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Da Marx a Marx? Un bilancio dei marxismi italiani del Novecento

di Carla Maria Fabiani

Riccardo Bellofiore (a cura di), Da Marx a Marx? Un bilancio dei marxismi italiani del Novecento, Manifestolibri, Roma 2007, ISBN 978-88-7285-475-4, euro 28.00

ultimamarxIl volume nasce come raccolta degli atti di un convegno organizzato da Riccardo Bellofiore presso l’Università di Bergamo (Facoltà di Economia) in occasione dell’uscita, sempre per la Manifestolibri, del volume di Cristina Corradi dal titolo Storia dei marxismi in Italia. Allora, è bene innanzitutto riportare le tesi sintetiche che Corradi espone in questa raccolta alle pagine 9-31.

 

1. Rapporto teoria e prassi. I protagonisti italiani di questo intricato rapporto sono innanzitutto Antonio Labriola e poi Antonio Gramsci. Se il primo incentra la sua lettura di Marx sulla nozione di “materialismo storico”, il secondo restituisce una originale lettura delle Tesi su Feuerbach “da cui ha ricavato una filosofia della prassi intesa come produzione di soggettività politica”. Subentrano nel secondo dopoguerra, lo storicismo marxista e lo scientismo dellavolpiano. L’operaismo degli anni ’60 sgancia il marxismo dall’idealismo tedesco, dal socialismo francese e dall’economia politica inglese, proponendo “la tesi politica della potenza antagonistica della classe operaia”. La crisi del marxismo degli anni ’70 si manifesta nell’abbandono del paradigma della critica dell’economia politica, relegando la lettura marxiana del capitalismo all’Ottocento.

 

2. L’emblematica vicenda di Luporini. Negli anni ’60, Cesare Luporini rilegge Marx alla luce di Althusser, sganciandolo da Hegel e da Feuerbach. Nei successivi anni ’70, propone una lettura più attenta della prima sezione del Capitale, sottolineando poi la rilevanza del contesto mondiale in cui si inserisce il rapporto di produzione capitalistico, da tenere costantemente assieme con il problema dell’egemonia.

 

3. Fallimento teorico del marxismo degli anni ’70 ovvero l’eclettismo filosofico marxista. Alla fine degli anni ’60, Lucio Colletti, critico di Della Volpe, sembra ispirare la ricerca, in campo marxista, di un’alternativa allo storicismo e al dellavolpismo. Nella seconda metà degli anni Settanta, tale linea viene però abbandonata da Colletti, a favore di una riscoperta di Gramsci, atta a legittimare le vicende politiche del compromesso storico. Con l’operaismo di Tronti e l’autonomia operaia di un Negri, si tenta un rovesciamento della critica dell’economia politica in critica dello Stato. Con Massimo Cacciari si propone la cosiddetta autonomia del politico, sostanzialmente liberata da lacci e lacciuoli della critica economico-politica. Marx, Nietzsche e Heidegger vengono tenuti insieme per criticare storicismo e umanismo, considerando definitivo l’approdo del capitalismo nella tecnica, senza più alcun richiamo al valore. Viene altresì dipinta con toni tragico-melanconici la politica di sinistra, che spazia dal “pensiero della differenza” fino al “pensiero del negativo” che ripiega, negli anni ’80, “su un concetto di politica limitata e infondata, che rinuncia alla rappresentazione di soggettività sociali e a qualsiasi idea di bene comune per affidare un debole messaggio messianico a figure angeliche.” Contestualmente, il binomio Keynes-Sraffa non perviene a una critica compiuta nei confronti dell’economia neoclassica, dove salario e profitto sono semplicemente considerati prezzi di fattori produttivi relativamente scarsi.

 

4. Dalla crisi della teoria del valore al post-moderno. All’inizio degli anni ’80 si impongono tre indicazioni in merito al rapporto teoria/prassi in campo marxista: il Capitale deve essere relativizzato perché non aiuta a comprendere la dinamica istituzionale della crisi; e con esso va superato il paradigma-Gramsci, con la presa d’atto che politica e burocrazia sono indissociabili; si rinuncia alla dialettica e contestualmente si derubrica il moderno a post-moderno. In pieni anni ’90 la dicotomia destra-sinistra si svuota di significato.

 

5. Questioni rimaste aperte. In questo quadro di storia del marxismo italiano – a dire il vero presentato da Corradi in termini di netto fallimento sia teorico che pratico-politico, se non addirittura di décadence – spiccano tuttavia nomi importanti: la critica di Raniero Panzieri alle ideologie tecnocratiche e neocorporative, il progetto di Colletti, non portato a buon fine, di evidenziare l’originalità della dialettica di Marx rispetto a quella hegeliana, lo studio dedicato da Luporini alla teoria del valore, il “materialismo edonistico” di un Sebastiano Timpanaro, l’autocritica di Claudio Napoleoni, la critica di Gianfranco La Grassa alla nozione generica di processo lavorativo. Non da ultimo, la più recente rilettura della critica dell’economia politica sulla base della nuova edizione MEGA2 delle opere di Marx, la riscoperta di un’antropologia marxiana oltre Feuerbach e la riattualizzazione del problema della trasformazione dei valori in prezzi.

 

6. La critica al socialismo reale e la trasformazione. Se da una parte è stata affrontata con estrema serietà l’incapacità delle società in transizione di superare l’organizzazione capitalistica del lavoro, è stato al contempo delineato un bilancio autocritico dell’esperienza sovietica, che supera la concezione del comunismo come processo di progressiva estinzione dello Stato, delle classi e del conflitto. È stato individuato nel “lavoro comunicativo” post-fordista il segnale di una certa permanenza del comunismo nel capitalismo (Negri-Hardt). Contemporaneamente, sul versante della teoria del valore, sono maturate nuove letture, fra gli anni ’80 e ’90: la New Interpretation, il Temporal Single System. Entrambe hanno autorevoli interpreti in Italia, quali Giorgio Gattei e Riccardo Bellofiore.

 

7. Rapporto socialismo/democrazia, revisionismo storico e dialettica. Esponente di rilievo del dibattito italiano sul problema dello Stato in Marx e, ancora più di recente, del dibattito sul revisionismo storico è Domenico Losurdo, il quale “contro la pretesa neoliberale di ridurre l’hegelo-marxismo ad una metafisica organicistica, [...] ha rivendicato [...] l’attualità della dialettica hegeliana [...].” Sul fronte filosofico-antropologico spiccano i lavori di Costanzo Preve e in particolare quello di Roberto Finelli che rilegge la struttura della “società civile” hegeliana alla luce di una dialettica in re (secondo la logica del presupposto-posto), evidenziandone i tratti di superiorità speculativa rispetto al modulo feuerbachiano utilizzato dal giovane Marx proprio per criticare l’etico-politico in Hegel. La conquista di un’autonomia, non sempre evidente, di Marx da Hegel, si registrerebbe solo nei testi del Capitale, laddove le soggettività in campo vengono svuotate di qualità da un principio di realtà astratto e puramente quantitativo (la valorizzazione capitalistica).

 

8. Il marxismo di Das Kapital. Finalmente, solo ora, il marxismo italiano recupera il Capitale. Il marxismo di Maria Turchetto, ereditando il nucleo vitale del pensiero di Panzieri, mette al centro della sua analisi “l’articolazione tecnico-organizzativa del lavoro nel suo nesso con la dinamica dell’accumulazione.” La teoria dell’astrazione lavoro mette in campo una concezione marxiana della società vista come un “tutto strutturato con un nucleo di riproduzione di ruoli dominanti e subalterni.” Parallelamente a questa linea si trova quella di Riccardo Bellofiore che da una parte eredita Napoleoni e dall’altra interpreta originalmente il processo capitalistico come circuito monetario attivato dal finanziamento bancario e come sequenza del lavoro astratto. “La teoria del valore di Marx è perciò una teoria macroeconomica dello sfruttamento nell’ambito di un’economia monetaria di produzione e una teoria microeconomica del conflitto.” Conclude il quadro disegnato da Corradi la riflessione sull’astratto di Roberto Finelli, in merito al recupero del Capitale in quanto critica dell’economia politica, ovvero come programma di indagine ‘antimetafisica’ che dal dualismo della merce mette in campo modalità di analisi atte a disvelare il più fondamentale dualismo del rapporto capitalistico di produzione: “la dissimulazione del lavoro astratto nel lavoro concreto.”

Come controcanto all’intervento di Corradi ripercorriamo brevemente il contributo di G. Gattei (pp.155-172). Ci sembra infatti che possa completare e chiarificare il quadro sopraesposto dello stato attuale del marxismo in Italia. Tralasciamo per ragioni di spazio tutti gli altri interventi, fra i quali, da segnalare, quelli di S. Perri, R. Bellofiore e R. Patalano.

Gattei concentra l’attenzione sui marxismi nostrani post-1945. Cioè quelli che in sostanza avrebbero separato il Marx “feuerbachiano” dal Marx “ricardiano”, senza aver considerato opportunamente il Marx del pluslavoro, categoria invece fondante della valorizzazione capitalistica. Secondo Gattei è lo storicismo a presentarsi come prima forma di marxismo, mentre il dellavolpismo si pone come sua eresia. Ma che cos’è esattamente lo storicismo marxista? È stato un “amalgama” di marxismo sovietico, filosofia gramsciana della prassi e di esistenzialismo sartriano. Veniva esaltata la Prefazione del 1859 di Marx, dove si legge che lo sviluppo inevitabile delle forze produttive avrebbe provocato il rovesciamento dei rapporti privati di proprietà per sostituirli con la proprietà pubblica e la pianificazione, di cui l’URSS era esempio storico riuscito. A quest’approccio si opponeva l’esistenzialismo di Sartre che nel 1946 in Materialismo e rivoluzione invocava piena libertà per il soggetto umano nel fare la rivoluzione, e perciò non deterministicamente realizzata dal rovesciamento storico-materialistico. In Italia lo storicismo marxista è rappresentato dai Quaderni del carcere di Gramsci (1948-50), nei quali si accetta la sfida intellettuale sartriana innestando, nella versione stalinista del materialismo storico, la “filosofia della prassi” dedotta dalle Tesi su Feuerbach di Marx. Il soggetto in questione certo non era il singolo, ma l’umanità associata dei produttori. La coscienza di classe però doveva essere coltivata dal Partito comunista che, come il moderno Principe, avrebbe dovuto prendere il posto occupato nelle coscienze dalla divinità o dall’imperativo categorico, mirando a suscitare la volontà collettiva nazionale popolare verso il comunismo, stadio superiore di civiltà. Luporini rappresenta felicemente in Italia tale connubio tra storicismo e umanismo. Successivo e in controtendenza allo storicismo è il dellavolpismo visto anche in versione Colletti. Della Volpe utilizza sostanzialmente i Manoscritti economico-filosofici del 1844 e la precedente Critica della filosofia del diritto pubblico di Hegel. Il soggetto collettivo dello storicismo diventa il lavoratore alienato storicamente determinato, collocato nella moderna economia di mercato. Il marxismo si propone così come una critica materialistica dell’apriori e dei conseguenti processi di ipostatizzazione propri del razionalismo tradizionale, che non vedono l’alienazione e presuppongono un soggetto comunitario già bello e fatto. Su queste basi si inserisce Colletti, che propone di leggere l’alienazione come astrazione empiricamente e storicamente presente nella realtà. Se il lavoratore alienato astratto è il soggetto in questione, dobbiamo scovarlo nel luogo in cui prende forma, cioè nella fabbrica. La composizione di classe e cioè come si connette tale lavoratore con la politica, diventa il tema centrale dei «Quaderni rossi» da cui origina l’operaismo marxista. Raniero Panzieri rileggeva il Frammento sulle macchine dei Grundrisse per interpretare il fordismo italiano, l’operaio-massa, la sussunzione reale del lavoro al capitale. Come individuare la linea di resistenza dell’operaio senza qualità al dominio del capitale? Nell’essere massa: la composizione di classe dell’operaio salariato fa sì che egli possa rifiutarsi di contrattare il rapporto stesso (M. Tronti, 1966). Questo coincide, nella teoria economica, con la considerazione del salario come variabile indipendente: a questo si collega il c.d. sraffismo marxista. Il riferimento è a Claudio Napoleoni che nelle Lezioni sul Capitolo sesto inedito di Marx del 1972, spiegherà la rilevanza del testo di Piero Sraffa Produzione di merci a mezzo di merci (1960), grazie a cui interpretare l’antagonismo distributivo fra profitto e salario non con regole ‘oggettive’, ma in base alla forza politica manifestata sul campo dall’una o dall’altra classe sociale. Segue a Napoleoni Pierangelo Garegnani, nella considerazione del salario come variabile esogena al sistema, indipendente dalla teoria del valore-lavoro. «È stato questo sraffismo implicito a sostenere ideologicamente lo straordinario ciclo di lotte compreso tra l’autunno caldo del 1969 e l’occupazione della Fiat del 1979[...].» Su queste basi prende corpo l’autonomia operaia di un Toni Negri, che intende superare la teoria del valore, non più intesa come ‘luogo’ della lotta di classe, la quale invece si presenta come antagonismo fra Stato e proletariato diffuso e indistinto. Si affianca a questa linea quella dell’autonomia del politico di Mario Tronti. Secondo Gattei è proprio questa la deriva marxista-storicista che conduce all’autonomia-primato della politica. L’autonomizzazione della sfera circolatoria del capitale ricomprenderebbe, per es. secondo Vacca, Stato e partiti con funzioni di collegamento dell’economico alla cosiddetta democrazia progressista dei cittadini-produttori. Si registra così di fatto l’abbandono da parte della sinistra post-moderna di Marx e la virata verso Weber, Luhmann, Parsons e Scmitt.

Tuttavia Gattei, seguendo Corradi, rileva un marxismo che resiste ed insiste nella critica della filosofia (C. Preve, D. Losurdo, R. Finelli) e nella critica dell’economia politica (G. La Grassa, M. Turchetto, E. Screpanti, R. Bellofiore, lo stesso Gattei e G. Carchedi). Un marxismo che considera Das Kapital l’unica narrazione critica disponibile della moderna e insieme post-moderna società borghese. Vediamo in che senso.

Il modo di produzione capitalistico si fonda sul rapporto di lavoro salariato e attraverso di esso sull’estrazione di lavoro e pluslavoro. Rapporto di lavoro salariato che è tale solo nella misura in cui ciò che si scambia è labour commanded offerto da working poor. Saranno poi le modalità di esecuzione e la durata temporale di tale lavoro vivo a qualificare la capacità di comando del capitale sugli «obbedienti», e non certo le tipologie di contratto e di retribuzione concordate nello scambio.

Risulta poi dirimente la nuova frontiera della trasformazione dei valori-lavoro in prezzi di produzione. Gattei riprende criticamente Sraffa, notando come il concetto di “prodotto netto aggregato” (ciò che resta delle merci tolte tutte quelle occorse alla produzione) non è altro che l’altra faccia (l’altro “numerario” in termini di prezzo) del “lavoro vivo” complessivamente richiesto per produrlo. Si tratta a ben vedere della stessa grandezza: una volta vista sotto il profilo della distribuzione del prodotto netto tra le classi sociali, l’altra volta sotto quello della sua origine dal lavoro “altrui”. Tale equivalenza tra prezzo di produzione del netto con il lavoro vivo riporta sulla scena la categoria di valore come neovalore-lavoro e non più come “lavoro morto” (aggirando così le difficoltà che seguono ad una interpretazione ricardiana della trasformazione dei valori il prezzi). In ogni caso, afferma Gattei, di tutto questo fuori dall’Italia se ne parla da circa vent’anni. Posta tale equivalenza tra lavoro vivo e prodotto netto, si definisce il monte-salari dei lavoratori nel loro insieme, con cui vengono acquistate le merci necessarie al loro benessere, traendole dal prodotto netto aggregato, di cui, data la sottrazione, resta il profitto. Questa sarebbe la quota di partecipazione della forza lavoro al lavoro-vivo (lavoro necessario) ed il resto (il profitto) è il pluslavoro. Profitto e pluslavoro sono perciò la stessa grandezza: sebbene espressa in unità di misura differenti (profitto in termini di prezzi di produzione, pluslavoro in ore). Inoltre, il profitto può essere espresso solo a ciclo concluso, quando cioè le merci sono state vendute, mentre l’ammontare di pluslavoro è determinato da quanto lavoro vivo si è riusciti a comandare e dalla percentuale di monte-salari accordata ex-ante. In altre parole: la realizzazione finale del profitto sanziona solamente – e non aggiunge nulla a – ciò che già è stato prodotto-erogato-ripartito nel luogo di produzione. Luogo di valorizzazione capitalistica sulla cui porta sta scritto: Vietato l’ingresso ai non addetti al lavoro vivo.

Gattei conclude il suo intervento, assai chiaro ed efficace, con l’invito ad essere marxiani e non più marxisti ovvero a considerare il Marx della critica dell’economia politica tenendo a debita distanza sia il Marx “giovane” sia il Marx “anti-borghese”. Il marxismo, che appartiene a questi due ultimi Marx, va in sostanza abbandonato alla sua storia - come appreso da Corradi e da Gattei - per lo più fallimentare. La sola prospettiva di comprensione e di liberazione che si ha, marxianamente, è perciò quella legata alle lotte contro lo sfruttamento del “lavoro vivo”, le quali rappresentano l’unico “fronte che spinge l’essere sociale capitalistico […] a realizzare il proprio fine (che è la sua fine) di superamento della necessità economica.” (p. 171).


Indice
Premessa di R. Bellofiore
Storia dei marxismi in Italia: un tentativo di sintesi di C. Corradi
Genesi e sviluppo del paradigma marxista in Italia di R. Patalano
Panzieri e la ripresa del marxismo nella sinistra tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta di V. Rieser
Sui «fondamenti filosofici» dell’operaismo italiano di A. Zanini
I «due Marx» e l’althusserismo di M. Turchetto
Il rapporto Marx-Hegel e il concetto di «storia» fra della Volpe e Luporini di R. Fineschi
Un marxismo «senza Capitale» di R. Finelli
Il doppio circolo di Hegel e la dissoluzione di Marx nell’idealismo di R. Sbardella
Il via crucis dei marxismi italiani di G. Gattei
Le conclusioni non concludenti del dibattito su Marx tra gli economisti italiani dopo il 1960 di S. Perri
Quelli del lavoro vivo di R. Bellofiore
L’«eccedenza» di Marx e il capitalismo «totale» di F. Bertinotti
Per la formazione politica delle nuove generazioni di D. Balicco

Dal n.35 - gennaio 2009

Comments

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Eros Barone
Thursday, 19 October 2017 23:11
"La storia dei marxismi in Italia" è un tentativo di sintesi fallito e ha carattere meramente compilatorio. Che altro può essere una storia dei marxismi che non si confronta mai con le scienze naturali, con l'epistemologia di tali scienze e con i loro sviluppi, se non una rassegna storico-filosofica priva di spessore teoretico e del tutto esornativa sul piano pratico-politico della lotta per l'egemonia?
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