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soldiepotere

La Patria è di destra o di sinistra?

di Carlo Clericetti

569732La sinistra dispersa e litigiosa ha trovato un nuovo motivo di divisione e di insulti. L’occasione è stata la costituzione di una nuova associazione culturale, promossa da Stefano Fassina con Alfredo D’Attorre e un nutrito gruppo di intellettuali, che ha lo scopo di incidere sul dibattito politico costruendo una cultura per la sinistra dell’attuale momento storico. Ma a scatenale le polemiche è stato soprattutto il nome, che Fassina ha scelto nonostante i dubbi avanzati da alcuni partecipanti alla discussione: “Patria e Costituzione”. Tanto è bastato per attirare l’insulto di moda, peggiore anche di “populismo” e “sovranismo”, ossia quello di “rossobrunismo”, cioè un ibrido tra posizioni di estrema sinistra ed estrema destra.

Se usare il termine “Patria” basta per essere accusati addirittura di filo-nazismo (le “camicie brune”, come si ricorderà, erano appunto i nazisti), bisogna dire che il dibattito politico è scaduto a livelli inferiori a quelli di un Bar Sport. Noti rossobruni, in questo caso, sarebbero per esempio Che Guevara (con il suo “Patria o muerte”), Palmiro Togliatti, Lelio Basso e tantissimi altri che trovano posto nel pantheon della sinistra storica. E persino la rivista dell’associazione dei partigiani (l’Anpi), come ha ricordato Fassina, si chiama “Patria indipendente”.

Sgombrato il campo dagli insulti lanciati non si sa se per ignoranza o malafede, ci si può chiedere perché rispolverare un termine che da molti anni non fa più parte del vocabolario della sinistra. L’intenzione di Fassina e compagni è che i due termini vadano strettamente legati: la “Patria” è quella disegnata dalla nostra Costituzione, i cui principi dovrebbero essere prevalenti rispetto a tutto, anche a quello che viene deciso in sede di Unione europea. Il che ha una logica.

E’ ormai assodato che il modello di società prefigurato dai trattati e dall’organizzazione dell’Unione europea è diverso da quello che la nostra Costituzione si propone di realizzare (vedere in proposito, per esempio, i libri di Luciano Barra Caracciolo e di Vladimiro Giacché, nel cui intervento è sintetizzato il problema).

Ancora oggi noi ci riconosciamo in quel modello sociale, con cui si pone il lavoro alla base dell’inserimento nella società, e si aggiunge subito dopo che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Il modello che viene disegnato dai trattati e dagli accordi dell’Unione europea, e soprattutto il modo in cui è stato gestito nella realtà e che le riforme proposte allontanerebbero ulteriormente dal nostro, pone come obiettivi prioritari il controllo dell’inflazione, il pareggio di bilancio, il divieto di intervento dello Stato, la tutela della concorrenza. Una delle formule applicative di quel modello prevede non solo che esista una certa quantità di disoccupazione, ma addirittura che sia opportuna.

La differenza sostanziale consiste nel fatto che questo modello si propone di far funzionare al meglio un certo tipo di economia, e la società deve adattarsi al suo funzionamento; il nostro modello prefigura invece un certo tipo di società, e sta poi alla politica individuare quali meccanismi economici siano in grado di realizzarla. Queste impostazioni si riflettono anche sulla struttura istituzionale: nel primo modello sono i tecnici – o meglio, le regole instaurate in base alle prescrizioni di una determinata teoria economica – a stabilire le compatibilità. I politici possono scegliere una linea vagamente progressista o più conservatrice, ma solo all’interno delle compatibilità definite, alle quali “there is no alternative”.

La storia ci dice che invece le alternative ci sono, e i sistemi democratici sono nati appunto per far esercitare ai cittadini la scelta tra di esse. Chi dunque continua a proporre “più Europa” sta di fatto promovendo in modo implicito una riforma costituzionale ben più radicale di quella bocciata dalla maggioranza degli italiani il 4 dicembre del 2016, perché riguarda non solo il modo di funzionamento dello Stato, ma anche i valori fondamentali espressi nella nostra Carta e la stessa logica del funzionamento della democrazia.

Gli europeisti di sinistra – da Yanis Varoufakis a Luciana Castellina – concordano quasi del tutto con questa analisi, ma pensano che si debba combattere per cambiare l’Europa, un obiettivo che Fassina & c. considerano irrealizzabile. Come è noto, per cambiare i trattati serve l’unanimità dei paesi membri: che non si raggiungerà mai, non solo per ragioni ideologiche, dato che il modello europeo è stato disegnato secondo i principi dell’ordoliberismo tedesco, ma anche perché vari paesi – Germania in primis – sono favoriti dall’attuale assetto, e dunque a cambiarlo non ci pensano proprio.

Un’uscita dall’Europa o anche solo dall’euro sarebbe rischiosa (a meno che non fosse concordata: ma anche di questo non si vede la probabilità). Ma se vogliamo salvare il nostro modello sociale bisogna stabilire che ciò che prescrive la nostra Costituzione viene prima delle norme europee. Il significato di “Patria e Costituzione” è dunque questo: non è questione di nazionalismo o sovranismo, ma della scelta di conservare il modello di società che la nostra democrazia ha scelto.

Ciò detto, il concetto di “Patria” non è il più appropriato a rappresentare questa linea. Lo usarono i partigiani, è vero, ma in quella fase serviva qualcosa attorno a cui potessero raccogliersi visioni politiche molto diverse, unite dall’obiettivo della lotta al fascismo e della conquista della democrazia, in un paese occupato militarmente da eserciti stranieri; e non c’era ancora la Costituzione che ha fissato i valori della nostra convivenza civile. E al patriottismo di Togliatti non era certo estranea la necessità di affermare che il suo partito, accusato di prendere ordini dall’Unione sovietica, aveva prima di tutto a cuore il bene del paese. In tutto il periodo successivo il termine è stato usato soprattutto dalla destra, e questo lo ha certamente connotato ed è una cosa che può respingere una parte di potenziali elettori progressisti. Ma non è per questo che lo ritengo sbagliato come identificativo di una iniziativa di sinistra. “Patria”, come “nazione”, rimanda a un’identità che non si basa su una scelta razionale, ma sull’essere nati in un certo posto e sulla presunzione che ciò implichi una determinata cultura distinta dalle altre. Che cosa c’entra questo con una scelta politica di sinistra? Chi è di sinistra si sente più vicino all’italiano Matteo Salvini o al francese Jean-Luc Mélenchon? All’italiano Silvio Berlusconi o alla tedesca Sahra Wagenknecht?

Se l’obiettivo è un determinato tipo di società, l’identità che va costruita è politica, non quella che deriva dalla nascita in un certo luogo: con quest’ultima sì rischia di sconfinare nel nazionalismo “ideologico”, mentre ai fini del progetto politico descritto il nazionalismo è puramente contingente e strumentale, per non farsi travolgere dall’altro modello sociale. Non è una differenza di poco conto. E d’altronde la Costituzione è certo basata su valori, ma è un atto di diritto positivo, non ha nessun aspetto trascendente né ne ha bisogno. Invece quello di “Patria” è un concetto trascendente, al contrario dello “Stato” che è una costruzione politica.

Riassumiamo.

Primo. L’Unione europea è stata costruita non solo con un deficit di democrazia, ma soprattutto in base a un modello sociale diverso da quello prefigurato dalla nostra Costituzione. Le scelte seguite all’introduzione dell’euro e la gestione della crisi iniziata dieci anni fa hanno segnato un’evoluzione verso il peggio, e le riforme di cui si sta discutendo enfatizzerebbero questa evoluzione negativa.

Secondo. Non esistono le condizioni per un cambiamento di rotta, né è prevedibile che possano verificarsi in futuro.

Terzo. In questa situazione, lo Stato nazionale è il solo ambito che renda possibile perseguire democraticamente il nostro modello sociale, quello disegnato dalla Costituzione.

Chi poi obiettasse che il progetto dell’unità europea travalica gli interessi nazionali, è invitato ad esaminare con più attenzione il comportamento degli altri paesi membri, nelle politiche economiche e ancor di più in quelle con l’estero. Se riuscirà a rintracciare un solo barlume di solidarietà a scapito degli interessi nazionali di ognuno sarà stato certo più bravo di noi. Questo non significa che dobbiamo isolarci, né impegnarci in una conflittualità permanente. Ma tra queste ipotesi e l’assistere al progressivo disfacimento del nostro modello sociale ci deve ben essere una via intermedia, e questa via consiste nel pretendere rispetto e la possibilità di seguire la nostra strada, e su queste basi impostare la cooperazione con gli altri paesi, senza dubbio necessaria. Se poi chi si pone in questa prospettiva farà a meno di utilizzare il concetto di “Patria”, avrà evitato molti possibili equivoci.

Resta poi un altro serio problema, e cioè che bisognerebbe avere governi che facciano le cose giuste, cosa che non accade da lunghissimo tempo. Ma la soluzione non è farsi governare dagli altri, come molti personaggi “illuminati” della nostra storia hanno creduto (agendo di conseguenza). “Gli altri” fanno gli interessi di chi li deve eleggere, non i nostri, e se qualcuno avesse avuto bisogno di prove dovrebbe già averne avute più che a sufficienza.

Comments

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Anna
Tuesday, 06 November 2018 22:07
Caro Paolo Selmi ,
non mi hai tediata . A partire da quel particolare passaggio della Critica del Programma di Gotha , hai ragione a pensare che l’idea di pianificazione in sé non sia una forzatura deduttiva . Ma faccio notare che ho parlato di “pianificazione statale” e penso che tu abbia ancora più ragione quando sottolinei che Marx vada preso nel suo complesso , all’interno dell’intera sua opera omnia . E , come avrai capito , il punto dirimente è chiaramente lo Stato . Come scrive Marx nella “Prefazione all’edizione tedesca del 1872” del Manifesto ( siamo quindi appena dopo la Comune ) , l'esperienza della Comune ..”ha fornito la dimostrazione del fatto che la classe operaia non può semplicemente impossessarsi della macchina statale così com’è e metterla in moto per i propri scopi” . Nella stessa Critica del Programma di Gotha troverai tanti passaggi contro lo Stato e la mistificazione del comunismo in statalismo . Così come li trovi facilmente ne “Il Capitale” , ne “La Guerra civile in Francia” , ne “L’Ideologia tedesca” , ne “Il Diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte” , ne “Per la Critica dell’economia politica” ecc. Marx mette al centro i liberi produttori , non lo Stato di cui professa se mai l’estinzione . Poi , marxianamente , questa dei liberi produttori , rimane una formula indeterminata e non poteva che essere tale . Lenin , seguendo Marx , in Stato e Rivoluzione , ha provato contingentemente a riflettere sul famoso “dualismo di potere” ( tra Soviet e Stato ) concludendo che i liberi produttori estinguono lo , e non sono più , Stato . Oggi , a maggior ragione , dato lo sviluppo e l’interdipendenza raggiunti , ritengo ancor più urgente immaginare e creare istituzione altre e oltre lo Stato. Qualsiasi Stato oggi , da solo , si presenta come inevitabilmente incapace di articolare politiche sociali ed economiche “progressive” : le uniche “pianificazioni” che , da solo , può attuare , sono quelle securitarie , repressive , e , a colpi di esenzioni fiscali e di abbassamento del valore del lavoro , tentare di attirare maggiori capitali liquidi del proprio vicino . Diciamo che , per regolamentare il Mercato e democratizzare il Capitale , ritengo che oggi la “pianificazione” ( se vogliamo usare questo termine ) possa essere solo oltre lo Stato .
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Paolo Selmi
Sunday, 30 September 2018 22:52
Grazie mille Eros!
sia per la sintesi rigorosa, sia per la sua attualizzazione. E la filosofia avrebbe avuto un altro corso, in quei tre anni di superiori. Dare in pasto a un sedicenne (ma anche diciottenne) il Reale-Antiseri è come dire: studiate, portate l'argomento all'interrogazione, dimenticate. Tante nozioni, sicuramente tantissime rispetto ad altri manuali (alcuni miei compagni che facevano filosofia ce l'avevano anche nei primi esami di università), ma per questo inutile per avvicinare un giovane alla filosofia.

Io partivo prevenuto, specialmente quando trovavo due righe di seguito con elenchi di cose da tenere a memoria, d'accordo, ma sarebbe bastato un aforisma tipo questo che mi sarei divorato la Logica di Hegel e avrei pure iniziato a studiare tedesco: "Нельзя вполне понять «Капитала» Маркса и особенно его I главы, не проштудировав и не поняв всей Логики Гегеля. Следовательно, никто из марксистов не понял Маркса 1/2 века спустя!! " (Non si può appieno comprendere il Capitale di Marx e specialmente il suo primo capitolo, senza aver letto e compreso l'intera Logica di Hegel. Di conseguenza, nessuno dei marxisti ha mai compreso Marx da mezzo secolo a questa parte!! V.I. Lenin, "Quaderni filosofici", Opere complete (ПОЛНОЕ СОБРАНИЕ СОЧИНЕНИЙ), V ed., Moskva, Izd. Pol. Lit., Vol. 29, p. 162).

Occorre comunque tornare a volare alto... nello scrivere il sessantaquattresimo commento a questo articolo, penso: la migliore risposta alla domanda del titolo è: torniamo a volare alto! Parliamo di dialettica, parliamo di Leibniz, di Hegel, di Laozi, di Confucio, delle reducciones, della Comune di Parigi, della Comune di Shanghai, del ruolo del Komintern nei processi di liberazione nazionale, dell'economia di piano e di socializzazione dei mezzi di produzione. E facciamo altri sessantaquattro commenti di questo tipo. Questa è la migliore risposta alla domanda del titolo.

Grazie ancora Eros per la tua pazienza e per la tua voglia di divulgare e rendere patrimonio collettivo e
buona settimana a tutti!
Paolo
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Eros Barone
Sunday, 30 September 2018 20:17
Mi scuso per il ritardo con cui intervengo, ma gli argomenti filosofico-politici introdotti da Paolo Selmi hanno stimolato in me qualche osservazione aggiuntiva su tre categorie fondamentali della dialettica materialistica: realtà, possibilità e casualità. In estrema sintesi: la realtà è ciò che esiste di fatto; la possibilità è ciò che può accadere, date certe condizioni. Sennonché la possibilità è contenuta nella stessa realtà, essendo il legame fra le due categorie di natura storica, oltre che logica. Oltre alle fini, ancorché discutibili, osservazioni di Robert Havemann sul rapporto tra possibilità e realtà, nonché tra 'causa' e 'motivo', richiamate opportunamente da Paolo Selmi, merita, in questa sede, un doveroso omaggio il massimo pensatore della categoria della possibilità nell'età moderna, ossia Leibniz, il quale, con mirabile acume dialettico, concepisce il presente come "issu du passé et gros de l'avenir". Attuandosi, la possibilità diventa realtà: quindi la realtà può essere definita come possibilità attuàtasi e la possibilità, per converso, come realtà potenziale. E' stato Hegel a criticare l'approccio soggettivistico di Kant secondo cui realtà e possibilità sono categorie puramente mentali, mettendo in luce non solo il condizionamento della seconda da parte della prima, ma anche il legame dialettico che intercorre fra le due categorie e la trasformazione dell'una nell'altra. Come si è detto, la possibilità diventa realtà, date certe condizioni. Ad esempio, la possibilità della rivoluzione socialista in un paese capitalistico può trasformarsi in realtà solo nel caso di una crisi di tutta la nazione, quando cioè si viene a creare una situazione in cui non solo gli strati inferiori 'non vogliano' vivere come per il passato, ma anche gli strati superiori 'non possano' governare come per il passato. Un'altra condizione-base per il prodursi di una rivoluzione socialista è la presenza di un partito proletario e rivoluzionario guidato dalla teoria marxista-leninista. Insomma, ogni fenomeno, nella natura così come nella società, rappresenta l'unità degli opposti, talché presenta possibilità molto diverse di equilibrio relativo/evoluzione/rivoluzione/restaurazione ecc. Tenendo conto delle peculiarità che caratterizzano le diverse possibilità, si possono distinguere possibilità reali e formali, astratte e concrete, reversibili e irreversibili, coesistenti ed escludenti, 'possibilità dell'essenza' e 'possibilità del fenomeno' (in ciascuno di questi casi si ha un incrocio tra due diverse coppie di categorie). Un esempio di possibilità reale è la possibilità di un'economia pianificata nei paesi socialisti; un esempio di possibilità formale è la possibilità per l'operaio di diventare capitalista. Questa possibilità non deriva dalle leggi del modo di produzione capitalistico, cioè dalla necessità, ma da un concorso fortuito di circostanze (ecco un esempio di casualità). Un esempio, invece, di possibilità concreta è la possibilità delle crisi economiche nelle condizioni del capitalismo, per la quale, come si è visto in questo decennio, si sono create le relative condizioni (predominio del capitale finanziario, sovrapproduzione, caduta del saggio di profitto, aumento della composizione organica ecc.). Ancora un'esemplificazione circa la coppia concettuale costituita dalla 'possibilità del fenomeno', che non modifica l'essenza di una cosa, e dalla 'possibilità dell'essenza', che consiste nella trasformazione di una cosa in un'altra cosa. Il reddito di cittadinanza o un aumento salariale in questo o quel ramo della produzione sono esempi di 'possibilità del fenomeno', il cui avverarsi non modifica l'essenza della divisione in classi sociali e della posizione reciprocamente asimmetrica di esse; la rivoluzione socialista oppure il cosiddetto "socialismo di mercato" sono, invece, esempi di 'possibilità dell'essenza', poiché il loro realizzarsi cambia l'essenza dell'ordinamento sociale: o la società capitalistica si trasforma in società socialista o la società socialista regredisce a società capitalistica. Sempre in tema di dialettica materialistica, varrebbe la pena di dire qualcosa sul rapporto tra i concetti di 'negazione della negazione', 'salto' e 'soluzione delle contraddizioni', che spesso vengono confusi, ma per ora quanto precede può bastare.
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Paolo Selmi
Thursday, 27 September 2018 22:40
Grazie mille Mario!
altrimenti saremmo partiti con NEP si, NEP no, perché NEP in Cina no, ma capitalismo di Stato, perdipiù nella sua fase imperialistica, ecc. Tra l'altro provengo proprio oggi da una lettura di un articolo della Pustovojtova su fondsk.ru (https://www.fondsk.ru/news/2018/09/24/v-sozdanii-kitajsko-pakistanskogo-koridora-tretim-mozhet-stat-saudovskaja-aravia-46836.html) dove illustra come il fiato cinese cominci a dare fastidio anche alle élite locali di Pakistan (che sta cercando finanziamenti dagli arabi pur di non farseli dare a prestito dai cinesi, che hanno investito finora centinaia di miliardi di dollari e ora aspettano che la pianta cresca per raccogliere i frutti), di Malesia (che ha appena rifiutato 20 miliardi di dollari cinesi dicendo che il progetto "una strada una cintura" è una "nuova forma di colonialismo"), e persino di Birmania (che ha appena limitato gli investimenti cinesi nel porto di Kyaukpyu da 10 a 1.7 miliardi di dollari, proprio per paura di restare eccessivamente indebitati).

Ma mannaggia a me non volevo intervenire per questo. Mario e Michele, ho recuperato queste poche righe da Robert Havemann, "Dialettica senza dogma", Torino, Einaudi, 1965, pp. 126-7. Io mi ci ritrovo abbastanza, e penso che possano fornire argomenti utili ad approfondire ulteriormente l'argomento: le ho cercate sulla rete per risparmiarmi fatiche amanuensi... ma invano. Eccole:

"La concezione dialettica del nesso fra casualità e necessità, come ora si rivela anche nella meccanica quantistica, ci riporta a idee reali della libertà umana. Comprendiamo inmodo nuovo la nostra reale possibilità d'influire sulle cose, di trasformarle e modificarle. Se rifiutiamo la concezione classico-meccanica secondo cui il futuro sarebbe completamente determinato, cià naturalmente non significa che consideriamo il futuro completamente indeterminato. Il futuro resta in parte determinato dal passato, ma non in maniera definitiva e assoluta. Hanno un alto grado di determinatezza solo i fatti su cui non possiamo esercitare nessuna influenza. Il corso delle stelle, i movimenti dei pianeti e del sole possono essere calcolati in anticipo con grande esattezza. Sono processi sui quali non possiamo affatto influire, ameno per ora. Se una volta l'uomo acquisterà la forza di modificare il corso dei piantei, anche questo diventerà indeterminato e casuale. Noi acquistiamo libertà in quanto modifichiamo le necessità, creiamo nuove possibilità e variamo il possibile. Possiamo aumentare il grado di possibilità di certi fatti e diminuire quello di altri. L'uomo, con la sua attività , non è il trastullo di casi ciechi e fantastici, ma, al contrario, egli fa uso pratico della casualità dei fatti per raggiungere ciò che desidera. Se non ci fosse la cecità del caso, noi non potremmo mutare il mondo con i nostri occhi aperti. L'uomo è libero proprio perché il futuro del mondo può essere ancora determinato, non essendo ancora determinato".

E ancora "Il possibile è una componente indissolubile della realtà proprio come tutto ciò che di volta in volta si attua. Sulla base della dialettica, possibilità e realtà formano un'unità contraddittoria. Esse possono essere separate solo concettualmente, ma in realtà sono indissolubilmente legate fra loro. Il reale si accende continuamente nel possibile, e nuove possibilità scaturiscono continuamente dalla realtà in sviluppo. Il reale nel senso più ampio, tutto l'essere del nostro mondo, è in pari tempo possibilità e realtà (pp. 131-2)."

E infine: "Il possibile è più ricco, è l'universale, il non casuale, mentre la realtà, che realizza sempre soltanto una sezione del possibile, è più povera e casuale. [...] Il rapporto fra possibilità e realtà, l'attuarsi del possibile, non deve essere inteso come un rapporto causale. La forma in cui il possibile si attua è bensì la costante produzione di cause ed effetti; ma le cause e gli effetti sono soltanto estratti limitati della più ampia e più ricca scala del possibile. La causalità è nella realtà un rapporto unilaterale, irripetibile, transitorio e fuggevole. Nel rapporto causale appare il reale, che sorge dalle sue CAUSE. Nel possibile invece non appare la causa, ma il MOTIVO dei fenomeni. Il motivo è il fattore permanente nel flusso dei fenomeni". (pp. 133-4).

Sono pagine che illustrano la complessità in maniera del tutto illuminante, almeno per me. Intraprendere un cammino rivoluzionario di transizione al socialismo significa accettare la sfida di questa complessità e realizzare, attraverso la miriade di possibilità e di scelte davanti a noi, quelle realmente in grado di portarci verso il socialismo, verso la proprietà sociale dei mezzi di produzione, verso l'abolizione dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo, di tutti gli uomini, non solo i "nostri", verso il rispetto e il ripristino delle capacità riproduttive di vita ed energia del nostro pianeta, l'unico che abbiamo, verso la pace e la costruzione di rapporti fra gli uomini improntati a valori etici di solidarietà e cooperazione che possono e debbono prevalere su quelli attualmente vigenti, verso una nuova civiltà. Una scelta dietro l'altra, un passo dopo l'altro, tutto nella vita è reversibile, nel senso che tutto è perdibile, nulla è scontato, così come nulla è realmente consolidato, ogni giorno è una lotta, e la lotta di oggi spianerà la strada alle lotte di domani, senza mai abbassare la guardia.

Ciao
Paolo
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Mario Galati
Thursday, 27 September 2018 20:49
Sull'oggettività dei processi economico-sociali, sostenuti così fortemente da Michele Castaldo, non si può non essere d'accordo (altrimenti, Marx, e non solo, a cosa sarebbe servito?). Ma la versione di Castaldo mi sembra unilaterale. Le figure sociali sarebbero soltanto delle maschere, dramatis personae, di una recita retta da chi? Dal moto-modo di produzione, risponderebbe. D'accordo, ma il moto-modo di produzione non è forse un complesso di relazioni instabili, come ogni totalità dialettica? La totalità dialettica si modifica complessivamente quando si modifica un elemento, una relazione, al suo interno. Non c'è un burattinaio che cambia la recita, il copione totale. In termini semplici Marx diceva che l'uomo è un prodotto storico, ma sono gli uomini a fare la storia. Se poi non vogliamo sconfinare nella metafisica, dobbiamo sempre tenere presente la relazione tra livello delle forze produttive e rapporti di produzione, e l'interazione (termine comunque impreciso nella concezione marxista) tra struttura e sovrastruttura.
A me non piace usare il termine abusato e di moda "soggettività", che spesso nasconde un ritorno all'idealismo, ma la storia non può prescindere dall'attività, condizionata, della personalità umana.
Inoltre, come è evidente, non concordiamo nel giudizio sull'URSS e il socialismo reale.
Già che ci sono, aggiungo che il mio ultimo commento, apparentemente così lineare, sarebbe più difficile e complicato da sostenere se si considerasse l'esperienza cinese (ma come? La Cina, ignorando l'"apprendimento" socialista, ripassa dallo sviluppo del capitalismo? Oppure, in una versione più "neppistica" completamente screditata agli occhi di Paolo Selmi, come mai si serve dello strumento capitalistico per sviluppare le forze produttive? Ma l'esperienza sovietica non ci ha dimostrato che si possono elevare le forze produttive anche in una economia collettivizzata?).
Io non vi ho fatto riferimento e mi sono reso la vita più facile.
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michele castaldo
Thursday, 27 September 2018 18:21
Da figlio di mugichi (io) a figlio di braccianti Mario Galati.
Per stabilire la correttezza o meno di una concezione teorica - o ipotesi se meglio rende - la si deve rapportare alla realtà dello sviluppo storico. Dunque noi oggi siamo in grado di capire meglio e di riflettere una tesi complessa che Gramsci espone all'indomani della rivoluzione russa, quando la definisce .
Premesso che sto con la quella rivoluzione senza se e senza ma (come ho dimostrato con il mio libro Marx e il torto delle cose) si tratta però di capire la natura della stessa e se è corretta la definizione di "bolscevica" come diceva Gramsci.
Certo, parliamo col senno di poi e perciò abbiamo più elementi per analizzarla nella sua dinamica storica anche prescindendo dai giudizi dei suoi artefici del momento, come Lenin, tanto per citarne il più importante.
E' nota ai più la corrispondenza tra intellettuali e teorici del tempo (della nostra tendenza) sui destini della Russia rispetto al capitalismo - occidentale - che premeva, e le perplessità sull'ipotesi di evitare il calvario capitalistico per quell'immenso paese.
La "storia ha dato torto a noi" diceva Engels riferendosi alla tenuta del capitalismo con riferimento ai suoi giudizi sulla classe operaia in Inghilterra. Proprio così, la storia ci ha dato torto, non avendo noi capito che il capitalismo più che come modello di rapporti sociali di oppressione e sfruttamento si è delineato come straordinario movimento storico degli uomini con i mezzi di produzione, sviluppando classi che sono divenute complementari al proprio interno. Ed è stata così smentite la tesi di Marx-Engels del Manifesto sulla legge del chiodo scaccia chiodo per cui una classe abbatte il potere politico di quella esistente e instaura il proprio: la borghesia abbatte l'aristocrazia, il proletariato abbatterà la borghesia.
Se Mario mi consente, questo sì è meccanicismo, e la storia ha dimostrato che Marx e Engels si erano sbagliati a riguardo. Ammetterlo è da amici veri dei due studiosi e compagni.
Per Gramsci va fatto lo stesso ragionamento, lui fu un grande idealista e combattente comunista, in lui primeggiava la forza della ragione mentre nel modo di produzione capitalistico primeggia la ragione della forza, anche fra le classi proletarie come lo stesso Engels a più riprese ribadisce. Il capitalismo appare come un fatto del tutto naturale, dunque logico, razionale.
I bolscevichi furono catapultati alla testa della rivoluzione, da uno straordinario movimento di lotta di contadini, soldati e operai. I bolscevichi - nella loro stragrande maggioranza - erano giovani studenti universitari con tutto l'ardore della loro età. Il 1917 è il punto di maturazione di un processo storico cominciato nel 1871 con la riforma della servitù della gleba.
Sicché la Russia ha dovuto attraversare il calvario del capitalismo - lo ammise continuamente Lenin - ma lo fece nel migliore dei modi (o tentò di farlo) fino a tutto Stalin. Lo fece cercando di centralizzare uno sviluppo economico equilibrato fra le classi che anche lì si andavano sviluppando. Ma proprio perché il modo di produzione capitalistico è un movimento storico mondiale in Russia (in Urss) non poteva - questo il punto, non poteva - essere costruito il socialismo, perché le stesse leggi l'avvolsero nel proprio vortice ; e non fu costruito. Tutt'altra cosa è voler equiparare lo sviluppo economico dell'Urss all'Occidente o - peggio ancora - definire dittatoriale e perciò peggiore delle democrazie occidentali. Losurdo è brillante da questo punto di vista, cioè di lotta antimperialista di quel paese ma oggi abbiamo la necessità di inquadrare correttamente i rapporti produttivi all'interno di un movimento generale del modo di produzione mondiale non più in crescita ma in decrescita, anche in Russia, come le recenti riforme su Sanità e pensioni stanno a dimostrare.
Paradossalmente - dico a Mario e ai compagni - quando si pensava che il socialismo si stesse costruendo in Russia - come pensava Bucharin - era molto lontano. Oggi che sembra molto lontano o addirittura lontanissimo è una prospettiva concreta non per la capacità bolscevica come Gramsci pensava, ma come maturità oggettiva del modo di produzione che non può proseguire più la sua folle corsa, ha saturato le sue potenzialità e non sappiamo cosa ci riserverà una implosione verso la quale si sta avviando. Tutto qua.
Michele Castaldo
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Mario Galati
Wednesday, 26 September 2018 16:50
Cercate di non fare caso agli errori disseminati nel commento.
Stranamente il mio smartphone mi visualizza l'ultimo commento di Paolo Selmi solo adesso. Misteri della tecnologia.
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Mario Galati
Wednesday, 26 September 2018 16:40
Nei miei commenti precedenti potrai leggere quali sono, secondo me, gli elementi da considerare per stabilire se attualmente la mondializzazione capitalistica attuale mantiene i caratteri progressivi assegnati a suo tempo da Marx e Lenin. Non bisogna mai prescindere dalle specificità concrete della fase storica.
Lenin ha fatto la "rivoluzione contro il Capitale", come disse Gramsci, nell'anello debole della catena imperialistica, non aspetto la maturazione compiuta dei rapporti capitalistici in Russia, come pretendeva il meccanicismo evoluzionista della seconda internazionale. Sempre Gramsci, guardando alla dialettica storica e, hegelianamente, alla storia universale, alla categoria di "apprendimento", come sottolineava Losurdo, ci fornisce la chiave di interpretazione della dinamica storica fuori e contro ogni determinismo adialettico, meccanico. È il passo in cui, critica un concetto attribuito ad Antonio Labriola, secondo il quale, l'emancipazione di un "selvaggio" papuano deve necessariamente passare per una fase, più o meno lunga di schiavitù (per attivare la dialettica servo/padrone, ecc.). Gramsci contesta questa concezione e osserva che, quando si arruola un selvaggio in un esercito moderno gli si insegna immediatamente ad usare un'arma da fuoco moderna; non lo si fa combattere con una cerbottana. C'è poi anche una critica a Gentile, ecc. Se non lo hai già fatto, leggilo direttamente e integralmente.
Cosa ci dice ciò della nostra discussione?
Nella fase storica attuale, dopo che lo sviluppo capitalistico, integrale o meno, distorto o meno, ha già toccato da tempo tutto il globo, o, quantomeno, la sua esperienza può essere comunicata e appresa da un mondo non più chiuso e isolato, ma, soprattutto, dopo che il mondo, in alcune vaste esperienze, è andato già oltre il capitalismo, dopo l'esperienza socialista e la decolonizzazione, sostenere che il socialismo deve ripassare dall'esperienza capitalistica (che avrebbe il compito di distruggere i vecchi rapporti feudali e arcaici, o di predisporre l'adeguato sviluppo delle forze produttive, come ai tempi di Marx e Lenin), significa riproporre la logica storica criticata da Gramsci. Significa riproporre la logica meccanicistica e adialettica della seconda internazionale. Significa essere più realisti del re, più capitalistici degli stessi capitalisti.
Aggiungo che anch'io, laddove ci sono residui feudali, di dipendenza personale, nei rapporti (per es., ancora, nel meridione d'Italia) sono un sostenitore del carattere progressivo dei rapporti capitalistici. Così, di fronte a coloro che, in un'ottica anticapitalista rivolta al passato, propone utopie reazionarie precacapitalistiche, io difendo la progressività del capitalismo.
Ma oggi, non abbiamo "appreso" dalla storia universale sviluppatasi nel '900?
Il socialismo reale, la colonizzazione e la decolonizzazione, l'esperienza di integrazione mondiale già fatta, anche a livello di sviluppo della comunicazione (la cultura, l'esperienza del mondo comunicata e appresa attraverso la cultura, come il papuano che impara ad usare il fucile, non è irreale per il fatto di essere elemento sovrastrutturale) sono stati una parentesi irrilevante?
Certo, nei detrattori dell'esperienza del movimento comunista e anticoloniale novecentesco è così. Ma io credo che questa sia un'arma dell'avversario di classe. Ecco perché sono così polemico con in compagni che si associano alla denigrazione borghese di Stalin, dell'URSS, ecc. Mio padre era un bracciante del sud che ha trovato la sua via di riscatto in quel movimento comunista. E Stalin e l'URSS hanno fatto passare il sonno ai padroni. Si riesce a capire cosa significasse ciò per intere masse di diseredati? Ma ora sto andando un po' oltre e mi fermo.
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Anna
Wednesday, 26 September 2018 12:39
Caro Mario Galati , ho riletto più attentamente i tuoi commenti e anche tu sottolinei che Marx si oppose radicalmente ad esempio al movimento di indipendenza nei Balcani o a quello dei cechi . Quindi ti ho frainteso e mi scuso .
Il ragionamento e la preoccupazione di Lenin , contro “la parola d'ordine degli Stati Uniti d'Europa” in realtà non era rivolta tanto ai “lavoratori d’Europa” , ma al movimento proletario nel suo complesso ed in particolare a quello dei popoli colonizzati essendo l’Europa del 1915 composta da 3 potenze imperialiste . Condivo la critica di Lenin di quel particolare contesto , a patto di non decontestualizzarne il senso .
Il pensiero generale di Lenin si evince non solo dalle sue scelte contingenti ( come sappiamo la riuscita della rivoluzione sovietica dipese da una sua decisione chiaramente antipatriottica e Lenin , 3 o 4 anni prima , ruppe con i maggiori partiti della Seconda Internazionale proprio perché fecero scelte “sovraniste” allo scoppio della Prima Guerra Mondiale , votando i crediti di guerra e trasformando gli operai in soldati per le proprie Patrie ) ma si evince principalmente dalla sua teoria generale , che , sulla scia di Marx , rifiuta di fare della Nazione un feticcio . Per Lenin “la liberazione dall’oppressione del capitale non avviene e non può avvenire senza un ulteriore sviluppo del capitalismo, senza la lotta di classe sul terreno del capitalismo stesso” . Qui di seguito il suo ragionamento :
“ Non c’è dubbio che solo l’estrema povertà costringe gli uomini ad abbandonare la patria e che i capitalisti sfruttano nella maniera più disonesta gli operai immigrati. Ma solo i reazionari possono chiudere gli occhi sul significato progressivo di questa migrazione moderna dei popoli. La liberazione dall’oppressione del capitale non avviene e non può avvenire senza un ulteriore sviluppo del capitalismo, senza la lotta di classe sul terreno del capitalismo stesso. E proprio a questa lotta il capitalismo trascina le masse lavoratrici di tutto il mondo, spezzando il ristagno e l’arretratezza della vita locale, distruggendo le barriere e i pregiudizi nazionali, unendo gli operai di tutti i paesi nelle più grandi fabbriche e miniere dell’America, della Germania, ecc”
( Vladimir Lenin, da "Il capitalismo e l'immigrazione operaia" )
Oppure anche qui
“Il marxismo sostituisce a ogni nazionalismo l'internazionalismo, la fusione di tutte le nazioni in una unità superiore. (...) Il proletariato non può appoggiare nessun consolidamento del nazionalismo, anzi, esso appoggia tutto ciò che favorisce la scomparsa delle differenze nazionali, il crollo delle barriere nazionali, tutto ciò che rende sempre più stretto il legame fra le nazionalità, tutto ciò che conduce alla fusione delle nazioni”
( Vladimir Lenin , “L'autodecisione delle nazioni” )

Non si tratta di escludere in linea di principio che lo Stato possa essere conteso, attraversato e appropriato dalla politica radicale, in condizioni che occorre di volta in volta valutare . Ma la questione è che nel 2018 , dato lo sviluppo e l’interdipendenza raggiunte dalle forze materiali , lo Stato nazionale ( e a maggior ragione in condizioni come quelle di un piccolo Paese periferico come l’Italia) si presenta come inevitabilmente incapace di articolare politiche sociali ed economiche “progressive”, come in parte è avvenuto in altre epoche storiche . Oggi la ricomposizione della coesione e della stabilità sociale attorno allo Stato e alla nazione passa necessariamente attraverso chiusura, autoritarismo e razzismo, attraverso la drastica riduzione degli spazi di libertà e uguaglianza e sempre con un’accentuazione di gerarchie e con un portato di discriminazione dei soggetti di volta in volta costruiti come “anormali”. Ribadisco che le contraddizioni del capitale si superano sul suo stesso piano in senso progressista .
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Mario Galati
Tuesday, 25 September 2018 17:31
La posizione di Marx e di Engels circa il panslavismo e l'indipendenza nazionale, naturalmente.
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Mario Galati
Tuesday, 25 September 2018 17:28
E per quale motivo, avendo sottolineato che la questione nazionale non è stata affrontata astrattamente da Marx, ma in relazione alla lotta di classe, all'emancipazione di classe e al passaggio al socialismo, avrei sostenuto posizioni sovraniste? E per quale motivo hai ripetuto esattamente ciò che ho detto io circa la posizione di Marx favorevole all'indipendenza irlandese ma non all'indipendenza slava propugnata dal panslavismo e poi hai imbastito una polemica, "confutandomi"?
E secondo te, l'UE è l'unione politica europea prefigurato da Gramsci? È il frutto di un processo costituente, seppure capitalistico (il problema non è solo la sua ispirazione ordoliberista), che supera le barriere nazionali o è il dispositivo organizzativo predisposto dal capitale transnazionale europeo per eludere le, pur borghesi, ma pur sempre recanti tracce del movimento dei lavoratori, costituzioni nazionali scaturite dalla sconfitta del nazifascismo e dalla resistenza? E non è forse la struttura organizzativa che, pur portando avanti interessi comuni del capitale europeo, è un terreno propizio per il nazionalismo di singoli stati, in primis la Germania, che lo esercitano tranquillamente? Davvero sono scomparse le nazioni e gli stati all'interno dell'UE? Un'Unione Europea reazionaria (non come semplice ritorno al passato, poiché, indubbiamente, risponde alle esigenze attuali della cosiddetta globalizzazione, anche se la fase sta mutando), dunque, rispetto al periodo storico che l'ha preceduta.
E si può trascurare lo scritto di Lenin sugli Stati Uniti d'Europa?
Il fatto è che ad ogni ragionamento troppi rispondono con il riflesso condizionato e con la nuova formuletta di scomunica del sovranismo rossobruno (che pure esiste). Tutto questo mi ricorda l'atteggiamento anarchico che, alla parola "stato", reagiva con gli esorcismi. Pretendevano di abolirlo immediatamente e non comprendevano la necessità della dittatura del proletariato, nuovo tipo di stato, stato non nel senso proprio della parola, semistato, stato di transizione, o chiamatelo come volete, facendo così il gioco del capitale (come lo fanno coloro che non hanno minimamente capito il ruolo dell'URSS, di Stalin e del comunismo novecentesco. Non credo soltanto per incomprensione, ma perché dietro di loro agisce una mentalità piccolo borghese). È evidente che chi pone la questione nazionale al di fuori della questione e della lotta di classe non è marxista; ma chi reagisce con la scomunica contro chiunque metta in discussione la UE o la globalizzazione capitalistica, senza vagliare i contenuti della critica, è un apologeta del capitale e pensa di giustificare questa sua subalternità magari con le citazioni di Marx e di Lenin, che giustamente hanno esaltato la funzione progressiva del capitalismo e della sua mondializzazione in quella fase storica. Per costoro la storia è semplicemente l'eterno ritorno dell'identico e gli stati, il nazionalismo, l'internazionalismo sono categorie metafisiche e princípi, non categorie storico-sociali.
A proposito, la canzone di Woody Guthrie è "This land is your land", non "my" land. Sono peggio del t9.
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Paolo Selmi
Tuesday, 25 September 2018 16:53
Ciao Mario!
Tutto ma non "this land is my land"... non si fanno queste cose, a quest'ora, tra un buono di consegna e l'altro... mi è già partita in testa l'armonica di Bruce Springsteen (raccolta live 1975-1985 con la E-street band che aveva mio zio ancora in 33 giri, mitica!). E meno male che non mi hai citato "The river" sennò mollavo tutto, timbravo direttamente uscita, prendevo due ore di permesso, e andavo al Ticino in memoria dei vecchi tempi!
Bene, ora che hai salvato il mio posto di lavoro... ti posso dire che è la prima che hai detto, non la seconda. Ovvero, sono convinto che non esista nessun automatismo tra la differenziazione etnica come reazione all'assimilazione culturale forzata e la sua strumentalizzazione in chiave nazionalistica. Il Giappone si è sentito "Yamato" in maniera del tutto pacifica, “mostrando i denti” soltanto quando “l’imperialismo culturale” ante-litteram della Civiltà cinese giungeva a comprometterne l’esistenza (in reazione a qualche “scienziato” locale che usciva con sparate tipo usi e costumi locali vanno soppressi, occorre parlare tutti cinese e lasciar perdere il giapponese, insomma… niente di nuovo sotto il sole, visto che – mutatis mutandis – sono uscite ricorrenti un po’ in tutte le storie di un popolo… così, sui due piedi, mi viene in mente al momento il dibattito sulla lingua francese al posto di quella russa all’inizio di “Guerra e pace”).
Il problema è stato quando "Yamato" è diventato il nome di una corazzata! (un po' di tempo prima, in realtà... ma il gioco di parole non usciva!)
Sicuramente dalla fase uno alla fase due di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia, tante cose sono cambiate, il Giappone ha vinto una guerra contro la Russia (zarista), primo Stato extra-europeo a mettere in ginocchio una potenza europea, il movimento operaio giapponese ha subito repressioni formidabili, il Kokka Shinto è divenuto ideologia di stato. E in una maniera che noi non ci immaginiamo neppure.
Raveri riportava questo aneddoto, raccontato direttamente dalla bocca di Maraini (padre).
Passa benito - cori, canti, "caciara" (mi si passi il termine), fine
Passa adolfo - ali di folla molto più irregimentate, alla tedesca, non una virgola fuori posto, tipo filmati olimpiadi del trentasei
Parata giapponese - nulla. e un nulla pesantissimo. Passa l'imperatore, passa dio. tutti fermi un quarto d'ora prima del passaggio, con la testa rigorosamente a terra e gente in piedi a vigilare che tutti stessero "in posizione" (spero non con una katana di damocle sul collo...); passa la macchina imperiale, l'imperatore c'è ma non si vede, tutti sempre faccia a terra, poi, lentamente, ci si rialza.
No...direi che il passaggio non è stato per nulla automatico.
Ciao!
Paolo
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Anna
Tuesday, 25 September 2018 15:38
Quoting Anna:

Quoting Mario Galati:
Anche Gramsci, evidentemente, era un idolatra statalista e nazionalista.

No , è strumentalizzato in questo senso da qualche patetico rossobruno , ma anche questa fa sorridere :
“Certo lo sviluppo è verso l’internazionalismo, ma il punto di partenza è “nazionale” ed è da questo punto di partenza che occorre prender le mosse. Ma la prospettiva è internazionale e non può essere che tale” (Gramsci Q 14, 68 ).
“esiste oggi una coscienza culturale europea ed esiste una serie di manifestazioni di intellettuali e uomini politici che sostengono la necessità di una unione europea: si può anche dire che il processo storico tende a questa unione e che esistono molte forze materiali che solo in questa unione potranno svilupparsi : se fra x anni questa unione sarà realizzata la parola “nazionalismo” avrà lo stesso valore archeologico che l’attuale “municipalismo”» (Gramsci Q 6, 78 ).

Queste 2 citazioni ( ne ho prese solo 2 come esempio ) hanno esclusivamente lo scopo di confutare l’affermazione “Anche Gramsci, evidentemente, era un idolatra statalista e nazionalista.” .
La seconda citazione dimostra solo che per Gramsci , con lo sviluppo delle forze materiali , lo Stato nazionale è destinato in prospettiva a essere superato e che per Gramsci “fra x anni ..la parola “nazionalismo” avrà lo stesso valore archeologico che l’attuale “municipalismo”
Chiaramente , con la seconda citazione , non era mia intenzione far passare Gramsci come un sostenitore dell’Europa ordo/neoliberista . Questa Europa ordo/neoliberista non piace nemmeno a me ; a nessuna persona di sinistra dovrebbe piacere ( Non credevo ci fosse il bisogno di scriverlo ) . Questo non equivale ad appoggiare le posizioni reazionarie dei sovranisti europei del 2018 , che , chiaramente , non hanno nulla a che vedere con la situazione dei popoli colonizzati di cui si occupò Lenin . Hanno più che altro a che fare con lo sciovinismo del benessere e le chiusure identitarie . Per quanto mi riguarda , e questa dovrebbe essere la posizione di ogni persona di sinistra , le contraddizioni del capitale si superano sul suo stesso piano in senso progressista : le politiche reazionarie , di chiusura e parafasciste , ovviamente fanno parte delle tradizione parafascista e reazionaria , non di quella di sinistra .
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Mario Galati
Tuesday, 25 September 2018 14:10
Il t9 mi ha trasformato in una lingua incomprensibile la canzone di Woody Guthrie "This land is my land".
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Mario Galati
Tuesday, 25 September 2018 14:04
Se ho interpretato correttamente la citazione da Todorov di Paolo Selmi, il sentirsi straniero in ogni luogo non dovrebbe significare sentirsi estraniato, ma non sentire un senso di dominio sui luoghi in cui si sta ("Questa è la mia terra"). Quanto all'orgoglio di essere qualcosa che non si è scelto o guadagnato, qualcosa di naturale o accidentale, trattato da Eros Barone, si potrebbe dire che l'espressione corretta sarebbe "sono contento di...", per i motivi affettivi indicati da Barone. Ma anche questa espressione, in realtà, potrebbe indicare quel senso di superiorità, o di sciovinismo, nel caso dell'identità nazionale. In realtà, le espressioni ci restituiscono il significato convenzionale con cui vengono usate in un dato contesto (su ciò si vedano le lezioni di Stefano Garroni pubblicate da L'interferenza, sulla pagina di questo sito). Perciò, non necessariamente l'"orgoglio di..." dovrebbe indicare sciovinismo, esclusione, differenziazione, ecc. (La canzone popolare di Woody Guthrie "This land Island mg land", non è sciovinistica e non indica il senso di dominio, per tornare a Todorov, ma di appartenenza egualitaria della classe operaia, mi sembra) Anche se di questi tempi il significato espresso e percepito è senz'altro quello indicato da Eros Barone.
P.S. Ho letto quanto scritto da Paolo Selmi sullo sviluppo del nazionalismo giapponese, dell'identità giapponese. Se ho interpretato bene, quella storia ci dice che in origine è stato lo strumento dell'indipendenza dalla Cina, della scissione dall'identità cinese e dell'affermazione di una propria identità ed autonomia; in un secondo tempo è stato lo strumento sciovinistico del suo imperialismo e dell'aggressione alla Cina. In fondo conferma che assolutizzare e ipostatizzare le categorie ideali, fuori dal contesto storico-sociale concreto, dai concreti rapporti di classe, porta a ragionare per astrazioni indeterminate.
Oppure potrebbe avere anche il significato che ogni processo di scissione e formazione di identità autonoma, una volta realizzato, comporta il passaggio all'aggressione all'altrui identità, alla prevaricazione?
Potrebbe indicare un passaggio inevitabile dal nazionalismo indipendentista progressivo alla politica di potenza reazionaria? Questo secondo significato non lo accetterei, poiché basato su categorie di pensiero astratte, metafisiche (il nazionalismo sciovinistico giapponese è lo strumento ideologico del capitalismo imperialista giapponese, non la semplice autonoma inversione di senso e direzione dell'identità nazionale).
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Mario Galati
Tuesday, 25 September 2018 12:43
Bene. Grazie alle citazioni di Anna abbiamo scoperto che Gramsci avrebbe approvato l'UE. Ogni internazionalista dovrebbe farlo. Gli altri sono rossobruni. Miracoli del citazionismo. E poi Stalin, il capo dell'Internazionale comunista, un nazionalista. Ogni commento è superfluo. Sono d'accordo che è meglio sorridere (lo farò anche alle prossime, immancabili, citazioni. Non ho intenzione di perdere tempo).
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Eros Barone
Tuesday, 25 September 2018 12:39
Riallacciandomi al tema dell'identità introdotto da Paolo Selmi, trovo, dal canto mio, che il dichiarare il proprio orgoglio di essere…italiani, francesi, tedeschi, americani ecc ecc. sia una manifestazione di inguaribile idiozia, oltre che di inescusabile ignoranza.
Eppure basta una semplice riflessione razionale per rendersi conto del fatto che non ha senso dichiararsi orgogliosi di qualcosa che non si è scelto e il cui verificarsi non è dipeso da noi. Ad un fatto del tutto contingente, il nascere in un determinato luogo, vengono attribuiti, per un verso, i caratteri di una realtà metafisica di ordine superiore e, per un altro verso, la natura propria di un oggetto di scelta personale (ma di quale scelta è possibile parlare, quando non esiste un’alternativa?).
Il primo comportamento, ossia l’attribuire un carattere metafisico ad un fatto contingente, dà luogo, così, ad una proiezione paranoica di carattere mitologico, mentre il secondo comportamento, ossia il considerare come una scelta ciò che non è dipeso da noi, è una forma abbrutente di reificazione della propria personalità (come dimostrano, oltre alle manifestazioni di ‘orgoglio padano’, le molteplici manifestazioni di ‘orgoglio omosessuale’, di ‘orgoglio femminista’ ecc ecc., che si dispongono lungo la stessa scala differenzialista). Non è necessario aggiungere che entrambi i comportamenti sono determinati dalla logica spettrale del capitalismo postmoderno che, negando la dialettica, esalta e assolutizza i particolarismi, i localismi e le differenze, ignaro della lezione che il grande Platone fornisce nel mirabile dialogo del “Sofista”, allorquando dimostra che la relazione fra l’identità e la differenza è dialettica, poiché nell’identità vi è la differenza (infatti l’identità è differente dalla differenza) e nella differenza vi è l’identità (infatti la differenza è identica a se stessa).
‘Toto coelo’ diverso è, invece, il naturale attaccamento ai luoghi in cui si è nati e vissuti (Dante la chiamava ‘la carità del natio loco’, sottolineando la natura generosa e inclusiva di questo sentimento): quell’attaccamento che mi permette di dichiarare il mio legame con uno o più luoghi, a me cari per un motivo o per l’altro, senza che questa dichiarazione implichi alcuna contrapposizione (palese o latente) verso chi in quei luoghi non è nato o vissuto, o verso chi non apprezza quei luoghi nella misura in cui io li apprezzo. Anche qui, la differenza è costituita dalla ragione, che è universale, contrapposta al sentimento, che è particolare: due fattori di un’esistenza equilibrata che non vanno contrapposti ma integrati. Altrimenti, la logica culturale del postmoderno ci fa ripiombare o nel pozzo nero dei micronazionalismi di marca antiunitaria o nelle tenebre dei fondamentalismi di stampo medievale, che vigoreggiano qua e là nel mondo contemporaneo.
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Paolo Selmi
Tuesday, 25 September 2018 08:10
Compagni,
fuori dal canone... se avete letto La scoperta dell'America di Todorov è una delle frasi che restano più impresse. Se non lo avete letto, lo consiglio caldamente, a prescindere dalla frase che non è neppure sua. Io l'ho scoperto a un mercatino dell'usato e ho ringraziato il mercatino intero di esistere.

Il testo è: Tzvetan Todorov, La conquista dell'America. Il problema dell’“altro”, Torino, Einaudi. Chi fosse francofono lo può recuperare in originale. Libro dedicato a una donna indio data in pasto ai cani dai "civili" spagnoli.

La citazione fa così:
"L’uomo che considera dolce la propria patria è ancora un tenero principiante; colui per il quale ogni territorio è come il proprio suolo natio è già forte; ma perfetto è colui per il quale l'intero mondo è come una terra straniera.
L'animo tenero ha concentrato il proprio amore su un unico posto nel mondo; l'uomo forte ha esteso il proprio amore a tutti i luoghi; l'uomo perfetto ha estinto il proprio."

Testo originale:
"Delicatus ille est adhuc cui patria dulcis est; fortis autem iam, cui omne solum patria est; perfectus vero, cui mundus totus exsilium est.
Ille mundo amorem fixit, iste sparsit, hic exstinxit."

Ho trovato anche in rete chi è riuscito a recuperare tutto il brano di Ugo da San Vittore (che, ovviamente, scriveva prima di finire a San Vittore....) e non solo la frase citata da qualcuno, ripreso dopo secoli da Said (che porta fuori tutti indicando una fonte errata), quindi da Auerbach, quindi da Todorov.
http://www.gliscritti.it/antologia/entry/403
... e quindi da Selmi e da chiunque ci si ritrovi. "La poesia no es de quien la escribe, sino de quien la necesita" (Troisi/Ruoppolo/Skarmeta/El cartero de Neruda)

Buona giornata, ma soprattutto,
Buon esilio a tutti!!!
Paolo
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Anna
Monday, 24 September 2018 23:25
Quoting Mario Galati:
snocciolare citazioni non equivale a ragionare e a pensare, soprattutto quando supportano ovvietà, come, per es., che un marxista non è un nazionalista, ma un internazionalista e così via.

Bene , mi fa piacere che ora siamo d’accordo sul fatto che sia un’ovvietà .

Quoting Mario Galati:
Evidentemente Stalin, quando scriveva sulle nazionalità, non l'aveva capito ed era un nazionalista.

Si , Stalin era un nazionalista .

Quoting Mario Galati:
Anche Gramsci, evidentemente, era un idolatra statalista e nazionalista.

No , è strumentalizzato in questo senso da qualche patetico rossobruno , ma anche questa fa sorridere :

“Certo lo sviluppo è verso l’internazionalismo, ma il punto di partenza è “nazionale” ed è da questo punto di partenza che occorre prender le mosse. Ma la prospettiva è internazionale e non può essere che tale” (Gramsci Q 14, 68 ).

“esiste oggi una coscienza culturale europea ed esiste una serie di manifestazioni di intellettuali e uomini politici che sostengono la necessità di una unione europea: si può anche dire che il processo storico tende a questa unione e che esistono molte forze materiali che solo in questa unione potranno svilupparsi : se fra x anni questa unione sarà realizzata la parola “nazionalismo” avrà lo stesso valore archeologico che l’attuale “municipalismo”» (Gramsci Q 6, 78 ).
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Eros Barone
Monday, 24 September 2018 22:34
In un articolo pubblicato su questo sito (cfr. https://www.sinistrainrete.info/estero/12948-eros-barone-aporie-della-dipendenza-e-sviluppo-ineguale-tra-inghilterra-irlanda-e-russia.html) ho sottolineato l’evoluzione dell’atteggiamento di Marx ed Engels sulla questione nazionale, talché, quando nel 1867 rivolsero di nuovo l'attenzione alla questione irlandese, essi individuarono un elemento teorico fondamentale: la divisione tra nazioni dominanti e nazioni oppresse. Grazie a questa importante scoperta essi giunsero a considerare la dominazione coloniale dell'Irlanda non solo come l'origine dell'oppressione del popolo irlandese, ma anche come la chiave per comprendere l'impotenza della classe operaia inglese, che nella seconda metà del XIX secolo costituiva il proletariato più numeroso e meglio organizzato del mondo. Sennonché, come ben s’intende, lo sciovinismo e i sentimenti di superiorità nazionale dei lavoratori inglesi verso gli irlandesi facevano il gioco della borghesia britannica, la quale sfruttava questo antagonismo per mantenere la dominazione in Irlanda e opprimere il proletariato inglese. Così, Marx nel 1870 poté formulare, nella famosa lettera a Meyer e Vogt, una tesi che l’esperienza storica avrebbe poi ampiamente confermato a livello mondiale, sino ai nostri giorni: "In tutti i centri industriali e commerciali d'Inghilterra si ritrova oggi una classe operaia divisa in due campi ostili, i proletari inglesi e i proletari irlandesi. Il lavoratore inglese ordinario odia il lavoratore irlandese in quanto concorrente causa di abbassamento del suo livello di vita. Di fronte al lavoratore irlandese, si sente egli stesso membro della nazione dominante e si trasforma perciò in strumento degli aristocratici e dei capitalisti contro l'Irlanda, rinforzando di fatto la loro dominazione su lui stesso. Questo antagonismo è il segreto dell'impotenza della classe operaia inglese, nonostante la sua organizzazione. È il segreto grazie al quale la classe capitalista fonda il suo potere e di cui è del tutto cosciente". Marx formulava dunque due concetti che diventeranno la base della teoria di Lenin sull'autodeterminazione nazionale: a) la nazione che ne opprime un'altra non può essere considerata come libera (Engels affermava che per un popolo dominarne un altro fosse una "disgrazia"); b) la liberazione delle nazioni oppresse è una delle condizioni della rivoluzione socialista all'interno della nazione dominante. Oggi, questo approccio metodologico non solo conserva tutta la sua importanza e la sua validità, ma costituisce altresì una premessa assolutamente necessaria per lo sviluppo e l'approfondimento del pensiero marxista. Tra l’altro, vale la pena di osservare come, essendo esente sia dallo schematismo che dall'eurocentrismo, esso offra un solido orientamento a tutti coloro che propugnano l'internazionalismo proletario.
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Mario Galati
Monday, 24 September 2018 21:47
Ringrazio Anna per la raccolta di citazioni. C'è gente che passa il tempo su Internet a reperirne ed a postarne. Ci sono siti appositi. Ma snocciolare citazioni non equivale a ragionare e a pensare, soprattutto quando supportano ovvietà, come, per es., che un marxista non è un nazionalista, ma un internazionalista e così via. Evidentemente Stalin, quando scriveva sulle nazionalità, non l'aveva capito ed era un nazionalista. Anche Gramsci, evidentemente, era un idolatra statalista e nazionalista.
Non avevano capito Marx ed Engels. Lo stesso Marx non si era capito e si contraddiceva. Le citazioni di Anna rimettono le cose a posto.
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michele castaldo
Monday, 24 September 2018 15:38
Ho notato che questo articolo è il più commentato fra quelli proposti da sinistrainrete.info, la ragione è molto semplice: tocca il cuore delle questioni, ovvero il modo di schierarsi con una parte di un tutto - la nazione - che a sua volta fa parte di un tutto più ampio e generale che è il mercato mondiale.
La metto in questi termini: a mio avviso si fa difficoltà a distinguere il Capitalismo dal Capitale e gli Stati moderni vengono esaminati più come modelli ideologici che espressioni di interessi "comuni" , cioè di accumulazione capitalistica dove il capitalista non può fare a meno dell'operaio e viceversa. Tutto fila liscio finché non decelera l'accumulazione e il capitalista deve - ripeto deve - trasferire le produzioni altrove per battere la concorrenza, le famose delocalizzazioni.
Lo Stato è chiamato a sostenere le ragioni del capitalista, inutile girarci intorno e l'operaio - che guarda al capitale e al capitalista come i girasoli guardano il sole - è costretto ad affidarsi allo Stato per una soluzione alterativa.
Diversamente si pongono le questioni quando il conflitto non riguarda più il singolo capitalista ma l'insieme processo di accumulazione da difendere sia per l'acquisto delle materie prime che per sostenere le esportazioni dei manufatti. Il proletariato è chiamato a stare col proprio Stato, la propria Nazione, per difendere il Capitale, cioè il rapporto delle tre componenti del processo di produzione.
Può essere indipendente il proletariato in un meccanismo che Weber definiva gabbia di ferro? Ritengo di NO.
Ma allora dove risiede l'ipotesi comunista? E siamo veramente al dunque.
A mio avviso - ma sto in ottima compagnia - lo Stato è l'espressione non di un modello di sviluppo economico, come molti sono portati a credere, ma di un movimento storico che Marx definì Modo di produzione Capitalistico. Detto movimento rappresenta l'insieme dei rapporti che garantiscono l'accumulazione. Finché tiene l'accumulazione ogni ipotesi di rovesciare il capitalismo sta nel libro dei sogni. Quando invece l'accumulazione comincia a decrescere a livello mondiale - come in questa fase - e cala il saggio di profitto, il proletariato è chiamato a sostenere un rapporto sempre meno sopportabile, fino alla insopportabilità, solo a quel punto - ripeto - SOLO A QUEL PUNTO - il proletariato si comincerà a guardare intorno come estrema ratio.
Ora, un conto è sostenere il proletariato di una patria che vuole sottrarsi al dominio colonialista e imperialista per sviluppare l'accumulazione contro lo strozzinaggio dei paesi potenti, tutt'altra cosa è sostenere il proletariato che con la decrescita dell'accumulazione è avviato verso la estrema ratio. Il punto è questo.
Conclusione
Fino ad alcuni anni fa (40?) il proletariato delle metropoli e quello delle periferie lo possiamo rappresentare come due punte di una forbice aperta: benessere (relativo ovviamente) da una parte e miseria dalla parte opposta. Oggi quelle due punte si vanno sempre di più richiudendo, non lo sono ancora certo, ma siamo molto lontani da 40 anni fa.
Se aumenta la concorrenza fra i paesi ricchi al punto da mettere in discussione l'Unione Europea non possiamo spingere - cioè sostenere - l'unità della patria della "nostra" accumulazione perché questa avverrebbe sulla pelle del proletariato che va verso la disperazione.
Insomma non siamo negli anni 20 dove il Fascismo poté chiamare il proletariato a sostenere l'accumulazione della "nazione proletaria e fascista" con i super profitti che provenivano dalle colonie e un'accumulazione che cresceva a ritmi stellari rispetto ad oggi di cui i proletari potevano goderne di briciole.
Detto altrimenti: noi rischiamo di ritrovarci a predicare la calma e la pace nazionale quando invece il proletariato si dispera e si incomincia a rivoltare. E' successo già in passato: a luglio 1917 i bolscevichi agirono da pompieri (e Trockij ancora menscevico rischiò il linciaggio per questo) mentre gli operai, i soldati (a stragrande maggioranza contadini) e i contadini volevano la caduta del governo Kerensky e il passaggio di tutti i poteri ai soviet.
Poi a novembre furono travolti - menscevichi e gli stessi bolscevichi - che decisero di stare con i tumulti di piazza.
Lo stesso errore di valutazione lo aveva commesso Lenin a gennaio del 1917 e fu smentito dalla rivoluzione partita l'8 marzo, un mese dopo.
Facciamo perciò attenzione a non ritenere la storia ferma e stagnante in modo definitivo.
Ringrazio chi ha avuto la pazienza di leggermi.
Michele Castaldo
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lorenzo
Monday, 24 September 2018 14:40
@alessandro visalli, chiedo scusa se scrivo solo adesso alcune precisazioni magari superate dal seguito della discussione che non ho ancora potuto leggere per intero. Mi fai probabilmente giustamente notare che scrivo con ottica individualistica (vissuto quasi solo in epoca individualistica ho meno di 50 anni) anteponendo l'elemento "volontaristico" rispetto alla trasformazione dei rapporti. Questo nasce da una mia convizione magari completamente sbagliata che i rapporti in essere siano stati costruiti nelle svariate decine di anni precedenti di economia di libero mercato nei paesi piu' sviluppati e che i trattati europei ne determinano solo una minima parte. In questo senso il cambio di terreno (ritorno alla sovranita' nazionale) lo vedo nella migliore delle ipotesi come marginale e comunque non propedeutico o non determinante ad un cambio strutturale o di rapporti o culturale. Piu' facilmente, anche se non ne sono sicuro, mi ritrovo con l'idea che non credo che credo frutto solo di un vissito individualistico che la protezione e l'utilizzo dello stato nazionale consenta una serie di recinti economici nei quali, forse all'interno di ciascuno di esso sia possibile avere meno disparita' per gli sfruttati ma globalmente e complessivamente siano una garanzia di maggiore stabilizzazione delle enormi ingiustizie e differenze economiche e salariali.
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Anna
Monday, 24 September 2018 13:52
Già è vero , ne ho pescata una tra le tante che in questo caso era Engels . Perché cambia il senso : Engels notoriamente non riproponeva il pensiero dello stesso Marx .

“I comunisti si distinguono dagli altri partiti proletari solo per il fatto che da una parte essi mettono in rilievo e fanno valere gli interessi comuni, indipendenti dalla nazionalità, dell'intero proletariato”
( K.Marx , il Manifesto , Cap II ,“Proletari e Comunisti” )

Il tentativo di usare Marx in chiave sovranista è veramente imbarazzante . Un'arrampicata con le unghie sui vetri .
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Mario Galati
Monday, 24 September 2018 13:19
Dimenticavo di aggiungere che, se si crede che gli stati nazionali debbano la loro sopravvivenza agli interessi corporativi del ceto politico "nazionale", agli apparati politico-amministrativi, una più attenta lettura di Marx, di Engels e di Lenin è indispensabile.
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Mario Galati
Monday, 24 September 2018 13:14
Dico ad Anna che anche uno studente del primo anno dovrebbe sapere che l'affermazione che lo stato, dopo la sua estinzione, sarà collocato “nel museo della Storia accanto alla rocca per filare e all’ascia di bronzo” è di Engels ("L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato"), non di Marx.
Poi la inviterei a leggerli i commenti e, possibilmente, a riportarne correttamente il senso. Un'arma dialettica, un artificio retorico, consiste nel ribaltare la posizione dell'interlocutore per poterla confutare. Si attribuisce all'interlocutore la posizione da lui avversata e poi si ha buon gioco a confutarla. Se si riferisce ai miei commenti ha usato questa scorrettezza retorica, talmente evidente che non ritengo neppure di indicane i punti. Forse è meglio sorridere.
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Anna
Monday, 24 September 2018 11:55
Ho letto dei commenti veramente molto interessanti , ma altri che fanno sorridere nel loro tentativo disperato di far passare Marx come una specie di sovranista nazionale per il fatto che sostenne l’autodeterminazione nazionale di Irlanda e Polonia . Anche uno studente del primo anno sa che Marx voleva estinguere gli Stati , relegarli “nel museo della Storia accanto alla rocca per filare e all’ascia di bronzo” , e che il suo sostegno a queste indipendenze nazionali era subordinato alla rivoluzione mondiale . Per lo stesso motivo , Marx si oppose radicalmente all’indipendenza dei cechi ed anche al movimento di indipendenza nei Balcani nella seconda metà dell’ottocento .
Il cuore del problema è sempre la difficoltà del fare politica , perchè la fonte di legittimazione della politica e dei politici è ancora , nel 2018 , a livello nazionale e a quella rispondono : con tutte le perniciose invenzioni e costruzioni ideologiche che il cosiddetto interesse nazionale alimenta .
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Paolo Selmi
Monday, 24 September 2018 09:53
Breve PS post timbro.
Sull'Italia...
mi hai fatto venire in mente come la mia prof di Italiano delle superiori mi abbia fatto detestare il Pascoli. Fino ad allora, so far so good... contadini che arano, pampani, cavalline e vesperi vermigli. Poi la buona Bresciani pensò bene di farci leggere "La grande proletaria s'è mossa"... fece bene, per carità, ci aprì gli occhi, ma il Pascoli mi crollò proprio a livello zero!
Scherzi a parte... quella che tu poni come ambiguità "L'Italia come semi-colonia" è un qualcosa di percepibile già dagli inizi del secolo scorso. Che poi il nostro sia stato un imperialismo straccione, o lumpen che dir si voglia, esportando manodopera in eccesso più che capitale, è un altro paio di maniche. Ma da lì a rispolverare tutta la retorica vittimistica di repertorio, ne corre.
Anche se... anche se. Il buon Samir Amin era sottoposto a critica da Yves Lacoste nel suo Geografia del sottosviluppo proprio perché estendeva dinamiche DI CLASSE a logiche NAZIONALI. Approccio sbagliato, secondo il Lacoste, perché i confini geografici del SUD travalicano i confini nazionali ed esistono molti SUD NEL NORD, così come esistono (meno) NORD NEL SUD. La borghesia compradora e tutto il suo entourage, o indotto che vive delle sue briciole. Quindi io non parlerei, se non in termini generali, di "nazioni oppresse", ma di classi oppresse, che poi arrivano anche a coincidere con interi popoli (mono-classe) oppressi, oppressi anzi tutto dalla loro borghesia che non è nazionale, ovvero, di nazionale ha solo l'anagrafe, ma compradora. Il risultato non cambia, sicuramente, ma evitiamo il rischio di rincorrere la retorica nazionalistica o, peggio ancora di fomentarla. Faccio un breve esempio: me la prendo con i cinesi perché ci hanno distrutto il tessile. Vero, ma fino un certo punto. Più che con i cinesi, me la devo prendere anzi tutto con la nostra borghesia compradora che, con un organico fisso di poche centinaia di persone per azienda, disegna, muove e vende merci in quantitativi che, prima di portare la produzione in Cina e vendere tramite franchising (ovvero trasferendo il rischio d'impresa TOTALMENTE all'imprenditore affittuario del marchio e incassando soltanto utili), avrebbero dato lavoro a decine di migliaia di persone. La dinamica di classe che lega capitale cinese e capitale italiano, in questo caso, è evidente, e negata sia dai borghesi nazionalisti (sovranisti, è di moda dire oggi) italici, che scaricano il barile sui "cattivi" cinesi, sia dai filocinesi, senza peraltro scaricare la colpa su nessuno e compiendo virate spericolate su leninistici NEP, capitalismi di stato che portano al socialismo, e via discorrendo. Occorrerebbe invece "seguire i soldi", investigare quella dinamica di classe, denunciare i capitalisti, sia quelli "invasivi" (volevo scrivere invasori ma ho buttato la palla in calcio d'angolo all'ultimo), sia quelli "compradori". Da qui, solo da questo punto, convincere e vincere che la nostra è lotta di "popolo", quindi lotta di liberazione "nazionale", perché le classi oppresse rappresentano la stragrande maggioranza del primo e della seconda. Ed eventualmente leggere anche la terza sovrastruttura, quella di "patria", in questa ottica di classe. Ma il primo passo è, a mio modesto parere, sgomberare il campo da qualsiasi equivoco che possa fare apparire al nostro interlocutore i nostri argomenti come se fossero usciti da accolite di altro genere tipo Atreju (manco a farlo apposta ne parlava la Meloni ieri ripresa anche alle undici di sera su tutti i canali cosiddetti all-news...).
E' tuttavia, un terreno che, se fossi un politico, proprio per questo motivo di essere equivocato, di passare giornate a rettificare, a chiedere rettifiche, a querelare, ecc. eviterei, concentrandomi sulla lotta di classe.
Ora mi taccio per davvero...
ciao!
paolo
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Paolo Selmi
Monday, 24 September 2018 08:11
Caro Michele

mi hai fatto venire in mente una cosa al volo. Scrivi: “il modo di produzione capitalistico nasce in Europa con la rivoluzione industriale e si irradia a macchia d'olio verso il resto del pianeta.” A ben vedere, anche l’idea di Stato-Nazione (per non parlare poi di quella di patria) sono sovrastrutture nate in Occidente, impacchettate, caricate su un container ed esportate in giro per il mondo.

Un esempio: il Celeste Impero (quello di una volta, ovviamente). La teoria era l’esatto opposto della pratica. La teoria (l’ideologia) voleva TUTTO il mondo (天下, tianxia, lett. “sotto il cielo”) assoggettato all’imperatore per diritto (divino, intendendo il cielo come entità con la lettera maiuscola che legittima il potere terreno tramite “mandato celeste” (天命 tianming). Questa la teoria. La pratica: l’imperatore era quello che era, addirittura per due volte nella storia il “mandato” fu conferito a dinastie straniere (i mongoli e i mancesi), i confini… semplicemente non esistevano. Tre scenari si configuravano, contemporaneamente:

1. Anello più grande della mappa, hic sunt leones: u sei mio suddito anche se non lo sai… e questo mi basta (livello più esterno);

2. Anello intermedio della mappa: hic sunt barbari; tu sei mio suddito, non mi interessa nulla di chi sei, come vivi, cosa fai, mi basta che lo sai e che mi paghi un TRIBUTO simbolico all’anno (con tanto di carovana che si dirige alla capitale carica di doni e ricevimento finale in udienza ufficiale), e puoi avere CONTATTI COMMERCIALI con me. Variante interessantissima, questa. Nel monografico di Storia delle esplorazioni dell’Asia orientale portammo tutto un carteggio di queste carovane russe che cercavano di portare a casa il carico di lupini nel XVII sec. Quelle guidate da mercanti, si mettevano senza esitare faccia a terra, leggevano la dichiarazione di sudditanza, e tornavano a casa cariche di merci; quelle guidate da diplomatici dello zar, che arrivavano magari l’anno dopo, appena capivano l’antifona, si rifiutavano di sottomettersi, venivano rinchiuse come spie e buttate fuori… e i sinocentrici cinesi (tendiamo tutti a guardare il mondo dal nostro ombelico, non è nostra esclusiva…) non ci capivano un bel niente! Maccome! Quelli di prima si e questi no! Strano re lo zar…

3. anello interno: hic sunt sinici. E questi sono nostri, non ci son santi. I contadini pagano e producono, i letterati governano, i soldati difendono e i mercanti pagano ma ci fregano perché ne inventano sempre una per non pagare… (no… è la visione tradizionale confuciana, ogni riferimento alla Cina di oggi è puramente casuale…). In tal caso, l’imperatore esercita il proprio potere come una nazione così come la intendiamo noi.

Vengo alla tua domanda: per me è la seconda. Il saggio di profitto diminuisce, la crescita globale diminuisce nonostante il saggio di sfruttamento della biosfera sia tutt’altro che diminuito, il pianeta sta morendo.

Scappo che vado fantozzianamente al timbro. Buona settimana a tutti!

Paolo
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michele castaldo
Monday, 24 September 2018 07:19
Vorrei porre la seguente domanda a quanti hanno commentato di questo articolo: Perché non prendere in esame l'ipotesi "economicistica" e cioè: il modo di produzione capitalistico nasce in Europa con la rivoluzione industriale e si irradia a macchia d'olio verso il resto del pianeta. Sicché gli Stati (cioè espressioni di comunità nazionali) sono costretti a centralizzare le risorse per recuperare il ritardo rispetto alle locomotive trainanti: Inghilterra, Usa, Francia, Germania, Italia, Spagna, Portogallo, Olanda, Belgio da un lato e Giappone, Russia, Cina, India e tutto il sud del mondo dall'altro lato.
Lo stesso Fascismo - sia italiano che tedesco - rappresenta la centralizzazione di risorse contro concorrenti più forti, più potenti del primo mondo.
In questo modo forniamo una risposta alla domanda odierna: la natura della concorrenza fra le nazioni - e dunque fra gli Stati - è la stessa di quella a cavallo tra la fine dell' '800 e i primi del '900 relativa a un movimento generale di accumulazione che si espandeva o piuttosto siamo in presenza di una accresciuta concorrenza fra le nazioni in un movimento che rallenta e perciò decresce?
E l'Italia - una potenza imperialista, con truppe fuori dai propri confini - in quest'accresciuta concorrenza che ruolo giocherebbe? Solo fornendo una risposta seria a questa domanda potremmo definire il tipo di atteggiamento da assumere rispetto ai valori della patria di cui si discute.
Se si parte dall'idea - del tutto infondata - che l'Italia è una semicolonia non si spiega poi come mai ha truppe fuori dai propri confini. Certo, non ha - l'Italia - la stessa potenza finanziaria e militare degli Usa, dell'Inghilterra e della Francia, ma questo non la rende per niente una semicolonia. Dunque si parte col piede sbagliato e si arriva a conclusioni molto simili a quelle di Mussolini e del fascismo italiano: difesa della patria proletaria e fascista contro le plutocrazie d'oltreoceano. Il rischio è molto serio, ben oltre le intenzioni dei sostenitori dei valori patriottici di sinistra.
Nessuno è in grado di stabilire se il modo di produzione capitalistico si stia avviando verso il terzo conflitto mondiale con alleanze che si vanno predisponendo oppure si procede verso un caos generalizzato dagli esiti molto incerti. Ma una cosa è certa: il mondo attuale è lontano mille miglia di quello del 1861, 1871, 1914, 1917, 1939, 1949,1972 e persino del 1979, l'ultima vera rivoluzione antimperialista nel movimento generale del modo di produzione capitalistico
Michele Castaldo
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Paolo Selmi
Sunday, 23 September 2018 20:57
Ciao a tutti,

mi è venuto in mente un altro spunto utile di discussione, anche perché particolare e generale sono due ambiti entro cui dover sentirci a nostro agio. Il testo suggerito da Antonio, "The invention of tradition", l'ho conosciuto per la prima volta nel monografico del terzo anno di Religioni e Filosofie dell'Asia Orientale. Professore Massimo Raveri, antropologo, allievo a sua volta di Fosco Maraini (papà di Dacia e in Giappone proprio durante il periodo fascista). Quel testo gli fu di spunto per rileggere la storia del Kokka Shintō, ovvero dello Shintō di Stato: la sua genesi, il suo sviluppo, la sua morte improvvisa, sotto il peso di due bombe atomiche, e il suo riaffiorare persino in una società complessa come il Giappone attuale.

La sostanza del ragionamento che mi ricordo ancora, in quanto il mio lavoro pre-tesi era tutto incentrato sull'analisi del carisma dell'imperatore Showa, e dell'imperatore giapponese in generale, era la seguente: il popolo giapponese, pescatori e contadini senza una cultura scritta, scopre di essere tale, ovvero "giapponese", con l'incontro scontro con la Cina. Lo stesso nome occidentale Giappone (Japon, Japan, Japonija), il Cipangu di Marco Polo, altro non è che una deformazione della pronuncia cinese dei segni 日本國 (attuale ri-ben-guo, all'epoca molto più simile al "cipangu" summenzionato, corrispondente alla pronuncia giapponese Nippon o Nihon). Ebbene, loro in quel momento trovarono un nome autoctono per loro stessi, ovvero YAMATO. Loro erano “Yamato” rispetto agli altri.

Il loro senso di appartenenza, la loro lingua, la loro religione panteistica, i loro usi e costumi, specialmente per un popolo isolano come il loro, si esaltarono nella fase dell’incontro-scontro con una cultura prevalente, più evoluta, scritta, quale quella cinese. Importarono nel giro di pochi secoli millenni di tradizione cinese, compiendo un esperimento di assimilazione che gli tornò decisamente utile mille anni più tardi, quando lo replicarono nei confronti dell’Occidente, “traducendolo” anche per gli stessi cinesi, coreani, vietnamiti e per tutti i popoli estremo-orientali di quella che qualche studioso definì la Communitas Buddhica. Questa assimilazione frenetica, per certi versi schizofrenica, diede origine a movimenti periodici di natura opposta: la ricerca di equivalenti in lingua giapponese dei segni cinesi che erano costretti a importare in quanto sprovvisti di scrittura (col risultato che ogni segno cinese, o kanji, oggi ha ALMENO due pronunce), l’assimilazione sincretica di divinità buddhiste con i kami autoctoni, l’elaborazione di due alfabeti (hiragana e katakana) con cui scrivere IN giapponese senza dover ricorrere ai kanji cinesi, la valorizzazione del ruolo dell’imperatore, il mikado, come discendente diretto di divinità giapponesi, in piena quindi autolegittimazione al riparo da minacce esterne (cinesi), sono le manifestazioni che mi giungono subito alla mente.

Tuttavia, nulla faceva pensare a quanto accadde in Epoca Meiji e, peggio ancora, in epoca Showa. I cosiddetti “Studi sul folklore” (minzokugaku 民俗学) inaugurati da Yanagita Kunio (柳田 國男) si dimostrarono ben presto un’arma formidabile per fomentare un crescente nazionalismo, una volontà di potenza in salsa pan-asiatica, un “noi” contro “loro”, meglio di “loro”: un’intera tradizione fu reinventata e, in questo senso, piegata retoricamente (una parte per il tutto) al servizio del nascente fascismo giapponese: lo Shintō (神道), lett. la Via degli dei, che fino ad allora era stato un contenitore generico di miti e leggende che contenevano una visione panteistica del mondo, una separazione di crudo e cotto, di puro e impuro che avrebbe fatto la gioia di Levi-Strauss, una visione assolutamente a-sistemica dell’Universo, diveniva Kokka Shintō (國家), Shinto di Stato, codificato, irregimentato, canonizzato, pronto per fare da sfondo a colonne di soldati in marcia e operai in catena, futura carne da cannone in entrambi i casi.

Ecco perché l’idea di “invenzione della tradizione” si attaglia, come chiave di lettura, al periodo giapponese. Ecco perché il caso del fascismo giapponese ben si attaglia a questo discorso sulla “patria”: Come nasce? Perché nasce? Quando degenera? Perché degenera?

Una buona settimana a tutti!

Paolo
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Mario Galati
Sunday, 23 September 2018 13:47
Nonostante il prolungarsi della discussione, non credo di dover aggiungere altro a quanto ho detto in replica ad Antonio. Oltre al fatto che Barone e Visalli hanno controargomentato in buona parte anche per me, ciò potrebbe significare che, probabilmente, gli argomenti proposti da Antonio, avvalorati dalle debite citazioni, non svolgono il ruolo di superare, affrontandoli, i nodi proposti, come dovrebbe essere in una corretta dialettica, ma si limitano a riproporre tesi parallele. In tal caso, il dialogo diviene una riunione di monologhi.
Se si liquidano sbrigativamente l'appoggio di Marx ed Engels alla costituzione di stati indipendenti irlandese e polacco come un un dettaglio incidentale che non intacca minimamente la coerenza e assertivitá della "teoria generale" (della quale versione fornita contesto la correttezza), e se altrettanto si può fare con il dato storico del "socialismo in un paese solo", della formazione, anche a opera di Lenin, di uno "stato" sovietico e il determinante appoggio comunista alla decolonizzazione e all'indipendenza nazionale dei popoli colonizzati; se si può sorvolare con tanta leggerezza sugli inciampi che rappresentano almeno potenziali antinomie e aporie, non c'è discussione. Poi, possiamo anche essere d'accordo su tante singole questioni: sul razzismo come frutto della modernità capitalistica e sul nesso inscindibile colonialismo/razzismo, ecc.; ma anche sul giudizio circa il contraddittorio cosmopolitismo borghese (che non è una mera ipocrisia e incoerenza teorica della borghesia, ma una contraddizione reale tra la necessità della classe capitalistica tutta di distruggere i vincoli all'espansione del capitale, e della società individualistica atomizzata, e la necessità dei settori di capitalisti riuniti in forma "nazionale" di servirsi dello stato nella concorrenza internazionale), ma non è questo il punto.
Eros Barone ha sottolineato la necessità di non dimenticare il rapporto dialettico particolare/universale nella questione internazionalismo o cosmopolitismo; da parte mia aggiungerei che noi dobbiamo tenere più presente il momento della mediazione, sia teorica che, ovviamente, storico-sociale. Ragionare in termini di immediatezza è sbagliato. Se dopo aver giustamente teorizzato la finalità dell'estinzione dello stato (ma dopo aver anche accennato ad uno "stato comunista. V. "Critica al programma di Gotha"), Marx sostiene la formazione di stati nazionali indipendenti per irlandesi e polacchi, sicuramente non ragionava in termini di immediatezza, che, per lo più, è il modo di ragionare dei dottrinari e delle anime belle, non dei rivoluzionari.
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alessandro visalli
Sunday, 23 September 2018 02:33
Antonio, sono le due e forse è meglio andare a dormire, non dovresti prendertela, sono solo discussioni, non mi pare di averti messo contro Mario Galati, con il quale ho discusso spesso, come con Eros Barone, ho solo detto che questa volta ero d'accordo con ciò che ha scritto. Poi con altre no. Che tu sia libertario lo vedo, che tu sia anche comunista lo trovo complicato, ma naturalmente capisco (a suo tempo ho frequentato parte della letteratura che citi, e letto alcuni dei libri che mi hai gentilmente suggerito). Se ho risposto è solo perché trovo parziali (non completamente infondate, ma schematiche) le tue classificazioni così nette. Ma magari è solo il mezzo e la volontà di prevalere.
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Antonio
Sunday, 23 September 2018 02:13
Caro Visalli , ho quarantuno anni , ho studiato filosofia , sono un ricercatore e politicamente un comunista libertario . Ora , intanto che ci sono , leggo che ti sei preso la libertà di mettermi in contrapposizione frontale a Mario Galati .In realtà , su molte cose che ha scritto Mario Galati sono d’accordo . Su altre no , e ho risposto . Si chiama dialogo . Passo e chiudo . Un saluto .
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Antonio
Sunday, 23 September 2018 01:57
Rischio di diventare pedante ( prometto che poi smetto )ma , causa lunga cena , il commento di Visalli l'ho letto a pezzi ( e non ho ancora finito ) .

Visalli ,
E. J. Hobsbawm e Ranger ne “L'invenzione della tradizione” , spiegano e dimostrano come le tradizioni siano una narrazione , un’invenzione e un dispositivo di controllo .
Anderson , in “Comunità Immaginate” , oltre a spiegare come le comunità politiche , oltre le comunità di villaggio del mondo pre moderno , possano soltanto essere percipite e immaginate dagli appartenenti , dimostra come la "Nazione" ( omogeneità linguistico/culturale al di sopra e contro le comunità di villaggio pre-Stato moderno , al di sopra e contro le società segmentarie di lignaggio nel mondo extra-europeo eccetera ) è sempre costruita dallo Stato , attraverso gli "atti ufficiali" di Stato , l'istituto scolastico , la stampa , simboli patriottici ( statue , vie , piazze ec ) , e sempre grazie alla rappresentazione di un alterità più o meno minacciosa , che a sua volta anch'essa avrà subito un processo di nazionalizzazione eccetera . Su questo , aggiungo , “la Nazionalizzazione delle masse” di Mosse .
Sulla storia , lo scopo e la costruzione dei confini , che da quello che scrivi chiaramente non conosci , se vuoi ti può essere utile Sandro Mezzadra “Terra e confini. Metamorfosi di un solco” .
Sulla costruzione dei popoli , le invenzioni delle etnie , delle identità , etc Wallerstein , Balibar “Razza , Nazione , Classe” ; “L'imbroglio etnico in quattordici parole-chiave” di Gallisot , Kilani , Rivera ; Remotti “Contro l’Identità” . In questo senso credo che possa essere utile anche “Il mito delle Nazioni” di Geary
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alessandro visalli
Sunday, 23 September 2018 00:29
Caro Antonio, non so quanti anni hai, io quasi sessanta, ... nella vita è tutto questione di gradi, non è mai bianco o nero.
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alessandro visalli
Sunday, 23 September 2018 00:12
certo che quanto ad incasellare anche tu non ci vai leggero. Intendi Berger, Luckmann, "La realtà come costruzione sociale", Il Mulino, 1969 (la mia edizione), ed. or. 1966? Per capire il contesto meglio dovresti dire a che pagina, comunque si tratta di un libro un poco datato, anche se importante. Va bene, tutto quel che reifica (anche se nelle scienze umane e filosofiche il termine è andato un poco in ombra, ma ora ritorna), per definizione irrigidisce ciò che dovrebbe restare aperto. A proposito di rigidità, la tua nozione di comunità come estranea alla tradizione socialista e comunista è forzata. A meno di nominare con questo termine necessariamente un processo di reificazione e falsa coscienza. A me il tuo comunismo continua a sembrare molto più liberale che comunista (non che ci sia qualcosa di male).
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Antonio
Sunday, 23 September 2018 00:12
Mah , Visalli invece di citarmi mi interpreta . Lo facesse bene non avrei nulla da dire , ma non è così ..
Lo so che il vincolo esterno esiste , e se ne discute , ma io in realtà ho scritto questo :
“l’assenza di vincoli esterni , cioè la totale e piena sovranità di uno Stato ( cioè la possibilità di disporre dello ius ad bellum ed avere la piena autonomia su una moneta che sia di riferimento a livello mondiale , visto che tutto ciò che utilizziamo proviene da tutto il mondo ) è la dichiarazione di ogni politica aggressiva”
Il vincolo esterno c’era già negli anni settanta con il serpentone monetario e ancora prima . E oggi nemmeno gli USA o la Cina sono privi di vincoli esterni : non per un complotto , ma per i livelli di produzione raggiunti del Capitalismo che oltrepassano le capacità di controllo di un singolo Stato , pur potente che sia . L’attuale presenza di vincoli esterni di tutti gli Stati del mondo dipende dal fatto che noi due in questo momento stiamo comunicando su questo sito grazie al coltan africano , o che qualcuno si sta curando grazie ad un laser o una radiografia o con farmaci sofisticati , o sta guardando la tv satellitare , o volando , o bevendo il caffè etc.etc. ( tutti prodotti e produzioni che provengono fuori degli StatiNazione ) .
Come ci ha spiegato C.Schmitt ( ne “Il Nomos della terra ) , l’assenza di vincoli esterni per gli Stati , cioè la piena sovranità degli Stati , e’ stata possibile fino a quando è durato lo “jus pubblicum europeum” cioè grosso modo fino al congresso di Berlino ( 1885 ) , perchè gli Stati Nazione europei avevano , fuori dell’Europa , terre nullius a loro disposizione sulle quali dislocare le contraddizioni economiche e sociali . Dopo la PrimaGuerraMondiale , la forma StatoNazione inizia ad espandersi in tutto il mondo ( inventando e disegnando confini a tavolino ) , evidentemente senza la piena sovranità che potevano permettersi i primi Stati Nazione europei . Chi l'ha poi pretesa , ha compiuto inevitabilmente politiche aggressive .
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Antonio
Saturday, 22 September 2018 23:26
Rispondo a Visalli sul razzismo:
( In breve ) . Il razzismo è un’ideologia che nasce con il Moderno ( fine del mondo chiuso tolemaico , colonialismo , nascita dell’individuo eccetera eccetera ) per legittimarne gli aspetti negativi (ad esempio , appunto , l’accumulazione originaria del capitale tramite lo sfruttamento coloniale ) e per distruggerne , in chiave reazionaria , gli aspetti positivi , cioè la nascita dell’individuo ( PS : che non vuol dire individualismo : questo , se mai , è un possibile epifenomeno del Capitale ) , del soggetto , della persona . Il discorso razzista è un dispositivo attualissimo , la sua (ir)razionalità non è stata affatto sconfitta , anzi è egemone : è il discorso “fissista” , la narrazione che serve a definire , creare , stabilire e fissare la personalità del soggetto ( per finalità discriminatorie ) a prescindere dal soggetto , ma per “natura” . Il soggetto riscompare ( e con lui la sua libera emancipazione in uguale dignità ) , e la sua personalità viene fissata e incasellata per “natura” : non più ( o non solo ) dal colore della pelle , ma ad esempio dall’origine sua o dei suoi genitori ( geografica / religiosa ecc. ) . La forma che ha assunto il neorazzismo contemporaneo ( essendo la parola “razza” squalificata dalla scienza e dalla storia ) è il cosiddetto discorso identitario , alla base di ogni nazionalismo , che si fonda sulla reificazione culturalista . Riporto la spiegazione dei sociologi Berger e Luckmann :
“La reificazione è l’apprensione dei fenomeni umani come se fossero cose ; è l’apprensione dei prodotti dell’attività umana come se essi fossero qualcosa di diverso da prodotti umani – come fatti di natura . L’uomo , il produttore di un mondo , è appreso come suo prodotto , e l’attività umana come un epifenomeno di processi non umani” .
Vuol dire sclerotizzare le cosiddette Culture e trasformare le persone in automi che eseguono un programma chiamato Cultura A , Cultura B etc.. E’ ad esempio il messaggio di Salvini quando si mette le felpe Roma , Milano , Sicilia , Italia etc.. Purtroppo , come ci ha insegnato Hegel , sembra che l’uomo medio abbia un “un intelletto tabellesco” , un'irrefrenabile bisogno di incasellare . Ma , con buona pace dei neofascisti e reazionari di ogni risma ( consapevoli o meno di esserlo ) , le Culture non parlano tra loro , non discutono , non confliggono : sono le persone che lo fanno .
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Antonio
Saturday, 22 September 2018 22:41
Mettere al centro l’essere umano e la sua libera emancipazione in uguale dignità con la conseguente esclusione del dominio e della violenza , non solo accidentale , ma soprattutto strutturale , dal dominio di classe a quello di genere , vuol dire questo :
“Il comunismo come soppressione positiva della proprietà privata intesa come autoestraniazine dell’uomo, e quindi come reale appropriazione dell’essenza dell’uomo mediante l’uomo e per l’uomo; perciò come ritorno dell’uomo per sé, dell’uomo come essere sociale, cioè umano, ritorno completo fatto cosciente (…) è la vera risoluzione dell’antagonismo tra la natura e l’uomo, tra l’uomo e l’uomo, la vera risoluzione della contesa tra l’esistenza e l’essenza, tra l’oggettivizzazione e l’autoaffermazione, tra la libertà e la necessità, tra l’individuo e la specie. È la soluzione dell’enigma della storia, ed è consapevole di essere questa soluzione” ( K. Marx , Manoscritti economico-filosofici )

Il tema della comunità ( i nazionalismi sono dei comunitarismi ) è estraneo alla sinistra , che lo proietta semmai nell’avvenire , come comunismo : ed è invece un leitmotiv della destra , che lo colloca nel passato , con le conseguenti logiche escludenti che alimentano i rapporti di forza e dominio . Analogamente , il legame sociale per la sinistra è un dato storico-dialettico ( il contesto ) che va superato e trasformato in un atto di libera volontà : la solidarietà , la relazionalità coltivata e aperta ; il Bene Comune non trascende i singoli , ma è voluto da ciascuno come condizione del fiorire di tutti . Invece per la destra il legame sociale ( il Bene Comune ) è un dato da accettare come naturale ( la Comunità , la Nazione , il Mercato , la Razza , la Tradizione eccetera ) e che quindi rende i singoli passivi , esposti ad ogni manipolazione e all’isolamento , pur con l’enfasi e la retorica poste sulla Comunità , sulla Patria .

Sulle Nazioni , Marx e Lenin pensano questo :
“La borghesia ha giocato nella storia un ruolo altamente rivoluzionario(..)Con grande dispiacere dei reazionari essa ha sottratto all'industria il suo fondamento nazionale.(..) Le separazioni e gli antagonismi nazionali dei popoli vanno scomparendo sempre più già con lo sviluppo della borghesia, con la libertà di commercio, col mercato mondiale, con l'uniformità della produzione industriale e delle corrispondenti condizioni d'esistenza. Il dominio del proletariato li farà scomparire ancor di più”
( K.Marx – IlManifesto )
“Il marxismo sostituisce a ogni nazionalismo l'internazionalismo, la fusione di tutte le nazioni in una unità superiore. (...) Il proletariato non può appoggiare nessun consolidamento del nazionalismo, anzi, esso appoggia tutto ciò che favorisce la scomparsa delle differenze nazionali, il crollo delle barriere nazionali, tutto ciò che rende sempre più stretto il legame fra le nazionalità, tutto ciò che conduce alla fusione delle nazioni”
( Vladimir Lenin - L'autodecisione delle nazioni )
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alessandro visalli
Saturday, 22 September 2018 18:40
Volevo tornare sulla questione iniziale del "mettere al centro l'essere umano, l'emancipazione dell'essere umano in eguaglianza e libertà", e delle ragioni per le quali è una formula liberale, oltre che vaghissima, ma Eros Barone ha coperto benissimo il tema.
Condivido tutto ciò che ha scritto, anche le virgole.
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alessandro visalli
Saturday, 22 September 2018 18:30
Lunga discussione, mi colpiscono diverse cose: Antonio nel suo secondo intervento afferma che la ‘sinistra’ (che, immagino, sia categoria più ampia del marxismo) “mette al centro l’essere umano, l’emancipazione dell’essere umano in uguaglianza e libertà”. Di per sé questa definizione è troppo vaga, non demarcando neppure il cristianesimo, per dire, ma contiene una direzione, qualcosa che è per me molto chiaro e che provo per ora ad appuntare così: si tratta di una definizione liberale. Torniamo con migliori strumenti dopo, Antonio continua dandogli un sapore anarcoliberale (nella versione del poststrutturalismo francese) quando dice “contro le logiche strutturali di dominio e di esclusione”, e precisa “che possono andare da quelle di classe a quelle di genere”. Al centro ‘l’essere umano’ (al singolare e preso per sé) e “logiche strutturali” lavorano per delegittimare il vincolo sociale e, nella linea aperta da Genealogia della Morale denunciare ogni rivendicazione collettiva come tentativo di appropriarsi di un potere che dovrebbe restare all’uomo (solitario). Di qui deriva, ma è solo una conseguenza già contenuta nel testo precedente, la conclusione che la Patria a sinistra può essere usata solo come mezzo provvisorio e non reificata (sarei anche d’accordo, ma non nel senso che non esiste alcun ‘noi’).
A questo avvio Castaldo aggiunge l’incomprensione totale della situazione di semi-colonizzazione che l’Italia in quanto potenza capitalista subalterna sta subendo, venendo per lo più trattata da ‘campagna’ da parte della ‘città’ rappresentata dal blocco produttivo nordico che interconnette con centro nell’ex Germania dell’ovest parte dell’est, il suo nord e parte della regione di Parigi e della Lombardia. Ma questa differenza capitale nell’analisi di fase (su cui buona parte della sinistra è enormemente indietro, anche per mancanza di informazioni e per l’incapacità di superare un bias positivo verso tutto ciò che è sopranazionale o lo sembra) andrà lasciata da parte anche se è decisiva.
Risponde Galati che non bisogna ragionare in termini astratti (come Antonio continuerà a fare) ma nei termini concreti “che la storia ci pone davanti” (certo poi bisogna anche vederli). La sua diagnosi, che Antonio rigetterà senza addurre argomenti o fatti, è che, cito: “Lenin ragionava in questi termini quando metteva in guardia e respingeva la parola d'ordine degli Stati Uniti d'Europa, che, nei termini di allora, significava l'unificazione del potere borghese in termini europei, contro i lavoratori d'Europa. Esattamente come avviene oggi con l'UE. Lo stesso Marx ha appoggiato le lotte di indipendenza nazionale quando erano progressive e liberatorie, anche per i lavoratori, non oppressive e nazionaliste reazionarie”. La domanda che bisogna farsi è se l’attuale mondializzazione (che fa seguito a quella ottocentesca avviata dal 1870 circa, nella quale Marx visse), intervenendo a connettere in modo subalterno (allora all’Inghilterra, ora al sistema di centri dominanti incentrato sugli USA di cui sono affidatari secondari Germania e Francia, da una parte, e Giappone, dall’altra) paesi nei quali le condizioni arretrate feudali che Marx pensava andassero spezzate (pensiero con una sua evoluzione interna, ma lasciamo correre) è la stessa. Se, cioè, come dice giustamente Galati, sia progressiva. Questa avviene, infatti, dopo una lunga fase di liberazione, di rafforzamento e di decolonizzazione, ed interviene specificamente per spezzarla e ricondurla sotto controllo. Questa globalizzazione, insomma, ha segno opposto. Dunque: “La domanda da porsi, sempre, è: l'UE, la globalizzazione, costituiscono un terreno più favorevole, seppure a lungo andare, per la lotta dei lavoratori, oppure più sfavorevole? Solo rispondendo a questa domanda, come faceva Lenin, si può impostare il giusto atteggiamento”.
Antonio nel suo terzo intervento, a questo punto, mostra il suo background schierandosi apertamente contro la tradizione del PCI di Togliatti, semplicisticamente qualificato come “stalinista”. Compiendo una ricostruzione storica del tutto avulsa dai rapporti di forza (sarebbe il caso di ricordare a qualche distratto i Patti di Jalta e la presenza delle forze armate americane nella penisola, all’epoca tutt’altro che a fare una vacanza), le “potenzialità rivoluzionarie del dopoguerra” erano completamente prive di possibilità. L’unica cosa che i comunisti avrebbero potuto fare era farsi massacrare ed uscire del tutto dalla storia.
Ancora, Lorenzo nel suo intervento, ammette che rispondere alla domanda centrale di Galati è “abbastanza complicato” (a me sembra invece del tutto evidente, letteralmente davanti ai nostri occhi, ma magari bisogna aver letto i Trattati e qualche articolo che non sia del 1800) ma ne deriva la sorprendente conclusione che allora meglio non porsi il problema perché la vera domanda è se si può creare la volontà di lotta. Torna qui, in forma assolutamente chiaro l’individualismo metodologico che informa molte posizioni (normale in persone probabilmente cresciute in anni in cui tutto parla solo di individualismo), ciò che viene prima è la volontà, ciò che viene dopo è la trasformazione dei rapporti.
Galati, infatti, nell’intervento successivo qualifica questa posizione come “volontarismo e non marxismo”.
Infine Antonio, nel suo quarto intervento, critica l’esistenza del “cosiddetto vincolo esterno” (di cui si parla da decenni, non so dove vivesse) e lo chiama “racconto di fantasia”. Per contrastarlo utilizza un antico trucco retorico, estende il concetto all’assoluto contrario e lo rivende come aggressività (della serie che se ho una totale mancanza di autonomia, sono pienamente vincolato, allora per questo sarò pacifico, il che potrebbe anche essere). Quindi si esercita in una vertiginosa pseudo ricostruzione storica, affermando il meraviglioso controfattuale che tutti gli Stati sono stati inventati da 150 anni, e che quindi sono “epifenomeno del Mercato Mondiale” (citando i poveretti Hobsbawm, e Anderson che non si sognavano di dire una simile castroneria). A dimostrazione di questa tesi a dir poco sommaria cita il fatto che il trasferimento del valore (non del plusvalore, ma di quella sua trasformazione in valore astratto compiuta dalla monetizzazione ed inserimento nel circuito di valorizzazione finanziario) oltrepassa gli “inventati” confini nazionali. Traendo da questa banale considerazione la conclusione che tutti i borghesi vivono di tutti i salariati (facendo una minestra di vacche di vario colore nella notte). La conclusione è un meraviglioso esempio di astrazione, se questo computer è fatto in Tailandia, allora non ha senso che io operi in Italia. Bisogna agire ad un livello che non abbiamo ancora scoperto. Per “emancipare i portatori di lavoro vivo e democratizzare la potenziale portata progressista”, ovviamente.
Ha buon gioco Galati, a questo punto, a sottolineare da derivazione di questi toni dall’anarchismo (io direi dall’anarcoliberalismo) e non dal marxismo. E la lotta di classe in qualche cosa di fantasmatico, condotto molecolarmente nei singoli rapporti individuali (più in senso di lotta per diritti che per emancipazione del ‘noi sociale’ collettivo), forse fabbrica per fabbrica (che in questo caso potrebbe significare anche tastiera per tastiera) e non attraverso il faticoso lavoro di organizzazione, mediazione, confronto e attraversamento delle istituzioni, contrapposizione, scontro. Tutto ciò superfluo alla lotta di classe? Non stupisce non ci sia luogo. Più volte Negri scrive nel suo libro più famoso “Impero”, che in attesa della nuova orda nomade, di barbari che dovranno evacuare l’Impero non ha una applicazione concreta, e del resto all’avvio chiarisce l’obiettivo di unire liberalismo e socialismo (cercando di porsi, non si sa come, “allo stesso livello della sua totalità”, dell’impero che è la “fine della storia”). Stiamo un attimo sul punto, nella sua opera citata Hardt e Negri sostengono che si sta materializzando “l’Impero”, che questo è determinato dalla “irresistibile e irreversibile globalizzazione” e che genera ‘una nuova forma di sovranità’. Questa nuova forma, che è l’impero, comporta l’insorgere di organismi sovranazionali e nazionali tutti uniti da “un’unica logica di potere”. Che questa logica “non ha nulla a che vedere con l’imperialismo” e non ha alcun centro, si tratta di un apparato decentralizzato e deterritorializzante. Nasce anche grazie alla buona costituzione degli Stati Uniti, che sono nativamente post-statuali, per così dire, e determina “un ordine che sospendendo la storia, cristallizza l’ordine attuale per l’eternità” (ivi, p.16), cioè si trova “al di fuori della storia o al suo fine”. Allora che si fa se si è alla fine della storia, e per definizione nulla può accadere dopo? Che “all’interno e contro” si deve riorganizzare e riordinare un “controimpero”. Ma un “contro impero” per il quale “non abbiamo nessun modello” (p.380) e in cui “i conflitti sociali che costituiscono il politico si fronteggiano direttamente senza alcuna mediazione di sorta”. E’ infatti la “moltitudine” ad essere caratterizzata da essere direttamente e senza alcuna mediazione contro l’Impero. Un non-soggetto che incorpora una teleologia “teurgica”, che usa tecnologia e produzione per la sua gioia. Nozioni che sarebbero riprese “dalla costituzione degli Stati Uniti, … cioè le sue nozioni di una sconfinata frontiera della libertà e le sue definizioni di una spazialità e temporalità aperte, esaltate dal potere costituente”.
Ma non c’è solo l’assenza di luogo, in Negri c’è anche un’altra assenza: la rappresentazione dei bisogni umani degli sfruttati. Il militante non si pone il problema di rappresentare, ma di costituire. Conosce solo un “dentro”.
Cosa risponde, comunque, Antonio nella sua quinta replica? Che al tempo di Marx la globalizzazione non c’era (valutazione storica controversa), che il proletariato in Irlanda sarebbe solo formato da immigrati, cje i capitalisti, soprattutto non sono cosmopoliti nel loro ruolo economico e sociale perché “hanno bisogno dei confini” per sfruttare delle differenze. Cioè “razzismo, capitalismo e frontiere” procedono in simbiosi. Quando leggo queste frasi resto in genere a bocca aperta, è incredibile come il pensiero deduttivo possa catturare la mente, neutralizzando non solo l’esperienza ma anche la memoria. Immagino che Antonio, senza necessariamente avere una biblioteca storica, abbia fatto scuole medie e liceo. Le frontiere esistevano prima del capitalismo, più o meno dal neolitico in poi gradualmente si consolidano e comunque dai grandi imperi, oltre sei-settemila anni fa abbiamo frontiere, forme statuali di tutti i generi, nazioni più o meno multietniche, certo anche razzismo, ma sicuramente non capitalismo. L’uomo ha sempre costruito forme politiche e queste hanno sempre definito un dentro ed un fuori. Poi, magari, la storia è finita e con essa il ‘fuori’, ma mi pare che la profezia fosse leggermente in anticipo.
La frase, per terminare “può anche essere che un democratico e partecipato potere sovranazionale capace di tenere a bada gli spiriti animali del mercato sia un’illusione , ma che singole entità statuali , in competizione tra loro, non siano in grado di farlo è sicuro”, con la sua struttura -può essere/è sicuro- è lo snodo. Credo più probabile il contrario, è sicuro che la storia non è ancora finita, e che un potere democratico e partecipato esteso all’intero mondo (Arabia Saudita, Cina, Corea del Nord, Stati Uniti, inclusi) non sia possibile, è difficilissimo ma possibile che, dato che una volta c’era (perfettibile, ma c’era) si possa ottenere in qualche entità statuale. Ad esempio in quella in cui viviamo.
Scusate l'enorme lunghezza.
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Eros Barone
Saturday, 22 September 2018 17:50
Non avendo avuto in questi giorni la possibilità di connettermi, dopo aver letto i diversi interventi provo ad inserirmi in questo dibattito sottolineando un aspetto che merita attenzione: il ruolo delle culture (da cui deriva quello della nazione). Orbene, a mano a mano che la globalizzazione imperialistica si è dispiegata, la contraddizione tra capitale e Stato si è andata palesando sia sul terreno delle politiche economiche interne sia nel crescente contrasto tra le ambizioni geopolitiche delle classi dirigenti dei singoli Stati e gli interessi del capitale multinazionale. Tali classi (perlomeno quelle che meritano di essere definite dirigenti e non serventi) mirano a consolidare il proprio potere, favorendo lo sviluppo economico necessario per garantire la coesione sociale; il capitale globale, invece, ha mirato finora ad estendere i processi di liberalizzazione e di competizione internazionale, generando così una tendenza alla depressione produttiva e all’impoverimento delle classi lavoratrici nei paesi avanzati, che contribuisce a ''corporativizzare' il conflitto sociale ed esalta la funzione dello Stato quale “guardiano notturno”. È pur vero che le funzioni della cosiddetta ‘governance’ globale sono state adempiute con una certa efficienza dagli Stati Uniti fin verso la metà degli anni ’90 del secolo scorso; dopodiché ll’accelerazione del processo di globalizzazione, accentuando la concorrenza dei paesi emergenti nei confronti dei paesi avanzati, ha ridotto la capacità di questi ultimi nel governare il mondo e ha determinato, con il risorgere delle ambizioni tedesche, da una parte, e ll’emergere di quelle cinesi, dall’altra, un’acutizzazione delle rivalità inter-statali. Sono questi i processi che hanno contribuito all’acuirsi della grande crisi in corso, ponendo in essere quel circolo di ‘rivalità-crisi-rivalità’ che o si risolve nella costruzione di un nuovo stabile assetto delle relazioni tra le grandi potenze o è destinato a sfociare nella guerra. A questo proposito, l’ipotesi kautskiana dell’ultra-imperialismo, pur riconosciuta teoricamente da Lenin come tendenza di lunghissimo periodo, è stata da lui altrettanto giustamente criticata nel suo famoso saggio in quanto apologetica e tendente ad occultare il carattere iinsanabile delle contraddizioni inter-imperialistiche.
Si può dunque sottoscrivere, almeno in una certa misura, quanto ha rilevato Immanuel Wallerstein: “La contraddizione politica fondamentale del capitalismo in tutta la sua storia è che i capitalisti hanno un interesse politico comune in quanto c’è una lotta di classe mondiale in corso. Allo stesso tempo tutti i capitalisti sono rivali di tutti gli altri capitalisti […] Siamo entrati in un mondo caotico […] Questa situazione di caos continuerà per i prossimi venti o trenta anni. Nessuno la controlla, tanto meno il governo degli Stati Uniti. Il quale è alla deriva in una congiuntura che cerca di gestire ovunque ma che è incapace di gestire.”
In questa situazione di multilateralismo caotico, le culture “reincorporano” l’economico, si "mangiano" anche ll’autonomia della politica. Come nei nazionalismi del passato, proprio il “luogo” (per nulla in contrapposizione con gli “spazi”, tant’è vero che si parla di “glocal”) diventa, nei populismi, il cemento interclassista che impedisce il conflitto sociale. Dal chiarimento teorico sul rapporto
base-sovrastrutture-pratiche, su cui da tempo insisto, è possibile dedurre che le culture definiscono l’àmbito delle soggettività sociali: un àmbito che, se per un verso è più ampio di quello dell’ideologia ma più ridotto di quello della società, è per un altro verso più impalpabile di quello dell’economia ma più tangibile di quello della teoria. Da questo punto di vista, è opportuno osservare che il
post-modernismo della cultura borghese di sinistra non è universalista ma cosmopolita, il che è cosa ‘toto coelo’ differente dall’internazionalismo. Infatti, mentre per l’internazionalismo operaio l’universale è compatibile col nazionale, talché la cultura universale è una ‘summa’ delle opere migliori delle culture nazionali, la cultura cosmopolita prescinde dai confini nazionali né più né meno di come fanno i soldi e le imprese transnazionali. Ma vi è di più: il cosmopolitismo appartiene alla cultura del capitale globale, mentre l’internazionalismo marxista è una forma di resistenza politica a questo mondo. Vi è un passo dei “Grundrisse” che merita di essere citato, poiché in esso Marx definisce sinteticamente il comunismo come “la forma della comunità”; ebbene, se è vero che questa “forma della comunità” è lo scopo e l’internazionalismo proletario (riassumibile nella parola d’ordine che conclude il “Manifesto del partito comunista”: “Proletari di tutti i Paesi, unitevi!”) è il mezzo, è altrettanto vero che, essendo i proletari sempre legati a un ‘luogo’, a differenza del capitale che è un ‘perpetuum mobile’, sia lo scopo che il mezzo possono essere raggiunti solo in termini di locale e di particolare. Ciò comporta che il movimento operaio impari a coniugare il particolare e l’universale esattamente come ha tentato di fare la borghesia con lo Stato-nazione, ma in modo tale che il recupero del terreno fondativo dello Stato-nazionale - terreno su cui il movimento operaio è più forte - costituisca la ‘conditio sine qua non’ del suo superamento verso la ‘forma della comunità’, ossia verso la realizzazione dell’universalità a livello della specificità individuale. Concludendo su questo punto, è possibile affermare che, se il cosmopolitismo postmoderno è un particolarismo universalizzato, la visione del socialismo è quella di un universalismo diventato particolaristico, vale a dire di un universalismo per cui la molteplicità delle diverse culture rappresenta la necessaria premessa di una cultura universale. Si potrebbe obiettare, magari appellandosi alla legge di Hume, che ciò che per il capitalismo è un fatto diventa per il comunismo un valore, ma a questo riguardo occorre sottolineare che Marx, ponendosi dal punto di vista del materialismo, respinge l’idea di ‘astrarre’ l’universalità dalle differenze, così come l’idea di scindere il “citoyen” dal “bourgeois” o il valore di scambio dal valore d’uso. In breve, per il pensiero comunista l’universalità è insita nel locale, non alternativa ad esso. Dunque, risulta priva di senso e del tutto velleitaria la parola d’ordine dell’“unità transnazionale”, che alcuni marxisti ripropongono, in un’eurozona dove sono presenti livelli salariali fortemente diversificati a causa delle politiche di ‘dumping sociale’ perseguite dai Paesi economicamente più forti (‘in primis’ dalla Germania). In secondo luogo, sono ormai evidenti, nella loro negatività, le conseguenze derivanti per lo Stato italiano e per il movimento operaio del nostro Paese dalla legge dello sviluppo economico e politico ineguale del capitalismo, che Lenin ha enunciato demistificando, alla luce di tale legge, il carattere illusorio, ad un tempo utopistico e reazionario, della parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa. In terzo luogo, riprendendo la giusta osservazione di Paolo Selmi sullo Stato nazionale come mezzo della lotta di classe, va riaffermata, anche alla luce delle osservazioni teoriche richiamate nella premessa, la imprescindibilità della dimensione 'nazionale' per qualsiasi strategia di avanzata verso il socialismo che voglia essere praticabile nella congiuntura storica attuale.
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Antonio
Saturday, 22 September 2018 13:34
Mario Galati , non capisco l’utilità di esempi decontestualizzati . C’era il proletariato nell’Irlanda trattata da Marx ? Certo che si . L’interdipendenza della produzione e del mercato mondiale era simile a quella attuale ? No . Esiste oggi un proletariato marxiano in Irlanda ? Per saperlo , ripeto , occorre indagare le merci di qualsiasi tipo , anche immateriali , utilizzate dagli irlandesi ; entrare poi nel “segreto laboratorio della produzione” e scoprire che la forza lavoro che produce quei beni , e da cui il borghese irlandese sottrae plus valore , non risiede in Irlanda o , se vi risiede , probabilmente non ha diritto di cittadinanza . Ancora : gli Stati Uniti d’Europa criticati , giustamente ,da Lenin nel 1915 sono inseriti nello stesso contesto della produzione e del mercato mondiale attuale ? E la ratio da cui muovono le critiche di Lenin è la stessa degli odierni sovranisti ? Ma nemmeno per sogno . Soprattutto questi esempi contingenti e decontestualizzati nulla tolgono alla teoria generale di Marx e Lenin sugli Stati Nazione , che è quella che ho citato in un commento iniziale . Poi , un’altra questione , che in fondo riguarda lo stesso tema . Qualcuno potrà esserlo personalmente e privatamente , e magari voler anche apparire tale in qualità di filantropo o quant’altro , ma nel loro ruolo economico e sociale , nel senso marxiano di “charaktermaske” , i capitalisti non sono veramente cosmopoliti . Hanno bisogno dei confini perché assicurano quell’asimmetria che è l’humus della speculazione , della rendita, dei profitti e dello sfruttamento . Il capitale è un rapporto sociale che si fonda sulla costruzione della disuguale dignità degli esseri umani , per legittimarne la messa al lavoro . Razzismo , Capitalismo e Frontiere nascono e procedono in simbiosi . E’ per questo che la forza lavoro non ha la stessa libertà legale di movimento concessa al capitale ( se l’avesse , il rapporto dialettico tra capitale e lavoro sarebbe a favore del secondo ) . Questo semplicemente per ribadire che , oggi , i sovranisti che tentano di avvalersi anche di Marx , in realtà lo strumentalizzano , lo storpiano , lo mistificano , senza vergogna .
Con tutto ciò non voglio sostenere che occorra eludere le sovrastrutture istituzionali ( che per altro non era nemmeno la tesi di “Operai e Capitale” , dove il ragionamento di Tronti si svolge su tutt’altro piano ; stesso discorso per Derrida , Deleuze o chi altro venga in mente ) . E può anche essere che un democratico e partecipato potere sovranazionale capace di tenere a bada gli spiriti animali del mercato sia un’illusione , ma che singole entità statuali , in competizione tra loro , non siano in grado di farlo è sicuro . A meno che queste entità statuali non scelgano l’autarchia vera , cioè cibarsi di erba , comunicare con i piccioni viaggiatori e spostarsi a cavallo , tutti rigorosamente autoctoni ovviamente . Il capitale è intrinsecamente mondiale , perché il capitale , anche quello volkisch dei sovranisti , richiede tutta la forza lavoro al mondo di cui puo` disporre , dato che il lavoro produce i beni tramite i quali si produce, si realizza e si accumula piu` capitale. Il nazionalismo ha la funzione di alimentare i rapporti di forza , le asimmetrie del capitale , delocalizzare le contraddizioni sociali fuori dai confini della cittadinanza , costruire il Diverso , reificare le Culture , allevare imbecilli , annullare ben altre libertà che quelle del capitale , alimentare ad libitum lo sfruttamento .
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Mario Galati
Friday, 21 September 2018 21:16
Avrei detto la stessa cosa del commento di Paolo Selmi, cioè di aver espresso meglio quello che ho cercato di dire io, se non fosse che quando lo ha postato io stavo scrivendo il mio e non l'avevo letto (a proposito, leggerò come un unico saggio i suoi appunti, quando li avrà conclusi).
Sicuramente Antonio ha ragione nel dire che i motivi per cui la lotta di classe dei lavoratori langue non può essere attribuita al vincolo esterno. Ma non vedere che l'UE è uno strumento della lotta di classe dei capitalisti contro i lavoratori è da ciechi. Ripeto, occorre leggere il Lenin de "Sulla parola d'ordine degli Stati Uniti d'Europa", a meno di giudicare Lenin un non marxista. Farebbe bene anche leggere la critica di Engels al panslavismo, al nazionalismo panslavista. Engels sosteneva che l'ideologia panslavista tendeva a consegnare i lavoratori all'ideologia e al dominio reazionario zarista. Meglio, quindi che gli slavi dispersi negli altri stati vi rimanessero. Ma Engels, insieme a Marx, prese decisa posizione a favore dell'indipendenza polacca e irlandese. Soprattutto, l'indipendenza irlandese era connessa anche alla liberazione di classe e alla rivoluzione socialista. Come mai Marx ed Engels erano a favore di uno stato indipendente polacco e irlandese e non ne avevano orrore, visto che di stati "sovrani" e battenti moneta si trattava?
Ma la sovrastruttura istituzionale, l'organizzazione istituzionale, è un livello superfluo ed estraneo alla lotta di classe? Ma cos'è questa lotta di classe, solo il puro rapporto salario/profitto? Il solo livello è la fabbrica, come insinuato dagli operaisti italiani (Tronti, ecc.)? Ma che marxismo è quello che concepisce questo rapporto meccanico ed unilaterale tra struttura e sovrastruttura?
Le considerazioni che fa Antonio sullo stato appartengono più alla tradizione anarchica che al marxismo.
Cosicché, lo stato sovietico, del cosiddetto socialismo reale, lo stato cubano, ecc., poiché stati sovrani, battenti moneta, erano organizzazioni aggressive e imperialiste e votate all'estrazione di plusvalore? Cuba è questo? Un braccio del capitalismo? Come il "traditore", fascista e servo dei padroni Togliatti? Qui non ci troviamo più nel campo della legittima e utile critica agli errori, alle posizioni sbagliate e via dicendo, ma nel campo del grottesco.
Lo ripeto, ragionare per sillogismi deduttivi conduce nel grottesco.
E in ogni caso, la questione dello stato nella dottrina marxista non può essere ridotta a questi sillogismi astratti e a qualche formuletta da applicare ad ogni situazione concreta.
Viene da sorridere al pensare che, mentre i capitalisti "cosmopoliti e contrari alle frontiere, one world, utilizzano i loro stati e le loro organizzazioni, più forti che mai, molti "rivoluzionari" di sinistra favoleggiano di chissà quali lotte di classe mondiali, senza indicarne concretamente alcuna forma (tranne le moltitudini negriane del capitale cognitivo, se vi sta bene) e in una situazione nella quale è difficile anche un'organizzazione di quartiere.
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Antonio
Friday, 21 September 2018 19:49
Pur vedendone la buona fede , non capisco chi incoraggia un approccio marxiano e materialista , ma poi denuncia come primo ostacolo da superare il cosiddetto “vincolo esterno” dello Stato. Come se , ad esempio , San Marino o il Belgio avessero le rispettive borghesie , o al limite borghesie compradore , che estrapolano plus valore dai rispettivi proletari ; ma il “vincolo esterno” impedisce la lotta di classe dei proletari sanmarinesi e belgi . Non ci vedo alcun approccio marxiano e materialista , ma un racconto di fantasia e nazionalismo metodologico. Un approccio marxiano e materialista non solo dovrebbe sapere che l’assenza di vincoli esterni , cioè la totale e piena sovranità di uno Stato ( cioè la possibilità di disporre dello ius ad bellum ed avere la piena autonomia su una moneta che sia di riferimento a livello mondiale , visto che tutto ciò che utilizziamo proviene da tutto il mondo ) è la dichiarazione di ogni politica aggressiva ; non solo dovrebbe sapere che gli Stati Nazione , tutti sorti nell’ultimo secolo e mezzo , sono un epifenomeno del Mercato Mondiale , epifenomeno poi reificato dai nazionalisti che ne hanno poi inventato radici e tradizioni per divedere e controllare il campo del lavoro ( E. J. Hobsbawm , “L'invenzione della tradizione” ; Anderson , “Comunità Immaginate” ecc.ecc. ) ; non solo dovrebbe sapere che il trasferimento del plusvalore oltrepassa gli inventati confini nazionali , non per la corruzione di qualche politico ma per le intrinseche caratteristiche del capitale , che fa sì che molti borghesi si dividano il plusvalore soprattutto di forza lavoro che non risiede nel loro stesso statonazione o , quando vi risiede , di solito non ha diritto di cittadinanza . Ma soprattutto dovrebbe banalmente interrogarsi sul pc o portatile o smartphone grazie al quale ( o per colpa del quale ) legge queste righe ( come su tutto il resto che lo circonda : che vede , che utilizza o che pensa , materiale o immateriale che sia ) e domandarsi come e da dove vengono ( quale forza lavoro , quali sapero , quali materie prime sono state mercificate e sfruttate per produrli : vi giuro che nessuna di loro è “nazionale” ) e a che livello agire per emanciparne i portatori del loro lavoro vivo e democratizzarne la potenziale portata progressista . Davvero pensate che nel 2018 il livello sia quello della “Patria” ?
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Paolo Selmi
Friday, 21 September 2018 16:18
Mario grazie di aver espresso in maniera compiuta concetti che io non sono riuscito a enunciare che in maniera sommaria. Aggiungo un dato. Noi non siamo abituati a vivere in uno "Stato multinazionale": Jugoslavia, URSS, Nigeria, India, persino Cina se non avesse ridotto tutto a uno sciovinismo Han che ha appiattito tutto, persino tre fusi orari ridotti a uno. Ma anche nel caso cinese, basta prendere in mano una banconota per vedere 中国人民银行 Banca Popolare di Cina riprodotto in altre QUATTRO lingue (in piccolo piccolo, ma ci sono...) + traslitterazione in segni latini.

Mio nonno mi ricordo ancora della sua sorpresa, viva ancora dopo decenni, con cui mi raccontava dei minareti vicino ai campanili in Jugoslavia durante la guerra, il muezzin che apriva la giornata e la chiudeva, e le campane nel mezzo. Gli stessi profughi del Caucaso che mi hanno insegnato i primi rudimenti di russo, erano musulmani e cristiani, oppure, per etnia, armeni, ceceni, ossetini, azeri sunniti, azeri sciiti, tutti sotto la stessa bandiera fino a pochi anni prima. Quella "patria" a cui hanno sacrificato milioni di vite (VENTI, che nessuno ricorda nelle nostre celebrazioni). L'Africa poi, con Stati multinazionali praticamente ovunque... non ne parliamo. Cosa intende un congolese per "patria"? Che ragioni "patriottico-nazionali" c'erano di dividere il Nord dal Sud del Sudan?
Capiamo allora che la "patria" in un contesto multinazionale assume anche una valenza diversa. Diversa da quella con cui noi la intendiamo. Come tutte le sovrastrutture.
Ciao!
paolo
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Mario Galati
Friday, 21 September 2018 15:32
Mi sembra che alcuni continuino a scantonare dalle domande essenziali e continuano a dire cose giuste ma che, avulse dalla situazione concreta, diventando dottrinali, come osserva Visalli. Ma voi, pensate che si possa uscire dall'UE da sinistra, oppure no? E uscire da sinistra significa, ovviamente, non consegnarsi al sovranismo della borghesia nazionale non mercantilista e alla piccola borghesia. Pensate che non sia possibile una politica autonoma di sinistra? Quindi, non ci resta che la passività tra i contendenti sovranisti e globalisti.
Il vincolo esterno, come osserva Visalli, non conta nulla, è un frutto dell'immaginazione, dunque. Conta la "volontà", non il terreno concreto di lotta, per qualcuno. Questo è volontarismo, non marxismo.
Pensate che il movimento dei lavoratori e dei popoli sfruttati non abbia nulla da perdere e tutto da guadagnare dal libero movimento dei capitali? Ogni critica a tutto ciò può provenire solo dal fronte reazionario sovranista, piccolo borghese e comunitarista? Tutto ciò quando dietro non abbiamo il mondo feudale e arcaico del resto del mondo, ma il movimento dei lavoratori, l'esperienza socialista su di un piano planetario e la decolonizzazione.
Se fosse stato per la seconda internazionale, i bolscevichi non avrebbero mai fatto la rivoluzione. Prima avrebbe dovuto svilupparsi il capitalismo in Russia.
Quando Marx assegnava un ruolo positivo alla mondializzazione capitalistica, non predicava certo la passività ai popoli oppressi e colonizzati. Marx constatava il ruolo dell'espansione capitalistica, distruttrice dei rapporti feudali e arcaici e preparatrice delle condizioni per il passaggio al socialismo; ne dava un giudizio positivo sul piano storico, ma non pensava ad un processo che dovesse avvenire senza lotte e contrasti, che non scaturisse da un processo dialettico. Se fosse stato così, avrebbe dovuto suggerire ai popoli colonizzati di gettare la spugna e di sottomettersi. In una nota di Gramsci su Labriola si trova la giusta interpretazione della dialettica storica, contro ogni determinismo adialettico.
Io non sono un no global, penso di essere un marxista. Non sono certamente per le patrie, le nazioni, il localismo, nel loro significato reazionario. Anzi, penso che anche questa globalizzazione, nata come terreno di libera espansione del capitale, reazione all'avanzata del movimento dei lavoratori e riorganizzazione del neocolonialismo, abbia avuto, suo malgrado anche un ruolo positivo: miliardi di persone (soprattutto Cina, poi India, ecc.) pretendono di partecipare alla spartizione della torta mondiale e sono anche attrezzati per farlo. È vero, c'è anche l'aspetto progressivo descritto da Marx dell'espansione capitalistica (e mi meraviglio che tanti sostenitori di sinistra della positività dell'espansione capitalistica nel senso indicato da Marx, poi sono tra i critici più severi del "capitalismo" cinese. Non è un retaggio del colonialismo, celato dietro un intransigente anticapitalismo?), ma la situazione attuale non è quella dell'Ottocento, come ho scritto nel commento precedente. Non si può continuare a rimasticare i giusti giudizi di Marx facendo finta di niente.
Quanto alla questione dell'identità, della patria, delle radici, del suolo e del sangue posta da De Marti: l'appartenenza di sangue è intrinsecamente reazionaria, non la possiamo accettare (anche la realtà dei legami biologici familiari diviene reazionaria se sfocia nel familismo). Il suolo, la patria e le radici possono avere anche una valenza non reazionaria, ma emotiva e di identità, quando non interferiscono con il necessario universalismo e l'unità dei lavoratori e del genere umano. Questo universalismo non significa piattezza uniforme di una identità unica, ma varietà nell'uguaglianza dei produttori associati che governano autonomamente la loro vita.
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Paolo Selmi
Friday, 21 September 2018 15:07
Ciao a tutti,
Aggiungo un contributo breve su un aspetto che finora non è stato trattato.
Da storico di quel periodo ho ancora la mente abbastanza fresca per ricordarmi che il Komintern, in Cina, nel corso degli anni Venti e fino a metà dei Trenta, cambiò diverse volte idea sulla cosiddetta “questione nazionale”, sul ruolo del Guomindang (GMD), sul ruolo dei comunisti DENTRO il GMD, poi fuori, poi apertamente contro, poi di nuovo in alleanza (Dimitrov sul cosiddetto “fronte unito” antifascista).
Opportunismo? NO, proprio, mi sento di scriverlo a caratteri cubitali. L’idea, la visione strategica, è quella di fare la rivoluzione.
Teorie sui tempi della rivoluzione si sprecano: c’è chi sostiene che possa essere fatta subito e dai soli operai, chi sostiene che prima occorra passare dal via, da una borghesia nazionale fatta e finita, da un capitalismo che crei i presupposti per la successiva transizione al socialismo. A questi argomenti si intrecciano la questione dell’unità e dell’indipendenza nazionale, ovvero la lotta contro i signori della guerra e le potenze straniere. Questioni molto complesse si legano tra di loro, entro il comune denominatore della ricerca di una via di salvezza allo sfascio generale.
Qual è la “ricetta” dei comunisti? La classe operaia sono quattro gatti, rispetto ai contadini che sentono più prossime le triadi, e le società segrete in generale, al partito, il lumpenproletariat non è nemmeno considerato dai teorici ufficiali. In questa situazione il Komintern cerca referenti, chiavi di interpretazione, bandoli di matasse intricatissime. Le analogie con la situazione attuale post-industriale di sbando e disgregazione sociale, sono più forti di quanto si possa pensare.
La patria, alla fine, è parte della strategia di unità nazionale approvata dal Komintern. Il PCC vince perché in grado di dare risposta in chiave nazionale, perché “senza il PCC non c’è la Nuova Cina” (没有共产党就没有新中国). “Patria o muerte”, come ricordavano i compagni in precedenza. Oggi come allora, la patria come mezzo, non come fine, può fungere da collante. La patria come mezzo è il poster “La Madrepatria chiama” (Родина-мать зовёт del giugno 1941 https://ru.wikipedia.org/wiki/%D0%A0%D0%BE%D0%B4%D0%B8%D0%BD%D0%B0-%D0%BC%D0%B0%D1%82%D1%8C_%D0%B7%D0%BE%D0%B2%D1%91%D1%82!), è “Guerra sacra” (Священная война, sic! Lett. “La guerra di popolo è una guerra santa”, https://www.youtube.com/watch?v=jAoekwnj8f0), canzone peraltro che recupera musica e ritornello da una canzone di cinquant’anni prima, quindi in pieno contesto zaristico. La patria come elemento di un mito fondativo, elemento, mezzo, non fine, sottofondo alle lotte operaie e contadine contro il capitale, nazionale e internazionale, elemento distintivo in chiave antimperialistica che si ferma sulla soglia dell’internazionalismo di classe, orgoglio di una propria specificità, di un proprio modo di essere, di stare al mondo, che non si scontra ma si incontra con altri modi di essere e stare al mondo, in una prospettiva di solidarietà internazionalistica fra eguali, liberi, fratelli.
Retorica? Certo, come è retorico il generico “amor di patria” o “Dio, Patria, Famiglia”, come è retorico dare sostanza, conferire un ruolo cardine, a una sovrastruttura che nella storia passa decenni e secoli a restare sommersa, per poi emergere in precisi momenti, guarda caso, di crisi profonda. Infatti, da qui allo sciovinismo il passo è breve. Basta veramente poco. Se si sceglie di “buttarla sul patriottismo”, lo sforzo di vigilanza, di attenzione costante su ciò che si sta andando a evocare, onde evitare che degeneri, deve essere maggiore. Ma più ci penso, e più mi rendo conto che non è “roba nostra”, farina del nostro sacco. Un mezzo, non un fine. Scusate l’intromissione e buon fine settimana a tutti!
Ciao
Paolo
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Mor
Friday, 21 September 2018 14:13
Oggi i proletari marxiani ( chi non possiede nulla , tranne la propria forza lavoro ) , pur essendo la maggioranza della popolazione mondiale , sono fuori dagli ex Stati del Primo Mondo come l'Italia o , quando vivono nel loro territorio , sono privi dei diritti di cittadinanza .

Con tutte le critiche che si devono fare a questa Europa , chi propone politiche Patriottiche/Nazionalitarie , chiaramente non fa un discorso rivolto ai proletari , ma al massimo fa :
a) un discorso inconsapevolmente passatista , e di compromesso tra capitale e settore terziario ( i proletari con diritto di cittadinanza come detto sono una percentuale minima ) rivolto al recupero , illusorio , delle politiche keynesiane del welfarestate del periodo fordista ( che in realtà era WARfare , poiché come noto questo ""welfare" state occidentale dei Trenta Gloriosi è stato per lo più una concessione , dipendente dalla Guerra Fredda , dei partiti conservatori , possibile grazie allo sfruttamento necoloniale e razzista )
b) un discorso consapevolmente reazionario/identitario .
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Lord Attilio
Friday, 21 September 2018 13:52
Ho notato che molti di quelli che criticano Fassina sul problema della Patria, sono poi gli stessi che considerano superflua la questione dell'imperialismo interno ed esterno dell'UE e magari dicono che l'UE è solo un capro espiatorio della destra populista. Attenti perché è necessaria una critica molto attenta alle posizioni di costoro, che siano in buona fede o meno, perché per contrastare gli Stati Uniti e Trump auspicano un'alleanza impossibile, assurda e sbagliata con l'Unione Europea, senza comprendere le caratteristiche strutturali di oppressione coloniale, imperialista e di guerra al proletariato che l'UE favorisce.
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Lord Attilio
Friday, 21 September 2018 13:45
Quoting Antonio:
Marx e Lenin non sarebbero da prendere alla lettera , mentre si cita tranquillamente lo stalinista Togliatti . Non a caso fu proprio di Togliatti l’appello ai fratelli italiani in camicia nera del ’36 . Interessante e non casuale .
Infatti , proprio nel nome della Nazione e della Patria , Togliatti, su dettato di Stalin , e con il grande contributo di Secchia, sottomise la resistenza antifascista alla ristrutturazione del capitalismo della Stato italiano : riconsegnò ai prefetti il loro posto di comando, riportò Valletta sul trono della FIAT, disarmò i partigiani, decretò l'infame amnistia per gli aguzzini fascisti, calunniò le forze rivoluzionarie della resistenza come pericolose per il “popolo” e per la Patria . Nel nome della Patria furono soffocate le potenzialità rivoluzionarie dell'immediato dopoguerra . I reparti di confino contro i comunisti nelle fabbriche e le camionette di Scelba contro i lavoratori furono negli anni '50 il conto tragico della capitolazione togliattiana.
Ma si va bene così , quando Marx sosteneva che “gli operai non hanno patria” o che “l'aria che il lavoratore respira a casa sua non è né l’aria francese, né inglese, né tedesca, ma é l’aria delle fabbriche” , non è da prendere alla lettera . Citiamo piuttosto Togliatti . Via la bandiera rossa , sventoliamo piuttosto quella della Patria e cantando l’inno , inneggiamo all’identità nazionale e dagli su al negher . In nome degli sfruttati , ci mancherebbe .


Non diciamo scemenze per favore. In quella fase la svolta di Salerno era corretta, perché solo un scemo poteva pensare che dati i rapporti interni ed esterni l'Italia potesse diventare una Repubblica socialista (vedi cosa è successo in Grecia). L'errore è stato rendere un compromesso tattico una svolta strategica, abbandonare la teoria rivoluzionaria per il capitalismo da volto umano e il riformismo. Detto questo, Togliatti e Secchia possono comunque essere portati ad esempio di un patriottismo della nazione oppressa, anche perché l'Italia è in parte imperialista ma anche in parte nazione oppressa. Basta scegliere quella giusta tra le due.
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alessandro visalli
Friday, 21 September 2018 12:24
Lorenzo, si è complicato nella parte in cui dice "a lungo andare". Ma alla tua di domanda (Una volta liberatosi dalle grinfie dei meccanismi europei esisterebbe una maggior consapevolezza degli sfruttati sulla lotta da farsi?" ) si risponde più facilmente: SI. Perché sarebbe sgombrato l'argomento che inibisce qualsiasi tentativo di immaginare una qualsiasi azione e strategie: il vincolo esterno. A chiunque conosca un minimo i meccanismi, e li abbia visti all'opera è chiaro che qualsiasi mossa, anche piccola, comporta possibili attacchi devastanti dei 'mercati' (ovvero comporta un effetto gregge degli operatori finanziari, opportunamente attivato e guidato dai cani pastori). Insomma, bisogna prima rimuovere il TINA, poi le scelte di classe potranno apparire per quello che sono, ovvero scelte. Oggi sembrano natura.
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lorenzo
Friday, 21 September 2018 11:40
Quoting alessandro visalli:
"La domanda da porsi, sempre, è: l'UE, la globalizzazione, costituiscono un terreno più favorevole, seppure a lungo andare, per la lotta dei lavoratori, oppure più sfavorevole? Solo rispondendo a questa domanda, ...

Bisogna onestamente ammettere comunque la si pensi che la risposta e' abbastanza complicata. Allora, mi viene da domandare che si tratti di una domanda sbagliata da porci? E poi qualora individuato il terreno piu' favorevole senza la necessaria forza,unione di intenti e volonta' quale lotta sarebbe possibile ? Altre domande potrebbero essere fatte prima. Tipo, "Una volta liberatosi dalle grinfie dei meccanismi europei esisterebbe una maggior consapevolezza degli sfruttati sulla lotta da farsi?" (perche' credo che lo sviluppo di una volonta' di lotta sia piu' importante e prioritario che studiarne il terreno) e quindi "Come e' possibile che possa maturare una volonta' di cambiamento profondo e diffuso nei contronti dell'attuale sistema capitalistico nelle societa' attuali?"
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Gian Nicola De Marti
Friday, 21 September 2018 09:07
Antonio (5), parla con evidente disprezzo e sottinteso sarcasmo di Patria "...delle radici, del sangue e del suolo". Cosa ci sia di aprioristicamente negativo nelle radici, nel sangue e nel suolo vorrei me lo spiegasse. Aggiungiamo, per completezza, la comunione di lingua, la cultura, gli usi, il cibo etc. etc. Tutto negativo? O è invece deteriore perché la Destra si è appropriata ( fraudolentemente) di questi concetti e ne ha fatto (fraudolentemente) un uso distorto? Se lo Stato è ragione, la Patria è emotività, ma non vedo perché si debba regalare alla destra la gestione di questa emotività .
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Antonio
Thursday, 20 September 2018 23:44
Marx e Lenin non sarebbero da prendere alla lettera , mentre si cita tranquillamente lo stalinista Togliatti . Non a caso fu proprio di Togliatti l’appello ai fratelli italiani in camicia nera del ’36 . Interessante e non casuale .
Infatti , proprio nel nome della Nazione e della Patria , Togliatti, su dettato di Stalin , e con il grande contributo di Secchia, sottomise la resistenza antifascista alla ristrutturazione del capitalismo della Stato italiano : riconsegnò ai prefetti il loro posto di comando, riportò Valletta sul trono della FIAT, disarmò i partigiani, decretò l'infame amnistia per gli aguzzini fascisti, calunniò le forze rivoluzionarie della resistenza come pericolose per il “popolo” e per la Patria . Nel nome della Patria furono soffocate le potenzialità rivoluzionarie dell'immediato dopoguerra . I reparti di confino contro i comunisti nelle fabbriche e le camionette di Scelba contro i lavoratori furono negli anni '50 il conto tragico della capitolazione togliattiana.
Ma si va bene così , quando Marx sosteneva che “gli operai non hanno patria” o che “l'aria che il lavoratore respira a casa sua non è né l’aria francese, né inglese, né tedesca, ma é l’aria delle fabbriche” , non è da prendere alla lettera . Citiamo piuttosto Togliatti . Via la bandiera rossa , sventoliamo piuttosto quella della Patria e cantando l’inno , inneggiamo all’identità nazionale e dagli su al negher . In nome degli sfruttati , ci mancherebbe .
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alessandro visalli
Thursday, 20 September 2018 21:39
Vedo che su alcune cose, dopotutto, sono in accordo con Mario Galati. Condivido interamente il suo punto, in particolare questo è l'elemento decisivo, per me: "La domanda da porsi, sempre, è: l'UE, la globalizzazione, costituiscono un terreno più favorevole, seppure a lungo andare, per la lotta dei lavoratori, oppure più sfavorevole? Solo rispondendo a questa domanda, come faceva Lenin, si può impostare il giusto atteggiamento." Se c'è una lezione che va appresa dai padri del marxismo è quella di non essere dottrinari.
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Mario Galati
Thursday, 20 September 2018 21:24
Scusate per il ..termine "termini" inflazionato. Sostituite voi i giusti sinonimi.
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Mario Galati
Thursday, 20 September 2018 21:19
Dire che un marxista e comunista è necessariamente un internazionalista, ma non un cosmopolita, e che la sua prospettiva storica è lo stato mondiale della società comunista, come diceva Gramsci, equivale a scoprire l'acqua calda. Il dibattito non si svolge in questo termini astratti, ma in quelli concreti che la storia ci pone davanti. Lenin ragionava in questi termini quando metteva in guardia e respingeva la parola d'ordine degli Stati Uniti d'Europa, che, nei termini di allora, significava l'unificazione del potere borghese in termini europei, contro i lavoratori d'Europa. Esattamente come avviene oggi con l'UE.
Lo stesso Marx ha appoggiato le lotte di indipendenza nazionale quando erano progressive e liberatorie, anche per i lavoratori, non oppressive e nazionaliste reazionarie.
Nell'Ottocento la borghesia non aveva ancora esaurito del tutto la sua funzione progressiva e anche rivoluzionaria.
Marx considerava la rottura delle barriere nazionali e la mondializzazione ottocentesca progressiva.
La mondializzazione attuale, la cosiddetta globalizzazione, ha le stesse caratteristiche?
Essa avviene dopo un periodo storico nel quale si era creato un campo socialista, vi era stato un processo di decolonizzazione e i lavoratori avevano, bene o male, acquistato un'influenza negli stati nazionali. L'odierna, e già arrancante, globalizzazione ha un segno reazionario rispetto a tutto ciò e la sua ideologia cosmopolita non è quella della pace e della fratellanza (basta semplicemente vedere le guerre e le aggressioni che l'accompagnano), ma semplicemente quella dell'uniformità dei modelli di consumo e della legittimità dell'interferenza imperialista. Se si ragiona in termini dottrinali e avulsi dalla fase e dalla tendenza storica possiamo sostenere tutto e il contrario di tutto.
La domanda da porsi, sempre, è: l'UE, la globalizzazione, costituiscono un terreno più favorevole, seppure a lungo andare, per la lotta dei lavoratori, oppure più sfavorevole? Solo rispondendo a questa domanda, come faceva Lenin, si può impostare il giusto atteggiamento.
Infine, un paio di considerazioni.
Che la resistenza non sia stata tutta socialista, seppure un'impronta di questo tipo ne segnasse una parte non trascurabile, è vero. Ma è la prima volta che la sento definire una semplice ala interna all'imperialismo. Forse i ragionamenti sillogistici (lo sbocco della resistenza è stato comunque la costruzione di uno stato capitalistico, ergo è stata strumento della borghesia imperialista nazionale), nel loro rigore formale conducono fuori strada e fanno perdere il contatto con la realtà.
Quanto a Togliatti con Che Guevara, direi che c'entra tantissimo, atteso il lucido e forte anticolonialismo di Togliatti, dal quale tanti intransigenti internazionalisti avrebbero molto, se non tutto, da apprendere.
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michele castaldo
Thursday, 20 September 2018 19:59
Caro Carlo,
epperò non giochiamo a fare i furbi mettendo sullo stesso piano situazioni molto diverse fra loro. Cosa centri un Che Ghevara con un Palmiro Togliatti? il primo era espressione di una lotta anticoloniale e antimperialista dei paesi latino americani, mentre il secondo si riferiva all'Italia dell'immediato dopoguerra, già da lunga pezza paese colonialista e imperialista, aggressore dei popoli del nord Africa e via dicendo, che sconfitto da un imperialismo maggiore, gli Usa, voltò le spalle all'alleato tedesco e si schierò con chi fino a un minuto prima l'aveva bombardato in lungo e in largo? I tedeschi erano invasori? Si, dopo che l'Italia da alleata volta loro le spalle. Dunque si trattava di una guerra fra briganti che a seguito della sconfitta ognuno cerca di comportarsi secondo i propri interessi: ecco spiegata la guerra di resistenza.
E che centra Fidel Castro o Lenin o lo stesso Stalin che si sono dovuti difendere da vili aggressioni di imperialisti occidentali dopo che la Russia aveva dovuto subire l'aggressione di Napoleone della democratica Francia?
Suvvia, non mischiamo l'oro con i cavoli. La stessa Cina - giustamente difesa da Domenico Losurdo dai meschini attacchi occidentali all'indomani del luglio 1989 - oggi è tutt'altra cosa dalla Lunga marcia e dai tentativi maoisti di costituire le comuni agricole-industriali sperando in uno sviluppo armonico piuttosto che il liberismo economico come poi è stata costretta a fare perché pressata dall'Occidente.
Sia chiaro e fino in fondo: la lotta di liberazione nazionale - dunque nazionalista - fu legittima e rivoluzionaria perché necessitata, si poneva l'obiettivo di entrare a pieno titolo nel modo di produzione capitalistico scrollandosi di dosso l'oppressione e la dipendenza delle potenze occidentali. Rivoluzionarie si, socialiste no, non lo potevano essere e non lo furono. E se le definimmo come tali sbagliammo, perché si trattava di economie arretrate che per guadagnare terreno nei confronti dell'Occidente dovettero centralizzare le risorse e nazionalizzare l'economia. Che centra tutto ciò con la patria italiana quale paese imperialista che ha i propri soldati fuori del proprio territorio a difendere i suoi interessi economici opprimendo i legittimi titolari di quelle risorse? Quale diritto hanno i moderni patrioti di mettersi sullo stesso piano di chi è aggredito in mille modi dai paesi occidentali di cui l'Italia è parte attiva?
Ho Ci Min fu un patriota rivoluzionario, contro una infame e vergognosa guerra di aggressione da parte degli Usa, un mostro a mille teste, e Fassina - ex sottosegretario in un governo di un paese imperialista come l'Italia - oserebbe mettersi sullo stesso piano? Per favore, un minimo di buon senso.
La sinistra di questa fase storica è allo sbando totale, per questa ragione è alla mercé delle forze nazionaliste che - nell'accresciuta concorrenza delle merci a livello internazionale, sbandano paurosamente tra il provincialismo sovranista e il revanscismo fascista. Brutta roba, in ogni caso.
La domanda sorge spontanea: ma Fassina il suo gruppo sono proprio convinti di dover parlare? In certi casi si può anche tacere, visto che parlano gli altri. Parlano, e come parlano, ha parlato anche il filosofo Vincenzo De Luca da Salerno.
Michele Castaldo
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Antonio
Thursday, 20 September 2018 19:10
Al di là delle citazioni sulle quali , come ho letto in un commento sotto , "non c'è partita" , la Sinistra mette al centro l'essere umano , l'emancipazione dell'essere umano in uguaglianza e libertà . Quindi contro le logiche strutturali di dominio ed esclusione : che possono andare da quelle di classe a quelle di genere .
A Sinistra può anche essere stata utilizzata la Patria , ma sempre come un mezzo , mai come un valore , un fine in se . Questo lo fanno le Destre , soprattutto le estreme destre , quelle delle radici , del sangue e del suolo , che infatti reificano la Patria con tanto di propaganda identitaria , con tanto di costruzione dell'Altro , del Diverso , e del sempreeterno Complotto , contri i quali scagliare le frustrazioni passivi e manipolati cittadini/soldato .
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Antonio
Thursday, 20 September 2018 18:15
La Patria è Destra o di Sinistra ?!?! mammamia…

“Il marxismo sostituisce a ogni nazionalismo l'internazionalismo, la fusione di tutte le nazioni in una unità superiore. (...) Il proletariato non può appoggiare nessun consolidamento del nazionalismo, anzi, esso appoggia tutto ciò che favorisce la scomparsa delle differenze nazionali, il crollo delle barriere nazionali, tutto ciò che rende sempre più stretto il legame fra le nazionalità, tutto ciò che conduce alla fusione delle nazioni”
( Vladimir Lenin - L'autodecisione delle nazioni )

“Chi ama la propria nazione può solo provare il suo amore mediante i sacrifici che è pronto a fare per essa.”
( Adolf Hitler - La mia battaglia )

“La borghesia ha giocato nella storia un ruolo altamente rivoluzionario(..)Con grande dispiacere dei reazionari essa ha sottratto all'industria il suo fondamento nazionale.(..) Le separazioni e gli antagonismi nazionali dei popoli vanno scomparendo sempre più già con lo sviluppo della borghesia, con la libertà di commercio, col mercato mondiale, con l'uniformità della produzione industriale e delle corrispondenti condizioni d'esistenza. Il dominio del proletariato li farà scomparire ancor di più”
( K.Marx – IlManifesto )

“Primo pilastro fondamentale dell'azione fascista è l'italianità”
( Benito Mussolini , Trieste , 1920 )
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Mario Galati
Thursday, 20 September 2018 15:28
Dimenticavo: un esempio di organizzazione internazionale, promossa e favorita dall'Italia e a beneficio della quale consente a limitazioni della sua sovranità, è l'ONU (che noi sicuramente non idealizziamo), non certo la UE.
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Mario Galati
Thursday, 20 September 2018 15:20
L'articolo 11 della Costituzione consente a limitazioni, non a cessioni della sovranità. Limitazioni dirette ad assicurare la pace e la giustizia tra le nazioni (l'articolo 11 è quello del ripudio della guerra come offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali), non a stabilire un diverso modello economico sociale, incompatibile con i suoi principi fondamentali. L'uso dell'articolo 11 per giustificare l'UE è falso e strumentale. Dovrebbero vergognarsi i costituzionalisti che lo sostengono (i padroni e i politici al loro guinzaglio fanno solo il loro mestiere).
Un'aggiunta sull'uso del termine patria, senza entrare nel merito di quanto sostiene Clericetti sull'inopportunità del suo uso, a sinistra: la resistenza sovietica al nazifascismo è stata definita "Grande guerra patriottica" (molti sostengono per motivi opportunistica. Ma non è questo il punto). La posizione sovietica era parte del movimento storico reazionario? Non escludo che tanti cacciatori di rossobruni coincidano con i detrattori dell'URSS, di Stalin, ecc.
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Ernesto
Thursday, 20 September 2018 14:54
E' molto più di Destra che di Sinistra , senza dubbio .
Se a Sinistra ne trovi una decina che non hanno disdegnato di usare il termine Patria ( non a caso parenti stretti dello stalinismo o del peronismo sudamericano ) , a Destra ne trovi centinaia . Se la battaglia è colpi di citazione sul valore della "Patria", non c'è partita : vince l'estrema destra 10 a 1 , facciamo 10 a 2 per essere generosi .

In ogni caso l'autore sostiene che :
"lo Stato nazionale è il solo ambito che renda possibile perseguire democraticamente il nostro modello sociale, quello disegnato dalla Costituzione."

Ma la Costituzione in realtà designa questo :
"L'Italia.. consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo." ( Art 11 )
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