza di classe" (Lukács), questo saggio propone una critica radicale ed originale del lavoro, la cui dimensione "morale" viene affermata in ogni pagina. Rensi, pensatore sovversivo che si era opposto alla destra neo-hegeliana dei suoi tempi, propone una filosofia scettica e post-leopardiana. Venne condannato in contumacia a 11 anni di prigione, mentre dirigeva la rivista "Lotta di Classe", e più tardi, nel 1927, venne estromesso dalla sua cattedra di filosofia morale all'Università di Genova. Nel 1903, mentre era esiliato in Svizzera, era stato il primo deputato socialista eletto in Ticino. Con questo suo appello contro il lavoro, può essere considerato al vertice delle avanguardie artistiche della sua epoca, e rimane un precursore dei situazionisti.

 

L'Antilogia del Lavoro

In maniera coerente, Rensi per prima cosa fa riferimento alla dualità del termine "giustizia", che si rende necessario allorché parliamo della questione del lavoro. La cosiddetta "giustizia" borghese, che si impone genealogicamente con la forza (espropriazioni), rimanda all'ingiustizia dello spossessamento e dell'indigenza: l'individuo che lavora viene spossessato dei suoi strumenti di lavoro, e del prodotto del suo lavoro. L'estorsione di un plus-lavoro, condizione del profitto borghese, aggiunge un'ingiustizia ancora più esplicita, cinicamente istituzionalizzata. Il pseudo-contratto di lavoro che lega un datore di lavoro al suo dipendente ratifica "giuridicamente" una situazione che è di fatto ingiusta, che viene imposta con la forza. Il "libero lavoratore", che dispone solo della sua forza lavoro, non lavora affatto in modo "libero", né perciò in modo "giusto", ma è costretto a vendersi, se non altro per poter sopravvivere.

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carmilla

Il lavoro tra frammentazione e ricomposizione

di Fabio Ciabatti

Figure del lavoro contemporaneo, introduzione e cura di Carlotta Benvegnù e Francesco E. Iannuzzi, postfazione di Devi Sacchetto, Ombre corte 2018, pp. 167, € 12,75

cover figure del lavoroDiversità e frammentazione appaiono come la cifra principale del mondo del lavoro contemporaneo. Allo stesso tempo, però, l’integrazione crescente dei processi economici all’interno delle catene del valore, nelle quali coabitano regimi lavorativi estremamente diversi, aumenta l’interconnessione tra le molteplici figure del lavoro. Detto altrimenti, il luogo di lavoro non costituisce lo spazio in cui le diversità si appianano, ma esso può costituire un momento di convergenza. E’ questo, in breve, il filo conduttore di Figure del lavoro contemporaneo, un libro composto da otto ricerche sul campo, realizzate da giovani studiosi e studiose, che hanno come protagonisti facchini, portuali, lavoratrici del sesso, operai e operaie del circuito elettrodomestico, del comparto moda, delle imprese recuperate, migranti impiegati nel settore agricolo del Sud Italia, lavoratori e lavoratrici di piattaforme digitali.

Nell’introduzione, i curatori Benvegnù e Iannuzzi chiariscono che i lavoratori e le lavoratrici non vengono considerati come mero oggetto di processi che passano sopra le loro teste. Il tentativo, con esiti sensibilmente differenti in base ai casi studiati, è quello di porre l’attenzione sulla loro agency. Ciò, nell’intenzione degli autori, contribuisce sia a superare visioni eccessivamente pessimistiche sull’insufficienza delle risposte organizzate da parte dei lavoratori sia ad analizzare simultaneamente la sfera della produzione e della riproduzione, considerando anche quest’ultima come punto di emergenza di soggettività e resistenze.

Per comprendere l’agency della forza-lavoro contemporanea, proseguono i curatori, è importante capire che le trasformazioni delle forme organizzative e tecnologiche non seguono un percorso lineare di rottura e sostituzione delle fasi precedenti, ma generano forme ibride di organizzazione e regolazione del lavoro. Ad essere integrate e rifunzionalizzate sono composizioni di manodopera eterogenee sulla base di differenze e di attributi sociali quali genere, origine etnica, nazionalità, cultura e stili di vita.

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paginauno

Un hobby a cottimo

di Collettivo Clash City Workers

food delivery ft evidenza 2 800x497I raiders da dizionario sono i membri di un commando che agisco veloci nell'assalto, che, insomma, fanno raid. Nelle nostre città: compatti, all'assalto del mercato del food delivery.

I fattorini li conoscono tutti, consegnano di tutto e lavorano per qualcuno di preciso, qualunque mezzo di trasporto usino; i raiders, invece, sono una specie strana, dicono vadano solo in bici perché gli piace e che lavorino per sé. La definizione militaresca li colloca su un altro pianeta fatto di avventura, dedizione, desiderio di conquista, ma la realtà è un'altra.

I riders sono coloro che lavorano per piattaforme come Just Eat, Delive roo, Glovo, Sgnam, Food Pony, Foodora, My Menu consegnando, principalmente in bicicletta, il cibo a domicilio. Anche in Italia i raiders hanno iniziato a organizzarsi come veri lavoratori, anche se le politiche aziendali sono basate sulla tesi che chi lavora nelle consegne tramite app e algoritmi sia nulla più che un 'collaboratore' autonomo, quasi un imprenditore. Nel febbraio scorso il primo sciopero nel bolognese ha bloccato le piattaforme per due ore e costretto alcune compagnie a sospendere il servizio, prima a tratti e poi definitivamente per l'intero turno serale. L'organizzazione è dunque arrivata anche in una media città, dopo che in quelle più metropolitane il percorso di organizzazione è partito da tempo con mobilitazioni significative a Milano e Torino, e qualcosa inizia a muoversi anche a Roma. Man mano che il servizio si estende si estendono anche le mobilitazioni di lavoratrici e lavoratori, anche se si parte da uno squilibrio di potere fortissimo.

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la citta futura

Riduzione orario di lavoro e/o reddito di cittadinanza?

di Renato Caputo

Perché la lotta per la riduzione dell’orario di lavoro non è conciliabile con quella per il reddito di cittadinanza

orariodilavoroCome ha osservato a ragione Lenin: “dal momento che non si può parlare di una ideologia indipendente elaborata dalle stesse masse operaie nel corso stesso del loro movimento, la questione si può porre solamente così: o ideologia borghese o ideologia socialista. Non c’è via di mezzo (poiché l’umanità non ha creato una ‘terza’ ideologia, e, d’altronde, un una società dilaniata dagli antagonismi di classe, non potrebbe mai esistere una ideologia al di fuori o al di sopra delle classi). Ecco perché ogni menomazione dell’ideologia socialista, ogni allontanamento da essa implica necessariamente un rafforzamento dell’ideologia borghese” [1].

Dal punto di vista del marxismo, dal momento che le macchine, in quanto lavoro morto, non possono che riprodurre in media il valore corrispondente al tempo di lavoro impiegato a produrle, il plus-valore è interamente prodotto dal lavoro umano. Quest’ultimo, nella società capitalista, è tendenzialmente sfruttato dal capitalista a cui il proletario, non avendo altri mezzi per riprodursi, cede la propria capacità di lavoro. È, dunque, evidente che il reddito di cittadinanza, o qualsiasi forma di retribuzione slegata dallo svolgimento di una prestazione lavorativa, non può che essere attinto dal plus-valore prodotto essenzialmente mediante lo sfruttamento del lavoro salariato.

Quindi, per quanto privi di coscienza di classe i lavoratori, costretti a ritmi e orari di lavoro sempre più massacranti per arrivare alla fine del mese, non considerano generalmente con favore che una parte più o meno consistente di quanto è prodotto venga dato in cambio di nulla a chi non si impegna nell’attività produttiva. Tanto è vero che, nei paesi in cui tali forme di reddito slegate dal lavoro sono state elargite, hanno generalmente approfondito la frattura fra lavoratori e percettori del reddito.

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pandora

Taylorismo digitale e lavoratori della conoscenza

di Lorenzo Cattani

arton472Verso la fine degli anni Cinquanta, Peter Drucker introdusse per la prima volta il termine “lavoratore della conoscenza”[1]. Drucker riteneva che nel futuro sarebbe stata l’informazione a determinare i più grandi cambiamenti della società e di conseguenza il gruppo più importante, per numero e rilevanza, all’interno della forza lavoro sarebbero stati proprio i lavoratori della conoscenza. In un libro successivo, Drucker arrivava ad affermare che, all’interno di una data organizzazione, ogni lavoratore avrebbe potuto essere un dirigente, qualora, in virtù della sua posizione o conoscenza, fosse stato responsabile di fornire un contributo che potesse influenzare la performance dell’organizzazione, nonché la capacità della stessa di raggiungere gli obiettivi[2].

Negli ultimi decenni i lavoratori della conoscenza sono stati riconosciuti come un attore chiave all’interno del mercato del lavoro e, anche nel dibattito pubblico, l’interesse attorno a questa categoria di lavoratori è indubbiamente aumentato. La gestione dei lavoratori della conoscenza è quindi un passaggio fondamentale nella vita di un’azienda, specialmente in questa fase storica in cui le imprese si preparano ad affrontare la “quarta rivoluzione industriale”.

Il punto fondamentale sta nella scelta di quale principio adottare per gestire questi lavoratori e, ad oggi, questa scelta oscilla sostanzialmente fra due poli. Da una parte vi è la strategia di dare più autonomia ai lavoratori della conoscenza, dall’altra vi è invece la possibilità di “strutturare” il loro lavoro “esternamente”, determinando a priori le modalità con cui dovrebbero svolgere i loro compiti, opzione che va nella direzione opposta rispetto a quella di una maggiore autonomia. Thomas Davenport ha definito questi due approcci alla gestione strategica dei lavoratori della conoscenza come il free-access approach e lo structured approach[3].