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Crescita e PIL potenziale: le stime controverse di Bruxelles
di Davide Cassese
Output gap Italia | Secondo le stime di Bruxelles il PIL italiano è al di sopra del suo potenziale. Si tratta di stime assurde che porteranno a nuove richieste di austerità nel nostro Paese
Di recente la Commissione Europea ha rilasciato il Country Report per l’Italia, documento che descrive lo stato di salute dell’economia italiana e, in base ad esso, le raccomandazioni di politica economica per i Paesi membri. Dopo aver sottolineato i modesti progressi fatti dall’Italia nell’attuazione delle riforme strutturali, la Commissione ha riassunto i dati più significativi all’interno della tabella “Key economic and financial indicators”. Più di tutto, risulta di particolare interesse un dato riferito ad una variabile chiave per la politica fiscale: l’output gap. Sono stati diversi i contributi legati a questo tema pubblicati su questa rivista (Tridico, Meloni e Bracci, 2018; Tridico e Meloni, 2018; Cassese, 2018).
1. L’output gap e il NAWRU
L’output gap è una grandezza statistica stimata dalla Commissione Europea. Si compone di due elementi: il PIL effettivo, che è una grandezza osservata, calcolato dagli uffici nazionali di statistica dei Paesi membri, e il PIL Potenziale, che è una grandezza non osservabile e pertanto stimato dalla Commissione Europea con il metodo della Funzione di Produzione (Havik et al., 2014).
Tralasciando le critiche di teoria economica a cui può essere sottoposto il metodo della funzione di produzione, che si rifanno alla critica di Garegnani (1970) e di Pasinetti (1966) nell’ambito della Controversia sul capitale degli anni ’60, l’output gap corrisponde alla differenza percentuale tra il livello del PIL effettivamente prodotto dall’economia e il livello del PIL potenziale – cioè il massimo livello di PIL che può raggiungere l’economia con le risorse presenti, compatibilmente con la stabilità dei prezzi. Se l’output gap fosse positivo un’economia starebbe sovrautilizzando le risorse disponibili e ciò, nella visione della Commissione europea, dovrebbe portare ad una accelerazione del tasso di inflazione. Al contrario nel caso di un valore negativo. Tutto questo perché, secondo una teoria economica ben consolidata, esisterebbe un tasso di disoccupazione “strutturale” in corrispondenza del quale il tasso di crescita dei prezzi non accelera.
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L’accumulazione originaria: genesi del modo di produzione capitalistico tra storia e struttura
di Sebastiano Taccola*
«il capitale viene al mondo grondante sangue e sudiciume
dalla testa ai piedi, da tutti i pori». (Marx 2011)
«Il ‘moderno’: l’epoca dell’inferno. Le pene dell’inferno sono
ciò che più di nuovo di volta in volta si dà in questo ambito.
Non si tratta del fatto che accada ‘sempre lo stesso’, ancora
meno si può qui parlare di eterno ritorno. Si tratta, piuttosto,
del fatto che il volto del mondo non muta mai proprio in ciò che
costituisce il nuovo, che il nuovo, anzi, resta sotto ogni
riguardo sempre lo stesso. – In questo consiste l’eternità
dell’inferno. Determinare la totalità dei tratti, in cui il
‘moderno’ si configura, significherebbe rappresentare l’inferno».
(Benjamin 2002)
«We’re all Frankies
We’re all lying in hell».
(Suicide, Frankie Teardrop).
1.
Chiunque abbia anche solo un minimo di familiarità con i testi di Marx avrà ben presente quella loro peculiarità di stile che, contaminando la prosa del trattato filosofico o economico con immagini dal gusto letterario, riesce a sedurre il lettore, spesso anche attraverso una pungente ironia antiborghese, in cui è percepibile l’influenza di modelli elevati, come Shakespeare, Goethe e, soprattutto, Heine[1]. Una straordinaria esemplificazione di questo stile la possiamo trovare proprio nella prima pagina del capitolo del primo libro del Capitale che qui ci proponiamo di analizzare – il capitolo ventiquattresimo intitolato La cosiddetta accumulazione originaria:
Nell’economia politica quest’accumulazione originaria gioca all’incirca lo stesso ruolo del peccato originale nella teologia: Adamo dette un morso alla mela e con ciò il peccato colpì il genere umano. Se ne spiega l’origine raccontandola come aneddoto del passato. C’era una volta, in un’età da lungo tempo trascorsa, da una parte una élite diligente, intelligente e soprattutto risparmiatrice e dall’altra c’erano degli sciagurati oziosi che sperperavano tutto il proprio e anche più.
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Confindustria e Sindacati. L'europeismo come atto di fede
di Sergio Farris
Il 9 aprile scorso Confindustria, Cgil, Cisl e Uil, hanno reso pubblico un appello congiunto a favore dell'Europa. Esso non ha, tuttavia, suscitato il dibattito che avrebbe meritato.
Peccato, perchè dal tenore dell'appello è possibile ricavare lo stato confusionale in cui versano le “Parti sociali”, con particolare riferimento alle Organizzazioni sindacali. (E' difficile non notare l'abbagliato sviamento dei Sindacati di fronte alle istituzioni ed alle controparti sociali che hanno determinato la loro attuale condizione di irrilevanza).
Il documento può essere articolato in due linee di svolgimento: 1) una serie di asserzioni sull'Europa poste a giustificazione dell'appello – evidentemente descrittive, secondo i sottoscrittori, di una verità immanente; 2) una serie di proponimenti – auspicativi di una riforma tesa al completamento della costruzione europea, così da renderla “ideale” (proponimenti purtroppo, va detto subito, irrealizzabili).
Alla prima linea argomentativa può essere accostata l'affermazione secondo cui “[...] l'Unione europea ha garantito una pace duratura in tutto il nostro continente e ha unito i cittadini europei attorno ai valori fondamentali dei diritti umani, della democrazia, della libertà, della solidarietà e dell'uguaglianza.”
Qui, secondo me, va precisato che i valori quali “i diritti umani, la democrazia, la solidarietà e l'uguaglianza”, erano già previsti e formulati nelle costituzioni post-fasciste del dopoguerra. Certo, poi, le Comunita' europee costituite dagli stati che quelle costituzioni avevano adottato, hanno fatto propri quei principi, ma – a dirla proprio tutta – con l'avvento della stagione neoliberista e la primazia del mercato, si è assistito piuttosto a una relativa disapplicazione, nell'ambito della Ue, di quei valori. (Si è anche parlato, ad esempio, di incompatibilità della nostra Costituzione repubblicana con i rigidi trattati che informano l'Unione).
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‘Tutto il potere ai Soviet!’. Settima e ultima parte
‘Esigiamo la pubblicazione dei trattati segreti’: biografia di uno slogan gemello
di Lars T. Lih
Si veda anche, in calce a questo stesso post, l’appendice “Gli editoriali sulla guerra pubblicati nel marzo 1917 da Kamenev e Stalin”
Il 4 marzo 1917 (secondo il vecchio calendario russo), Paul Miliukov, ministro degli esteri del Governo provvisorio appena insediato dalla Rivoluzione di febbraio, inviava un telegramma alle ambasciate russe all’estero. Vi si ribadiva ciò che i governi alleati volevano sentirsi dire: i nuovo governo post-zarista intendeva onorare pienamente i trattati tra loro e la Russia. Agli occhi di Miliukov, difatti, il punto era che la rivoluzione doveva essere in grado di assolvere più efficacemente gli obblighi imposti dai trattati. Eppure, nella sua fretta di rassicurare gli alleati, egli aveva innescato una bomba a orologeria – per sé stesso e, nel giro di pochi mesi, per il Governo provvisorio.
In quel momento, il telegramma in questione e altri simili passarono inosservati in Russia. Tuttavia, alcuni rivoluzionari in esilio in Europa colsero immediatamente la centralità della questione dei trattati zaristi. Il bolscevico Grigorii Zinoviev, residente a Berna, impugnava le dichiarazioni di Miliukov quale prova che nessuna rivoluzione era avvenuta nella politica estera. Un articolo sulla questione dei trattati scritto da Zinoviev giunse in Russia prima del rientro del suo autore: venne pubblicato sulla Pravda il 25 marzo, subito dopo la pubblicazione della Lettera da lontano di Lenin. Il leader socialista rivoluzionario Viktor Chernov, anch’egli in esilio, comprese la discrepanza tra l’immagine dal Governo provvisorio proiettata all’estero e quella che rimandava in patria. Una discrepanza che non mancò di sottolineare con forza non appena ritornato nel suo paese all’inizio di aprile. Sebbene tanto Zinoviev che Chernov ritenessero uno scandalo i trattati segreti, i due trassero lezioni politiche drammaticamente differenti da tale scandalo.
Alla metà di marzo, due bolscevichi di primo piano, Lev Kamenev e Iosif Stalin, facevano ritorno a Pietrogrado dall’esilio interno in Siberia. I due dirigenti erano estremamente seri circa il prendere il potere e mantenerlo. Come ebbe a dire Kamenev, parlando confidenzialmente a un sodale bolscevico, “ciò che conta non è tanto prendere il vlast – ciò che conta è mantenere il vlast” [1].
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Un mondo senza metafisica
di Salvatore Bravo
La fine della Metafisica, la riduzione dell’essere ad evento, secondo il linguaggio heideggeriano o a semplice costrutto storico senza fondamento, ha strutturato la cultura della violenza nella quale ogni discernimento è obnubliato a favore della cultura del mezzo indistinto dal fine. La razionalità, non mediata dalla razionalità complessa riduce ogni ente, ogni persona a strumento. Il nichilismo è così l’indistinto, ogni gerarchia etica salta, si annichilisce a favore dell’immediato, dell’irrilevanza di tutto. Nel nichilismo non vi è né alto né basso, ma un’indifferenziata condizione di alienazione cha attraversa ogni gerarchia sociale. La società nichilistica è verticale secondo la logica del possesso, ma orizzontale nei “valori”: l’utile ed il denaro sono la cifra di valutazione di tutte le prospettive. In tale contesto il mezzo, ovvero il denaro, è anche il fine. Se il potere può tutto, e nulla pare accadere di sostanziale per la trasformazione dello stato presente, ciò è dovuto all’assenza di eterotopia, che secondo la celeberrima definizione di M. Foucault è la capacità di osservare il mondo da un’ottica assolutamente nuova:
«quegli spazi che hanno la particolare caratteristica di essere connessi a tutti gli altri spazi, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare o invertire l'insieme dei rapporti che essi stessi designano, riflettono o rispecchiano».
La neutralizzazione dell’eterotopia, oggi, prescinde la posizione che il soggetto occupa nel modo di produzione, poiché l’unico criterio di valutazione è il denaro e la corsa verso di esso, poco o tanto che sia, per cui si accetta anche l’insostenibile in nome del dogma che cade sulla testa di tutti, offusca lo sguardo e minaccia di portare verso l’abisso persone, ambiente e democrazia. Il potere si espande attraverso la cultura dell’interesse privato, del consumo immediato, dello scollamento del denaro dal ciclo produttivo come da ogni fine1 :
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Affinità-divergenze tra la compagna Greta e noi
di coniarerivolta
E l’acqua si riempie di schiuma il cielo di fumi
la chimica lebbra distrugge la vita nei fiumi,
uccelli che volano a stento malati di morte
il freddo interesse alla vita ha sbarrato le porte.
Un’isola intera ha trovato nel mare una tomba
il falso progresso ha voluto provare una bomba,
poi pioggia che toglie la sete alla terra che è vita
invece le porta la morte perché è radioattiva.
Pierangelo Bertoli
Nelle ultime settimane si è imposto al centro del dibattito, in forme nuove e inedite, il tema dell’ambientalismo. Ci sono state enormi manifestazioni in tutto il mondo; di particolare rilievo anche quelle che si sono tenute in Italia, soprattutto se si considera la difficoltà di mobilitazione delle masse che attualmente affrontano i vari movimenti politici.
Il movimento ambientalista cova in sé valori e visioni del mondo condivisibili e ricchi di potenzialità. La battaglia per la difesa dell’ambiente è la nostra battaglia e deve essere una priorità per chiunque oggi faccia lo sforzo di provare a immaginare un’alternativa al sistema economico dominante. Al contrario, la particolare sfumatura di ‘radicalismo chiacchierone’, stando alla quale occuparsi dell’ambiente prima di avere abbattuto il capitalismo sarebbe un vezzo borghese, è semplicemente una stupidaggine, buona soltanto per fornire una giustificazione alla propria inutilità e marginalità.
Tuttavia, è importante individuare potenziali elementi contraddittori del movimento che in questi giorni ha riacceso i riflettori su una tematica così importante, elementi che, spesso contro la stessa volontà soggettiva di chi è impegnato in sacrosante battaglie, finiscono per rendere molte istanze pienamente compatibili con gli equilibri dell’ordine socio-economico costituito.
La principale grande contraddizione di alcuni movimenti ambientalisti, una parte dei quali convergenti nelle più recenti mobilitazioni di piazza, è quella di non individuare nel modo di produzione dominante la vera causa dell’inquinamento ambientale, della distruzione degli ecosistemi e dei paesaggi, nonché del fragile equilibrio che esiste tra natura e uomo.
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La politica fuori luogo
di Walter Tocci
Ho scritto un saggio per la rivista di filosofia Il Pensiero, fondata da Vincenzo Vitiello, nel numero monografico dedicato alla figura del fuori luogo nelle diverse accezioni filosofiche. Di seguito si può leggere il testo
Abstract
Il "fuori luogo" della politica è inteso in due significati: come esodo dai luoghi della rappresentanza e come comportamento urticante o inopportuno. Esaurita la retorica della spoliticizzazione riemerge una potenza del negativo come nucleo metafisico del politico, che assume forme diverse tra "mare e terra", nel mondo anglosassone e nel continente europeo. Le forme politiche sono condizionate dalla "fase termidoriana" del capitalismo, che accentua i controlli e le norme dopo aver esaurito la fase rivoluzionaria della deregulation. Si inasprisce la frattura tra logica di sistema e mondi vitali, come definita da Habermas, ma non è ricomponibile con un'etica discorsiva. La causa dell'ingovernabilità è nello scarto tra potenza e saggezza, tra la formidabile forza di trasformazione e la debole capacità di regolarne gli esiti. Le soluzioni possibili sono da ricercare nelle dimensioni originarie del politico: l'educazione intesa a là Condorcet come capacità di governo della società; la città intesa a là Baudelaire come trasformazione a misura dell'umano.
* * * *
La politica è fuori luogo. Ciò vale nei due significati di questa espressione: la politica è lontana dai luoghi deputati alla sua rappresentazione e assume atteggiamenti inusuali che spesso appaiono urticanti o comunque inopportuni. Sono due facce della stessa medaglia. Lo svuotamento delle classiche istituzioni della democrazia - i Parlamenti, i partiti, gli Stati - determina uno spaesamento del politico che abbandona l'agorà deliberativa e cammina senza meta oltre le mura della polis. La sua manifestazione diventa incerta, appare dove non è atteso ed è assente dove è invocato. E proprio nel suo girovagare per il contado prende modi inurbani, selvaggi e in certi casi violenti, come se regredisse dalla civilizzazione che sembrava assicurata per sempre.
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I paradossi della sovranità europea
di Francesco Galofaro
In un recente articolo per Limes, Carlo Galli ha indicato un paradosso: gli europeisti di centrodestra e di centrosinistra che combattono la sovranità statale nel nome dell’Europa sono in realtà degli iper-sovranisti. Gli ‘Stati Uniti d’Europa’, che perfino alcuni esponenti della sinistra radicale invocano, configurano in realtà una sorta di mega-macchina statale, onnipresente e onnipervasiva, sul modello degli USA [1]. L’arguto paradosso vuol far comprendere che l’Europa non ha reso obsoleta la nozione di sovranità, né l’ha relegata nel campo della mitologia delle destre. Al contrario, quella di sovranità è una nozione scientifica, sia pure confinata alla regione delle scienze sociali; va discussa scientificamente per comprendere i limiti dell’attuale UE in vista delle elezioni e disegnare scenari futuri.
Come definire la sovranità?
Sovranità: è un fenomeno storico o una chiave di lettura? E’ un fenomeno con una data di nascita che possiamo datare, e che può scomparire come è apparso, o è un attrezzo che serve allo scienziato sociale per interpretare la storia – se non addirittura a costruira? Come nozione teorica, la sovranità è il principio sulla base del quale un potere organizza un popolo e un territorio. Da un punto di vista storico, tuttavia, la nozione di sovranità è soggetta a mutamenti. Ne vediamo alcuni, che sembrano molto attuali per comprendere l’Unione Europea e il suo fondamento.
Sovranità e popolazioni
Secondo la ricostruzione di Foucault [2], nel XVII secolo si assiste a una crisi che segna il passaggio dalla sovranità medioevale a quella moderna. La sovranità medioevale coincideva con una funzione di controllo del territorio; nello Stato moderno si avverte l'esigenza di una nuova funzione, parzialmente in conflitto con la prima: permettere la circolazione delle persone e delle merci.
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Il ruolo del marxismo nella ricostruzione del movimento comunista internazionale
di Alessandro Bartoloni
Intervento introduttivo della conferenza “cambiare il mondo”
Il comunismo quale “movimento reale che abolisce lo stato di cose presente” [Marx, Engels, l’ideologia tedesca] per realizzarsi ha bisogno dell’incontro di condizioni oggettive e soggettive, vale a dire di una realtà cui la coscienza deve aggrapparsi per velocizzarne la trasformazione. Pertanto, per realizzare il comunismo, c’è bisogno di un lavoro rivoluzionario che, in quanto tale, non può non essere accompagnato da una teoria rivoluzionaria. Obiettivo di questo articolo è ribadire il ruolo e l’importanza della teoria.
Nella sua opera principale, Marx ci dimostra che qualunque processo lavorativo umano presuppone la capacità di astrazione: “Il ragno compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore, l'ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggiore architetto dall'ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera. Alla fine del processo lavorativo emerge un risultato che era già presente al suo inizio nella idea del lavoratore, che quindi era già presente idealmente. Non che egli effettui soltanto un cambiamento di forma dell'elemento naturale; egli realizza nell'elemento naturale, allo stesso tempo, il proprio scopo, che egli conosce, che determina come legge il modo del suo operare, e al quale deve subordinare la sua volontà” [il capitale, cap. V].
Anche il lavoro politico, dunque, ha bisogno di una teoria che lo guidi. E questo, la borghesia lo ha capito già da molto tempo, tanto che per instaurare il suo dominio ai danni della nobiltà feudale e del clero in quanto classi dominanti non ha esitato a promuovere lo sviluppo del pensiero teorico (si pensi alle pubblicazioni di importanti intellettuali contemporaneamente uomini politici e d’affari quali Niccolò Machiavelli, Adam Smith e David Ricardo). Ma da quando la borghesia ha definitivamente conquistato il potere politico, “la lotta tra le classi ha raggiunto aspetti sempre più netti e minacciosi, sia in pratica che in teoria”.
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Tre analisi, una situazione: 28 aprile, elezioni in Spagna
di Alessandro Visalli
Le elezioni in Spagna hanno visto il Partito Socialista, alla guida del paese per decenni, e storicamente tra i più chiaramente neoliberali ed europeisti partiti del PSE, lievemente spostatosi nell’ultimo anno per coprirsi dalle formazioni radicali sue competitrici, accrescere il suo consenso. Si è giovato di un travaso da Unidas Podemos, che è sceso al 14%, da circa il 20%, mentre le destre nel loro complesso hanno conservato i loro 11 milioni di voti (ma nel contesto di una maggiore partecipazione, e dunque riducendoli in percentuale e seggi). Nel campo delle tre destre si è avuto un arretramento del Partito Popolare in favore del nuovo entrato Vox (partito neofranchista).
Ora, sul piano della politica istituzionale la questione è se Sanchez, che ha il pallino in mano, vorrà o potrà costituire un governo, e con chi. Sul piano, che mi preme di più, della politica come orizzonte di trasformazione del reale e di liberazione questo risultato è invece un disastro.
La situazione spagnola torna senza sbocchi.
L’unica, labile, speranza di avviare un percorso di uscita dalle secche che da oltre un decennio stanno stritolando la società spagnola, facendone uno degli esempi di consolidamento a danno dei più deboli e dei giovani d’Europa, si allontana. Continuerà ad ascoltarsi in Spagna il coro della tragedia intonare il ritornello: non ci sono alternative.
La maggiore colpa la porta su di sè Unidos Podemos (poi ‘femminilizzato’) che segnala in modo chiarissimo il fallimento senza remissione del “populismo di sinistra”. Il fallimento ha una causa vicina, la disastrosa alleanza “senza contropartite” con il PSOE di Sanchez nel governo uscente, ma ha ben più profonde cause remote nel modo stesso in cui è stato costruito e in quello in cui è stato pensato.
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Che guerra sia!
Recensione di Gianfranco Marelli
Sandro Moiso, “La guerra che viene”, Mimesis, Milano-Udine 2019
Avete presente lo sketch di Totò preso ripetutamente a schiaffi da una persona chiamandolo «Antonio sei un farabutto»,«Antonio sei un delinquente», «Antonio io t’ammazzo di sberle …» e Totò, nonostante i ripetuti improperi e strattoni, continua a ridere a crepapelle fino a che l’altro non gli chiede irritato il perché del suo atteggiamento: «Perché? Io non sono mica Antonio!»
Ecco, il libro di Sandro Moiso, “La guerra che viene”, che racchiude i trentacinque interventi (ventitre articoli di analisi e dodici recensioni) pubblicati dall’autore su “Carmillaonline” tra l’autunno del 2011 e l’autunno del 2018, sono i 35 schiaffi ripetutamente dati al lettore che come Totò crede di non chiamarsi Antonio, finché non gli viene il sospetto che lui si chiami proprio Antonio. Ma chi è Antonio?
È un nome comune, così tanto comune da rappresentare l’indifferenza, la superficialità, l’incredulità di chi sebbene ripetutamente chiamato in causa, stenta a credere che sia proprio lui, il soggetto-oggetto ad essere il bersaglio della “guerra che viene”; guerra che per la sua vastità e per la sua diramazione in ogni angolo del pianeta non può che essere definita Mondiale, al punto che succedendo alla 2ª guerra mondiale potrebbe chiamarsi 3ª guerra mondiale o addirittura 4ª guerra mondiale.
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Filosofia della praxis e democrazia nei Quaderni del carcere
Un’attualità inattuale?
André Tosel (Université de Nice)1
Introduzione
Non ho la pretesa di elaborare un Ciò che è vivo e ciò che è morto del pensiero di Gramsci; più modestamente, vorrei interrogare alcuni punti vivi, dotati di un grandissimo valore anche per noi, che oggi viviamo una seconda rivoluzione passiva mondiale la quale, dopo gli anni 1980- 90, è succeduta alle forme studiate da Gramsci – il cesarismo regressivo del fascismo e l’americanismo-fordismo liberale.
Questi punti vivi riguardano la filosofia e la politica considerate in rapporto alla democrazia sostanziale.
1. Filosofia e politica come termini di un ossimoro
Una prima osservazione s’impone: la filosofia e la politica democratica interagiscono secondo la modalità dell’ossimoro, cioè della giustapposizione fra due tesi contraddittorie, che dà luogo non alla «vera sintesi», in un senso speculativo, dei due termini, bensì alla loro messa in tensione feconda e pratica.
1.1 La “sequenza” filosofica
Quanto alla filosofia, Gramsci accetta, per un verso, la tesi di Croce: «Ogni uomo è un filosofo […] perché determinate proposizioni filosofiche sono condivise dal senso comune» (QC 8, § 173, p. 1043). Ma il senso comune rimane il livello il più elementare e disgregato del pensiero e non è coerente. Sempre in quanto si tratta degli uomini-massa moderni, dei subalterni, il senso comune accoglie e contamina elementi delle filosofie tradizionali tolemaiche e delle moderne concezioni del mondo che sono in lotta per l’egemonia culturale (positivismo antimetafisico e neoidealismo conservatore). D’altra parte, i subalterni che lottano, sentendo e pensando, per il riconoscimento della loro posizione entro la vita economica, sociale e politica, possono partecipare all’elaborazione della filosofia della praxis che il partito e gli intellettuali in senso «tecnico» stanno costruendo mediante la riappropriazione critica del lascito marxiano e leniniano, non senza “lavorare” su altri materiali che permettono di comprendere il tempo storico come tempo della rivoluzione passiva: il pragmatismo anglosassone e l’elitismo politico italiano.
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Padroni a casa nostra
Come districare mito e realtà nella promessa sovranista
di Paolo Costa
Democrazia e demagogia
La democrazia è un bene. Questo giudizio non verrà intaccato dalle riflessioni che seguiranno. Trattandosi però di un bene composito, un’adesione senza riserve al giudizio di valore non elimina d’emblée l’esigenza di tornare a ragionare periodicamente su alcune verità scomode che lo riguardano.
L’affinità tra democrazia e demagogia, per esempio, era nota già agli antichi. Nella pratica democratica deve essere riservato uno spazio significativo allo scambio illimitato di ragioni e alla deliberazione collettiva, “popolare”. Questa apertura di principio rende la discussione inevitabilmente porosa, la espone cioè a tutti quegli usi strumentali del discorso che sono familiari a chiunque abbia una pur minima esperienza del mondo. Gli argomenti a cui si fa ricorso nel dibattito politico, infatti, benché siano idealmente guidati, come qualsiasi altro argomento, dal fine interno del libero convincimento o della resilienza persuasiva, possono essere facilmente posti al servizio del fine esterno del dominio, del prevalere a ogni costo. La retorica, in quanto arte della persuasione indipendente da qualsiasi vincolo epistemico o morale incondizionato, è l’arsenale a cui attingono i demagoghi di ogni risma nella loro lotta senza scrupoli per la supremazia.
Così va il mondo ed è meglio per tutti sapere come stanno le cose.
Nell’affinità elettiva tra democrazia e demagogia, tuttavia, c’è un elemento di verità che merita di essere soppesato con attenzione. Le idee che funzionano all’interno di un processo deliberativo a cui partecipano masse di persone che, pur essendo solidali, sono relativamente estranee le une alle altre, devono poter far presa sull’esperienza e sull’immaginazione degli individui in carne e ossa. Non possono essere cioè «vere» o «ragionevoli» e basta. Devono anche suonare «vere», «reali», tra le fatiche, le paure, i bisogni e i miraggi degli uomini e delle donne a cui sono destinate.
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“Dall’Asia al Mondo. Un’altra visione del XX secolo” di Pierre Grosser
di Clara Galzerano
Recensione a: Pierre Grosser, Dall’Asia al Mondo. Un’altra visione del XX secolo, Giulio Einaudi editore, Torino 2018, pp. LII – 712, 36 euro (scheda libro)
L’histoire du monde se fait en Asie: il titolo originale del libro di Pierre Grosser[1] è emblematico e racchiude in sé il significato e l’obbiettivo ultimo che l’autore attribuisce alla sua trattazione. La storia si decide in Asia, nella misura in cui esiste una dimensione asiatica per ogni importante evento storico universalmente riconosciuto come “occidentale”. Grosser si approccia dunque all’analisi degli avvenimenti del XX secolo partendo dall’Asia per arrivare poi al mondo, come suggerisce invece la traduzione italiana del titolo del libro.
Nell’introduzione, Grosser inizia la propria narrazione dalla “fine”, accattivandosi il lettore e spiegandogli come “un’altra visione del XX secolo” sia funzionale a comprendere le dinamiche internazionali del terzo millennio, che vedono l’affermarsi della Cina e del Giappone. Il successo delle due potenze dal punto di vista economico, strategico e militare, infatti, è la conseguenza di un lungo processo iniziato il secolo scorso, durante il quale gli sviluppi della situazione in Estremo Oriente hanno influenzato la storia mondiale in modo più determinante di quanto non sia comunemente percepito.[2]
Dopo aver motivato il lettore, Grosser, che da questo punto in poi prosegue la trattazione senza sovvertire la narrazione cronologica degli avvenimenti, si dedica alle vicende storiche che hanno caratterizzato l’inizio del Novecento utilizzando un linguaggio semplice, giornalistico, che rende la lettura di contenuti complessi scorrevole. L’autore, appoggiandosi ad una bibliografia accurata e molto vasta, punta a sottolineare come nei calcoli geopolitici mondiali il fattore asiatico sia stato tanto rilevante quanto usualmente trascurato nello studio della storia contemporanea. L’esperimento intellettuale di Grosser spinge l’interlocutore a spostare lo sguardo verso Oriente: servendosi di un’ottica diversa da quella consueta, ma senza abbandonarsi alla retorica terzomondista, l’autore tenta di avanzare un’analisi coerente che tiene conto di fattori spesso sottovalutati nella trattazione storica, raggiungendo risultati interessanti.
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Apologia della sovranità
di Carlo Galli
Si presentano qui alcune argomentazioni che sono svolte più largamente in C. Galli, Sovranità, Bologna 2019, il Mulino. La sovranità è condizione dell’esistenza di ogni corpo politico. Compresa l’Italia, che ne è assai carente. I limiti inevitabili del suo esercizio, dettati dal contesto. Le polemiche sul “sovranismo” in nome degli “Stati Uniti d’Europa”, metafora ipersovranista
1. La sovranità è il modo in cui un corpo politico si rappresenta (o si presenta) per esistere, per volere, per ordinarsi e per agire secondo i propri fini. Va quindi considerata nella sua complessità: nel fuoco della sovranità si forgiano i concetti politici moderni, e i conflitti storici reali.
La sovranità è un punto, l’Unità, il vertice del comando, una volontà politica che pone la legge; ma al tempo stesso è una linea chiusa, una figura geometrica, il perimetro dell’ordinamento giuridico e istituzionale vigente, dello spazio in cui la legge si distende; e al contempo è un solido, una sfera di azioni e reazioni sociali, un corpo vivente e plurale che nella sovranità produce sé stesso: un popolo, una cittadinanza. La sovranità è tanto il soggetto collettivo che agisce unitariamente quanto lo strumento istituzionale dell’azione del corpo politico.
Da ciò alcune considerazioni: in primo luogo, come non esiste un’anima senza corpo, né un corpo vivente senz’anima, così non esiste una sovranità senza il corpo politico di cui è l’impulso vitale, né un corpo politico privo di sovranità.
In secondo luogo, la sovranità, rispetto alla sfera pubblica, alla sua esistenza e alle sue dinamiche, è al tempo stesso condizione e risultato. La sovranità rende possibile la distinzione fra pubblico e privato, realizzando la protezione pubblica delle vite e dei beni privati, oltre che l’utilità, il benessere, la prosperità dell’intero corpo politico. E questa sfera pubblica, questo corpo politico, non è necessariamente un’identità tribale, una compatta comunità; è una società complessa, attraversata da tensioni e conflitti, che nella sovranità si esprime politicamente.
In terzo luogo, la dinamica storica della sovranità è data dalle prevalenze politiche che si instaurano fra le tre dimensioni già ricordate: avremo così la sovranità del monarca, dello Stato, della legge, del popolo. La forza sociale e politica di volta in volta egemonica dentro lo spazio della sovranità è portatrice anche della legittimità di cui la sovranità ha bisogno: la legittimità è la ragione per la quale si chiede e si concede obbedienza.
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Storia dell’immigrazione straniera in Italia
Consigli (o sconsigli) per gli acquisti
di Militant
Un libro da masticare con attenzione, rispettandone la complessità e l’articolazione. Riassunto in poche suggestioni, che non ne rendono merito del carattere esaustivo che offre e forse neanche della sua angolazione originale (rispetto all’approccio umanitario che solitamente ammanta la letteratura progressista sul tema), ci limitiamo a ricordare, come premessa logica, che le migrazioni siano state una costante, nel percorso dell’umanità, e che – dall’inizio dello sviluppo del capitalismo – non abbiano sempre conosciuto l’ostilità della classe politica, ma siano state addirittura incentivate nelle fasi economiche in cui era necessario disporre di manodopera a basso prezzo. In questi casi, addirittura, i flussi migratori “disinnescavano” delocalizzazione delle aziende e decentramento produttivo, quando questi risultavano meno profittevoli (come sta accadendo ai giorni nostri, per dire).
Nello specifico del nostro Paese, le migrazioni hanno sempre accompagnato la storia italiana, soprattutto se considerate nella loro complessità e non solo secondo la direttrice Maghreb-Italia, con le modalità inevitabilmente disperanti e disperate dei barconi. Le migrazioni interne dell’Italia del secondo dopoguerra, alla ricerca di opportunità di vita dopo le distruzioni del conflitto, gli ex soldati, i prigionieri di guerra, gli ebrei di passaggio verso la Palestina, gli “esuli” provenienti dalle aree restituite alla Jugoslavia dopo l’italianizzazione forzata del fascismo, i primi spostamenti all’estero per motivi di lavoro… delineano un quadro assai ricco e una estrema vivacità del contesto sociale, più secondo linee di qualità che non di quantità, comunque, dato che le statistiche ufficiali parlano solo dello 0,10% di stranieri sull’intera popolazione italiana ancora nel 1951, in una quota inferiore persino alla percentuale registrata durante l’autarchico fascismo (erano lo 0,20% nel 1930). Già alla metà del XX secolo, quindi, la questione immigrazione in Italia si poneva con una centralità non giustificata dai numeri, quanto da aspetti extra-statistici: la tipologia di chi giungeva nel Paese (con storie politiche spesso assai delicate, come nel caso del grumo di potere reazionario rappresentato dagli esuli giuliano-dalmati), la loro distribuzione sul territorio nazionale, l’incapacità italiana di predisporre un’accoglienza decente anche per gruppi di immigrati tutto sommati numericamente limitati.
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Rompere gli schemi
di Dino Greco
Di seguito l'intervento svolto da Dino Greco del Cpn di Rifondazione comunista, alla tavola rotonda La svolta populista: un anno di governo giallo-verde, con Leonardo Mazzei, Stefano Fassina, Domenico Moro, Bruno Steri, svoltasi a Roma sabato 13 aprile in occasione del convegno “Eurexit, quali strategie per la liberazione”. Il giudizio severissimo sul governo giallo-verde nulla toglie all'alto spessore politico e teorico della prolusione di Greco
Lo stato tutt’altro che rassicurante delle cose è ben rappresentato dal grottesco appello congiunto sottoscritto da Cgil- Cisl-Uil in vista delle elezioni europee.
In esso si legge, testualmente:
“L’Ue è stata decisiva nel rendere lo stile di vita europeo quello che è oggi. Ha favorito un progresso economico e sociale senza precedenti con un processo di integrazione che favorisce la coesione fra Paesi e la crescita sostenibile. Continua a garantire, nonostante i tanti problemi di ordine sociale, benefici tangibili e significativi, nella comparazione internazionale, per i cittadini, i lavoratori e le imprese in tutta Europa”.
E ancora:
“La risposta non è battere in ritirata, ma rilanciare l’ispirazione originaria dei Padri e delle Madri fondatrici, l’ideale degli Stati Uniti d’Europa (…)”.
Per fare cosa? Ecco qua: per contrastare “quelli che intendono mettere in discussione il Progetto europeo, vogliono tornare all’isolamento degli Stati nazionali, alle barriere commerciali, ai dumping fiscali, alle guerre valutarie, richiamando in vita gli inquietanti fantasmi del Novecento”.
Insomma, viene da chiosare: “padroni e lavoratori uniti nella lotta”. Manco a dirlo, “per la competitività internazionale”.
Questo perfetto manifesto della subalternità del sindacato al capitale (giustamente ripreso con enfasi da Il sole 24 ore) che mi autoassolvo dal commentare, dà l’idea di quanto sia esteso il perimetro dentro il quale si è consumato — prima in modo camuffato, ora del tutto esplicito — il consenso alle politiche liberiste, all’ordoliberismo, al quale coerentemente non si oppone lo straccio di una mobilitazione proprio da parte dei soggetti sociali che se la dovrebbero intestare, che ne dovrebbero essere i protagonisti.
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Senso comune/buon senso
di Giuseppe Cospito*
1. Prima dei Quaderni
Prima di affrontare il tema nei Quaderni, farò un breve cenno all’uso dei termini che ci interessano negli scritti di Gramsci precedenti la carcerazione e nella cultura italiana ed europea del tempo.
1.1 Gli scritti politici
Negli articoli giornalistici fin dal 1916 troviamo numerose occorrenze dei lemmi buon senso e senso comune . Non si tratta di accezioni particolarmente rilevanti in quanto non si distaccano sostanzialmente dall’uso corrente, che le considera sostanzialmente sinonime. Si possono ricondurre ad alcune tipologie che esemplifico citandone la prima occorrenza significativa, nell’ordine cronologico con cui compaiono negli scritti gramsciani:
a) connessa al comune sentire estetico-morale (intesi rispettivamente come buon gusto e senso del pudore), frequente nelle recensioni della rubrica Teatri: per esempio, di una commedia si dice che «è un’offesa al buon gusto e al senso comune»1;
b) vicina all’accezione invalsa nel lessico filosofico moderno da Descartes in avanti (bon sense, common sense), come quando Gramsci scrive che «la religione è un bisogno dello spirito. Gli uomini si sentono spesso così sperduti nella vastità del mondo, si sentono così spesso sballottati da forze che non conoscono, il complesso delle energie storiche così raffinato e sottile sfugge talmente al senso comune, che nei momenti supremi solo chi ha sostituito alla religione qualche altra forza morale riesce a salvarsi dallo sfacelo»2;
c) contrapposta alle astrusità e ai tecnicismi degli pseudo-saperi scientifici, contro i quali si chiede «meno pseudo-scienza, e più senso comune, e soprattutto più affetto e sincerità»3;
d) ancora più generica e corriva, come quando Gramsci invoca «parole che siano condite di buon senso»4;
A partire dal 1917 si aggiunge alle precedenti (che continuano a ricorrere negli scritti gramsciani) un’ulteriore accezione:
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Pesce grande mangia pesce piccolo e Greta li mangia tutti
Green new deal: la nuova accumulazione capitalista
di Fulvio Grimaldi
Squali e sardine
Esemplifichiamo. Il PD, in Umbria (e non solo), viene scoperto a galleggiare in un oceano di fango sanitario? A Roma la sindaca Raggi, per la quale particolare affetto nutre la Procura, viene collegata a un malaffare AMA che lei cercava di impedire? La società liquida innalza la Raggi su cavalloni giganti e fa sparire l’Umbria PD in una dolce risacca. In Sicilia gli intimissimi del trombone in felpa che amministra il paese vengono scoperti a banchettare con coloro che un tempo pasteggiavano con Andreotti e Berlusconi? Il GIP romano indaga Raggi. Il reato più evanescente di tutti: abuso d’ufficio. “Per come ha dato visibilità al progetto dello stadio” (sic). La Raggi, cento volte indagata (altro che Alemanno) e cento volte assolta (altro che Alemanno), annaspa nell’ennesimo maremoto comunale, l’inciampo tangentizio-mafioso del sottosegretario più importante di tutti, scompare, spiaggiato dietro a una duna. La sardina finisce in padella, gli squali se la battono, anzi se la mangiano.
FNSI e gli altri: ma quale Assange, Bordin!
E’ una costante di sistema. A Londra, Assange, un giornalista che, con Wikileaks, ha connesso i crimini del potere alla coscienza dell’umanità, da 7 anni in isolamento nell’ambasciata ecuadoriana, viene trascinato fuori da sette energumeni in divisa e arrestato in vista di estradizione a chi lo vuole bruciare vivo. Il nulla osta l’ha concesso un presidente ecuadoriano ladrone che da Wikileaks era stato scoperto imboscare denari pubblici in paradisi fiscali e che per i suoi meriti di traditore viene compensato con un prestito miliardario Usa che eviti la sua bancarotta. Vendetta farabutta di un potere che, insieme a quella contro Chelsea Manning, universalizza il suo assassinio della libertà d’espressione, informazione, stampa.
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Prefazione a "Il discorso del potere"
di Ernesto Screpanti
Giacomo Bracci - Emiliano Brancaccio: Il discorso del potere. Il premio Nobel per l’Economia tra scienza, ideologia e politica, Il Saggiatore, Milano 2019
Nel 1974 l’Accademia delle scienze di Svezia assegnò il premio Nobel per l’Economia a Friedrich von Hayek, per aver scoperto che i fenomeni economici, sociali e istituzionali sono interdipendenti. Nel 1976 il premio fu assegnato a Milton Friedman, il cui principale merito scientifico starebbe nell’aver compreso che, se si fa l’ipotesi eroica che un’economia di mercato si trovi in uno stato di piena occupazione permanente, si può dimostrare che una politica di espansione monetaria non può fare aumentare l’occupazione in modo permanente. Da Lucas a Sargent, passando per Prescott, negli anni successivi altri padri di analoghe scoperte hanno raggiunto la vetta del Nobel.
«Viene da chiedersi se la strada seguita dai più recenti sviluppi degli studi sociali, e avvalorata dall’orientamento dell’Accademia delle scienze, sia quella più adeguata alla comprensione del mondo in cui viviamo» scrivono Emiliano Brancaccio e Giacomo Bracci. Da qui la loro domanda: bisognerebbe abolire il premio Nobel per l’Economia? La risposta contenuta in questo libro è motivata, rigorosa, e niente affatto scontata.
Nonostante tutto, il più prestigioso premio per l’Economia non andrebbe abolito semplicemente perché è stato spesso attribuito a influenti consiglieri del principe che hanno prodotto fake science, cioè teoremi smentiti dalla ricerca empirica. Questo libro ne smaschera diversi: Friedman, Lucas, Sargent, Kydland, Prescott e altri. Ma al tempo stesso ci ricorda che il premio l’hanno ricevuto anche scienziati come Arrow, Samuelson, Sen, Stiglitz, Krugman, Romer, Ostrom, che hanno indubbiamente fatto avanzare la conoscenza in campo economico.
Neanche lo si dovrebbe abolire perché l’economia è una scienza «molle», cioè impregnata di valori e preferenze politiche. Brancaccio e Bracci argomentano che queste caratteristiche sono condivise in maggiore o minore misura anche dalle scienze relativamente «dure»: la fisica, la chimica, la medicina. Basti notare che ci sono fisici che interpretano il big bang come una prova dell’esistenza di Dio. Dunque, se fosse questo il criterio, si finirebbe per abolire tutti i premi Nobel.
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Grandezza, limiti e attualità della Resistenza
di Eros Barone
1. Da dove viene il termine “Resistenza”?
Un quesito interessante, da cui può prendere avvìo il presente discorso, è quello riguardante la genesi storica del termine “Resistenza”. Ebbene, con questo termine si intende indicare un’azione armata condotta da formazioni partigiane per frenare l’avanzata dell’invasore nazista, laddove è palese che l’origine del significato della parola “Resistenza” è strettamente collegata con l’aggressione all’Unione Sovietica da parte delle forze armate hitleriane (22 giugno 1941) e con la Grande Guerra Patriottica che fu la risposta data dal popolo e dallo Stato socialista a tale aggressione. L’attacco della Germania nazista all’Unione Sovietica fu infatti la più vasta operazione militare terrestre di tutti i tempi e il fronte orientale fu il più grande e importante teatro bellico della seconda guerra mondiale, ove si svolsero alcune tra le più grandi e sanguinose battaglie di tale guerra.
Nei quattro anni che seguirono (1941-1945) decine di milioni di militari e civili morirono o patirono terribili sofferenze. La Germania schierò 2 milioni e mezzo di uomini, l’Unione Sovietica 4 milioni e 700 mila soldati, di cui 2 milioni e mezzo sul fronte occidentale. Può essere allora opportuno ricordare che durante la seconda guerra mondiale sono state complessivamente soppresse attorno ai 50 milioni di vite umane.
Dal punto di vista meramente comparativo, l’ordine di grandezza dei caduti italiani fra il settembre del 1943 e l’aprile del 1945 è invece piuttosto esiguo: 44.720 partigiani caduti e 9.980 uccisi per rappresaglia, ai quali vanno sommati 21.168 partigiani e 412 civili mutilati e invalidi. In totale dopo l’armistizio si ebbero 187.522 caduti (dei quali 120.060 civili) e 210.149 dispersi (dei quali 122.668 civili). Fra il 10 giugno 1940 e l’8 settembre 1943 le forze armate italiane avevano avuto 92.767 caduti (cui vanno aggiunti 25.499 civili), mentre i dispersi erano stati 106.228. Complessivamente le perdite italiane nel secondo conflitto hanno dunque raggiunto (morti e dispersi, militari e civili, maschi e femmine) le 444.523 unità.
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La nuova via della seta
Un progetto per molti obiettivi
di Vladimiro Giacché
Il progetto di una Nuova Via della Seta, lanciato negli ultimi anni dalla dirigenza cinese, comprende due diverse rotte, una terrestre e l’altra marittima. La prima è indicata nei documenti ufficiali come Silk Road Economic Belt, la seconda come Maritime Silk Road. L’intero progetto è espresso in forma abbreviata come One belt, one road. Esso è stato annun-ciato per la prima volta dal presidente cinese Xi Jinping in un discorso ad Astana (Kazakhstan) nel 2013, ribadito a Giacarta (Indonesia) nel novembre dello stesso anno e di nuovo ad Astana nel giugno 20141
I precedenti
L’idea non è del tutto nuova: da alcuni è stata posta in continuità con i tentativi di Jiang Zemin di superare le tradizionali dispute sui confini della Cina (1996), nonché con la politica Go West di Hu Jintao2. Ovviamente il precedente storico cui si richiama è molto più illustre e lontano nel tempo: si tratta dell’antica Via della Seta, rotta commerciale che partendo dalla Cina legava Asia, Africa ed Europa. Essa risale al periodo dell’espansione verso Ovest della dinastia Han (206 a.C.-220 d.C.), che costruì reti commerciali attraverso gli attuali Paesi dell’Asia Centrale (Kyr-gyzstan, Tajikistan, Kazakhstan, Uzbekistan, Turkmenistan e Afghanistan), come pure, in direzione sud, attraverso gli attuali Stati di Pakistan e India. Tali rotte si estesero sino al-l’Europa, facendo dell’Asia centrale l’epicentro di una delle prime ondate di ‘globalizza-zione’, connettendo mercati, creando ricchezza e contaminazioni culturali e religiose. L’importanza massima di questa rotta di traffico si ebbe nel primo millennio dopo Cristo, ai tempi degli imperi romano, poi bizantino e della dinastia Tang in Cina (618-907). Fu-rono le Crociate e l’avanzata dei mongoli in Asia centrale a determinare la fine di questo percorso e la sua sostituzione con le rotte marittime, più rapide e a buon mercato3
L’antica Via della Seta evoca tuttora l’idea di uno sviluppo pacifico, di un interscambio commerciale e culturale in grado di determinare progresso per tutte le parti coinvolte. In quanto tale, il riferimento a essa è consapevolmente adoperato dall’attuale dirigenza cinese, anche in termini propagandistici e polemici. Lo dimostra il passo tratto da un opuscolo del governo cinese del 2014: «Come una sorta di miracolo nella storia umana, l’antica Via della Seta potenziò il commercio e gli interscambi culturali nella regione eurasiatica. In epoche antiche, differenti nazionalità, differenti culture e differenti reli-gioni a poco a poco entrarono in comunicazione tra loro e si diffusero lungo la Via della Seta al tintinnio dei campanacci dei cammelli.
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Trump, la Cina e la globalizzazione
di Lorenzo Battisti*
Trump viene accusato da tempo di aver posto fine alla “magica” globalizzazione. In realtà le sue politiche sono il risultato dei nuovi equilibri mondiali generati dall’emersione dei Brics e in particolare dallo sviluppo economico e politico della Cina.
La globalizzazione e il neoliberismo: la fase unipolare dell’imperialismo
Molto si è scritto in questi anni sulla globalizzazione, spesso in modo fumoso. Le caratteristiche per descriverla hanno fatto riferimento ad elementi diversi e tutti parziali. Alcuni hanno preso a riferimento l’apertura agli scambi commerciali. Altri la libertà dei capitali di muoversi da un paese all’altro. Altri ancora la diffusione dell’informazione dovuta alle nuove tecnologie digitali che permettono di essere informati su fatti lontani in maniera istantanea e di creare quindi un “villaggio globale”. Tutti questi elementi, pur facendo parte della globalizzazione, non colgono la radice del fenomeno.
Penso che la globalizzazione si possa definire come l’imperialismo nella sua fase unipolare. Se prima della Seconda Guerra Mondiale l’imperialismo aveva dovuto fare fronte a divisioni interne dovute all’emersione della Germania nazista e del Giappone, dopo il ‘45 ci si è trovati in un mondo bipolare, in cui le potenze imperialiste, allineate dietro l’egemonia americana, hanno dovuto affrontare la minaccia comune proveniente dall’Unione Sovietica e dagli stati del blocco socialista. Una minaccia che, dopo il successo contro i nazisti, diventava sempre più pericolosa a causa dei successi dell’avanzata comunista: la Cina, Cuba, il Vietnam, le lotte anticoloniali etc…
Con il 1989 termina il mondo bipolare e non vi sono più limiti all’espansione economica e politica delle potenze capitaliste, Usa in testa. D’improvviso una metà di mondo, una prateria vergine, si apre all’invasione dei capitali stranieri.
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Rita Di Leo: la vittoria del "sacro esperimento" sull'"esperimento profano"
di Epimeteo
Era qualche tempo che non si leggevano i libri della Di Leo; ci si diceva: “È finita l’Urss, cos’avrà da dire di nuovo la Di Leo?” Poi l’anno scorso è uscito L’età della moneta. I suoi uomini, il suo spazio, il suo tempo, per i tipi del Mulino, ed è stato davvero una sorpresa: ne veniva fuori una grande capacità di delineare i tratti fondamentali del capitalismo nella sua ultima fase, quella successiva al crollo dell’Urss e corrispondente al pieno dispiegamento della globalizzazione e della finanziarizzazione, ma emergeva anche la profondità con la quale l’autrice sapeva scavare nei presupposti antropologici di quell’”universo degli algoritmi”. Allora abbiamo deciso di leggere anche due libri editi precedentemente, cioè Cento anni dopo: 1917-2017. Da Lenin a Zuckerberg, uscito nel 2017, e L’esperimento profano. Dal capitalismo al socialismo e viceversa del 2012, entrambi editi da Ediesse.
Da quella sorta di trilogia è emerso un quadro unitario in cui viene ricostruita l’intera storia del Novecento alla luce dello scontro globale tra il socialismo sovietico e il capitalismo europeo prima, quello americano poi, una analisi che si riassume in una interpretazione della contemporaneità appunto come “età della moneta”, come quell’arco temporale ormai trentennale in cui si è imposto quell’”equivalente generale” che consente l’universalizzazione dello scambio, in funzione della valorizzazione del capitale, come modalità imprescindibile delle relazioni infra-umane, una universalizzazione attorno alla quale si condensa l’identità antropologica dell’individuo post-economico del “fare per avere”, in cui lo scambio tra il più forte e il più debole non viene subìto dal secondo, ma accettato come un fenomeno naturale.
Tuttavia, prima di ricostruire come l’autrice illustra lo scontro tra “l’esperimento profano” del socialismo e il “sacro esperimento” del capitalismo americano, nella prima parte di questo tentativo di interpretazione unitaria dei tre testi della Di Leo cercheremo di delineare come l’ex “esperta dell’Urss” ha seguito il percorso attraverso il quale l’”uomo della moneta”, muovendo i suoi primi passi nell’Europa feudale, ha saputo acquisire cultura e potere e progressivamente intrecciare il suo destino con quello dell’aristocrazia guerriera e fondiaria, transitando attraverso quell’”epoca moderna” che Epimeteo interpreta come “messianesimo immanentizzato”, un’ipotesi ermeneutica che si è già cercato di argomentare in altri interventi su questo sito.
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Appunti sulla questione del partito: oltre il primo populismo
di Alessandro Visalli
In questo testo, forse troppo lungo (6.700 parole, 25 minuti di lettura), si compie un esercizio non facile, decisamente inattuale: quello di provare a ripensare le condizioni nelle quali si può tentare di oltrepassare l’impolitico neoliberale a partire dalla ricostruzione di un collettivo ed insieme di un umano. Questo tema è limitato alla ‘questione del partito’, ovvero dell’agente del politico concepito come trasformazione dell’esistente e levatore del nuovo, e non come mimesi e aspirazione al mero successo. Il discorso connette sistematicamente i mutamenti nel modo di produzione e della ‘piattaforma tecnologica’ del capitalismo, e quindi dell’antropologia dominante e delle forme di socializzazioni corrispondenti, con le forme-partito di volta in volta funzionali.
Dopo alcuni indispensabili cenni storici, per lo più in nota per non appesantire il testo, e l’esplicitazione delle condizioni abilitanti i ‘partiti leggeri’ che hanno molte applicazioni e travestimenti, viene sviluppata una critica del primo populismo, strutturalmente connesso alla ‘contro-democrazia’, a sua volta figlia della ‘accumulazione flessibile’. Anche qui le forme ed i travestimenti sono numerosi.
Viene quindi avanzata l’ipotesi che la crisi del primo populismo, in tutte le sue versioni, non sia episodica ma venga mossa nella profondità da una estremizzazione-mutamento della ‘piattaforma tecnologica’ post-moderna e resti quindi non più allineata con l’estrema polarizzazione, da un lato, e con l’interconnessione molecolare determinata dall’ambiente tecnologico, dall’altra. La tesi è che il nuovo ambiente non si presti più alla strategia “tutta testa e comunicazione” del populismo in stile sudamericano (per quanto questo sia largamente fondato su una socialità popolare vitale) e/o di prima generazione europeo (ben meno vitale), ma renda nuovamente necessaria la presenza di attivisti, influencer, reti di comunicazione diffuse, mobilitazioni politiche e quindi cultura comune e condivisa, ‘simpatia’, coesione, responsabilità e mutuo sostegno.
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