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Capitalismo cognitivo e postcapitalismo
Qualunque cosa ciò possa significare
di Sebastiano Isaia
«Come sulla fronte del popolo eletto stava scritto ch’esso era proprietà di Geova», così
l’espansione totale e capillare del rapporto sociale capitalistico imprime all’individuo
«un marchio che lo bolla a fuoco come proprietà del capitale» (Marx).
Introduzione
La lettura del libro di Paul Mason Postcapitalismo. Una guida per il nostro futuro ha generato in me una serie di riflessioni e di suggestioni che proverò a mettere in ordine per poterle condividere con i lettori, ai quali chiedo preventivamente scusa per le ripetizioni di frasi e concetti che probabilmente troveranno nel testo che avranno la bontà di leggere, e che non sono riuscito a eliminare nella fase di correzione degli appunti.
Lo scritto che segue non vuole essere, e difatti non è, una recensione del libro di Mason ma, appunto, una “libera” – e spero non troppo confusa – riflessione sui temi affrontati o anche solo evocati dal suo autore. I frequentatori più assidui del Blog non avranno difficoltà a capire subito che si tratta di “problematiche” che non smetto di prendere di mira, cercando di approcciarle da prospettive sempre diverse. Non sempre, o meglio: solo raramente la cosa mi riesce, non ho motivo di negarlo, ma l’impegno c’è, e credo che, tutto sommato, esso vada nella giusta (radicale/umana) direzione. Certamente sbaglio, inciampo e cado di continuo, ma sempre su un terreno a me caro: l’anticapitalismo “senza se e senza ma”, in vista di «una più elevata situazione umana» (Goethe).
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Il capitale umano nella fabbrica della vita
Damiano Palano
Chi riveda oggi Traitement de choc – un vecchio polar francese del 1973 firmato da Alain Jessua e noto in Italia con il titolo L’uomo che uccideva a sangue freddo – non può non riconoscere, seppur nella forma esasperata della cinematografia di genere, almeno alcuni dei problemi in cui ci imbattiamo quando consideriamo le potenzialità offerte dalle tecnologie di manipolazione della vita. Nel film la protagonista, una non più giovanissima Annie Girardot, dopo essere stata lasciata dal marito, decide di ricorrere alle cure della dottor Devilars, un medico, impersonato da Alain Delon, celebre per aver scoperto formidabili metodi di ringiovanimento. Ospite della clinica, la donna inizia però a nutrire qualche sospetto sui metodi di cura, che inizialmente sembra si basino sull’utilizzo di una sostanza di origine ovina, che consentirebbe di rigenerare i tessuti. Ma i ripetuti malori dei inservienti, tutti giovanissimi africani che parlano solo portoghese, inducono la protagonista a indagare ancora. Fino al momento in cui scopre – come gli spettatori hanno già intuito – che il misterioso componente in grado di ringiovanire viene estratto da esseri umani, i quali però, prelievo dopo prelievo, si indeboliscono fino a morire. Nel tentativo disperato di mettere a tacere la donna, il dottor Devilars – come vuole il copione di ogni buon film d’azione – ha la peggio. Ma qualcun altro prenderà il suo posto. E il film si conclude così con le immagini di un furgone che conduce verso la clinica un nuovo carico di disperati, provenienti da qualche sperduto Sud del mondo e destinati a rifornire di carne viva l’inquietante fabbrica della giovinezza.
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La spinta dei pedoni: Turchia ed Arabia saudita aprono la partita?
Federico Dezzani
Le avvisaglie di guerra che cogliemmo nel 2015 si concretizzano un passo alla volta: dopo aver individuato già nello scorso autunno il Medio Oriente come probabile innesco del conflitto, i recenti sviluppi avvalorano l’ipotesi che ad incendiare le polveri siano Turchia ed Arabia Saudita, semplici pedine di una partita manovrata da angloamericani ed israeliani. Le probabilità di uno scontro bellico sono direttamente proporzionali al deterioramento del quadro economico-finanziario: il livello di indebitamento insostenibile e la deflazione strisciante indicano che il ciclo avviato nel secondo dopoguerra è ormai esaurito. Alle oligarchie finanziarie non resta che la guerra per evitare le aborrite politiche finanziarie non ortodosse che castrerebbero il loro potere. Per trascinare l’Europa nel conflitto è probabile il ripetersi di un attentato in stile 13/11: in Siria si verificano già con crescente frequenza sinistri attacchi falsa bandiera.
* * *
È sempre questione di moneta…
Se guerra sarà, sarà ancora un volta questione di moneta. Se da qualche parte nel deserto siriano ed iracheno sarà sparato il primo colpo d’artiglieria che innescherà un conflitto prima regionale e poi globale, sarà ancora una volta una questione di banche centrali: che l’evidente correlazione, percepita da molti nel subconscio e trattata da pochi a livello di pubblicistica, non trovi spazio nel dibattito mediatico, è solo l’ennesimo sintomo del controllo ferreo esercito dalle oligarchie massonico-finanziarie sui media e sul mondo accademico.
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Marx e noi: Stato e società civile
di Renato Caputo
La contrapposizione marxiana fra concezione materialista e idealista della dialettica fra Stato e società civile è ancora oggi essenziale per contrapporre al pensiero unico dominante una visione del mondo autonoma, in grado di superare dialetticamente le ideologie precedenti. Soltanto mediante il rovesciamento della concezione idealista sarà possibile sviluppare la concezione materialista della storia per cui sono le strutture economiche e sociali a determinare, in ultima istanza, le sovrastrutture politiche
Come è noto, sin da giovane Gramsci ha difeso la Rivoluzione di ottobre come una rivoluzione contro il Capitale. In altri termini si tratta di una rivoluzione che aveva avuto successo proprio perché i suoi ideatori avevano operato una cesura con quella ortodossia marxista, dinanzi alla quale lo stesso Marx aveva sostenuto di non essere marxista. È altrettanto noto che Gramsci, riflettendo in carcere sulle cause della sconfitta della rivoluzione in Occidente le rinviene, in primo luogo, nell’incapacità dei comunisti, troppo ancorati alla tradizione massimalista, di tradurre la lezione leninista nel contesto di un Paese a capitalismo avanzato. In tal caso, la rivoluzione in Occidente si sarebbe potuta realizzare solo operando una cesura con una schematica riproposizione del modello bolscevico in un contesto in cui non c’è essenzialmente da fare i conti con lo Stato, ma prima ancora con una società civile riccamente articolata.
Ciò rendeva necessario, dinanzi all’evidente fallimento del tentativo di affermarsi con una guerra lampo di movimento, prepararsi a una necessariamente lunga guerra di logoramento. Nelle società a capitalismo avanzato, infatti, il potere non si regge principalmente sul monopolio della violenza legalizzata ma sulla capacità di egemonia del blocco storico dominante sui ceti sociali subalterni. Ciò rende indispensabile lo sviluppo della lotta di classe al livello delle sovrastrutture.
Proprio il marxismo occidentale si è sviluppato insistendo sulla necessità di sviluppare la coscienza di classe nei ceti subalterni. Lo sviluppo di quest’ultima è certamente favorito dal comune sfruttamento da parte della borghesia e dalla necessaria lotta di classe che, dal piano della rivendicazione economica, tende a svilupparsi sul piano della lotta politica.
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Un’altra storia
di Lanfranco Binni
Delle origini in Iraq e in Siria dello «Stato islamico», finanziato e armato dagli Stati Uniti, e sottotraccia da Israele, per disgregare lo Stato siriano con l’obiettivo strategico di attaccare l’Iran ed eliminare due importanti retrovie di sostegno al popolo palestinese, ormai sappiamo tutto. È lo stesso Obama, nella recente intervista del 19 marzo, a riconoscere il ruolo statunitense nella nascita dell’Isis, sia pure attribuendola alle conseguenze della guerra irachena di Bush e sottraendosi alle responsabilità della sua presidenza. Sappiamo anche che l’Isis, strumento del capitalismo senile occidentale e delle sue strategie geopolitiche, svolge oggi un ruolo di attrazione di soggettività radicali nei paesi arabi e nei paesi occidentali, innestando sul disegno eterodiretto dinamiche diverse e più complesse le cui radici affondano nei processi di esclusione sociale nei paesi arabi e di islamofobia e razzismo nei paesi occidentali: contro il neocolonialismo l’odio per l’Occidente, contro lo «Stato ebraico» lo «Stato islamico», contro i simboli del «moderno» integralismo occidentale i simboli di un integralismo islamico delle origini, contro le tute arancione dei prigionieri di Guantanamo le tute arancione dei prigionieri dell’Isis, contro le tecniche e i mezzi della comunicazione occidentale il loro impiego con contenuti opposti e speculari.
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Come uscire dalla crisi senza uscire dall’euro
di Enrico Grazzini
"Per rilanciare l’economia lo Stato deve creare nuova moneta – in forma di Certificati di Credito Fiscale – senza passare per le banche e la BCE". La proposta avanzata nel libro “Soluzione per l'euro. 200 Miliardi per rimettere in moto l'economia Italiana” di Marco Cattaneo e Giovanni Zibordi (Hoepli) è forse la più convincente e praticabile finora suggerita. Vediamo perché.
Come raccogliere l'appello di Luciano Gallino contro la dittatura dell'Unione Europea?1 Come uscire dalla crisi sfuggendo ai diktat della UE e della BCE che controllano la moneta unica e che soffocano la nostra economia?
Non vi è alcun dubbio che la dittatura della UE si esprima soprattutto a livello economico nella forma di dittatura dell'euro. La moneta unica infatti impedisce i riallineamenti competitivi (cioè le svalutazioni monetarie dei paesi deboli e le rivalutazioni della moneta di quelli forti) e quindi provoca crescenti squilibri commerciali e debiti con l'estero. A causa dell'euro i paesi creditori, come la Germania e i paesi dell'area del marco (Olanda, Austria, Finlandia, ecc), possono dettare legge e strangolare economicamente i paesi debitori, i cosiddetti PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) a cui bisogna aggiungere la Francia.
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«Il vaccino? Soprattutto un affare colossale»
Mauro Lissia - «La Nuova Sardegna»
Intervista a Cornaglia Ferraris, il pediatra che denuncia la malasanità
Paolo Cornaglia Ferraris, la banca d’investimento J.P. Morgan ha calcolato che i governi dei vari paesi prenoteranno molto presto milioni di dosi del vaccino anti influenza A, al costo di dieci euro l’una, per una fattura finale attorno ai dieci miliardi di euro.
Un affare colossale per Big Pharma, il gruppo di multinazionali farmaceutiche che governa la salute mondiale. Ma è giustificato un investimento di queste proporzioni?
«Finora no, il numero di morti è molto basso e il rischio riguarda solo chi è già fragile, debilitato da malattie. Però è un virus nuovo, quindi cresce la possibilità che si comporti in maniera imprevedibile e questo provoca allarme. I responsabili delle politiche di prevenzione sono appesi a quanto dicono gli scenziati e su questo si gioca il futuro della spesa e della campagna di vaccinazione».
- Siamo quindi ancora nel campo delle incertezze.
- Sì, oggi non è chiaro quale sia il grado di severità di questo virus. Non si capisce se il numero di morti rispetto agli infettati sia superiore alle altre banali influenze del passato. E quest’incertezza genera ansia, c’è il timore che l’enzima N1 sia severo come quello che fece milioni di morti con la spagnola, negli anni Venti.
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La requisitoria di Sahra Wagenknecht e i suoi limiti
di Carlo Formenti
Il titolo del libro di Sahra Wagenknecht - dirigente storica della Linke, partito di cui è stata vicepresidente dal 2010 al 2014 – rischia di suscitare aspettative eccessive: Contro la sinistra neoliberale (Fazi editore) evoca infatti una svolta radicale, una presa di congedo netta e senza tentennamenti da ciò che le sinistre – non solo la tedesca, bensì tutte le sinistre occidentali – oggi rappresentano. Ci si aspetterebbe, insomma, di leggere una condanna senza appello, del tenore di quella contenuta nella lettera aperta di Hans Modrow alla Linke che abbiamo rilanciato su questa pagina https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2022/02/lettera-di-hans-modrow-alla-linke-hans.html
Viceversa il punto di vista della Wagenknecht è più sfumato e contraddittorio. Non che manchino accenti durissimi nei confronti di quella che l’autrice definisce “sinistra alla moda”: come vedremo fra poco, la sua requisitoria è lunga, dettagliata e argomentata, così come è corretta la sua analisi delle radici di classe del fenomeno politico in oggetto. A lasciare perplessi è però il tentativo di tracciare un confine fra neoliberalismo “di sinistra” e liberalismo tour court; un approccio che legittima l’idea secondo cui il liberalismo di sinistra tradizionale, o liberal socialismo, non è il grembo che ha partorito l’attuale sinistra neoliberale, bensì qualcosa di completamente diverso, un patrimonio di idee e valori da cui si potrebbe trarre il materiale per rifondare una “vera” sinistra. Ma procediamo con ordine.
Il bersaglio della Wagenknecht sono coloro che non pongono più al centro della propria attenzione i problemi sociali e politico-economici bensì le tematiche relative allo stile di vita, alle abitudini di consumo e ai giudizi morali sui comportamenti.
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Una storia della critica del valore attraverso gli scritti di Robert Kurz
di Anselm Jappe
Robert Kurz, il principale teorico della «critica del valore» in Europa, è morto il 18 luglio 2012 a Norimberga, in Germania, a causa di un errore medico; aveva 68 anni. Questa morte prematura ha interrotto un lavoro immenso che durava da 15 anni, e che in Francia si comincia appena ora a conoscere. Nato nel 1943 a Norimberga, dove ha trascorso tutta la sua vita, Kurz partecipa in Germania, nel 1968, alla «rivolta degli studenti» e alle intense discussioni in seno alla «nuova sinistra». Dopo una brevissima adesione al marxismo-leninismo, e senza aderire ai «Verdi» nel momento in cui effettuavano in Germania la loro svolta «realista», nel 1987 fonda la rivista "Marxistische Kritik", ribattezzata "Krisis" qualche anno più tardi. La rilettura di Marx, proposta allora da Kurz e dai suoi primi compagni di lotta (tra cui Roswitha Scholz, Peter Klein, Ernst Lohoff e Norbert Trenkle), non li ha certo portati a farsi degli amici nella sinistra radicale. Tutti quelli che hanno visto i propri dogmi - come la «lotta di classe» e il «lavoro» - rovesciati e abbattuti uno dopo l'altro, in nome di una messa in discussione delle basi stesse della società capitalista: valore mercantile e lavoro astratto, denaro e merce, Stato e nazione. Kurz, autore prolifico e scrittore vigoroso, sovente polemico, collaboratore regolare di alcuni importanti giornali, soprattutto in Brasile, conferenziere notevole, sceglie tuttavia di rimanere al di fuori dell'università e delle altre istituzioni accademiche, e decide di vivere grazie a un lavoro proletario: vale a dire, impacchettando la notte le copie di un giornale locale.
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Lettera UE all'Italia
Le mosse da non sbagliare con l’Europa
Marco Biscella intervista Sergio Cesaratto
In arrivo lettera della Commissione sul debito pubblico. L’Italia dovrebbe rispondere con una proposta ragionevole: stabilizzazione del debito/Pil in cambio di tassi bassi
Lo spread sopra area 280 e il commissario europeo agli Affari economici, Pierre Moscovici, che annuncia: “Avrò uno scambio di vedute con il Governo italiano su misure aggiuntive che potrebbero essere richieste per essere in linea con le regole”. Il giorno prima, in conferenza stampa Matteo Salvini, forte del suo 34% di voti, aveva commentato così il risultato di domenica: “È in arrivo una lettera della Commissione europea sull’economia del nostro Paese e penso che gli italiani diano un mandato forte a me e al Governo di ridiscutere in maniera pacata parametri vecchi e superati”. Con un’idea ben precisa in testa: “Proviamo a salvare questa Europa, riportandola alle sue radici e al suo sogno originario. Sono convinto che il nuovo Parlamento europeo e la Commissione europea saranno amici dell’Italia. È cambiata la geografia in Europa”. Sarà davvero così? Come cambieranno i rapporti tra Italia e Unione europea? E soprattutto, su politiche espansive, lotta all’austerity e conti pubblici quali sponde troverà la Lega nel nuovo Parlamento europeo? Lo abbiamo chiesto a Sergio Cesaratto, professore di Economia politica all’Università di Siena, che si aspetta, per l’Italia, “una fase molto dura”.
* * * *
Salvini ha stravinto con il 34%. Come verrà preso questo risultato a Bruxelles?
Penso che verrà preso con estrema preoccupazione sull’Italia, visti i programmi, costosi, di sfondamento dei parametri europei propugnati da Salvini. Non sappiamo ancora come sarà la nuova Commissione, su quali equilibri si reggerà, se andiamo – ma non credo – verso un’Europa un po’ più aperta sulla politica economica o un’Europa che in fondo non cambierà. E’ vero, potrebbero entrare i Verdi, ma non sono una forza così progressista e sarebbero comunque in una posizione di debolezza e la loro presenza sarebbe controbilanciata anche dai Liberali. Magari però contano di più in Germania. E con la crisi del modello basato sull’industria automobilistica potrebbero battersi per un modello basato su piani europei di riconversione ecologica e quant’altro. Per ora sono però solo vaghi auspici.
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Riletture, la crisi politica: Crouch, Rosanvallon, Urbinati
di Alessandro Visalli
Riprendere in mano qualche vecchio testo può essere utile, a questo fine rileggeremo alcuni libri usciti tra il 2000 ed il 2014 sulla crisi politica che le democrazie occidentali stanno affrontando sotto la spinta di fattori economici, sociali e tecnologici. Sono coinvolti in questa crisi tutti i fattori di stabilità politica che faticosamente erano stati costruiti nel corso dei due secoli che seguono alla fine dell’ancien régime: le relazioni sociali, il discorso pubblico, i valori centrali, i partiti, le forme della politica, le forme dell’azione pubblica, le istituzioni.
Probabilmente alla radice di questa trasformazione non è solo l’economia, con la prevalenza del sogno neoliberale (incubo per la maggioranza delle persone non dotate di robuste dotazioni di capitali), ma anche una profonda disintermediazione nella stessa costruzione del discorso, pubblico e privato, e quindi della capacità e possibilità di accesso alla formazione della verità.
Si tratta di un tema difficile e cruciale, sul quale bisognerà ritornare.
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Anime nere
di Piergiorgio Giacchè
...dentro l’urne,
è forse il sonno della morte men duro?
Com’era, “O Roma o morte”? Stavolta è andata male. Sarà che Veltroni non è Cavour e che Rutelli non è Garibaldi. Sarà che a sinistra non si ode da tempo nessuno squillo di tromba. Sarà che l’assalto dei nostri Prodi è andato come è andato… Ma ormai non si può più sparare sulla croce bianca e la bandiera rossa. Ci hanno fatti neri, e non è più questione di camicia ma di anima.
Dire “lo sapevamo” davvero non si può, perché in realtà lo sapevano tutti. Non c’è nel corpo elettorale nessuno, votante o astenuto, che non lo sapesse. Da noi si vota o non si vota con la stessa identica consapevolezza: vince chi ha già vinto e comanda chi già comanda. E non vuol dire che la gente sia scoraggiata, ma invece proprio su questa certezza si basa e si incoraggia perfino l’indecisione elettorale. Chi non vota non lo fa per protesta ma per carattere: si tratta soltanto di farsi gli affari propri in latitanza invece che mettendosi in evidenza.
Nessuno più si astiene per mandare un messaggio diverso, per dichiarare la sua disaffezione o la sua disillusione. Da tempo, da noi, nessun elettore si può dire affezionato e nessuno si è mai ragionevolmente illuso.
Tutti dunque sapevano come sarebbe andata a finire, perché era già finita, con tanto di risultati scontati prima della conta. E non si sta parlando dei sondaggi ma dell’assenza di miraggi (già prospettive o addirittura utopie) che caratterizza il mercato e lo spettacolo della politica.
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L’uso della vita dove si intrecciano lavoro e azione
Luca Illetterati
Una proposta di Paolo Virno per riarticolare sempre e di nuovo le forme dell’azione, muovendo dalla capacità recitativa propria dell’uomo: ciò che gli rende possibile pensare sé come un altro e un altro come sé
«La vita è praxis, non poiesis», dice Aristotele in un passo famoso della Politica. Entrambe, praxis e poiesis, sono per lui modelli di azione che caratterizzano la forma di vita degli animali umani. La poiesis ha come proprio fine la produzione di un oggetto che, una volta arrivato a esistere, è qualcosa di altro e di estraneo rispetto all’attività che lo ha prodotto. Un letto, un computer, una casa, giunto il termine del processo che li ha realizzati, godono, in qualche modo, di una vita propria: non dipendono più dal falegname, dall’assemblatore, dall’architetto, dal muratore che li hanno portati a essere ciò che sono. Più radicalmente, l’oggetto esiste solo quando l’azione finalizzata alla sua produzione trova il proprio termine. Finché l’azione produce non c’è ancora l’oggetto e quando l’oggetto è realizzato l’azione viene meno.
La praxis, invece, è secondo Aristotele quella azione che trova il proprio fine in se stessa, che si compie svolgendosi. È quell’azione, cioè, che non trova il suo compimento in un oggetto. Il fare musica, per riprendere un esempio aristotelico che poi Heidegger utilizzerà come proprio nei suoi corsi universitari, non si realizza in un fine esterno: il suo compimento è già nello stesso fare musica. Una vita che si realizza in un prodotto altro da sé è una vita del tutto alienata, espropriata di se stessa: come il fare musica, appunto, la vita trova compimento nell’essere vissuta bene e non si acquieta una volta giunta al risultato, alla realizzazione di uno scopo esterno. Smettere di agire è, per la vita, smettere di essere se stessa: equivale alla morte.
È soprattutto grazie a Hannah Arendt e attraverso i suoi scritti che questa classica distinzione tra praxis e poiesis è stata riportata al centro della discussione filosofica nel secolo scorso. La sua riattualizzazione consente infatti alla filosofa tedesca di svelare e decostruire il pensiero politico dell’occidente e in particolare quello moderno. Essendo rivolta alla costruzione delle condizioni che consentono la legittimazione del governo, dunque alla elaborazione delle mitologie che reggono la legittimità dello Stato (lo Stato di natura hobbesiano, la volontà generale rousseauiana, tutte le forme di contrattualismo e neo contrattualismo) la teoria politica è un fare piuttosto che un agire, è una poiesis piuttosto che una praxis.
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La crisi del lavoro e il dominio delle oligarchie
di Francesco Ciafaloni
Democrazia in crisi e tracollo della sinistra
Il collasso italiano, assai più profondo della crisi mondiale di cui è parte, non è solo né soprattutto politico. Gli aspetti materiali, culturali, sociali – la scomparsa di alcuni settori portanti della nostra economia, il dissesto ambientale; la dipendenza culturale; la povertà vera, la privazione di beni e servizi indispensabili, non solo la frugalità involontaria, di molti italiani – sono certo più profondi, più sostanziali, più difficili della crisi politica, nel senso di crisi dei partiti. Ma, se non siamo, per ora, tra gli assolutamente poveri, è la condizione politica del paese che ci lascia, che mi lascia, letteralmente senza parole. Non siamo nuovi in Italia alla denuncia dell’opportunismo, della frode, della corruzione, in politica. Lungo prometter con l’attender corto è stato scritto in italiano più di sette secoli fa. La crisi della politica attuale comincia almeno trent’anni fa. Ma il balbettio, la menzogna evidente, l’equivoco verbale, il gioco di parole così rozzo da non ingannare nessuno di molti politici e antipolitici italiani, di destra e di sinistra, in questi ultimi mesi, non lo avevo mai sentito prima.
Le stesse persone che ci dicevano pochi mesi fa che bisognava allungare la vita di lavoro fin quasi a settant’anni, anche per i lavori manuali – per favorire i giovani, per equità tra le generazioni – oggi programmano part time e uscite anticipate per i vecchi, sempre per favorire i giovani, per equità tra le generazioni.
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Le elezioni e i movimenti della politica
Bruno Giorgini
La democrazia. Dice Spinoza: una società che esercita collegialmente il potere in modo tale che tutti siano tenuti a obbedire a sè stessi, senza che nessuno sia costretto a obbedire a un proprio simile.
I partiti. Fin quando gli esseri umani saranno animali politici esisteranno i partiti, ovvero libere associazioni di cittadini/e che sulla base di programmi e progetti si contendono il potere e/o il governo della città, della polis. Ovviamente le forme concrete e i poteri dei partiti cambiano a seconda delle fasi storiche. In Italia negli ultimi decenni i partiti sono degenerati diventando vieppiù macchine per il potere di persone e gruppi di pressione fondate quasi sempre sull’interesse personale, il malaffare, la corruzione, la rapina e lo sperpero del pubblico denaro, l’occupazione indebita di istituzioni della società. Si pensi al disastro della spartizione partitica dei posti nella sanità pubblica, la collusione con organizzazioni criminali, nonchè con costi per il loro funzionamento al di là di qualunque giustificazione. Questo dilagante malaffare ha contaminato anche le istituzioni rappresentative, talchè i nostri onorevoli, si fa per dire, guadagnano molto di più dei loro colleghi europei che non sono certo poveri, lo stesso vale per il Presidente della Repubblica e da lì in giù per tutti, fino a uscieri e impiegati. Senza alcun dubbio due sono i motori di questa corruzione dei partiti italici, chi più chi meno tutti coinvolti: il finanziamento pubblico, giustificato col fatto che altrimenti la politica se la potrebbero permettere solo i ricchi, a conferma del fatto che le vie dell’inferno sono spesso lastricate dalle migliori intenzioni, e la collusione tra politica e affari, fino agli appalti dedicati alle organizzazioni criminali, fino alla trattativa tra stato e mafia, dopo gli attentati contro Falcone e Borsellino.
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La crisi europea oltre l'ideologia del mercato
di Paolo Massucci*
Inserendoci nel dibattito attuale sulla cosiddetta “crisi dell’Euro” ci proponiamo, pur senza pretesa di completezza, di coglierne alcuni punti essenziali, per poter ampliare il ragionamento al di là della preponderante informazione massificata, basata su ”l’ideologia del mercato”, fuorviante per una effettiva comprensione del processo storico sottostante.
Si tratta evidentemente di un compito ostico, soggetto ad errori e fraintendimenti e certamente parziale e provvisorio, in quanto si tenta di “afferrare” una fase della storia in tumultuoso corso di svolgimento, il cui terreno sembra continuamente “muoversi sotto i piedi”. L’attuale crisi appare comunque di proporzione “storica”: è in atto un profondo e drammatico processo di riorganizzazione del sistema capitalistico, il cui esito purtuttavia non può essere né noto né certo.
Siamo vicini al collasso del sistema capitalistico? Al momento è poco probabile, mentre siamo di fronte, almeno in Europa, ad una profonda ristrutturazione dei rapporti di potere, nel segno della scomparsa dei modelli cosiddetti “democratici” del funzionamento della politica e dei modelli cosiddetti “sociali” di redistribuzione delle ricchezze, la scomparsa dunque dei diritti, pur parziali, conquistati dai lavoratori nel secolo scorso. Ma lo scenario futuro rimane imprevedibile.
Quale è il principale fattore di questa incertezza, di questa instabilità, di fronte alle politiche economiche imposte dai poteri dei grandi azionisti dei capitali finanziari? Esso è, in ultima analisi, la possibilità e la capacità di reazione della società stessa (la classe lavoratrice in senso ampio), è l’imprevedibilità della storia, il fattore uomo, cioè la libertà dell’agire umano, la “risposta all’azione”.
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La critica della democrazia borghese in Rosa Luxemburg
di Michael Löwy
Come ha scritto Michael Löwy,i Freikorps che uccisero Rosa Luxemburg – la “fondatrice del Partito comunista tedesco (Lega Spartachista)” -, erano una “banda di ufficiali e militari controrivoluzionari” che rappresentava il “futuro vivaio del partito nazista”[1].
Furono inviati a Berlino dal ministro socialdemocratico Gustav Noske per stroncare la rivolta spartachista e sconfiggere il tentativo di una rivoluzione in Germania. Per ricordare la filosofa rivoluzionaria polacca, a cento anni dalla sua morte, Tysm pubblica un testo di Löwy che sottolinea la vitalità della sua lezione.
Ringraziamo Löwy per averci concesso di pubblicare questo testo, inedito in lingua italiana, apparso originariamente sul numero 59, 2016 della rivista francese Agone. Un’altra versione* è pubblicata in Löwy, Rosa Luxemburg. L’étincelle incendiaire, Montreuil, Le temps des cerises, 2018.
L’approccio estremamente dialettico di Rosa Luxemburg allo Stato borghese e alle sue forme democratiche le permette di sfuggire tanto agli approcci social-liberali (á laBernstein), che negano il loro carattere borghese, quanto a quelli di un certo marxismo volgare, che non tengono in considerazione l’importanza della democrazia. Fedele alla teoria marxista dello Stato, Rosa Luxemburg insiste sul suo carattere di “Stato di classe”. Ma aggiunge immediatamente: “[questo]non dovrebbe essere preso nel suo significato rigido, assoluto, bensì in un senso dialettico”.Che cosa significa? Da una parte, che “nell’interesse dell’evoluzione sociale [lo Stato] assume diverse funzioni di interesse generale”; ma allo stesso tempo che “lo fa esclusivamente perché e fintantoché questi interessi e l’evoluzione sociale coincidono con gli interessi della classe dominante”[1]. L’universalità dello Stato è quindi severamente limitata e, in larga misura, negata dal suo carattere di classe.
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Riflessioni a sinistra
di Francesco Fustaneo
Riceviamo da Francesco Fustaneo e volentieri pubblichiamo come contributo alla discussione
Oramai da più di un decennio la c.d. sinistra “radicale” è confinata in aree extra-istituzionali con percentuali elettorali irrisorie e come se ciò non bastasse è frammentata in tanti partiti, movimenti e correnti, spesso guidati da leader impalpabili.
E’ pacifico che utilizzando il termine “radicale”(di per sé comunque criticabile), si discerne quelle forze politiche comuniste o postcomuniste o comunque collocabili alla sinistra del P.D.; quest’ultimo ormai è rimasto un partito “di sinistra” solo per i media mainstream; è innegabile infatti che avendo propinato per anni politiche neoliberiste, abbattendo i diritti dei lavoratori e il welfare, tale compagine politica sia riuscita a realizzare per stessa ammissione dei suoi avversari, obiettivi prefissati però rimasti sempre preclusi alle stesse destre al governo.
Eliminerei dal novero delle forze radicali di sinistra il gruppo di S.e.l., attualmente trasformatosi in L.e.u. che puntando ad un rapporto ambivalente e ambiguo col P.d. ha costruito il proprio percorso politico, riuscendo per far approdare in Parlamento i suoi più rampanti dirigenti e al contempo all’ultima tornata elettorale, grazie alle liste bloccate, anche personaggi che hanno ricoperto rilevanti ruoli istituzionali nella legislatura precedente, ma non certo amatissimi dall’elettorato, come la Boldrini e Grasso, fallendo però nell’obiettivo di riconfermare la rielezione di Massimo D’Alema.
Fatta questa breve ma doverosa premessa, precisiamo che per la sinistra che si ispira ancora ad una matrice socialista e/o comunista, il quadro è a dir poco desolante.
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Marco Minniti. Quest’uomo è una sicurezza
di Antonio Mazzeo
Contrasto delle migrazioni “irregolari”, gestione dell’ordine pubblico e repressione del dissenso. Con Marco Minniti al Viminale si annuncia un giro di vite alla vigilia di importanti appuntamenti come il G7 a Taormina e le elezioni politiche
Quello guidato da Paolo Gentiloni è davvero il governo fotocopia di Matteo Renzi? La promozione di Domenico “Marco” Minniti da sottosegretario con delega ai servivi segreti a ministro dell’Interno rappresenta una novità più che inquietante alla luce dei nuovi programmi di contrasto delle migrazioni “irregolari” o di gestione dell’ordine pubblico e repressione del dissenso. Non è certo un caso, poi, che il cambio al Viminale avvenga alla vigilia dei due appuntamenti internazionali che hanno convinto a rinviare sine die la fine della legislatura: la celebrazione del 60° anniversario della firma del Trattato istitutivo della Cee (il 25 marzo a Roma), ma soprattutto il vertice dei Capi di Stato del G7 a Taormina il 26 e 27 maggio. Marco Minniti, di comprovata fede Nato, vicino all’establishment ultraconservatore degli Stati Uniti d’America e alle centrali d’intelligence più o meno occulte del nostro Paese appare infatti come il politico più “adeguato” per consolidare il giro di vite sicuritario sul fronte interno e strappare a leghisti e centrodestra il monopolio della narrazione sul “pericolo” immigrato. Curriculum vitae e trame tessute in questi anni ci spiegano come e perché.
Originario di Reggio Calabria, una laurea in filosofia e una lunga militanza nel Pci prima, nel Pds e nei Ds dopo, nel 1998 Minniti viene chiamato a ricoprire l’incarico di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio (premier l’amico Massimo D’Alema), anche allora con delega ai servizi per le informazioni e la sicurezza; l’anno seguente, con le operazioni di guerra Nato in Serbia e Kosovo, Minniti assume il coordinamento del Comitato interministeriale per la ricostruzione dei Balcani.
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Le radici storico-antropologiche della nozione di feticismo
di Alessandra Ciattini
La nozione di feticismo nasce all'interno della riflessione sulla “religiosità primitiva” ma da questa è trasferita ad altri ambiti culturali. Contiene in sé una prospettiva critica che consente di scomporre i nostri “feticci” nel sistema di relazioni che in essi si cristallizzano
In una fase storica in cui alcuni sentono la nostalgia di rapporti uomo / natura improntati alle antiche e simbiotiche concezioni animistiche [1], forse è opportuno ricostruire brevemente la storia di una nozione centrale del pensiero moderno. Mi riferisco alla nozione di feticismo usata da Hegel, Marx, Comte, Freud per citare solo i pensatori più grandi, anche se in contesti diversi e con obiettivi differenti. E ciò non per amore di pura erudizione, ma cercare di far chiarezza - per quanto è possibile nel breve spazio concessomi in questa sede - su due punti: 1) cosa suscita l'interesse per le forme religiose extra-occidentali ? 2) perché guardare ad altre forme di vita sociale per comprendere alcuni elementi costitutivi della propria società e cultura?
L'interesse per nozioni coniate per definire un'esperienza storica “altra” o direttamente provenienti dalle forme sociali extra-occidentali non è ovviamente isolato al feticismo; si pensi ad esempio al concetto di tabù - reso noto da James Cook nei suoi diari di bordo alla fine del '700 - che pure ha avuto tanto successo e che è un parola di origine polinesiana, il cui significato è “marcato con una foglia”. Tale marcatura indicava che l'oggetto così segnato non poteva essere violato, altrimenti sarebbe scattata sul violatore una punizione automatica di origine sovrannaturale, la quale si sarebbe quindi realizzata anche nel caso in cui il trasgressore non fosse stato scoperto.
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Questo cambia tutto
di Marino Badiale
La realtà sociale e culturale del nostro tempo presenta una strana contraddizione: da una parte l'organizzazione capitalistica della società mostra sempre più chiaramente i suoi limiti, la sua incapacità di assicurare la riproduzione sociale in termini sostenibili nel tempo. Appare via via più chiaro il fatto che il modo di produzione capitalistico, giunto alla fase attuale del suo sviluppo, non sa più assicurare i livelli di benessere e i diritti che erano stati garantiti ai ceti subalterni dei paesi occidentali per tutta una fase storica, e che esso, per continuare a sopravvivere, ha avviato pericolosi processi di dissoluzione dei legami sociali e di sconvolgimento di delicati equilibri ecologici. Allo stesso tempo però, e questo è l'altro lato della contraddizione, questi evidenti indizi di inceppamento dei meccanismi autoriproduttivi dell'attuale organizzazione sociale non suscitano un movimento politico che abbia chiara l'esigenza di superamento del capitalismo e sappia articolare tale esigenza inserendosi nelle linee di scontro che le crescenti complicazioni sociali fanno sorgere. Per usare un linguaggio d'altri tempi, crescono le difficoltà oggettive nella riproduzione del meccanismo sociale capitalistico, ma latitano le forze soggettive che dovrebbero iniziare la lunga e difficile lotta per una diversa organizzazione sociale.
Un piccolo esempio di questi problemi è fornito, a mio avviso, dalla pubblicazione in Italia dell'ultimo libro della celebre giornalista canadese Naomi Klein [1] e da alcune delle reazioni che esso ha suscitato. Il libro è interamente dedicato alla tematica del cambiamento climatico. La tesi fondamentale dell'autrice è che l'attuale organizzazione sociale non è ecologicamente sostenibile, e che, se vogliamo utilizzare davvero il poco tempo che ci resta per minimizzare gli sconvolgimenti causati dal cambiamento climatico ormai avviato, sono necessari mutamenti drastici nella società e nell'economia, e in particolare è necessario l'abbandono del modello socioeconomico neoliberista che è stato dominante negli ultimi decenni.
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L’Occidente psichiatrico di Ezio Mauro
Miguel Martinez
Leggo ieri, sul sito di Repubblica, un editoriale di Ezio Mauro che riesce a riassumere due secoli di paranoia in quattro luoghi comuni.
Mauro ci spiega che esiste l’Occidente e che l’Occidente ha un “nemico ereditario“, l’Oriente.
Egli adopera in modo intercambiabile il termine “Occidente” e il pronome “noi“, e già questo è clinicamente interessante.
Il signor Ezio Occidente precisa comunque di non essere paranoico: è il mondo, spiega, che ce l’ha con lui/noi.
Ci rivela che “l’anima imperiale e imperialista della Russia è eterna e insopprimibile” e vuole bloccare “la libertà di destino dei popoli“.
Poi ci sono i musulmani. Ezio Occidente, parlando del cosiddetto califfato islamico a cavallo tra Siria e Iraq, si chiede se l’Occidente (anzi “la comunità del destino”) abbia
“almeno la consapevolezza che quel pugnale islamista è puntato alla sua gola“.
E si pone l’eterna domanda di tutti coloro che temono la Decadenza dell’Occidente:
“Ma nel momento in cui due parti del mondo lo designano contemporaneamente come il nemico finale e l’avversario eterno, l’Occidente ha una nozione e una coscienza di sé all’altezza della sfida?”
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Lavora, riproduci, taci. La crisi e l'attacco ai diritti
Cristina Morini e Andrea Fumagalli
1. Il ritorno della Manchester dell'800
La vertenza in corso nello stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco presenta alcuni elementi noti e insieme aspetti nuovi. Utilizzando il classico strumento del ricatto dei licenziamenti (la minaccia della chiusura dell’impianto con delocalizzazione in Polonia), la Fiat pretende di ottenere l'aumento del numero dei turni fino a 18, la riduzione della pausa mensa, la rinuncia preventiva al diritto di sciopero. In tal modo, sulla pelle degli operai, può essere mantenuta la promessa dei vertici aziendali di aumentare la produzione italiana (1 milione e 400.000 vetture).
Le richieste della Fiat sono, dicevamo, antichissime: si intensifica lo sfruttamento (al punto che chi finisce il proprio turno in carrozzeria alle 14 deve ripresentarsi in fabbrica alle 6 della mattina seguente), si rinuncia a qualsiasi forma di conflitto, si accetta la totale subalternità del lavoro alle logiche padronali. In altre parole, un ritorno alle fasi del primo capitalismo post rivoluzione industriale. Ma con una differenza sostanziale, però: le nuove tecnologie informatiche invece di concentrare la produzione in un unico posto, consentono un’organizzazione modulare e reticolare del lavoro e della filiera produttiva, con ovvi effetti di frammentazione e segmentazione spaziale del ciclo produttivo.
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La secessione reale: perchè molti enti locali italiani hanno la capitale a Londra e non a Roma
Nique la Police
Mentre la comunicazione politica si occupa di spettri, figure esangui che rilasciano dichiarazioni frammetarie e fugaci ai telegiornali e alla stampa, è utile concentrarsi sullo scenario aperto dalla profonda crisi economica e finanziaria che sta attraversando il continente europeo.
Da questo scenario isoliamo un particolare: in Italia una secessione è già maturata. Ma non tra la Lega e Roma, come temuto dalla grigia vestale del tricolore che si chiama Napolitano, ma tra molti enti locali italiani (sia a nord che a sud del paese) e il potere centrale. Questi enti locali una loro capitale, intesa come riferimento ineludibile di interessi, l'hanno già eletta. Si chiama Londra, e più precisamente la City, e il fatto che anche questa capitale attraversi una seria crisi economico-finanziaria non fa altro che aggiungere ulteriori tinte fosche ad uno scenario già di per sè plumbeo. Vediamo, per gradi, di intenderci sul tema che stiamo trattando.
Interessi italiani diversi nello stesso caos europeo
Cominciamo da come funziona la comunicazione politica: mentre tg e stampa sono pieni di particolari sull'ultima conferenza bon chic bon gendre di Fini, di faticose traduzioni dell'ultimo rantolo di Bossi o di frasi da buon senso del commesso coop di Bersani, nei giorni scorsi si svolgevano a Bruxelles due drammatiche riunioni. Una dell'Eurogruppo, i rappresentanti economico-finanziari della zona euro, e una dell'Ecofin che riguarda i ministri dell'economia e delle finanza dell'intera Unione Europea.
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Sulla mia pelle: un Cristo contemporaneo tra Kafka e Pasolini
di Vincenzo Morvillo
La delinquenza – come anche, con essa, la tossicodipendenza – e la marginalità, la miseria, l’indigenza che spesso le determinano, all’interno di una società capitalistica e sviluppata, sono produttive. Producono cioè l’intero sistema legale, il conseguente apparato di sorveglianza e punizione (per rimandare a Foucault), nonché l’indotto complessivo, in termini culturali, sociali e repressivi. Ma, soprattutto, fanno comodo ai padroni.
«I padroni si servono della delinquenza: additando al disprezzo delle masse – servendosi dei loro giornali – i poveracci, i manovali del furto, quegli sbandati che, con la loro dottrina, hanno instradato al crimine. Si rifanno così una verginità, e abituano la gente a pensare che le uniche rapine, estorsioni, furti, omicidi, sono quelli fatti da questi disperati “pistola in pugno”, e non quelli che ogni giorno commettono (lor signori, ndr), con lo sfruttamento. Preparano l’opinione pubblica alla polizia che spara e uccide, condannando a morte senza processo, dietro il comodo paravento della “difesa della tranquillità dei cittadini”».
E ancora:
«Il carcere è forse l’aspetto più evidente dello scopo di uccidere che si pone il capitalismo. È sempre stato usato per ricattare, spaventare, tenere sottomesso il popolo, e dove l’intimidazione non bastava, è servito per torturare, ridurre a larve umane, uccidere lentamente e legalmente, tutte le volte che i padroni non avevano la forza o il coraggio di fucilare o massacrare nelle piazze tutti quelli che non accettavano passivamente lo sfruttamento e la miseria».
E infine:
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Dalla superstizione alla fede scientifica
di Tomasz Konicz
La nuova "Marcia per la Scienza" mostra come nel capitalismo tardivo stia crescendo anche la regressione sociale
«il sapere che è potere non conosce limiti né
nell'asservimento delle creature né nella sua
docile acquiescenza ai signori del mondo.»
("Dialettica dell'Illuminismo")
Alla fine di aprile, c'è stata un'ondata di proteste da parte della comunità scientifica mondiale, rivolta principalmente contro le politiche anti-scienza del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Gli scienziati hanno dovuto confrontarsi con un'ostilità sempre più crescente nei confronti della scienza. Come nel caso, soprattutto, di quello che è stato l'attacco portato avanti dai nuovi movimenti populisti di destra. Tuttavia, in queste proteste è presente un ben noto errore di fondo che attiene all'assenza di qualsiasi auto-riflessione critica da parte della scienza. Le critiche relative alla ricerca e all'insegnamento, hanno riguardato solamente le condizioni lavorative nella comunità scientifica - dal momento che è stata completamente ignorata la contraddittoria funzione sociale della scienza nel capitalismo.
La nuova "Marcia per la Scienza" rientra, quindi, in una concezione acritica della scienza, che era popolare nel XIX secolo. Anche quelli che sono i classici della letteratura critica della scienza, sembra non aver lasciato alcuna traccia nella comunità scientifica. E, in effetti, il mondo può essere così meravigliosamente semplice... se hai sufficientemente fede nella scienza!
Da un lato, abbiamo gli scienziati illuminati che vogliono impegnarsi oggettivamente nella ricerca e nell'insegnamento, in quella che è la forma della comunità scientifica mondiale. Mentre l'altro lato verrà ad essere dominato dalle forze irrazionali dell'oscurità, dalla stupidità, dalla superstizione e dagli interessi privati.
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La mappa che rotola
Marco Dotti
Il secondo tomo delle «Sfere» di Peter Sloterdijk, per Cortina editore. Una disamina dei territori della globalizzazione a partire dal movimento della palla
«Nessun animale crea una sfera», solo l’uomo. Nel De Ludo Globi, terminato nel 1463, anno che ne precede la morte, Nicolo Cusano mette in scena un dialogo su un gioco – così afferma — «scoperto da poco e da tutti compreso».
Non è un gioco qualsiasi, tutt’altro: è ludus globi, il gioco della palla o della sfera. Disegnati a terra, nove cerchi concentrici delimitano il campo su un piano circolare. Al centro, la figura di Cristo. La palla, lanciata dai partecipanti al gioco, si muoverà — così Giovanni, figlio del duca di Baviera, uno dei dialoganti che Cusano mette in scena nell’operetta filosofica — «come dalla tenebra alla luce», percorrendo i nove cerchi. Dove si fermerà la sfera? In quello esterno, che è segno di caos e imperfezione? O nel secondo cerchio, che è quello della virtù elementare? O nel terzo, che delimita la virtù minerale, a cui seguono quello della virtù vegetativa, della virtù sensibile, della virtù immaginativa, della virtù razionale? O, invece, arriverà al cerchio della virtù dell’intelletto – il più vicino al centro della perfezione e al contempo il più distante dal caos esterno? Ogni corona circolare ha un punteggio e il punteggio per la vittoria è fissato da Cusano nel numero trentaquattro.
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Quello che abbiamo e quello che ci manca
∫connessioni precarie
Di fronte alle imponenti manifestazioni che hanno luogo a Madrid, Lisbona e Atene, e alla costante presenza di un’opposizione sociale all’austerity nei paesi che più stanno subendo le politiche di tagli voluti dal patto salva-euro, è frequente la domanda: cosa accade invece in Italia? Oppure: perché in Italia le molte lotte quotidiane contro gli attacchi tecnicamente sferrati dal governo non si saldano, come accade in altri luoghi dell’area mediterranea?
Reclamare un reddito di base incondizionato, di fronte alla precarietà e alla povertà dilagante, è cosa giusta. Difendere il lavoro dipendente, salvaguardando articolo 18 e ammortizzatori sociali, è cosa giusta. Evocare l’assedio del Parlamento, perché così accade in Spagna, Grecia e Portogallo, è un’idea suggestiva. Qualcosa però dovrebbe suggerire che continuare su questa strada non servirà. Nessuna di queste giuste e suggestive prospettive sembra porsi il problema dell’accumulazione di forza che è necessaria per vincere, o anche soltanto a dare all’esasperazione diffusa una forma che sia diversa dalla mera rabbia o indignazione, che rischiano sempre di limitarsi a momenti di sfogo tanto straordinari quanto fugaci.
Sarebbe bene smetterla di ricamare sulla carta ciò che andrebbe fatto, e iniziare a misurarsi con la condizione reale che la precarietà ha prodotto ben prima dei provvedimenti sul lavoro del governo Monti, e che la crisi continua a riprodurre con l’ostinazione di un movimento reale.
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Il modello-panopticon. Dalla Nsa al Jobs Act
di Lelio Demichelis
Controllo, sempre e comunque. Al crescere della complessità dei sistemi – siano essi sociali, industriali o virtuali – cresce in parallelo la necessità del controllo. E più i mezzi tecnici lo permettono, più cresce il controllo, la sua facilità, la sua inevitabilità, la sua accettazione sociale.
Anche gli uomini sono ‘impianti produttivi’
Prima notizia. Nei decreti attuativi del Jobs Act il governo ha allargato le maglie dello spionaggio aziendale, permettendo di controllare tutte le informazioni raccolte tramite cellulari, smartphone, tablet e portatili in dotazione ai dipendenti. Superando (modernizzando?) quello Statuto dei lavoratori che risale alla preistoria tecnologica (era il 1970) – quando il controllo era più difficile e soprattutto era più visibile – mentre oggi l’innovazione (innovazione?) tecnologica permette di fare ciò che allora era impensabile (e vietato).
Dati raccolti via rete che potranno essere utilizzati ‘per ogni fine connesso al rapporto di lavoro’, anche se la foglia di fico è: ‘purché sia data al lavoratore adeguata informazione circa le modalità d’uso degli strumenti e l’effettuazione dei controlli sia sempre nel rispetto del codice della privacy’. Ovvero, informazione al singolo ma non al gruppo o al sindacato (dove la difesa degli interessi e della privacy sarebbe più forte), nella ulteriore individualizzazione dei rapporti non solo di lavoro ma anche di sorveglianza.
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Brexit per andare dove?
di Salvatore Perri
In un’intervista il capo economista della Bank of England[1] ha fatto pubblica ammenda per le previsioni “errate” rispetto ai possibili effetti della Brexit, attribuendo questi errori al diverso comportamento degli operatori rispetto alle ipotesi del modello. Cosa accadrà realmente con la Brexit nessuno può dirlo, dipenderà dall’esito degli accordi che necessariamente dovranno essere presi. Se gli accordi dovessero modificare le libertà fondamentali, la libera circolazione di persone, merci e capitali, le conseguenze non possono che essere negative, perché non ci sono ragioni economicamente sostenibili a supporto del contrario. Nel caso della “hard Brexit” ci sarà una perdita di benessere per tutti, ma i rischi maggiori li correrà proprio la Gran Bretagna.
Aspettative e Brexit
In primo luogo la Brexit vera e propria non c’è stata, questa constatazione ovvia non è stata sufficientemente considerata nel dibattito attuale, allora cosa avrebbero stimato gli esperti della Banca d’Inghilterra? Essi hanno considerato i possibili effetti reali che “l’annuncio” della Brexit avrebbe determinato.
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