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Una recensione condita di riflessioni e qualche lacrimuccia
di Daniele Barbieri
Il quotidiano «il manifesto» sta esplodendo e/o implodendo. Persino le persone più distratte sanno che ieri nella prima pagina del quotidiano «comunista» (così si legge sopra la testata) Rossana Rossanda annuncia che non collaborerà più al quotidiano che fondò nel 1971 e aggiunge: «un mio commento settimanale sarà pubblicato, generalmente il venerdì in collaborazione con Sbilanciamoci e sul suo sito.
Io sono arrabbiato con la redazione per molte ragioni (che magari spiegherò un’altra volta) ma – del tutto incoerentemente? – continuo a sostenerlo, a pensare che (se non finisce nelle mani di un padrone però) pur con tutti i suoi difetti sia una lettura necessaria di questi brutti tempi. Addirittura ho preso dall’editore Manni 25 copie del libro di Valentino Parlato «La rivoluzione non russa» (sottotitolo «Quarant’anni di storia del manifesto», a cura di Giancarlo Greco: 188 pagine per 14 euri) e le ho già vendute, con lo sconto: anche questi pochi soldini – così hanno deciso editore e autore – andranno a rimpinguare le casse del quotidiano; o meglio finiranno forse in una grande “colletta” per tentare di ricomprare, in modo collettivo, il giornale quando i curatori fallimentari indiranno “l’asta”.
Ho preso le 25 copie “al buio” (beh, so bene chi è Parlato) e dunque in questa sorta di recensione devo anzitutto dire se sono rimasto deluso. No, il libro è proprio come «il manifesto» cioè pieno di pregi e difetti ma comunque unico nel suo genere; con Parlato sono a volte d’accordo e qualche volta invece mi fa inferocire.
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I debiti illegittimi
Intervista a François Chesnais*
François Chesnais, professore associato di economia all’Università di Paris 13, ha un lungo passato di studioso e militante. È stato membro del partito trozkista e ha partecipato alla nascita, nel 2009, del Nuovo Partito Anticapitalista. È redattore della rivista marxista “Carré Rouge” e consigliere scientifico di ATTAC. Nell’ambito della sinistra radicale francese, Chesnais sollecita una visione il più possibile internazionale della crisi politica e sostiene la necessità d’integrare questione sociale e questione ecologica. I suoi diversi studi sulla mondializzazione si accompagnano a una grande attenzione per i movimenti antisistemici. È in quest’ottica che è opportuno leggere il suo ultimo libro Debiti illegittimi e diritto all’insolvenza, uscito in Francia nel 2011 e tempestivamente tradotto da “DeriveApprodi”. Chesnais non si limita a realizzare un’ennesima analisi della crisi del debito europeo, ma offre uno strumento di prassi politica, elaborando il concetto di “debito illegittimo” e di indagine da parte di comitati cittadini sulla natura del debito pubblico. Sappiamo come, anche in Italia, questi temi siano all’ordine del giorno, grazie al lavoro di economisti come Andrea Fumagalli e alla campagna lanciata da Guido Viale sul “manifesto” a fine dicembre. La campagna internazionale contro il debito illegittimo, promossa dal Forum sociale mondiale di Nairobi nel 2007, è diventata nel frattempo una questione politica cruciale non solo per i paesi del Sud del mondo, ma anche per gli ex-opulenti paesi del Nord. Per Chesnais, quindi, questa fase della crisi presenta anche un’opportunità per ricondurre una serie di lotte locali e nazionali ad un fronte comune, capace di attraversare il fossato tra paesi ricchi e paesi poveri.
Vorrei riprendere una riflessione fatta da molti commentatori nel corso di questo periodo: mi riferisco ad esempio all’editoriale di Serge Halimi su «Le Monde Diplomatique» che sintetizza il problema: mentre il capitalismo attraversa la peggior crisi dal 1930, mentre le politiche neoliberiste degli ultimi trent’anni hanno chiaramente mostrato i loro fallimenti, perché i partiti delle sinistre europee «appaiono muti e imbarazzati» e l’offensiva spetta ancora una volta alle soluzioni della destra: austerità, rigore e azzeramento del Welfare?
Penso che ci sia stato un salto epocale: in un arco di trent’anni abbiamo visto la morte del vecchio movimento operaio con i suoi partiti e i suoi sindacati, con le sue illusioni e le sue menzogne, tanto sul fronte dell’Urss e dello stalinismo quanto su quello della socialdemocrazia, e a dire il vero non ci sono più partiti di sinistra. Si continua a usare questa parola per convenienza e per nostalgia.
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Il valore reale del lavoro non c'è più
Massimo Roccella*
Il modello contrattuale doveva essere riformato per affrontare una situazione che, da più parti, veniva definita in termini di «emergenza salariale», ma evidentemente l'obiettivo, strada facendo, dev'essere stato perso di vista o forse i firmatari dell'accordo hanno ritenuto opportuno mutarlo senza darsi la pena di avvertire esplicitamente del cambiamento di rotta. Alla fine, tuttavia, non si può dire che essi non siano stati sinceri, se è vero che l'accordo quadro siglato a Palazzo Chigi sancisce che «obiettivo dell'intesa è il rilancio della crescita economica, lo sviluppo occupazionale e l'aumento della produttività», senza neanche un cenno all'esigenza di difendere (non diciamo di incrementare) il valore reale dei salari. Vero è che sviluppo economico e crescita occupazionale dovrebbero essere sostenuti da una «efficiente dinamica retributiva»: che però è concetto ambiguo, sicuramente non omologabile a quello di difesa del potere d'acquisto dei salari. Dal punto di vista delle imprese, ad esempio, la dinamica retributiva potrebbe apparire efficiente quanto più contribuisca a mantenere basso il costo del lavoro; altri potrebbe aggiungere che la compressione salariale è una necessità ineludibile se si vuol sperare in un incremento dell'occupazione.
Andiamo al merito. Al contratto collettivo nazionale si attribuisce la «funzione di garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori del settore». Non si dice però quale sia il livello del trattamento certo o, per meglio dire, non si esplicita con la dovuta chiarezza che d'ora in avanti si firmeranno contratti nazionali che non garantiranno neppure l'obiettivo minimo della salvaguardia del potere d'acquisto. I salari, anzi, a livello nazionale dovranno essere negoziati sulla base di un parametro previsionale (elaborato da un fantomatico soggetto terzo, che l'accordo neppure ha individuato) depurato della cosiddetta inflazione importata, legata alle variazioni dei prezzi dei beni energetici, e dunque a priori non coincidente con il tasso d'inflazione effettiva; perché l'indice previsionale sarà applicato non sull'intera retribuzione, ma su un valore convenzionale da individuarsi, a quanto pare, nei singoli settori.
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Chiusura di una fase e apertura di un’altra
di Domenico Moro, Fabio Nobile
Il periodo attuale è uno dei peggiori di sempre, sia per il movimento comunista sia per la classi subalterne, in Europa e soprattutto in Italia. Le trasformazioni dell’economia mondiale hanno indebolito la classe lavoratrice europea occidentale, esponendola all’aggressione del mercato autoregolato, che ha ridotto occupazione e salari reali, nel mentre si annullava, attraverso l’integrazione europea, la sovranità democratica, sancita dalla Costituzione, ossia la capacità delle classi subalterne di incidere sulle decisioni di politica economica e sociale.
Le profonde trasformazioni economiche hanno avuto come necessario corrispettivo modifiche politiche altrettanto profonde. Il crollo dell’Urss e dei Paesi socialisti ha contribuito pesantemente al peggioramento dei rapporti di forza tra capitale e lavoro, e in Italia ha contribuito a trasformare il Pci, separandolo in due tronconi. Uno, il più grande, si è trasformato in partito liberaldemocratico, che da subito si è collocato a destra, facendosi alfiere dell’integrazione economica e valutaria europea e rappresentante del grande capitale internazionalizzato. Soprattutto, questo troncone è stato fautore del maggioritario, che ha spostato al centro, cioè sugli interessi dello strato superiore del capitale, l’asse della politica. Ciò si è tradotto nella trasformazione profonda del nostro Paese, attraverso massicce privatizzazioni e pesanti controriforme del mercato del lavoro, delle pensioni, e del welfare.
Il Partito della rifondazione comunista (Prc) ha raccolto il più piccolo dei due tronconi in cui si era diviso il Pci, aggregando anche una serie di altre organizzazioni e di individualità, che non accettavano di identificare la fine dell’Urss con la fine della prospettiva socialista. Il nome stesso del partito è significativo del senso originario del progetto: non la riproposizione sic e simpliciter del Pci ma, correttamente, la rifondazione di una teoria e di una pratica comuniste e adatte a un’epoca nuova. In realtà, negli ultimi anni la “Rifondazione” è stata intesa in modo diverso da parte della maggioranza del Partito, cioè come presa di distanza da quella parte del movimento comunista legata alla storia dell’Urss e identificata in quanto tale come “stalinista”.
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Henri Lefebvre: una teoria critica dello spazio
di Sonia Paone
Pubblichiamo la prefazione di Sonia Paone al libro di Francesco Biagi, Henri Lefebvre: una teoria critica dello spazio, Jaca Book, Milano, 2019, uscito da poche settimane. Buona lettura
Henri Lefebvre è stato un importante intellettuale e prolifico autore, avendo pubblicato nel corso di una lunga vita, che ha attraversato buona parte del Novecento, una sessantina di opere, alcune delle quali possono essere considerate un punto di riferimento per le scienze sociali e per quelle territoriali. In questo ultimo ambito le sue considerazioni e intuizioni sulle trasformazioni dei territori e sul destino delle città sono di grande attualità.
Lefebvre aveva evidenziato la forza distruttrice che accompagnava l’affermazione dell’urbano, ovvero l’avvento di una fase storica in cui la città si sarebbe identificata con la forma complessiva della società. E da qui aveva individuato e preconizzato una serie di fattori di crisi: l’impatto della produzione capitalistica sulla organizzazione dello spazio urbano e la sua conseguente mercificazione, la città diviene un mero oggetto di scambio e di profitto; la progressiva urbanizzazione del mondo intesa come espansione del cosiddetto tessuto urbano, ovvero un processo economico-culturale che avrebbe fatto aumentare la segregazione e la frammentazione urbana e avrebbe assoggettato il rurale, facendo scomparire la campagna, attraverso l’industrializzazione della produzione agricola; il declino della vita rurale tradizionale e la distruzione del suolo e della natura. Oggi ci confrontiamo sostanzialmente con gli esiti di quelle direttrici di sviluppo che Lefebvre aveva tracciato, siamo infatti nell’epoca dell’urbanesimo planetario visto che dagli inizi del nuovo millennio la maggior parte della popolazione mondiale risiede nelle città, ma questo traguardo è coinciso con l’esplosione della marginalità urbana poiché i tassi di urbanizzazione sono cresciuti e continueranno a crescere nei prossimi anni nei paesi poveri. Siamo anche nell’epoca del pieno dispiegamento delle logiche della valorizzazione economica sui territori, sia nel contesto urbano che in quello rurale.
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L’inchiesta come stile di militanza
In ricordo di Vittorio Rieser
Questa notte è venuto a mancare Vittorio Rieser, compagno e militante fin dagli anni ’50 impegnato nei processi di studio e organizzazione della lotta di classe, in particolare nella sua Torino. Vittorio è stato una figura importante dei Quaderni Rossi, straordinario laboratorio di formazione politica ed elaborazione militante per un’intera generazione: a cominciare da allora ha cominciato la pratica dell’inchiesta operaia, uno stile che avrebbe portato avanti per tutta la vita. La storia di Vittorio è dentro una storia collettiva, che ha assunto percorsi differenti ma ha una radice comune: l’irriducibile scelta e parzialità del punto di vista. Per questo motivo vogliamo ricordarlo con un’intervista uscita nel volume sull’operaismo Futuro anteriore. Dai «Quaderni Rossi» ai movimenti globali: ricchezza e limiti dell’operaismo italiano. Per dire ancora una volta con Fortini che “chi ha compagni non morirà”.
* * * * *
INTERVISTA A VITTORIO RIESER – 3 OTTOBRE 2001
Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e quali le eventuali figure di riferimento nell’ambito di tale percorso?
Il fatto di essere arrivato presto alla politica è legato anche alle mie origini famigliari: i miei genitori erano antifascisti, tutti e due hanno avuto periodi più o meno lunghi di militanza comunista. Mia madre è stata in carcere un anno, condannata dal Tribunale Speciale perché era responsabile del Partito Comunista clandestino a Grosseto; mio padre era un ebreo polacco comunista che ha fatto per alcuni anni il rivoluzionario di professione, poi si è rifugiato in Italia perché in Polonia era colpito da mandato di cattura.
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Accade in Italia
Il decisionismo autoritario di un presidente–sovrano
Scritto da Gianfranco Greco
(Mark Twain)
Trovarsi nei panni degli elettori PD deve durare una certa fatica laddove si pensi che una sapiente e risoluta operazione di restaurazione li ha fatti precipitare dalle mitiche “primarie” - condite dai precisi impegni, presi dai maggiorenti del partito, di non fare accordi con Berlusconi - ad una situazione per tanti versi surreale in cui, alla fine, i loro voti vanno a fare mucchio con quelli degli elettori PDL per dar vita - tanto per rinverdire i fasti tipici del trasformismo italiano – ad un governo delle larghe intese, voluto e realizzato da chi, da sempre, ha svolto un indefesso lavorìo a favore di questa soluzione.
Dolersi, indignarsi per la piega presa dai recenti accadimenti rientra nel più classico dei dejà vu, tuttavia nello stigmatizzare talune prese di posizione, certi giri di valzer, specificatamente a livello parlamentare, non ci si dovrebbe mai dimenticare che gli stessi sono legittimati e quindi consentiti da quella che viene, con spreco di enfasi, definita “la più bella Costituzione del mondo” che, all’art. 67, recita: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita la sua funzione senza vincolo di mandato” significando in tal modo che il singolo parlamentare non ha vincolo né verso il proprio partito, né verso il suo programma elettorale, né, tantomeno, verso gli elettori che lo hanno votato, ai quali viene riconosciuta la sola libertà di non eleggerlo alla successiva tornata elettorale.
Ciò avrebbe garantito, secondo i “padri fondatori”, la libertà di espressione più assoluta ai membri del Parlamento.
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Bonaccia italiana, tempeste mondiali
di Augusto Illuminati
Una strana impressione. Che tutto nella politica italiana, al solito, resti in sostanza fermo, girando in tondo. Che nel contempo il potere personale di Berlusconi (non del centro-destra) sia sempre più isolato e asfittico.
Il primo enunciato risulta di per sé evidente. Stallo dell’attività di governo, ridotto alla produzione di emendamenti su emendamenti per scongiurare i processi del Sultano e in genere la sua processabilità, costretto addirittura a revocare con scippo fraudolento i pochi provvedimenti programmatici ma assoggettabili a referendum (energia atomica e privatizzazione dell’acqua) pur di evitare una verifica elettorale. I molteplici disegni costituzionali e le riforme “epocali” sono fumo negli occhi, stanti i tempi di approvazione. Stallo dell’opposizione, attiva solo sugli scandali sessuali, imbarazzata perfino sulla marcia indietro nucleare, divisa sulla gestione privata della distribuzione dell’acqua per non parlare dell’intervento in Libia.
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Tra maccartismo vaccinale e deriva illiberale chi valuta il rischio strategico?
di Gianandrea Gaiani
In un editoriale intitolato “L’impatto della vaccinazione di massa: scommessa al buio?” pubblicato su Analisi Difesa l’8 agosto 2021, venne posta l’attenzione sul rischio strategico legato a vaccinazioni sperimentali di massa: un tema rimasto inspiegabilmente al di fuori dal pur ampio (anche se schizofrenico) dibattito sul contrasto al Covid.
In quell’articolo venne posto il focus sui rischi legati ai possibili effetti negativi su vasta scala dei vaccini sperimentali, effetti che neppure i produttori erano e sono in grado di valutare nel tempo, ma anche sulle prospettive politiche e sociali legate alle discriminazioni dei cittadini e dei lavoratori, le false informazioni utilizzate per indurli ad accettare la vaccinazione sperimentale, la fitta selva di limitazioni alle libertà individuali imposte con cadenza ora divenuta ravvicinata quanto isterica.
Dopo quasi un anno di “maccartismo vaccinale” e di assurda contrapposizione tra “pro-vax” e “no-vax”, che ha portato a tensioni e spaccature sociali e a una deriva autoritaria che non hanno eguali nella storia recente della Repubblica e dell’Europa, i fatti sembrano purtroppo confermare le valutazioni espresse in quell’editoriale.
Incredibile che nessuno prenda in considerazione il rischio che l’uso di massa di vaccini sperimentali possa minare le fondamenta stesse della società e della Nazione.
In un contesto di sperimentazione di sieri di tipologia mai utilizzata in precedenza e di cui le stesse aziende produttrici non sono in grado di valutare le conseguenze nel tempo né di assumersene la responsabilità, inocularli a gran parte della popolazione espone l’Italia, e tutte le nazioni che utilizzano su vasta scala quei tipi di vaccini, a un rischio strategico di portata mai vista fino ad oggi.
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Alla lotta contro i licenziamenti e contro il governo Draghi!
di Tendenza internazionalista rivoluzionaria
Siamo ad un passo dallo sblocco dei licenziamenti di massa, e sulla stampa di regime, il regime-Draghi, è partito il battage propagandistico dell’“andrà tutto bene”, che già ci assordò tempo fa, e abbiamo visto com’è andata. Al megafono il forzista Brunetta, ministro della p.a.: “Siamo alla vigilia di un nuovo boom economico. Stiamo vedendo all’opera gli ‘spiriti animali’ della nostra Italia. Con le nostre riforme (…), una rivoluzione gentile. È il momento Italia” (la Repubblica, 30 maggio). Il capo di Bankitalia Visco ha lanciato l’identico messaggio.
C’è euforia nei palazzi del potere
Il boom di cui parlano sarebbe in realtà un semplice rimbalzo dal fosso (-8,9%) in cui è caduta nel 2020 l’economia italiana insieme a quella mondiale; un rimbalzo che, se andasse “tutto bene” (+4,3% nel 2021, +4,0% nel 2022), la riporterebbe nel 2023 ai livelli del 2019, che erano inferiori a quelli del 2007. Ma non è detto che vada come prevedono.
La loro euforia si fonda sull’ipotesi di una ripartenza a razzo di Stati Uniti e Cina in grado di trainare l’intera economia mondiale. Su questa ripartenza a razzo gravano, in realtà, diverse incognite, che potrebbero farla cortocircuitare anche piuttosto a breve. A cominciare dall’andamento della pandemia da covid-19 nel mondo, e dalla non remota possibilità di nuove pandemie in arrivo.
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L’incoerenza economica delle ricette di Donald Trump
Francesco Daveri
L’impegno a proteggere i perdenti della globalizzazione con la disdetta del Nafta e aliquote fiscali più basse ha portato Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. Ma, al contrario di quanto promesso dal tycoon, l’aumento del deficit pubblico farà salire il disavanzo commerciale Usa
Il malessere americano che ha fatto vincere Trump
Donald Trump eredita un paese che cresce stabilmente intorno al 2 per cento annuo e con un tasso di disoccupazione sceso di poco al di sotto del 5 per cento della forza lavoro. È un paese molto diverso da quello che aveva trovato il suo predecessore, Barack Obama, alla fine del 2008. Allora, fallita Lehman Brothers, il Dow Jones era sceso sotto i 9000 punti (dai 13mila di fine 2007) e l’economia era in recessione da quattro trimestri, il che portò la disoccupazione sopra al 9 per cento nei primi mesi del 2009. I numeri che Obama lascia in eredità a Trump sono in tutto simili alle medie secolari che hanno contrassegnato da decenni il buon funzionamento dell’economia americana che, nonostante tutto, è rimasta il motore trainante dello sviluppo mondiale.
Eppure, se Trump ha vinto, è perché in America c’è malessere. Se non ci fosse, un candidato come Bernie Sanders sarebbe stato etichettato come un socialista rétro e non sarebbe certo arrivato a contendere la candidatura alla presidenza degli Stati Uniti a Hillary Clinton nelle primarie del partito democratico. Se in America non ci fosse malessere, il partito repubblicano non avrebbe indicato come candidato alla Casa Bianca un estremista no-global (anche pieno di scheletri nell’armadio) lontano dalla tradizione liberista del Grand Old Party come Donald Trump.
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Dopo Jackson Hole. Il futuro della politica monetaria
di Gianluca Piovani
Pochi giorni fa, in occasione del simposio di Jackson Hole del 27 agosto, il presidente della FED Janet Yellen è intervenuta per fornire spiegazioni e un’interpretazione “d’autore” all’attuale politica monetaria USA. Il messaggio lanciato davanti un pubblico d’eccezione, comprendente i maggiori economisti e banchieri centrali a livello mondiale, è stato che seppure lo scenario economico sia migliorato da inizio anno, tuttavia rimane ancora incerto e richiede una politica monetaria dinamica ed attenta al flusso degli “hard data”.
Il discorso della Yellen fa riferimento in primo luogo al miglioramento delle prospettive da gennaio. Ad inizio anno infatti erano nati timori di crisi e recessione globale che avevano portato a crolli di mercato e panico generalizzato. Questi timori di catastrofe si sono per ora rivelati infondati e i dati sull’andamento dell’economia reale hanno confermato una situazione economica in positivo. D’altra parte il discorso del presidente Yellen prosegue ricordando come il contesto economico rimanga debole e sia ancora sostanzialmente in monitoraggio.
I timori di inizio anno riguardo le possibili evoluzioni del contesto economico rimangono in effetti inalterati. L’Europa continua a soffrire la situazione politica tesa, di cui è divenuto recentemente il simbolo l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. La Brexit è solamente la punta di un iceberg più profondo che mina i rapporti tra i diversi stati alimentando sfiducia verso un modello accusato di essere eccessivamente germanofilo.
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La Germania metterà in crisi la Nato?
di Michele Basso
Oggi, per chi non ha gli occhi ottenebrati dal nazionalismo, spesso inconsapevole, presente anche nell’estrema sinistra, è possibile avere un quadro più chiaro degli sviluppi storici della nostra epoca. La crisi economica ha fatto crollare molti miti, ma dobbiamo vigilare perché ne possono subentrare altri. E’ svanita l’illusione che le borghesie dei diversi paesi possano superare i contrasti e dare vita a un lungo periodo di pace autentica, che non sia una tregua armata tra le guerre. Per la natura stessa del capitalismo la borghesia è costretta a rivoluzionare continuamente la produzione e la società, a cambiare i rapporti di forza, sia all’interno del paese, sia tra i diversi stati.
A sinistra, si reagisce spesso a questi cambiamenti senza un’adeguata riflessione: militanti, che una volta bruciavano le bandiere americane, ora si scagliano, non solo contro la Merkel, di cui c’importa poco, ma in generale contro il popolo tedesco, senza distinguere tra lavoratori e borghesi. Il nazionalismo scaccia l’internazionalismo proletario. Oggi, che gli interessi economici tedeschi confliggono con quelli dell’Italia, Grecia, Spagna, e, in maniera meno clamorosa, con la Francia, ritorna in voga tutta la retorica antitedesca, e si dimentica persino che, salvo qualche novantenne, la stragrande maggioranza dei tedeschi, se non altro per motivi cronologici, non ha mai avuto nessuna funzione in epoca nazista.
Chiusi nell’orticello europeo, inoltre, finiamo col trascurare le gigantesche trasformazioni che avvengono nel mondo, che hanno come primo attore ancora gli USA, e in cui la Germania ha un ruolo estremamente diverso da quello che le attribuiscono i luoghi comuni. Chi grida al lupo tedesco finisce col non capire la terribile guerra globale che la tigre americana sta combattendo.
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Per salvare la vita
28 tesi contro la barbarie*
di Marino Badiale e Massimo Bontempelli
Premessa: le tesi che seguono rappresentano idee di fondo sulle quali costruire un movimento politico che contrasti la barbarie verso la quale l’attuale organizzazione sociale ed economica ci sta portando. Trattandosi di tesi, l’argomentazione logica ed empirica a loro sostegno è lungi dall’essere completa. Precisazioni ed approfondimenti potranno emergere dalla discussione con le persone interessate.
1. Il modo di produzione capitalistico ha ormai storicamente svelato la sua natura spaventosamente distruttiva su molteplici piani. Esso ha creato ricchezza economica ad un livello mai raggiunto da alcun sistema precedente. Ma la creazione capitalistica di nuova ricchezza ha dimostrato di essere, allo stesso tempo, creazione di nuove povertà, distruzione della socialità degli esseri umani, della loro sanità psichica, dell’ambiente naturale adatto alla loro vita biologica, delle risorse per il loro futuro. Esso è ormai la maledizione del genere umano, che è condannato, per creare e distribuire ricchezza secondo i rapporti di produzione capitalistici, in maniera sufficiente a mantenere un minimo di equilibrio sociale, a vivere in modo sempre più distruttivo nei confronti della natura e di se stesso.
2. La critica più penetrante fino ad ora compiuta del modo di produzione capitalistico è stata quella di Marx. Egli ha indagato la logica dell’accumulazione capitalistica mostrandone il carattere autoreferenziale e illimitato. Marx ha creduto che la logica autoriproduttiva del capitalismo portasse in sé una contraddizione per la quale il proletariato sarebbe cresciuto al suo interno come classe antagonistica dell’intero sistema, fino a rovesciarlo e ad instaurare la società comunistica dei liberi ed eguali, in cui ciascuno avrebbe prodotto secondo le sue capacità e ricevuto secondo i suoi bisogni. Il comunismo novecentesco ha assunto questa idea come dogma condiviso. Ma la realtà della storia è stata sotto questo aspetto completamente diversa. Del comunismo nel senso marxiano del termine non si è mai vista traccia. Ciò che nel Novecento si è fregiato di questo nome è stato un impasto, in proporzioni diverse nei diversi tempi, luoghi ed individui, di lotte di liberazione e nuove oppressioni, orrori ed eroismi, aperture generose ed ottusità fideistiche.
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La recessione incalza e l'euro ci soffoca
E' il momento di emettere dei titoli quasi-moneta per rilanciare l'economia
di Enrico Grazzini
Una recente indagine scientifica dell'autorevole istituto di ricerca tedesco Centrum für Europäische Politik e i dati della Banca Mondiale sul mancato sviluppo dell'eurozona dimostrano chiaramente e con la forza dei numeri che l'euro è una moneta che frena gravemente l'economia, provoca diseguaglianza, arricchisce alcune nazioni, come la Germania, e ne impoverisce altre, come l'Italia. Il Centrum für Europäische Politik dimostra, come vedremo, che l'euro ha tolto soldi ai cittadini italiani ma ha riempito le tasche dei cittadini tedeschi. Questo non basta: si prospetta una nuova recessione economica. L'Italia sembra oggettivamente paralizzata sull'orlo del precipizio (e questa volta non per sua colpa). Per rilanciare l'economia il governo italiano dovrebbe finanziare estesamente molti piccoli e grandi investimenti pubblici, ma mancano i soldi necessari. Il problema è che la Banca Centrale Europea non può sovvenzionare gli stati e pompa moneta solamente per le banche; ma le banche commerciali non hanno interesse a fare credito a favore di una economia depressa. Gli operatori finanziari lucrano invece sui debiti pubblici e chiedono tassi di interesse sempre più elevati per prestare denaro agli stati. Così i paesi dell'eurozona non trovano le risorse per fare gli investimenti necessari per rivitalizzare l'economia. Inoltre l'Unione Europea impone ulteriori restrizioni di bilancio pubblico. Il cappio si sta stringendo. La crisi italiana potrebbe facilmente precipitare.
In questo contesto di crisi annunciata tocca alla politica percorrere strade innovative e alternative per difendere e risollevare l'economia nazionale. A mali estremi estremi rimedi. Una maniera concreta di dare ossigeno monetario e fiscale al nostro Paese è che il governo emetta urgentemente dei titoli quasi-moneta complementari all'euro. Pur restando nell'eurozona i Titoli di Sconto Fiscale a favore delle famiglie, delle imprese e degli enti pubblici potrebbero legittimamente (e senza infrangere nessuna regola europea) affiancare l'euro e neutralizzare gli effetti deflazionistici della moneta unica.
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La notte dei morti viventi – Il giorno dell'orso dormiente
di Fulvio Grimaldi
Il farloccone ignorante e sbruffone eletto a presidente degli USA da un popolo dissanguato dai necrofili che lo hanno governato nell’ultimo quarto di secolo, lo sprovveduto agonizzante sotto i colpi revanscisti degli orchi spodestati, ha dato il suo colpo di coda. Colpo di un animale sfiancato che prova a sopravvivere superando in ferocia i suoi cacciatori e offrendogli in pasto la vita della Siria e, forse, dell’umanità. Coda subito sorretta, con indomito spirito di inservienti di forca, dal branco di botoli ringhianti europei, perdutamente devoti a chi li tiene alla catena da sempre e che, finalmente, possono tornare a riconoscersi in un padrone che li aveva disorientati sembrando disposto a privarli del piacere della frusta. In ogni caso, colpo di coda che parte da lontano, che il suo titolare lo sapesse o meno. Una roba come il sinistro-destro metro S.Pietroburgo-Tomahawk sulla Siria non la si improvvisa.
Torna in gola e ci strozza il sospiro di sollievo che il mondo aveva tirato all’idea che gli uni contro gli altri armati avrebbero messo insieme quella buona volontà che, dal 1945, gli Usa si erano impegnati a eliminare muovendo guerra dopo guerra, attuando colpo di Stato dopo colpo di Stato, promuovendo dittatore dopo dittatore, innescando destabilizzazione su destabilizzazione, lanciando contro tutto e tutti il maglio incontrastabile del terrorismo.
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The Great Reset: un libro per tutti e per nessuno
di Joe Galaxy
“Ci dominate per il nostro bene” disse con un filo di voce. “Credete che gli esseri umani non siano adatti a governarsi da soli, perciò…”
-George Orwell, 1984
Si può dire, in fondo, che il motto del liberalismo sia “vivere pericolosamente”. Vale a dire che gli individui sono messi continuamente in stato di pericolo o, meglio, che sono posti nella condizione di esperire la loro situazione, la loro vita, il loro presente, il loro avvenire, ecc., come fattori di pericolo… Si pensi, ad esempio, alla campagna sulle casse di risparmio dell’inizio del XIX secolo, alla comparsa della letteratura poliziesca e dell’interesse giornalistico per il crimine a partire dalla metà del XIX secolo, si pensi a tutte le campagne riguardanti la malattia e l’igiene, si consideri tutto ciò che accade intorno alla sessualità e alla paura delle degenerazione: degenerazione dell’individuo, della famiglia, della razza, della specie umana; insomma dappertutto si può vedere questa stimolazione del timore del pericolo, che è in qualche modo la condizione, il correlativo – psicologico, culturale, interno – del liberalismo. Niente liberalismo senza cultura del pericolo… Libertà economica, liberalismo nel senso che ho appena detto, e tecniche disciplinari sono strettamente connesse
-Michel Foucault, La questione del liberalismo
E poi bisognerebbe riflettere su quelli che, incapaci (a loro merito) di stare nell’ossessivo discorso maggioritario, ma drasticamente privi di strumenti critici, sono caduti (a loro rischio) in alter-narrazioni tossiche. Non sorprende, d’altronde, che dopo decenni di banalizzazione della lingua, di colonizzazione dell’immaginario e di guerra alla complessità, le più sciape storie dell’orrore possano suonare credibili. Da un certo punto di vista, questi nuovi “credenti” rappresentano una catastrofe e una fatica di Sisifo per chi, oltre a non stare nella narrazione maggioritaria, deve poi anche smarcarsi da questa galassia. Ma c’è qualcosa che va osservato e, se possibile, contattato: la qualità umana di chi trova così atroce quel che va accadendo, da ipotizzare che possa esser giustificato solo da qualcosa di altrettanto atroce
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Tempi complessi
P. Bartolini intervista Pierluigi Fagan
Il pensiero della complessità e l'interpretazione del mondo. Intervista a Pierluigi Fagan
Lei si occupa da anni di "complessità" declinando con rigore e ironia una critica duplice: al capitalismo globale, con la sua classe politica e imprenditoriale, e ai nemici del Sistema che continuano a ragionare adottando schemi logici vecchi almeno di due secoli. Quali sono, a suo avviso, gli errori principali di coloro che, un giorno sì e l'altro pure, vorrebbero capovolgere il capitalismo e puntualmente non vi riescono?
Appunto il fatto che un giorno e l'altro pure, tentano, non vi riescono ma non riescono neanche a cumulare qualche avanzamento sostanziale nell'opera e dopo un secolo e mezzo non si pongono la domanda su cosa non va di questo loro tentare e non riuscire. Il sistema anticapitalista ha il suo problema nella sua stessa definizione, che è negativa. L'esercizio del negativo ha ragioni logiche che rispondono a valori, ma l'ordinatore del nostro vivere associato risponde solo alla capacità che ha di fornire un qualche tipo di adattamento. Possiamo criticarlo in quantità e qualità a piacere ma fino a che non verrà progressivamente mosso, manipolato intenzionalmente, per diventare qualcos'altro che produca miglior adattamento (magari non solo materiale, ma neanche solo ideale), da una parte rimarranno idee in forma di parole, dall'altra permarranno fatti in forma di prassi.
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Vae Victis Germania / 2: Car Wars
di Sandro Moiso
Quando l’unica nazione occidentale a non aver ratificato il protocollo di Kyoto sul riscaldamento ambientale denuncia con tanta veemenza i danni per la salute e l’ambiente derivanti dal mancato (e truffaldino) rispetto dei regolamenti USA sull’emissione di gas da parte dei veicoli circolanti c’è da porsi più di una domanda. Si sta parlando, evidentemente, dell’enorme tegola caduta sulla testa di una delle più importanti industrie automobilistiche mondiali, la Volkswagen, dopo la scoperta del raffinatissimo trucco messo in atto da quella azienda per beffare i controlli sugli scarichi delle auto diesel negli Stati Uniti e in Europa.
Lo scandalo si è rapidamente propagato nei paesi dell’Unione Europea e tocca, attualmente, la bellezza di 11 milioni di veicoli circolanti. La ditta tedesca ha reagito sostituendo l’AD e scaricando le colpe su un ristretto gruppo (“un piccolo gruppo” come è stato definito) di responsabili tecnici ed amministrativi, mentre Angela Merkel, per allontanare da sé e dal proprio governo qualsiasi ombra di sospetto o connivenza, ha promesso un’inchiesta rigorosa .
Film già visti ed ampiamente prevedibili, soprattutto da parte di chi sa che i motori che ci vengono presentati, quasi quotidianamente, come innovativi, non inquinanti e a basso consumo non sono altro che una continua riproduzione del vecchio motore a scoppio messo a punto, sul finire dell’Ottocento tra il 1876 e il 1892, da tre tecnici tedeschi (guarda caso la continuità): Otto, Benz e Diesel. Motori che sono cambiati da allora ben poco, mantenendo quasi intatte le loro caratteristiche di alto spreco energetico, elevati consumi, scarso rendimento ed elevate capacità di inquinamento.
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Chi (e come) ha veramente vinto in Europa?
Quarantotto
Vi propongo una serie di riflessioni "peculiari", cioè non focalizzate sulle vicende convulse che si stanno svolgendo nei singoli paesi dell'UE e che ci rimbalzano le mosse post-elettorali e le contromosse della governance ordoliberista, impegnata nel mantenimento del potere per poter finire il lavoro iniziato, secondo i propri immutabili programmi.
Vale a dire il regolamento di conti finale con il fattore "lavoro" i cui effetti sono tanto disastrosi per l'economica quanto "utili ed efficienti" per consolidare il potere finora esercitato dalle oligarchie.
Insomma, non è realisticamente da attendersi che la questione "teologica" e di riconquista del potere, mostrateci da Galbraith e Kalecky, come più volte illustrate su questo blog, si possa mai arrestare sulle soglie delle prime difficoltà che, probabilmente, ESSI avevano già immaginato di dover affrontare.
Perciò mi focalizzerei su come possano oggi essere giocate le carte "continuiste" delle governance UEM.
Come paradigma di riferimento, non necessariamente solo "teorico", prendiamo l'atteggiamento di Christine Lagarde, "direttrice" del FMI, da sempre il punto di sintesi (almeno tentata) tra il modello neo-liberista e liberoscambista USA e l'ordoliberismo strategico UE.
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Un risultato elettorale "maggioritario"
Domenico Moro
L'analisi dei flussi di voto può essere uno strumento importante per cominciare a capire, sulla base di una analisi oggettiva, il significato politico delle elezioni del 2008 e le cause di quanto accaduto, in primis della scomparsa della sinistra dal Parlamento. A questo scopo, utilizziamo i dati, già ripresi da alcuni quotidiani, contenuti nell'indagine condotta da Consortium, l'istituto di ricerche di Nicola Piepoli.Da tali dati si evincono alcune conferme di ragionamenti fatti a caldo, ma anche delle interessanti novità.
Iniziamo con la coalizione che ha vinto. Il Pdl è riuscito a prevalere sostanzialmente perché Forza Italia è riuscita a conservare i suoi voti, grazie alla struttura "forte" di partito azienda. Ben il 62% dei votanti del Pdl avevano votato per Forza Italia nel 2006. Inoltre, Fi è riuscita a rosicchiare preferenze all'Ulivo (450mila voti). Al contrario Alleanza nazionale ha subito una rilevante emorragia di voti all'interno dello stesso schieramento di destra, a favore, in misura preponderante, della Lega (345mila voti) e poi dell'Udc (147mila voti). La lega è, come si è detto, la vera vincitrice della competizione, quasi raddoppiando i suoi voti, che salgono da 1,7 milioni a più di 3 milioni.
Da chi pesca la Lega? Principalmente da Forza Italia e, come detto, da An, per un totale di 908 mila voti, il resto lo prende soprattutto ed in misura uguale da Udc e Ulivo.
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Competizione tecnologica. I segnali del sorpasso cinese
di Vincenzo Comito
Secondo molti centri di studio occidentali la Cina prevale sugli USA in gran parte dei settori tecnologici chiave e si appresta a superarli in tutti gli altri. Gli Stati Uniti si stanno impegnando con ogni mezzo per bloccare la rincorsa del rivale e l’esito della gara non è affatto scontato
La gran parte delle persone in qualche modo interessate al tema pensa che la Cina stia sviluppando fortemente nel tempo la sua presenza nelle tecnologie avanzate, ma che gli Stati Uniti mantengano un rilevante vantaggio complessivo sul paese asiatico nel settore.
La svolta forse più importante in tema di lotta competitiva tra gli Stati Uniti e la Cina sul fronte delle nuove tecnologie si è verificata nel 2015, quando il paese asiatico ha svelato un suo piano all’orizzonte 2025 (il “Made in China 2025”) che si poneva l’obiettivo di raggiungere gli Stati Uniti entro tale data sul fronte della gran parte delle tecnologie innovative. Da allora assistiamo a un’escalation crescente delle ostilità statunitensi verso la stessa Cina, ostilità che negli ultimi mesi ha raggiunto con Biden certamente un’intensità parossistica, con nuovi episodi quasi ogni giorno: gli Stati Uniti cercano di contrastare a tutto campo e con tutti i mezzi – da quelli economici, a quelli politici, tecnologici, militari – l’ascesa del rivale, in particolare, appunto, nelle nuove tecnologie.
Ma gli ultimi dati e alcune tra le più recenti valutazioni pongono in forte dubbio l’opinione comune e la possibilità da parte statunitense di riuscire a fermare i processi in atto, che vanno per molti versi nella direzione di una crescente tendenza al primato tecnologico del paese asiatico.
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Il partito delle ZTL non fermerà la destra
di Punto Critico
Di fronte al successo della destra reazionaria si può disperare oppure analizzare i risultati razionalmente cogliendo le ragioni di quel successo, ma anche la sua estrema precarietà. E ci si può opporre a Salvini come fa la borghesia intellettual-progressista, che (dal ‘94) evoca lo spettro del fascismo per difendere il rigore dei conti oppure dando alle periferie soluzioni ai problemi invece che capri espiatori. Quello che la sinistra non ha fatto.
Uno degli aspetti più rivelatori della crisi in cui versa la politica italiana è la sua incapacità di analizzare i risultati elettorali in termini materialistici, cioè guardando i numeri (tutti, non solo quelli più convenienti), ma anche indagando la loro distribuzione per territorio, per classe sociale, fascia anagrafica ecc. Non è un caso, è piuttosto il riflesso della visione del mondo tipica di partiti che hanno abbandonato il metodo delle scienze sociali per adottare tecniche di marketing e vendere su un ‘mercato elettorale’, fatto apparentemente di ‘consumatori’ indistinti, ‘prodotti’ di cui spesso si riesce a distinguere la ‘marca’ soltanto grazie alla ‘confezione’, non certo alla qualità. Col risultato che la chiacchiera post-elettorale, in cui spesso ci sono più vincitori che vinti, soppianta l’analisi del voto. E che le vendite, nonostante tutto, continuano a diminuire.
Il voto in numeri
Nella Tabella 1 abbiamo cercato di raccogliere le informazioni utili a fornire una panoramica dell’andamento dei voti assoluti negli ultimi 15 anni. La dittatura delle percentuali infatti determina una lettura distorsiva che invece di concentrarsi sul reale consenso delle forze politiche lo trasforma in un particolare secondario. Se ragioniamo sui voti assoluti la principale tendenza che emerge dai dati è la perdita di consenso generalizzata dei tradizionali schieramenti politici della ‘seconda repubblica’ – centrosinistra, centrodestra, sinistra e destra – che dal 2006 al 2018 alle politiche subiscono un salasso di circa 16 milioni di voti, di cui solo una parte – tra i 5 e i 10 milioni – recuperata dal M5S.
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L’Europa a destra
Steve Bannon e The Movement: la Lega delle Leghe
di Matteo Luca Andriola
Ai “numerosissimi termini politici, [...] nomi di correnti politiche o ideologiche, modi di concepire la vita politica e termini tipici del linguaggio parlamentare” (1), trasferiti dal lessico d’oltralpe a quello italiano dalla Rivoluzione francese a oggi, si è aggiunto con prepotenza quello di sovranismo, che nel 2017 la Treccani ha definito la “posizione politica che propugna la difesa o la conquista della sovranità nazionale da parte di un popolo o di uno Stato, in antitesi alle dinamiche della globalizzazione e in contrapposizione alle politiche sovranazionali di concertazione” (2). Una definizione demonizzata dall’establishment e dalla stampa mainstream e considerata sinonimo di neofascismo o di “stupido” nazionalismo (3), ma che, se presa così com’è, non denota necessariamente un’identità di destra, specie davanti a concetti come quello di sovranità popolare, presente anche nella Carta costituzionale italiana, all’art. 1: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Principi che, teoricamente, dovrebbero essere nel dna della sinistra tutta.
Il processo d’integrazione europea però, che gradualmente la sinistra progressista ha fatto proprio, interiorizzando sia la narrazione propagandistica – la pace, il progresso ecc. – sia l’impostazione economica neoliberista, ha favorito lo sviluppo di movimenti nazional-populisti di destra, lasciando la stessa sinistra spiazzata perché sprovvista di una visione alternativa a quella liberista.
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Sulla gig economy
intervista a Riccardo Staglianò
Le recenti mobilitazioni dei ciclofattorini in diverse città d’Italia hanno attirato l’attenzione dei media e della politica sulle problematiche della gig economy. Del tema Pandora ha parlato in diverse occasioni con articoli e interviste, inquadrandolo nella questione più generale della digitalizzazione e dei suoi rischi. Riccardo Staglianò, giornalista de La Repubblica, si è a lungo occupato di questi temi, che ha affrontato nel suo recente libro Lavoretti. Così la sharing economy ci rende tutti più poveri (da noi recensito su questo sito) e anche nel precedente Al posto tuo. Così web e robot ci stanno rubando il lavoro, entrambi editi da Einaudi. Abbiamo deciso di intervistarlo per approfondire il complesso di questioni che lega gig economy, sharing economy, automazione e digitalizzazione, polarizzazione sociale e concentrazione delle aziende del settore tecnologico. L’intervista è a cura di Giacomo Bottos, Raffaele Danna e Luca Picotti.
* * * *
Nel discorso pubblico, per parlare di alcune delle recenti trasformazioni economiche, si impiega spesso il termine “sharing economy” che, nell’immaginario collettivo, viene generalmente associato ad un insieme di significati positivi. In una seconda fase si è invece iniziato a parlare di “gig economy”, termine che viene generalmente usato con un’accezione critica, associato a lavori malpagati, scarsità di tutele e sfruttamento. Secondo lei esiste una reale distinzione tra “sharing economy” e “gig economy”? Insomma, esiste un “volto buono” e uno negativo delle trasformazioni che stiamo vivendo, o viceversa si tratta di processi complessivamente negativi, nei quali la retorica della condivisione nasconde una realtà diversa?
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L’antisistema si fa governo
Benedetto Vecchi
Riflessioni su Podemos a partire dal libro di Pablo Iglesias, «Disobbedienti». Un partito qualificato come sinonimo di un «populismo 2.0» che invece consegna un nuovo appeal a una visione egualitaria del mondo
Populismo 2.0. È l’espressione che ricorre abitualmente per qualificare l’esperienza politica di Podemos, il partito spagnolo che ha terremotato il panorama politico iberico. Gli analisti, come sempre, mettono in evidenza le distanze, gli elementi di discontinuità dal pensiero politico classico, inscrivendo questa giovane formazione nell’alveo, tutto sommato tranquillizzante, del populismo di matrice latinoamericana. Una cornice tesa a demonizzare le potenzialità elettorali di Podemos, collocando la sua azione al di fuori di una dimensione costituzionale e ai margini della tradizione democratica europea. A leggere il volume di Pablo Iglesias Turrion Disobbedienti (Bompiani, pp. 300, euro 18; ne ha già scritto su questo giornale Giuseppe Caccia in occasione della sua uscita spagnola il 14 febbraio scorso, ndr) tale semplificazione va in mille pezzi. Con un’avvertenza: ciò che viene qualificato come antisistema non viene smentito, ma arricchito semmai di molti elementi che collocano Podemos nella critica della democrazia rappresentativa. Cosa che non esclude tuttavia una forma istituzionale fondata su un dinamico equilibrio tra democrazia diretta e, appunto, la sua forma rappresentativa attraverso il riconoscimento delle figure di autogoverno messe in campo dalla società civile in una successione di mutuo soccorso, cooperative sociali, sindacalismo di base che trovano il loro coordinamento dentro la Rete.
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Sarete assimilati?
Due riflessioni sulla sovranità dello Stato e l’amministrazione delle periferie
Raffaele Alberto Ventura
Uno spettro si aggira per l’Europa, lo spettro della banlieue. Catastrofe finale dell’entropia migratoria, paradigma dello “stato di eccezione” o rompicapo amministrativo, scenario post-atomico senza la deflagrazione d’alcuna bomba, la periferia francese è diventata un luogo cruciale del nostro immaginario politico. Mito ma anche concetto, paura irrazionale e profezia ragionevole. Il disaccordo sulle cause — tsunami demografico, delirio urbanistico, ideologia comunitarista, capitalismo selvaggio, ecc. — non serve a nascondere che qualcosa di terribile sta accadendo nella polis occidentale. Il ministro leghista che evoca per l’Italia un “rischio banlieue” non dice nulla di scandaloso e peraltro ripete ciò che disse il leader del centro-sinistra cinque anni fa: “Noi abbiamo le peggiori periferie in Europa. Non credo che le cose siano molto diverse rispetto a Parigi. È solo questione di tempo.” Bene, anzi male, ma tempo per cosa?
Il “rischio banlieue” non evoca semplicemente in un generale disfacimento della periferia — aumento della criminalità, deterioramento delle condizioni economiche, accentuazione dei conflitti comunitari: che sarebbero un rischio soltanto per chi vive — ma un fenomeno politico cruciale, ovvero la costituzione di spazi autonomi dalla giurisdizione statale.
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Insostenibilità del debito*
Intervista a Luca Fantacci**
Professore, che cosa sta succedendo da qualche settimana nelle borse?
Niente, è proprio questo è il problema. Non c’è un solo fatto nuovo che giustifichi il terremoto finanziario delle scorse settimane: dalle difficoltà di Obama con il Congresso alle fragilità fiscali dell’Europa, tutto era già presente e noto. Perfino il downgrading degli USA era già stato più volte preannunciato. Per non parlare dei debiti pubblici, che hanno potuto crescere per anni senza preoccupare nessuno. Davvero, non è successo niente di nuovo e sconvolgente.
Nulla di cui preoccuparsi, dunque?
Tutt’altro. E’ proprio questo terremoto in assenza di novità il dato su cui è opportuno riflettere: se oggi senza motivo i mercati finanziari tremano, vuol dire che fino a ieri erano spavaldi, ugualmente senza motivo. Niente giustificava i guadagni di ieri, così come niente può spiegare le perdite di oggi o i recuperi di domani. I mercati finanziari dimostrano di avere sempre meno un criterio attendibile per distinguere fra quando va bene e quando va male, fra chi va bene e chi va male.
Una finanza che vive in un mondo che ha poco a che fare con la realtà?
Non mi riferisco a una semplice scollatura tra finanza ed economia reale. E’ perfettamente legittimo, e anzi necessario, che il valore di borsa di un’azienda possa discostarsi temporaneamente dall’andamento corrente dei suoi affari. Perché la borsa, per sua natura, guarda avanti: guarda ai profitti futuri, non a quelli attuali; esprime aspettative e può sbagliarsi. Ma, affinché questo gioco di scommesse abbia un senso, bisogna che almeno due condizioni siano rispettate. Primo, occorre che a un certo momento una linea sia tracciata e i conti siano fatti. Bisogna che finisca la gara, in modo che si veda chi ha scommesso sul cavallo vincente.
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Nadia Urbinati, “Utopia Europa”
di Alessandro Visalli
Un altro libro di occasione, nel quale un’intellettuale di fama si presta alla difesa di ufficio della causa europea in vista delle elezioni. Non servirà a fermare la Lega, ma forse questo alzare gli stendardi compatta l’esercito un poco attempato e certamente molto demoralizzato della sinistra.
A questo fine il testo ripercorre nella prima parte, la più interessante, la storia della lunga costruzione europea, mettendo in evidenza la fonte inaspettata (per una sinistra che ormai ha dimenticato tutto) delle sue radici, ma nella seconda si mette la cotta di maglia e va alla guerra.
Come capita a chi fa il suo mestiere, professoressa di teoria politica alla Columbia University, tutta la ricostruzione si muove sulle nuvole del pensiero, non tocca il volgare terreno degli interessi, tanto meno geopolitici. Quindi può dire, entro le regole della sua disciplina, che l’Europa è il prodotto delle idee degli “illuministi” e dei “cattolici” e che queste si muovono attraverso il protagonismo dei paesi sconfitti (e dunque, necessariamente, con l’autorizzazione dei vincitori, che sarebbe altrimenti curioso il progetto più ambizioso della storia europea nasca da chi ha meno potere e meno sovranità). Sono due i piani che propone: la creazione di una polis pacifica e democratica, e il rispetto delle sfere di influenza. Ma l’ordine è palesemente invertito, il fatto rilevante del primo dopoguerra è evidentemente la divisione dell’Europa sconfitta e ridimensionata in due sfere di influenza nette, quella americana e quella sovietica. Il progetto di una “polis” pacifica (ovvero disarmata e subalterna) è l’ideologia di copertura e insieme la necessità pratica del progetto della parte americana[1], ovvero parte della tradizionale politica dell’indirect rule anglosassone e strumento della riduzione dello sforzo e del costo di protezione e di controllo. Lo dice, del resto, anche la nostra politologa: “il progetto nacque anche in funzione antisovietica” (solo che “anche” è di troppo).
Certo non è del tutto infondato che l’idea di un’unificazione europea fosse più antica, e radicata in utopie settecentesche, poi rialzata negli anni venti (anche se non solo da intellettuali antifascisti), e poi tanti altri, l’elenco è lungo. E, se ci si sposta agli anni trenta, coinvolge anche gli stessi nazisti (ma questo è politicamente scorretto e meglio non insistervi).
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“L’Italia siamo noi. La sinistra e l’identità nazionale”
La "reimmaginazione politica" di Jacopo Custodi
di Alessandro Visalli
Su MicroMega, testata del gruppo La Repubblica/L’Espresso, il dottorando in Scienze Politiche alla Scuola Normale Superiore che “si occupa di sinistra radicale” Jacopo Custodi[1] sostiene che alla egemonia della destra bisogna contrapporre un’altra idea di Italia, evitando sia il rifiuto dell’identità nazionale sia l’interiorizzazione del discorso della destra. E questa posizione, che dichiara frutto di “reimmaginazione politica”, la descrive come:
“immaginare un’identità italiana che sia includente e progressista, basata sulla storia migliore del nostro paese. Che ricordi con orgoglio la storia dei nostri nonni che diedero la vita per la libertà, contro i fascisti che distrussero il nostro paese. Un’identità italiana che non dimentichi che gli italiani sono stati un popolo migrante, e che l’accoglienza e l’ospitalità italiana sono valori impressi nella nostra storia e di cui dobbiamo andare fieri. Un’Italia che ami il suo passato e la sua cultura, nella consapevolezza che la storia va avanti e le tradizioni evolvono. Un’Italia internazionalista e interculturalista, consapevole che una comunità nazionale sana ha tutto da guadagnare dall’incontro tra i popoli”.
Continua:
“Patriottismo non è chiudere le frontiere, patriottismo è lottare per un paese con scuole e ospedali pubblici di eccellenza, per la dignità di chi lavora. È rivendicare una comunità solidale che ami la sua terra e che rifiuti ogni discriminazione tra i suoi membri, ad esempio per il paese di origine o per il colore della pelle. Perché l’Italia non è la Meloni, non è Salvini, non è Minniti. L’Italia siamo noi che lottiamo per un paese migliore, che siamo attivi nella difesa dell’ambiente e nella solidarietà coi migranti, che difendiamo i nostri diritti in quanto lavoratori, donne, studenti. Non dovremmo più permettere alla destra di appropriarsi incontrastata di quel termine – «Italia» – che identifica tutti noi.
L’Italia siamo noi, ed è venuto il momento di riprendercela”.
A parte l’ultima frase retorica e aggressiva (l’Italia, evidentemente, non è della sinistra, almeno quanto non è della destra, ma è lo spazio di una contesa), questa posizione mi ricorda qualcosa.
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