7. La concorrenza ‘dinamica’ all’interno dell’industria, macchine e grande industria, e il capitale come mostro automatico
Nel capitolo 10 Marx fornisce la risposta a una questione cruciale. Come ho anticipato in precedenza, il meccanismo “microeconomico” che conduce al risultato “macro” dell’estrazione di plusvalore assoluto è di facile comprensione, e di evidente razionalità individuale. È nell’interesse del capitalista singolo estendere in senso «assoluto» la durata della giornata lavorativa, perché più impone pluslavoro al lavoratore, più ottiene profitti. Le cose non stanno così con il plusvalore relativo, perché il plusvalore relativo è qualcosa che si determina soltanto a livello sistemico, in seguito al ridursi del valore della forza-lavoro. Se c’è un aumento generalizzato della forza produttiva del lavoro, ciò che ne segue è una riduzione del valore delle merci che entrano nel salario: quando il valore della forza-lavoro scende, il plusvalore all’interno del neovalore sale “relativamente”. Si può sostenere lo stesso riguardo un aumento dell’intensità del lavoro. Questo risultato “macro”, questo nuovo equilibrio in seguito a un’innovazione tecnologica e/o organizzativa, non è perseguito intenzionalmente dai singoli capitalisti, e non guida il loro comportamento individuale.
Originariamente, Marx intendeva dar conto della logica del capitale in due tempi: il primo passo era la ricerca sul capitale in generale (tutto ciò che è “comune” ai diversi capitali); il secondo passo era la ricerca sui molti capitali (la concorrenza tra capitali). Questo secondo passaggio avrebbe dovuto essere affrontato solo dopo aver completato il primo: ma Marx finì per includere la concorrenza già nel primo libro, proprio nel capitolo 10. Per capire perché, occorre domandarsi che cosa sia la «concorrenza» per Marx.
La concorrenza ha in Marx un significato duplice, tanto che nelle interpretazioni i due sensi del termine concorrenza non sono adeguatamente compresi, dando luogo ad una grave confusione. Credo invece che debbano essere distinti con cura, e che questa distinzione possa in qualche caso diventare anche una opposizione. Da un lato, Marx assunse la nozione di «concorrenza» prevalente in Ricardo e nei classici: essa si riferisce alla tendenza del saggio di profitto a raggiungere un comune valore di “equilibrio” tra le diverse branche della produzione, in virtù della mobilità del capitale. Troviamo un’idea di eguaglianza del saggio del profitto, per ragioni diverse, in Walras, e ancor più in Marshall. Questo tipo di concorrenza dà luogo alla discrepanza tra i prezzi singoli o diretti (i prezzi proporzionali al lavoro contenuto nelle merci) e i prezzi di produzione (i prezzi capitalistici che incorporano un eguale tasso di profitto). Questa concorrenza sarà oggetto di discussione nel terzo libro. Nel primo libro abbiamo invece una nozione di «concorrenza» piuttosto dissimile, in base alla quale i molti capitali conducono tra di loro una lotta mortale per il tramite dell’innovazione.
Il prezzo (anche i prezzi singoli o diretti) è fissato come valore sociale o come valore di mercato – questi sono i due termini impiegati da Marx, il primo nel Libro primo, il secondo nel Libro terzo – come espressione monetaria del tempo di lavoro socialmente necessario, che può ben essere differente dal valore individuale determinato dal tempo di lavoro individuale contenuto. Coloro che introducono un nuovo macchinario, una nuova organizzazione del lavoro, etc. abbassano il proprio tempo di lavoro individuale al di sotto della soglia del tempo di lavoro socialmente necessario: di conseguenza, il loro valore individuale scende al di sotto del valore sociale (o di mercato), e generano un extra-plusvalore. Lo stesso procedimento può essere replicato per i prezzi di produzione. Gli innovatori possono muovere guerra alle altre imprese, che producono gli stessi valori d’uso, iniziando ad abbattere il prezzo di vendita, in tal modo sottraendo quote di mercato agli altri capitalisti. Una concorrenza spietata: la concorrenza tra i molti capitali che lottano per assicurarsi un plusvalore extra – e non possono sottrarsi alla concorrenza interna al settore, pena l’essere estromessi dal mercato.
Come vedremo, nella settima sezione dedicata alla riproduzione, Marx mette in luce la fondazione macrosociale (monetaria e di classe) del processo capitalistico, concepito come estrazione forzosa di lavoro vivo dai lavoratori, da cui il neovalore (e dunque anche l’estrazione di plusvalore). Qui, nel capitolo 10, Marx espone il meccanismo “micro” che fonda l’esito “macro” dell’estrazione del plusvalore relativo. La concorrenza delle imprese all’interno dell’industria dà ragione della razionalità di quell’agire individuale che conduce all’affermarsi (in una spirale, come giustamente afferma Turchetto) di quello che Marx chiama il modo di produzione specificamente capitalistico, fondato sull’interazione tra estrazioni «relative» e «assolute» di plusvalore. Vi furono certamente anticipazioni di questa dinamica nei classici, ma erano tutto sommato marginali rispetto alla linea principale del discorso imperniata sull’altra visione della concorrenza, cioè la concorrenza che si esaurisce nell’eguaglianza del saggio di profitto tra le diverse industrie. Tra gli interpreti l’autore che ha meglio compreso l’originalità di Marx e anche la sua cesura rispetto alle altre teorie, fondata su questa visione della concorrenza all’interno delle industrie come lotta per l’ottenimento di un extra-plusvalore è stato Henryk Grossmann nel suo Marx, l’economia politica classica e il problema della dinamica (vedi il già citato Grossmann 1971).
Come Grossmann sapeva bene, c’è stato un altro autore che ha tratto da Marx questa seconda visione della concorrenza e l’ha eletta a principio fondamentale del suo sistema, insieme alla teoria creditizia della moneta: Joseph Alois Schumpeter. Il suo debito nei confronti di Marx veniva apertamente riconosciuto nell’introduzione alla traduzione giapponese in quello che amava citare come il suo libro del 1911 (anche se il copyright è del 1912), La teoria dello sviluppo economico, e poi nella prima parte di Capitalismo, socialismo e democrazia, uscito in prima edizione nel 1942. Vi è ovviamente uno scollamento, ma anche un’aderenza, tra Marx e Schumpeter. Schumpeter attribuisce la sua concorrenza «dinamica» solo alla rivalità tra capitali singoli, oltre che – soprattutto nella prima edizione del libro del 1911 – a una sorta di impulso vitalistico-nietzscheano alla leadership. In Marx essa scaturisce invece dal seno stesso del rapporto di capitale, cioè dall’antagonismo intrinseco tra il capitale complessivo (il capitale collettivo) e la classe lavoratrice (il lavoratore collettivo): si badi, non come mera reazione del capitale ai conflitti agiti dai lavoratori, ma anche e in primo luogo come necessità interna al capitale di «comandare», controllare, i portatori umani di forza-lavoro, e dunque dalla sua primigenia natura di «vampiro» –dalla spinta inesauribile a succhiare lavoro vivo. È questo il tema dei capitoli dall’ 11 al 13.
Prima di addentrarci nella discussione, occorre introdurre la seconda digressione sul problema della trasformazione. Può qui essere utile far riferimento ad Anwar Shaikh. Nel suo recente libro, Shaikh (2016) mette opportunamente in contrasto quella che chiama la «concorrenza reale» con la concorrenza perfetta – astratta e teorica – di stampo neoclassico e alla probabilmente più realistica concorrenza imperfetta. Egli mantiene però una stretta connessione tra i due generi di concorrenza che ho distinto in Marx, tale per cui il suo progresso rispetto agli argomenti cosiddetti “sraffiani” rischia di ridursi al fatto che i prezzi di produzione alla Garegnani come centri di gravitazione (cfr. Garegnani 1981) diventano semplicemente centri di gravitazione “mobili”.
Inoltre, Shaikh sembra accettare una lettura invalsa di Schumpeter come teorico che fornisce una spiegazione dello scostamento da un qualche equilibrio walrasiano della concorrenza perfetta che costituisce il punto di riferimento attorno a cui si oscilla. Credo che Schumpeter vada ben oltre ciò. L’economista austriaco mostra infatti che la concorrenza dinamica, ovvero la rivalità tra imprese all’interno di una certa industria, cioè la tendenza alla differenziazione del saggio di profitto, può essere fortemente dominante nei confronti della tendenza all’equiparazione del saggio di profitto tra industrie. Schumpeter si spinge a sostenere che in alcuni periodi la stessa tendenza all’equiparazione del saggio di profitto è semplicemente assente. Solo quando si arresta la spinta all’innovazione quella tendenza può divenire operativa e il sistema perviene a un nuovo intorno di equilibrio (a un nuovo flusso circolare): quell’equilibrio è il risultato di un percorso fuori dall’equilibrio. Se, come me, si giudica questa raffigurazione come essenziale per comprendere il capitalismo alla Marx, è forse più interessante vedere i prezzi di produzione come un punto di riferimento ideale, come è in Pasinetti (1989), piuttosto che come centri di gravitazione alla Garegnani. La dinamica del valore colta attraverso la coppia categoriale «lotta di classe» (l’antagonismo capitale-lavoro) e «lotta di concorrenza» (il conflitto tra capitali) è ciò che definisce gli sraffiani «metodi di produzione», gli input e gli output dati a partire dai quali si determinano i prezzi di produzione, senza necessariamente passare attraverso una qualche dimensione immediatamente evidente dei prezzi di produzione stessi.
I capitoli dall’11 al 13 riguardano la cooperazione semplice, la divisione del lavoro nella manifattura e macchine e grande industria. Con le macchine e la grande industria raggiungiamo lo stadio della sussunzione reale del lavoro al capitale, e quindi il modo di produzione specificamente capitalistico in cui le tecniche e la natura stessa del lavoro sono determinati in base alla «forma», dunque alla struttura sistemica indagata dal punto di vista della totalità[38]. Abbiamo, cioè, un quadro in cui il valore d’uso è, per così dire, “modellato” dal valore, e la dualità interna alla merce di valore e valore d’uso viene ricomposta in unità sotto il dominio della forma di valore: Le figure sempre cangianti del lavoro concreto sono “segnate” dal processo “pratico” di astrazione reale del lavoro[39]. Questo momento dello sviluppo concettuale nel Capitale è troppo spesso assente nella Neue Marx-Lektüre. Con la conduzione mediante macchine i lavoratori diventano tecnicamente un’appendice delle condizioni materiali di produzione. Vero è che nel Capitale non è più presente la nozione giovanile di «alienazione»; nondimeno, si può leggere l’alienazione dei Manoscritti economico-filosofici retrospettivamente a partire dal Capitale[40]. La merce è il prodotto del lavoratore socializzato (un’altra categoria chiave in Marx, ma misconosciuta, è proprio quella della «vergesellschaftete Arbeit»[41]): il singolo lavoratore è un lavoratore il cui lavoro non è più concreto, perché il singolo lavoratore non può più produrre da solo la merce singola. La merce è il prodotto di un «lavoro immediatamente socializzato» nella produzione immediata. Il lavoro astratto è ora risignificato come lavoro vivo dei lavoratori salariati all’interno delle unità di lavoro collettivo organizzate e pianificate da imprese in lotta di concorrenza. Il lavoro immediatamente socializzato è il lavoro immediatamente privato dei produttori (capitalistici!) che devono divenire sociali sul mercato finale delle merci nello scambio contro denaro.
Abbiamo qui il paradosso di un lavoro «immediatamente socializzato» ex ante che deve ancora mostrarsi come «lavoro sociale» ex post. Questo non significa affatto, come sostiene invece Roberto Finelli (2014), che il lavoro astratto cancella la dimensione del lavoro concreto. I capitalisti devono sempre vendere le merci, che devono dunque essere «valori d’uso per altri». Come tali, dunque, le merci devono possedere proprietà (Eigenschaften) concrete, e il lavoro che le produce deve anch’esso avere proprietà concrete. Queste proprietà concrete sono tuttavia realizzate dal lavoratore collettivo, e provengono loro, per così dire, dall’esterno: provengono cioè da una volontà e da una conoscenza che sono la volontà e la conoscenza del capitale – dal fatto che è il capitale stesso a promuovere la cooperazione tra i lavoratori. Ancora una volta la tesi post-operaista, presente soprattutto in Hardt e Negri, secondo cui il capitale si appropria di una sorta di cooperazione sociale “naturale” dei lavoratori, è profondamente sbagliata. Nel contesto della sussunzione reale del lavoro sotto il capitale, il Reichtum, la ricchezza come ricchezza concreta, è in effetti prodotta sempre e solo dal capitale, non dal lavoro. Il Capitale progetta tecnologie, rende operative le tecniche, costruisce un’organizzazione del lavoro: il lavoro come lavoro concreto è un mero ingranaggio di questo meccanismo, parte del capitale. Ma questo Feticcio non è a sua volta in grado di produrre alcunché se non si muta in Vampiro – se, cioè, non riesce a «succhiare» lavoro vivo dai lavoratori. Questo lavoro vivo, che genera ricchezza astratta (valore e plusvalore in forma monetaria), riguardato da questo punto di vista, è lavoro astratto, un lavoro tanto generico quanto lo sono il denaro e il plus-denaro che produce.
Mentre la produttività in termini di valore d’uso è da ricondurre interamente al capitale, la produttività in termini di valore va integralmente ricondotta al lavoro vivo (astratto): più precisamente, al successo del capitale nel vincere la lotta di classe nella produzione. Concordo su questo punto con Chris Arthur: il capitale deve incorporare lavoratori (la «forza-lavoro vivente») come un’alterità che è resa interna (di nuovo, il riferimento è ad Arthur 2002). È questo il secondo significato della «incorporazione» che troviamo in Marx: non si tratta qui di prendere possesso di un corpo (e abbiamo visto che per indicare quel processo Marx impiega il verbo verkörpern); si tratta piuttosto dell’essere interiorizzati come parte del “corpo” del capitale (il verbo tedesco usato da Marx è infatti diverso: einleiben). Ma che cosa è questo “corpo” del capitale, che è certo anche il corpo lavorante, il corpo del lavoratore collettivo «immediatamente socializzato»? Grazie alla compera e vendita della forza-lavoro, il capitale inserisce gli esseri umani portatori viventi di forza-lavoro in un macchinario automatico «mostruoso», e li dispone al lavoro. Marx scrive che il capitalista trasforma valore, cioè lavoro passato, in una forma oggettivata e «morta», in capitale propriamente parlando. Il capitale è valore che mette lui in atto il processo della propria valorizzazione: è il Soggetto che, una volta interiorizzate le forze-lavoro viventi, inizia, come un mostro animato, «a lavorare come se avesse amore in corpo». L’espressione citata proviene dal Faust di Goethe, dalla scena nella Cantina di Auerbach presente nella prima parte, in cui un topo viene avvelenato ed è attraversato da spasmi, appunto «come se avesse amore in corpo» (Als hätte sie Lieb im Leibe). Il topo, come il lavoro, passa dalla vita (il lavoro vivo come fluido che scorre nel corso della produzione) alla morte (e diventa il lavoro diretto, cioè lavoro ormai morto nella merce prodotta, dopo la produzione).
L’ispirazione per questa analogia tra il Capitale e il Mostro proviene, credo, dal Frankenstein di Mary Shelley. E potremmo, come fa Franco Moretti nel suo già menzionato saggio, leggere il Capitale anche in riferimento al Dracula di Bram Stoker, nonostante quest’ultima opera sia stata scritta alla fine del diciannovesimo secolo. Abbiamo visto, comunque, che il riferimento al «vampiro», come del resto quello al «lupo mannaro», è già presente in Marx. In effetti, il capitale è un morto vivente che può seguitare a vivere solo fintantoché succhia lavoro vivo dai lavoratori: è, in fondo, nient’altro che uno zombie. E queste, è il caso di ribadirlo, non sono intese da Marx come brillanti metafore letterarie: sono anzi pienamente adeguate a raffigurare la Sache selbst, l’ontologia della realtà indagata.
8. La prospettiva ‘macro-monetaria’ di classe sulla (ri)produzione capitalistica
Riguardo la sezione settima mi concentrerò essenzialmente, sebbene non esclusivamente, sul capitolo 23, dedicato alla Legge generale dell’accumulazione capitalista, dove Marx introduce il concetto di «esercito industriale di riserva» dei lavoratori[42]. Questa parte è stata letta dagli interpreti come una teoria del ciclo, o perfino come parte di una teoria della crisi. Il capitale dapprima cresce con una composizione di capitale data: i capitalisti investono sempre nella stessa proporzione in capitale costante e in capitale variabile, acquistando gli stessi mezzi di produzione e le stesse forze lavoro. A un dato momento, l’esercito di riserva dei lavoratori si esaurisce, e i salari salgono. Il capitale reagisce con innovazioni, introducendo macchine e incrementando il capitale costante in rapporto al capitale variabile. Ne segue la potenziale espulsione di lavoratori dal processo di produzione. L’esercito industriale di riserva è come un “polmone” che si gonfia e si sgonfia durante il ciclo. Questa potrebbe diventare una teoria della crisi, come effettivamente fu interpretata nei tardi anni ’60 e nei primi anni ’70, del genere del cosiddetto profit squeeze, una contrazione del profitto dovuta alle lotte salariali. Vi sono situazioni sociali in cui i salari, grazie alla forza dei sindacati sul mercato del lavoro, salgono al punto tale che i profitti sono compressi e si genera una crisi.
In realtà il capitolo 23 non aveva lo scopo di presentare una teoria della crisi, né per così dire una teoria del ciclo. La legge dell’accumulazione rappresentava piuttosto l’alternativa marxiana alla legge della popolazione di Malthus. Il capitale è capace di “produrre” qualunque cosa tranne la sua alterità interna, rappresentata dai portatori di forza-lavoro, e l’alterità esterna (la natura). Qui Marx si concentra sulla prima: dalla forza-lavoro, dalla «capacità di lavorare» come la definisce nei Grundrisse, si sprigiona lavoro vivo, attività umana nel processo di produzione: e, come abbiamo detto, la capacità di lavorare è “attaccata” ai lavoratori come portatori viventi della forza-lavoro. Nel capitolo 23 Marx mostra che il capitale è però pur sempre capace di porre i propri presupposti, nella misura in cui riesce a creare un esercito industriale di riserva, e a rinnovarlo quando e quanto è necessario. Ancora una volta Marx introduce qualcosa di completamente nuovo nella teoria economica: sostiene infatti che nel mercato del lavoro il capitale agisca sia sul lato della domanda, sia sul lato dell’offerta. Naturalmente vi è una riproduzione «sociale» dei lavoratori, su cui giustamente insiste il femminismo: il lavoro necessario non è soltanto lavoro necessario retribuito, ma anche lavoro necessario non retribuito, nella misura in cui si compone anche di lavoro domestico e lavoro di cura[43]. Ma in un certo senso, grazie all’influenza esercitata attraverso il ricambio dell’esercito industriale di riserva, è il capitale a determinare l’offerta di lavoratori. Les dés sont pipes, scrive Marx: «i dadi sono truccati».
Claudio Napoleoni (1973b), in un intervento alla Fondazione Agnelli in merito al vivace dibattito allora in corso sul mercato del lavoro italiano, notava che, in determinate condizioni sociali, la dipendenza dell’offerta di lavoro dalla domanda di lavoro del capitale potrebbe invertirsi, e proponeva una visione non-distributiva della crisi di fine anni ’60-inizio ’70. La contrazione del profitto era reale, ma proveniva principalmente non (sol)tanto dalle lotte sul salario, pur vivaci, quanto piuttosto dalle lotte sulla prestazione lavorativa nel processo immediato di produzione[44]. Vale la pena di riportare una citazione da un altro intervento di quegli anni (Napoleoni 1973c):
La lotta operaia è venuta assumendo caratteri tali per cui essa non è stata più né semplicemente redistributiva né semplicemente normativa, ma è diventata politica in un senso più stretto, in quanto cioè ha indebolito spesso profondamente, una delle condizioni necessarie alla realizzazione del rapporto capitalistico, ossia la subordinazione, la mancanza di autonomia, della classe operaia all’interno del processo produttivo […] la crisi economica, e sociale, è dovuta essenzialmente a questa spinta operaia, nel senso che il processo accumulativo, già colpito dai successi ottenuti, al principio degli anni ’60, sul terreno della distribuzione, è stato poi ancor più duramente colpito da quella conquista di autonomia operaia che ha fortemente limitato la possibilità di risposta del capitale in termini tradizionali, in termini cioè di aumento del grado di sfruttamento.[45]
Vi sono, insomma, situazioni in cui i lavoratori possono controllare il «fluido» di lavoro vivo che il capitale estrae da loro. Concordo con coloro che vedono in questo un elemento cruciale per comprendere la Grande Stagflazione, ovvero la crisi capitalistica tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta: un’idea che deve essere letta in stretta continuità con la tesi avanzata da Rosa Luxemburg, secondo cui la legge della caduta tendenziale del salario relativo può essere contrastata a livello sistemico soltanto attraverso l’attività rivoluzionaria[46]. L’interpretazione proposta da alcuni sraffiani, secondo i quali il «salario» può essere visto come variabile indipendente ed è virtualmente possibile imporre ai capitalisti qualunque assetto distributivo, è impossibile da accettare da un punto di vista marxiano. Ed effettivamente, proprio nel capitolo 23 Marx insiste sul fatto che è il salario ad essere la variabile dipendente, e che quella indipendente è il tasso di accumulazione.
Ci sono in questa settima sezione altri due punti che occorre mettere in luce. Il primo consente di ampliare la ricostruzione che ho anticipato, secondo cui troviamo in Marx una fondazione macro-sociale e monetaria dell’indagine sul processo capitalistico. Si tratta, come è ovvio, di un palese anacronismo: la macroeconomia, strettamente intesa, non esisteva al tempo di Marx e fu “inventata” da Keynes negli anni ’30. Il punto è però che nella sezione dedicata alla riproduzione Marx considerava il rapporto di capitale da una prospettiva che poneva al centro dell’analisi l’intera classe capitalistica da un lato e l’intera classe lavoratrice dall’altro. Il punto era colto bene da Maurice Dobb, come notavo all’inizio. Ma la prospettiva macro va ben oltre quello che Dobb intendeva sostenere.
Una prima conseguenza abbastanza esplicita del nuovo punto di vista guadagnato da Marx – una conseguenza che, di nuovo, va perduta in gran parte delle interpretazioni – è che la logica “macro” – meno anacronisticamente e con più fedeltà all’autore, la logica della “totalità” – non è solo diversa, ma peculiare e opposta a quanto “appare” dal punto di vista della logica “micro”, la logica “individuale”. Ciò che nelle prime sezioni costituiva una manifestazione fenomenica (ovvero, un Erscheinung), si rivela ora essere parvenza illusoria (ovvero, un Schein). A questo punto dobbiamo dunque ripercorrere la via sin qui battuta, e leggere il primo libro del Capitale anch’esso «a ritroso».
Marx aveva iniziato con merce e denaro, per considerare poi il capitale – in altri termini, in che modo il capitale viene a costituirsi. Il capitalista singolo era assunto come rappresentante medio del capitale totale. Quanto al mercato del lavoro, la manifestazione fenomenica non poteva che dirci che i lavoratori e i capitalisti sono soggetti liberi e uguali. Il che non era falso, a quello stadio della esposizione. Ma quando si giunge alla riproduzione e si assume il punto di vista della totalità, l’esposizione è trapiantata in una prospettiva “macro”, di classe, direttamente sociale. Si tratta però di un’impostazione molto diversa da quella dei cosiddetti approcci “macro-monetari” di certo marxismo contemporaneo: la logica lì adottata è una logica di aggregazione. Il fatto che in Marx la fondazione “macro” conduce a conclusioni opposte rispetto alla logica “micro” è evidente nel fatto che la classe lavoratrice è legata al capitale complessivo da una relazione di schiavitù: la libera ed egualitaria contrattazione del lavoratore individuale era soltanto una oggettualità illusoria, non di meno necessaria. Quando si legge Marx bisogna essere avvertiti del fatto che il significato delle categorie viene alterandosi lungo il percorso espositivo della Darstellung. Questo non significa che il precedente significato di una categoria venga semplicente rimosso; si tratta piuttosto di una più comprensione più profonda che conduce a un «toglimento» (Aufhebung), nel quale il senso precedente è superato e conservato.
La seconda conseguenza riguarda il salario, ed è particolarmente rilevante in ordine agli attuali dibattiti su Marx in generale e per una corretta valutazione del problema della trasformazione dei valori in prezzi di produzione in particolare. Per capire quanto segue è necessario saper cogliere quanto nella settima sezione Marx giunga ad anticipare la macroeconomia monetaria “eretica” del ventesimo secolo. Mi riferisco a Wicksell, Schumpeter, il Keynes del Trattato sulla moneta, e infine alla contemporanea teoria del circuito monetario. La differenza che intercorre tra Marx e questi autori è che, come sottolineava Suzanne de Brunhoff[47], Marx si collocava prevalentemente nella tradizione della teoria monetaria del credito, mentre questi teorici eretici erano e sono (come del resto sono io stesso) legati alla visione alternativa di una teoria creditizia della moneta. Ciò che è invece simile è che il ragionamento riguardante la relazione e la divisione tra classi è esplicitamente collocato in un quadro macro-monetario sin dall’inizio. Il capitale complessivo anticipa in forma di moneta il monte-salari come finanziamento alla produzione per acquistare la forza-lavoro dei lavoratori. Nel capitolo 21 Marx è cristallino nel chiarire che per avere una adeguata comprensione di ciò che realmente accade con il capitale si deve abbandonare la prospettiva centrata sui singoli capitalisti e sui singoli lavoratori, e volgersi invece a considerare la classe capitalista nel suo complesso e la classe lavoratrice nel suo complesso. La classe capitalista anticipa ai lavoratori assegni monetari, ovvero titoli di debito che vengono poi restituiti dai lavoratori ai capitalisti al fine di ottenere una quota di quanto hanno prodotto: «La classe dei capitalisti dà costantemente alla classe dei lavoratori, in forma di denaro, assegni su una parte del prodotto che è stato prodotto da quest’ultima e di cui si è appropriata la prima. Questi assegni, il lavoratore li rende altrettanto costantemente alla classe dei capitalisti sottraendovi la parte del proprio prodotto che gli spetta» (Marx, Capitale Fineschi, 631). In questa transazione, il “velo” monetario svolge in modo massimamente efficace una funzione essenziale, che già conosciamo: il capitale incorpora nel proprio meccanismo i lavoratori come alterità interna, e i mezzi di sussistenza come capitale variabile gli procurano forza-lavoro vivente.
Nei Risultati del processo di produzione immediato ragiona nello stesso modo, e scrive che non sono tanto i lavoratori ad acquistare i mezzi di sussistenza, quanto i mezzi di sussistenza a comprare i lavoratori. Anche qui Marx non è per nulla ambiguo nel chiarire che ciò che deve essere assunto come dato è il salario reale del lavoratore collettivo, cioè della classe lavoratrice complessivamente intesa. I lavoratori individuali possono avere libertà di scelta riguardo il loro paniere individuale di beni di consumo. Ma questo è decisamente falso per i lavoratori come classe: essi possono acquistare esclusivamente ciò che la classe capitalista lascia loro. È la stessa conclusione degli eretici monetari in questione, ma anche la stessa conclusione che discende dalla visione keynesiana degli investimenti come autonomo elemento motore della domanda effettiva dei privati; ed è ancor più la conclusione di Kalecki. Nel caso di Marx si tratta, senza dubbio, di una teoria macro-monetaria della produzione e distribuzione capitalista del neovalore e del plusvalore.
Il punto che avanzo riguardo il salario è, va riconosciuto, alquanto controverso nel marxismo odierno. La New Interpretation e molti approcci marxiani contemporanei sostengono che ciò che è dato nella trasformazione è il salario monetario, e non il salario reale. In tal modo ci si oppone opportunamente alla posizione del marxismo tradizionale, ma non si considera che nella fondazione autenticamente macro-monetaria di Marx, l’unica corrispondente alla prospettiva della totalità, il punto non è che il salario reale individuale è dato e poi aggregato; è piuttosto che il salario reale è dato per tutti i lavoratori insieme, per la classe lavoratrice, e che dunque questo deve essere considerato nel computo in una prima approssimazione ai prezzi capitalisti. Nel 2000 Foley fece riferimento a un saggio inedito di Robert F. Brinkmann in cui l’autore – tenendo ferma la composizione del prodotto netto, come faccio io – propone una distinzione anch’essa parallela alla mia, tra «valori-lavoro» (che io preferisco tradurre concettualmente piuttosto come prezzi semplici o diretti) e «valori essenziali» (prezzi di produzione)[48]. Questa distinzione consente di fondare, come nel mio approccio, una differenza tra il lavoro necessario (secondo il lavoro contenuto nelle merci che costituiscono i beni salario) e il lavoro pagato (ovvero il lavoro comandato sul mercato delle merci dal monte-salari monetario).
La maggior parte dei nuovi approcci alla trasformazione tenta di evitare la discrepanza che non può non derivarne tra, da un lato, la coppia plusvalore e valore della forza-lavoro (concettualizzati l’uno e l’altro come l’espressione monetaria del lavoro contenuto nelle merci ottenute rispettivamente dai capitalisti e dai lavoratori) e, dall’altro, il lavoro comandato (ovvero, acquisito sul mercato) dai profitti lordi e dai salari monetari tenendo conto di un certo valore del denaro. Il punto, comunque, è che questa discrepanza – assente nella trasformazione di Marx, lasciata a metà dall’autore – rivela un aspetto importante del processo capitalistico. I prezzi individuali non influiscono sull’indagine macro-sociale riguardante lo sfruttamento (ed era il punto di Maurice Dobb!). Quei prezzi non possono mutare il lavoro vivo totale che il capitale collettivo è stato capace di estrarre dalla forza-lavoro vivente vincendo la lotta di classe nella produzione: ovvero, il lavoro contenuto nel neovalore prodotto nel periodo. E neppure quei prezzi possono mutare la quantità di lavoro diretto che il capitale totale deve dare indietro al lavoratore collettivo affinché si riproduca la capacità di lavoro: ovvero, il lavoro contenuto nelle merci che tornano alla classe lavoratrice, in seguito al conflitto sul salario.
Il lavoro vivo totale e il lavoro necessario totale (retribuito!) sono appunto i dati che Marx determina nel corso del primo libro, e che restano immutati nei libri successivi: ma la loro espressione monetaria in forme del valore più concrete può cambiare. I prezzi individuali incidono invece su quanto lavoro i singoli capitali in concorrenza sono in grado di «comandare» sul mercato. La discrepanza tra lavoro necessario e lavoro pagato è esattamente uno stadio ulteriore della mistificazione del rapporto di capitale, che ben si accorda con la visione della dialettica come dissimulazione tanto cara a Roberto Finelli. Come sostiene Graziani (1997), la dimensione microeconomica dei prezzi individuali (solo parzialmente esposta nel terzo libro) non influenza direttamente l’indagine macro-sociale di classe riguardante lo sfruttamento (pienamente esposta nel primo libro).
Simon Mohun (1994) sostiene che la nozione di «salario reale di sussistenza», che effettivamente troviamo in Marx sulla base del fatto che la forza-lavoro sarebbe una merce, è incoerente e va rigettata. La forza-lavoro, sostiene, non è prodotta in modo analogo alle altre merci, ma riprodotta nella dimensione «domestica» – in quello che Giovanna Vertova (2016) chiama il sistema di welfare privato: e si dovrebbe qui far riferimento di nuovo alla riproduzione sociale e al lavoro domestico (non retribuito) di cui abbiamo parlato in precedenza. Personalmente credo che la visione “macro” che sto esponendo possa essere in ultima istanza ritenuta indipendente dalla nozione di «salario di sussistenza»: come ho scritto in precedenza, ciò che è sufficiente è un argomento keynesiano-kaleckiano, in base al quale gli investimenti capitalistici determinano la composizione del prodotto netto. E credo che sia giusto integrare la teoria marxiana della forza-lavoro vivente con la teoria della riproduzione sociale. Detto questo, resta però vera l’affermazione di Marx secondo la quale la forza-lavoro è una merce, se la si comprende alla luce di un concetto meno rigido di «merce» di quanto non coltivi Mohun. In una definizione allargata, e del tutto legittima di «merce», merce è «ciò che viene comprato e venduto, non esclusivamente qualcosa di prodotto da lavoro nel quadro di un processo di lavoro capitalistico».
9. Teoria della crisi
Finora mi sono concentrato sul primo libro, con qualche accenno alla trasformazione dei valori in prezzi che si trova nel terzo libro[49]. Vorrei concludere con alcune considerazioni sulla teoria della crisi (cfr. Bellofiore 2011b, Desai 1998b)[50]. Alcuni cenni a una teoria della crisi si trovano già nel primo libro. Nei primi tre capitoli Marx sostiene che fin dalla circolazione semplice M-D-M’: merce, denaro, merce – la vendita può non essere seguita dalla compera. La possibilità formale della crisi è presente sin dall’inizio del Capitale, ma dopo il terzo capitolo è congelata (in forza dell’assunzione che le merci prodotte siano tutte vendute sul mercato delle merci al valore atteso), e tale rimane per larga parte dell’esposizione.
Per ulteriori sviluppi sulla crisi dobbiamo guardare al secondo e al terzo libro, e completarne la lettura con le Teorie sul plusvalore. Alla fine del secondo libro Marx tratteggia il suo personale Tableau Économique. Il Tableau Économique di Quesnay rappresentava per Marx la scoperta più brillante dell’economia politica: essa era stata frettolosamente dimenticata, al punto che non se ne trovava più traccia né in Smith né in Ricardo. Marx la riscoprì un secolo dopo Quesnay, e vi apportò cambiamenti significativi trasformandolo nei propri schemi di riproduzione. È comunque importante notare, contrariamente a una lunga tradizione interpretativa, che in Marx gli schemi di riproduzione non hanno nulla a che fare con l’immagine di una crescita bilanciata in equilibrio. Il problema affrontato da Marx è piuttosto diverso.
Come ho anticipato, prima di lui Say e Ricardo avevano sostenuto l’impossibilità di un universale sovrapproduzione di merci (un general glut), mentre Malthus e Sismondi ritenevano che i profitti fossero pressoché integralmente risparmiati, e che essendo i risparmi reddito non consumato, ne risultasse per necessità che il reddito prodotto fosse per necessità più alto della domanda di merci, che per loro si esauriva nel consumo. Ciò si identifica evidentemente in una teoria del crollo di natura sottoconsumistica. Per Say e Ricardo una crisi dovuta ad una generale insufficienza della domanda effettiva è impossibile, mentre per Malthus e Sismondi ad essere impossibile è in fondo il capitalismo stesso. Scartando dall’una e dall’altra posizione, Marx mostra che l’equilibrio tra domanda e offerta è possibile, ma è un caso. Gli schemi di riproduzione illustrano che ogni elemento di cui si compone l’offerta è anche un elemento componente della domanda. È dunque vero che il capitale suscita la propria domanda: non c’è però garanzia alcuna che la struttura della domanda corrisponda alla struttura dell’offerta. Il punto è espresso con chiarezza ancora maggiore nei Grundrisse. Le condizioni di produzione del valore non sono le condizioni della realizzazione del valore. Dunque, è il caso di ribadirlo, gli schemi di riproduzione hanno a che fare con la teoria della crisi in modo molto preliminare, e sono in verità ancora un ulteriore sviluppo dell’indagine concernente la mera possibilità della crisi.
La teoria del valore di Marx diventa una teoria della crisi nel terzo libro, con i capitoli dedicati alla caduta tendenziale del saggio di profitto e con la discussione di alcuni elementi della crisi da realizzazione. Concordo con Michael Heinrich sul fatto che Marx avesse probabilmente abbandonato l’idea di una caduta del saggio del profitto mentre scriveva il primo libro[51], e concordo con Geert Reuten (2004, e con Peter Thomas ) sulla tesi che la tendenza alla caduta del saggio di profitto era espressa, nei Grundrisse, in modo molto più meccanico, come teoria del crollo e non come teoria del ciclo. Allo stesso tempo ritengo che, andando oltre Marx, sia interessante ridefinire la caduta tendenziale del saggio di profitto come meta-teoria della crisi: una teoria della crisi che progressivamente include al suo interno le controtendenze: quando le controtendenze prevalgono sulla tendenza la natura della crisi risulta mutata. Nel ventesimo secolo le controtendenze prevalgono sistematicamente sulla tendenza, ma questo prevalere è comprensibile soltanto all’interno della ricorrenza della crisi innestata sul movimento della caduta tendenziale del saggio di profitto, che crea contraddizioni ulteriori.
Seguendo questo sentiero argomentativo, la mia “ricostruzione” converte la teoria marxiana della crisi in una teoria stadiale del capitalismo. La Lunga Depressione alla fine del diciannovesimo secolo può essere interpretata secondo la versione canonica della caduta tendenziale del saggio di profitto: la composizione del capitale aumenta a tal punto che il plusvalore diviene insufficiente a valorizzare il capitale. Si trattava di una crisi da insufficiente profittabilità lorda, imperniata su una “troppo esigua” estrazione di plusvalore. La transizione da un regime di “libera” concorrenza al capitalismo trustificato, e l’introduzione del fordismo e del taylorismo, sommandosi ad altri fattori (incluso l’imperialismo), determinò una crescita del saggio del plusvalore che più che compensava la crescita della composizione organica. La tendenza alla caduta del saggio di profitto si mutò così nella crisi da realizzazione degli anni ’30, il cosiddetto Grande Crollo, come lo definì John Kenneth Galbraith: una crisi dovuta in questo caso ad una eccessiva profittabilità lorda potenziale, ovvero ad un potenziale “eccesso” di plusvalore. Si noti, tuttavia, che questa crisi da realizzazione non deve essere letta attraverso le lenti del sottoconsumo: Marx, e ancor di più Rosa Luxemburg, proponevano semmai una teoria della crisi che tradotta in termini a noi contemporanei va definita come crisi da sotto-investimento. Il crack successivo al 1929 fu superato, in primo luogo grazie alla distruzione di capitale, in cui la Seconda guerra mondiale ebbe un ruolo cruciale, e in secondo luogo mediante il «keynesismo realmente esistente» dei primi decenni del secondo dopoguerra. In realtà, la cosiddetta Golden Age del capitalismo era trainata da quelli che Michał Kalecki chiamava «esportazioni interne», militarismo e spreco[52].
Questa linea di pensiero mostra che il keynesismo fu per qualche tempo efficace nel dar linfa alla profittabilità e all’espansione della produzione (anche capitalistica). Paul Mattick (1972) aveva tuttavia ragione quando sottolineava che durante i Trente Glorieuses una quota crescente della produzione era rivolta non alla produzione di capitale ma alla produzione in quanto tale, cioè alla produzione di valori d’uso. Ciò significa che stava crescendo la quota di lavoratori non direttamente produttivi di plusvalore. Paul Mattick non vedeva a sufficienza come la crisi poteva essere comunque evitata finché il saggio del plusvalore cresceva e lo sfruttamento della quota relativamente decrescente di lavoro produttivo veniva intensificato in misura adeguata. Per ragioni storiche e sociali, questo non fu più possibile dalla metà degli anni ’60 in poi. La crisi incombente era evidente già nei tardi anni ’60 e nei primi anni ’70, prima dell’aumento del prezzo del petrolio. Come ho anticipato, e come vide bene Claudio Napoleoni (si rilegga la citazione di qualche pagina fa) le lotte interne al processo di produzione sulla valorizzazione immediata, sebbene non fossero l’unico fattore, furono il fattore chiave che condusse alla cosiddetta Grande Stagflazione, che altrove ho chiamato la «crisi sociale». Si trattava di nuovo di una crisi dovuta ad una insufficiente profittabilità lorda, cioè a “troppo poco” plusvalore (o meglio, al troppo poco plusvalore raccolto dai capitalisti produttivi): ma il fattore principale della caduta del saggio di profitto non era la composizione del capitale crescente, bensì il rallentamento (e in qualche caso, come in Italia, l’inversione) della dinamica positiva del saggio del plusvalore.
La fase cosiddetta neoliberista deve essere concepita come reazione alla crisi del Fordismo (nel senso che viene dato al termine dalla scuola regolazionista)[53]. La via d’uscita ha poggiato su due gambe. Da un lato, la decostruzione del lavoro e la precarizzazione dell’occupazione: ciò che, richiamando una espressione attribuita in alcuni aneddoti ad Alan Greenspan, ho definito come «la figura del lavoratore traumatizzato». Dall’altro lato, ciò che ho definito come la sussunzione reale del lavoro alla finanza e al debito. Il riferimento è principalmente al money manager capitalism, il «capitalismo dei gestori finanziari» di cui parla Hyman Minsky (2009): uno stadio del capitalismo che vide anche il prevalere della centralizzazione senza concentrazione delle imprese non finanziarie e alla concorrenza distruttiva di cui parla Jim Crotty (2000). Ho esposto in numerosi scritti la mia analisi di questa più recente fase del capitalismo: vorrei in questa sede ricordare soltanto che questi fenomeni hanno fatto sì che quelli che ho chiamato i risparmiatori maniaco-depressivi abbiano cavalcato l’inflazione del mercato dei capitali (ovvero, la lunga ondata di continua crescita del prezzo delle «attività» sul mercato azionario e nel mercato immobiliare). In forza di ciò, si è generata una situazione in cui i risparmi, i savings (ovvero il valore delle attività accumulate nel passato) salivano di valore, mentre il saving (ovvero la proporzione del risparmio sul reddito corrente) si riduceva, sino a divenire in alcuni paesi negativa. Jan Toporowski (2010) ha opportunamente notato che l’inflazione del mercato di capitali e la proprietà inflazionata hanno agito come surrogato del welfare state nel «sedare» il ceto medio. La visione consolidata di questa configurazione capitalistica come ritorno all’era del laisser faire è, a mio parere, piuttosto fuorviante. Il neoliberismo realmente esistente è stato invece una configurazione del capitalismo dove la politica economica, e dunque anche la forma dell’interventismo statuale, era estremamente attiva, con politiche (in primis, ma non solo, delle banche centrali) volte a indurre un aumento della domanda effettiva attraverso l’instaurazione di un inedito keynesismo privatizzato di natura finanziaria.
La crisi seguente, la Grande Recessione o Depressione Minore, era di nuovo dovuta a una profittabilità potenziale troppo elevata, cioè ad un “eccesso” di plusvalore. Come sempre, la crisi si rese evidente in prima battuta come crisi finanziaria. Questa volta però, è poco sensato, da parte dei marxisti come dei keynesiani, separare crisi reale e crisi finanziaria, vedendo nella crisi finanziaria soltanto un velo della crisi reale. I fattori finanziari sono stati essenziali nell’ascesa e nel collasso di quella forma di capitalismo: l’economia reale non poteva prosperare senza bolle, e senza questa finanza patologica. Il capitale fittizio ha dato forma a una realtà non fittizia: ha costretto i lavoratori e le famiglie a lavorare di più e più intensamente, ha finanziato innovazioni che hanno condotto a una maggiore forza produttiva del lavoro, ha spinto la domanda verso l’alto proprio grazie all’aumento dell’indebitamento, e così via.
10. Marx inattuale
I centenari – figuriamoci i bicentenari – sono tempi in cui si stilano “bilanci”. Come lo è stato, evidentemente, per eventi come la caduta del muro di Berlino, nel 1989, o il collasso dell’URSS. Questo scritto, come ho detto nella nota iniziale, compare in forma diversa in inglese sulla PSL Quarterly Review. Il lettore potrebbe essersi chiesto per cosa stia la sigla PSL. Sta per Paolo Sylos Labini, uno dei grandissimi della “tradizione italiana” in economia politica. Ebbene, Sylos Labini nei primi anni Novanta si distinse per un articolo sul Ponte, che poi divenne un libro per Laterza con il titolo del pezzo che aprì il dibattito: Carlo Marx: è tempo di un bilancio. A Marx si imputava in modo insensato di tutto e di più, con uno sguardo (alquanto disinformato) dal buco della serratura. Mi spiace dire, non una delle sue cose migliori. Era previsto un mio intervento nella discussione, ma per varie ragioni non lo feci: una delle ragioni, e non la minore, fu la tristezza rispetto ad un Maestro. Eppure Sylos Labini aveva scritto in precedenza cose egregie su Marx, e in particolare negli anni ’50 del Novecento aveva aperto la discussione in Italia sul rapporto stretto che lega Schumpeter a Marx sul terreno della teoria dello sviluppo.
Ciò che scrissi all’epoca per me, allo stato di bozze, fu poi pubblicato anni dopo dall’amico Marco Melotti su Vis-à-Vis, e fece da base per un altro scritto su Trimestre, e in inglese per un saggio co-firmato con Roberto Finelli destinato agli atti di un convegno che avevo organizzato nel 1994. Un altro centenario, di nuovo: quello della pubblicazione da parte di Engels del Libro terzo del Capitale. La penso come allora. Sono stato un allievo di Norberto Bobbio (e resto orgoglioso di esserlo stato, pur con tutte le differenze e distanze). Bobbio vedeva in Marx un “classico”: un autore classico, pensava, è chi ha costruito teorie-modello di cui ci si serve continuamente per comprendere la realtà, anche una realtà diversa da quella da cui le ha derivate e a cui le ha applicate, e che hanno finito con l’assurgere a vere e proprie categorie mentali. Non si può comprendere la realtà senza Marx, ma questo è vero in fondo anche per Platone o Aristotele, Hobbes o Kelsen. Nessuno statuto privilegiato, qui. Non possiamo, secondo il filosofo torinese, stare né con Marx né contro Marx.
Anche qui, la tesi nobile e suggestiva (e alta) non mi convince. Così come non mi convince la più volgare (e bassa) moda di alcune biografie recenti, quella di rinchiudere Marx nel diciannovesimo secolo, una visione che è giustamente contrastata da Michael Heinrich in quella che promette di essere la più bella biografia su Marx (che temo mai vedrà la luce in Italia, per l’inerzia delle case editrici), dove Marx è qualificato come pensatore della nascita della modernità, e per questo ancora nostro contemporaneo. Il punto di vista da cui mi colloco può essere colto facilmente pensando al titolo di un convegno in cui questo lavoro verrà presentato, proprio mentre chiudo questo scritto: Marx e la critica del presente. È un titolo felice. Ma è al tempo stesso un titolo sbagliato. Manca un accento: Marx è la critica del presente. Molto semplicemente, per come è costruito il metodo di Marx, che è tutt’uno con il contenuto, Marx o è quello o non è. Per quel che mi riguarda, l’interesse di questo pensatore diverrebbe molto minore, e per buttarla sull’autobiografico avrei fatto altro nella vita. Se si adotta il mio sguardo, Marx è e resterà per un’opera sola, Il Capitale: un’opera, abbiamo visto, molto limitata nel (e dal) suo oggetto peculiare. Ed è un’opera in cui il suo materialismo resta definito come orientato ad una prassi trasformatrice, come ho detto in questo scritto.
Marx non potrebbe essere più chiaro. Ho già citato la seconda delle sue Tesi su Feuerbach, che si conclude con una frase che è una sentenza di morte anticipata sulla gloriosa, ma al tempo stesso autodistruttiva, traiettoria della trappola epistemologica: la disputa sulla realtà o meno di un pensiero isolato dalla prassi è una questione puramente scolastica. Il punto, a me, pare essere molto contiguo ad aspetti della riflessione di Wittgenstein e Freud, e persino Keynes (e ne ho trattato altrove). Non esiste la coppia oggettività-soggettività, l’una “autonoma” rispetto all’altra, precostituite nella loro opposizione, se non da un punto di vista metafisico. Soggettività e oggettività si danno soltanto nella loro relazione. La questione è sintetizzabile in modo estremo nel titolo di un bel libro di Ian Hacking, secondo cui la scienza è Representing and Intervening. La conoscenza è, insomma, integralmente logica nella sua giustificazione (il che conduce dritto dritto alla Darstellung di Marx, ma anche Hegel prima di lui). Ma è conoscenza di qualcosa di esterno, e ciò si fa valere nella dimensione sperimentale della teoria. E questa dimensione in Marx è, anche, da un lato, l’inchiesta “operaia” e, dall’altro lato, la lotta di classe. Per questo, come scrive Schmidt, Marx è e non è “realista”. E per questo, possiamo dire appellandoci ancora a Hacking, possiamo vedere in Marx un pensatore che rigetta il realismo delle teorie e accetta il realismo delle entità, “manipolabili” sperimentalmente e praticamente.
Alfred Schmidt critica del tutto a ragione la rozza immagine della conoscenza come copia, nella quale oggetto e coscienza sono contrapposti, e rimanda invece al ruolo della prassi, che è costitutivo per l’oggetto: e con questo tanto marxismo è giudicato, quali che siano i suoi meriti rispetto alla riflessione postmoderna. Compito della conoscenza, scrive Schmidt è non capitolare dinanzi alla realtà. Per questo, sostiene, il concetto più importante della conoscenza, la «prassi», si rovescia nel concetto di «azione politica». È evidente che una prospettiva teorica di questo genere è massimamente fragile. Non mi riferisco al marxismo, mi riferisco a Marx, autore che non può che essere permanentemente “in crisi” fino a che il capitale si presenta come realtà data e naturale. Non ha senso cercare di “salvare” Marx dai fallimenti dei marxismi reali con i sotterfugi, né (come fa in fondo anche la MEGA2) rivendicarne le “mani pulite”. Tanto meno lo si può isolare dalle difficoltà che incontriamo nel nostro presente.
Ho detto in queste pagine del ruolo cruciale che ha in Marx la categoria di «lavoratore immediatamente socializzato». È una socializzazione che senza dubbio reca l’impronta indelebile del disegno tecnologico sotto il capitale. Quella socializzazione è per Marx però anche la condizione del conflitto e dell’antagonismo. La «centralizzazione senza concentrazione» pare segare il ramo su cui il discorso marxiano si erige a questo punto. Che ne è di tutto ciò quando, come ai nostri giorni, il capitale sembra in grado di connettere i lavoratori dal punto di vista della loro prestazione senza metterli in relazione tra di loro, facendo vivere un solo lato, quello “cattivo”, della socializzazione del lavoro? Capita che nella triste quotidianità in cui siamo gettati, uno debba incontrare una lettura intelligente di questi fenomeni dove quasi non ce lo si aspetterebbe. Nel mio caso, è il Financial Times, dove l’8 settembre del 2016 è comparso un luminoso articolo di Sarah O’ Connor, intitolato «When your boss is an algorytm», in cui, trattando in specifico di Uber e Deliveroo, la giornalista indaga il lavoro quando esso viene «comandato» dalla logica alfa-numerica del computer[54]. Gli algoritmi, sostiene l’autrice, danno luogo ad un controllo e a una sorveglianza tale che neppure il più indurito dei tayloristi avrebbe potuto desiderare.
Parrebbe una prospettiva disperante, e lo è. Pure, i lavoratori di Uber e Deliveroo hanno scioperato. Non potendosi connettere immediatamente sul luogo di lavoro, sono diventati consumatori di se stessi: ordinando per via informatica a quelle ditte, sono stati in grado di comunicare agli altri lavoratori che li “servivano” della lotta in corso, che si è allargata a macchia d’olio, è finita in tribunale (rivelando la falsità della natura “autonoma” del loro lavoro), e che ha finito con il vincere notevoli battaglie, testimoniate in importanti sentenze. La realtà del capitale di oggi presenta una sfida, e quella sfida non troverà soluzione in nessuna fine elaborazione che non la prenda di petto. E lì Marx rimane, come direbbero i francesi, incontournable.
Per questo Marx, questo Marx – il Marx che ho ripercorso in queste pagine – non è attuale, è al contrario massimamente inattuale. Nel senso, almeno, che fu dato a questo termine da Nietzsche: «inattuale – vale a dire contro il tempo e, in questo modo sul tempo, e, speriamo, a favore di un tempo a venire».
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